Andrea Cappellano

Enciclopedia Dantesca (1970)

Andrea Cappellano

Antonio Viscardi

Autore di un trattato latino in tre libri, il De Amore, larghissimamente divulgato e ritenuto " il codice più completo dell'amore quale si trova in atto nei romanzi cortesi " in lingua d' oli (G. Paris).

Non si conosce con esattezza il periodo in cui A. visse; gli studiosi, giacché egli stesso si qualifica nella sua opera " cappellanus regius Francorum ", tendono a identificarlo con un A. vissuto tra il 1185 e il 1187 alla corte di Francia, cappellano della contessa Maria di Champagne, figlia di Luigi VII e della regina Eleonora, nipote di Guglielmo IX d'Aquitania, il primo trovatore. È noto che proprio Eleonora importa nella Francia del Nord la lirica trobadorica inaugurata dal suo grande avo e, ovviamente, la concezione dell'amore e della vita che i trovatori hanno annunciato; la concezione per cui, com'è noto, l'amante è il vassallo, il suddito (obediens), l'uomo ligio (fizel) che alla dama presta l'‛ omaggio ', il ‛ servizio ' - nel senso che i termini hanno nel linguaggio giuridico feudale -, essendo la dama il ‛ signore ' (midonz, dominus meus) che il fizel ha investito del feudo del suo cuore, di cui ha la piena e assoluta sovranità (nella concezione trobadorica dell'amore fino e leale è fondamentale la distinzione tra ‛ cuore ' e ‛ corpo ': del ‛ corpo ' ha il possesso il marito che alla dama è stato assegnato per motivi dinastici e politici, ancorché la sua volontà abbia avuto modo di manifestarsi; ma del cuore la dama ha piena sovranità, sicché può investirne l'amante che ha liberamente scelto). Questa concezione dell'amore è rivendicazione solenne della libertà, dell'autonomia della donna, sollevata dallo stato di soggezione in cui si trova nella società signorile, nella quale è solo oggetto di contrattazione, di scambio. In quanto, appunto, significa rivendicazione dell'autonomia della donna, del diritto della donna alla libera scelta nella vita sentimentale, la concezione trobadorica è accolta dal romanzo cortese in lingua d'oïl, anche se il maggiore dei romanzieri cortesi, Chrétien de Troyes, rifiuta risolutamente la distinzione tra ‛ cuore ' e ‛ corpo ' (" Chi ha il cuore abbia anche il corpo ", proclama, nel Cligès, Fenice; che rifiuta, d'altra parte, l'adulterio, che dai diritti del cuore non può essere legittimato). Ora, questa che nella lirica trobadorica e nel romanzo è concezione letteraria diventa nella Francia del Nord fatto sociale, di costume, per l'azione svolta da Eleonora e dalla figlia di lei, Maria di Champagne, da Aalis di Blois e da altre grandi signore - Margherita di Francia, Ermengarda di Narbona - le quali impongono al mondo signorile la concezione di un amore ideale e raffinato, legato alla pratica e all'accrescimento delle virtù sociali; ed è concezione che assegna alla donna una superiorità che si giustifica con l'azione nobilitante ch'essa esercita sull'uomo.

Il trattato di A., pur concepito nell'ambiente dominato da Maria di Champagne, in cui la dottrina cortese si elabora come norma di vita, delinea una teoria che sembra stare fuori e anzi contro la dottrina cortese, in quanto è determinato dalla considerazione fisiopsicologica del fatto erotico. E basterà riportare la definizione dell'amore che apre il trattato: " Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri (I 1) ... Ad hoc tendit conatus amantis et de hoc illius assidua est cogitatio ut ejus quam amat fruatur amplexibus " (I 2).

La formula di A. con cui si dichiara che Amore nasce dalla ‛ visio ' e da una ‛ immoderata cogitatio ' della ‛ forma alterius sexus ' è fedelmente accolta da Giacomo da Lentino nel sonetto Amor è un desio (vv. 3 ss.): " gl[i] ogli en prima genera[n] l'amore, / e lo core li dà nutrigamento / ... gl[i] ogli representa[n] a lo core / d'onni cosa che veden, bon, e ria / ... e lo cor, che di zo è concipitore, / imagina... ". La formula si ritrova nel sonetto I' sono alcuna volta dell'Amico di D.: " Amore è un solicito penero / continuato sovr'alcun piacere / che ll'occhio ha rimirato volentero: / sicché, imaainando quel vedere, / nasc'indi amor " (vv. 9-12).

