FULVIO, Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 50 (1998)

FULVIO, Andrea

Massimo Ceresa

Nacque intorno al 1470. Lui stesso si dichiarò nativo di Palestrina, pur essendosi a volte autodefinito "Sabino", così da far pensare che la sua famiglia provenisse da quella zona del Lazio. Almeno parte dei suoi studi li eseguì comunque a Roma, dove si trovava anche il fratello Giovanni, che aveva in comune con lui il gusto per l'archeologia e per le composizioni in versi in latino, lingua nella quale scrisse due epigrammi in onore delle opere antiquarie.

Il F. fu, nel corso dei suoi studi a Roma, discepolo assiduo e devoto di Pomponio Leto ed entrò in contatto con l'ambiente umanistico romano della fine del Quattrocento. Ciò orientò i suoi gusti verso l'acquisizione di un elegante stile latino in prosa e in versi, mentre al Leto fu debitore della sua passione per gli studi archeologici. Divenne buon conoscitore di epigrafi e numismatica dell'antica Roma, e l'aneddotica lo indica salvatore di un'epigrafe acquistata da un tagliapietra per un fiorino, poi trasmessa al Leto. La sua ammirazione per quest'ultimo lo spinse a inserire la descrizione della casa del Leto, sul Quirinale, ricca di iscrizioni e altri oggetti antichi, nelle sue Antiquitates Urbis.

Ben dotato, ma privo