E senza dubbio si richiamano alla formula di A. sia la spiegazione dottrinale di come amore nasca nell'animo attraverso l'apprensiva (Pg XVIII 19-27), sia le parole di Francesca: Amor... / prese costui de la bella persona I che mi fu tolta (If V 100-102).

Che l'amore definito da A. nella formula che stiamo considerando sia l'amore carnale è reso evidente dalla traduzione che della formula fa Jean de Meung nei versi 4347 ss. del Roman de la Rose: " Amor, se bien sui apensée, / c'est maladie de pensée / antre .II. persones annexe, / franches entr'els, de divers sexe / venanz a genz par ardeur née / de vision desordenée / pour acoler et pour besier / pour els charnelment aesier ". Sicché legittimamente Albertano da Brescia, citando puntualmente nel Liber de amore et dilectione Dei et proximi la definizione di A., dichiara che l'amore di cui A. parla è l'" amor pravus qui cupiditas potest nuncupari ".

L'amore di cui parla A. è dunque l'amore fisico; e ne parla col linguaggio dei manuali di fisica. E proprio la physycalis auctoritas invoca A. - citando maestro Johannitius o Giovanniccio (è il nome latino del medico arabo Hunain ibn Isḥāq) - quando, nell'ultimo libro del suo trattato, parla dei danni che al corpo derivano " ex opere Veneris ". Anche i trovatori, com'è noto, dai Remedia amoris ovidiani avevano derivato la nozione di Amore che fa perdere il " manjar " e il " dormir "; ma A., usando con precisione il linguaggio dei medici, trasferisce il discorso nel campo tecnico della medicina, ponendosi fuori e anzi contro l'ideale raffigurazione cortese dell'amore. Appunto contro la dottrina cortese sta tutto il III libro del De Amore, che si intitola De Reprobatione amoris, ed è una violenta requisitoria contro Amore e la donna, formulata con parole derivate, oltre che dai manuali di fisica, dai trattati dei moralisti cristiani più intransigenti. Amore è " crimen ", peccato, che " foedat " il corpo insieme con l'anima e contradice alla " honestas " e alla " continentia carnis ". Inseparabile l'amore dalla " luxuria "; e dalla Scrittura sappiamo " diabolum vero amoris et luxuriae auctorem esse ". A. afferma inoltre che l'amore cresce progressivamente (libro ir, cap. 8); ed è questo un concetto che troviamo anche in D. (per quanto filtrato dai siciliani) per esempio in Io sento sì d'amor 72-73 Amor cresce in me la sua grandezza / tanto quanto il piacer novo s'aggiungne. Parallela alla condanna di Amore è, nel De Reprobatione, la condanna della donna, che riflette, oltre che la parola dei moralisti, il crudo linguaggio della sterminata letteratura antifemminista comico-realistica e quello dei fabliaux. A. rifiuta assolutamente la dama ideale dei trovatori, cui il cavaliere presta l'omaggio, e che accende nell'anima dell'amante ogni virtù; A. parla - ma non certo in forma così vigorosa e possente - il linguaggio del trovatore Marcabruno, che brutalmente respinge l'ideale trobadorico dell'amore fino e leale, posto come fatto che investe solo la sfera dello spirito ed è estraneo all'ambito della materia e del senso. Alla dottrina cortese ci riporta solo il cap. IV del primo libro, in cui si proclama: " effectus autem amoris hic est, quia verus amator nulla possit avaritia offuscari; horridum et incultum omni facit formositate pollere, infimos natu etiam morum novit nobilitate vitare, superbos quoque solet humilitate beare... amor reddit hominem castitatis quasi virtute decoratum "; proposizione, quest'ultima, in cui par già di sentire l'annuncio del Montanhagol " d'amor mou castitatz ". Ma alla fine del capitolo si pone una grave riserva, che denuncia un atteggiamento cauto verso la dottrina cortese: " Si tali amor libramine uteretur ut nautas suos post multarum procellarum inundationem in quietis portum deduceret, me suae servitutis perpetuo vinculis obligarem. Sed quia inaequali pensum sua solet manu gestare, de ipsius, tamquam iudicis suspecti, non ad plenum confido iustitia ". A parte questa incerta e dubitosa riaffermazione della potenza nobilitante di amore, la dottrina cortese si ritrova nel lunghissimo capitolo VI del I libro in cui si propongono i motivi essenziali della dottrina d'amore presentandone una casistica che rispecchia argomenti tipici delle corti d'amore (se sia possibile a un signore amare una nobile di grado inferiore, a un nobile amare una plebea, a un plebeo amare una nobile: quest'ultimo è quesito che troviamo nel sonetto Saper vorria da voi attribuito a D. (Rime dubbie XXIV); nel capitolo VII del II libro, in cui si prospettano varie questioni d'amore sottoposte al giudizio di Maria di Champagne, d'Ermengarda di Narbona, ecc., e si registrano le sentenze emesse dalle dame, e infine nelle Regulae amoris, delle quali alcune ripropongono i motivi dell'Ars amandi più accolti dai trovatori. Ma questi pur concreti e precisi riferimenti alla dottrina cortese dell'amore sono brevissimi schemi freddi e meccanici in formule rigide e piatte, di tono realistico, di contenuto e intendimento puramente pratico; il che significa ch'essi non hanno rispondenza vera nell'animo del trattatista e non traducono quella che è la dottrina veramente sua dell'amore: che è quella nitidamente riflessa dalla definizione che apre il trattato, la dottrina fisiopsicologica.

A., pur apparentemente accettando i dati più rilevanti della dottrina trobadorico-cortese dell'amore, banalizza, trivializza quella dottrina: il De Amore, scrive il Contini, è la " teorizzazione materialistica " dell'amore cortese. Ciò spiega il fatto che D. - che pure, come abbiamo accennato a proposito della bella persona che accende dell'amore di Francesca il cuore di Paolo, che, e come meglio ora mostreremo, bene conosce il De Amore - " avvolga [il nome del Cappellano]… nel manto della più totale preterintenzione e, certo, disistima ", come scrive il Contini. A ogni modo, nel canto di Francesca, non solo il riferimento alla nozione della ‛ visio ' e della ' cogitatio formae alterius sexus ' come origine d'amore, ma anche la formula Amor, ch'a nullo amato amar perdona, come bene ha rilevato il Contini, è da riportare al De Amore: la formula traduce con una tecnica dettatoria ben più alta e sapiente di quella usata da A. le regole IX e XXVI del trattato (" Amare nemo potest nisi qui amoris suasione compellitur; Amor nil posset amori denegari "); e in If V 106 - Amor condusse noi ad una morte - la messa in rilievo ritmico dell'una deduce implicitamente l'identità della sorte anche suprema dall'identità di volere degli amanti, principio corrente nella dottrina medievale dell'amore che A. " riceve... per ridurlo trivialmente a concomitanza di piacere " (" omnia de utriusque voluntate ... praecepta compleri "). Il Contini trova in tutto conforme alla descrizione di A. la fenomenologia dell'amore rappresentata da Francesca (i dubbiosi disiri... scolorocci il viso... la bocca mi basciò tutto tremante); ma occorre riconoscere che questi motivi della fenomenologia dell'amore son tutti di origine ovidiana. D'altra parte, è certo che la dottrina cui, a giustificazione sua e di Paolo, si richiama Francesca - Amor, ch' al cor gentil ratto s' apprende è quella proclamata dal Guinizzelli, Al cor gentil rempaira sempre Amore, ed è formulata in modo anche più reciso da D. stesso, Amore e cor gentil sono una cosa, e rappresentata già da Brunetto Latini nei versi 1703 ss. del Tesoretto, dove si dimostra che solo la nobiltà dei costumi faticosamente conquistata conta, e non la nobiltà della stirpe o ereditaria (" chi non dura fatica / sì che possa valere, / non si creda capere / tra gli uomini valenti / perché sia di gran genti... ", 1720 ss.). Ora questa dottrina è già formulata nella regola XVIII del De Amore: " Probitas sola quemque dignum facit amore "; ed è proposizione che nettamente esprime quello che è diffusamente dimostrato nel trattato; e cioè che tutti gli uomini derivano da " unico nascimento ", e che non bellezza e ornamento del corpo o ricchezza, ma solo " prodezza " di costumi (che è, appunto, la probitas) " prima per nobiltà fece conoscere gli uomini e nelle generazioni indusse differenza ", sicché " solo prodezza degna è di corona d'amore ". Dunque la dottrina della nobiltà dei costumi e non del sangue che D. svolge nel IV del Convivio - condizione e motivo necessario e sufficiente d'amore, definita nel mondo ‛ scolastico ' (" universitario ", scrive il Contini) borghese, cui gli stilnovisti appartengono - è già chiaramente formulata da A., che, se pur legato al mondo cortese, resta uno scolastico ' della spiritualità cortese non pienamente partecipe. Un'altra delle regole di A., la II (Qui non zelat amare non potest), trova riscontri nella poesia italiana delle origini e sembra letteralmente tradotta nel v. 74 della canzone L'animo è turbato di Neri de' Visdomini: " se non gela inanti - amar poi non poria ". Nella canzone, naturalmente, si distingue la gelosia, inseparabile da amore, dalla gelosia che è " malvagio pensamento nato da vil core ": è il tema del Frammento Papafava, che il Monteverdi ha opportunamente intitolato il detto della buona çilosia.

La dottrina della nobilitas proposta da A. è riecheggiata, direttamente o indirettamente, in D., particolarmente nel IV trattato del Convivio, laddove egli tratta del concetto di nobiltà. Non mancano tuttavia anche in altre opere richiami all'opera di Andrea.

E citeremo tra queste rispondenze i vv. 36-38 della canzone Poscia ch'amor (Rime LXXXIII): 'l saggio non pregia om per vestimenta / ch'altrui sono ornamenta, / ma pregia il senno e li genti coraggi, accanto al quesito di A. " utrum... homo probus per indumenta an indumenta per hominis probitatem mereantur honorem ", risolto con l'affermazione che " nobiles vero atque prudentes... solummodo morum in homine credunt rererendam culturam " (De Amore, ediz. Battaglia, p. 192); inoltre la prima strofa di Amor che ne la mente mi ragiona sembra riprendere molto da vicino alcuni concetti di A.: " Cor... meum acutis meam cogit calcaribus voluntatem extra suae naturae semitam divertendo vagari et maiora petere quam sim narrare sufficiens. Si amor tamen me cogit aliquid improvide vel minus sapienter proferre, vestra nobilitas rogo ut patienter sustineat et leni sermone me redarguat ". Omettendo altri riscontri di minore importanza o più incerti, notati dal De Robertis (p. 50, nota), citiamo infine l'interessante descrizione di una specie di aldilà che A. ci offre col racconto del nobiluomo (ed. cit., pp. 106-126): attraversata cavalcando una foresta, egli giunse al limitare di una valle e incontrò una schiera di morti; una donna tra questi, che in vita spregiò i propri innamorati, descrive la situazione delle anime nel reame d'Amore: egli, per il quale " universus regitur mundus et sine ipso nihil boni aliquis operatur in orbe ", premia chi ha rispettato le sue leggi, mentre punisce chi, come lei, le ha violate (questa concezione potrebbe, secondo alcuni commentatori, e tra i più recenti citeremo K. Foster e P. Boyde, offrire una seconda spiegazione, oltre quella letterale, dei vv. 13-14 del sonetto Deh, violetta). La donna guida poi il cavaliere nella valle che è conformata in tre cerchi concentrici corrispondenti ciascuno a una categoria di donne: nel cerchio più interno godono le donne che accettarono gli amanti degni del loro amore rifiutando gl'indegni; nel medio le meretrici, che accettarono qualunque uomo; in quello esterno, infine, sono punite coloro che sprezzarono gli amanti; i cerchi sono collegati da un sentiero. Più sono lontane dal centro della valle, più le anime soffrono. La guida dice infine al visitatore che gli è stato concesso di visitare il luogo e di conoscere le pene di quel regno " ut tua praesens visio sit multarum dominarum salutis occasio " (p. 122). Queste e altre somiglianze non saranno da considerare certo vere e proprie prove di una dipendenza diretta; ma non andranno neppure sottovalutate o trascurate, giacché " sono tutti punti topici, che... insieme fanno massa e possono assumere una qualche importanza " (Simonelli).

Bibl. - Il testo del De Amore, con a fronte due volgarizzamenti del sec. XIV, è stato pubblicato da S. Battaglia, Roma 1947. Per i rapporti di A. con la tradizione dell'amor cortese, si vedano soprattutto: G. Paris, Études sur les romans de la Table Ronde, in " Romania " XII (1883) 459 ss.; P. Rayna, Tre studi per la storia del libro di A.C., in " Studi Filol. romanza " v (1891) 205 ss.; J.J. Parry, Threaty of courtly love by Andreas Cappellanus, New York 1941; G. Vinay, Il De Amore di A.C. nel quadro della letteratura amorosa e della rinascita del sec. XII, in " Studi Mediev. " XVII (1951) 203 ss.; G. Contini, D. come personaggio della D.C., in Studi vari, Firenze 1958, 21 ss.; ID., Poeti 188 ss., 370, 411, 804; II 235, 255, 460, 551, 614, 731-732; F. Schlosser, A.C., seine Minnelehre und das christliche Weltbild, Bonn 1959; D. De Robertis, Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961, 47-52; M. Simonelli, Il tema della nobiltà in A.C. e in D., in " Dante Studies " LXXXIV (1966) 51-64; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, II, Oxford 1967, 49, 67, 202, 233-234, 242, 321, 333.

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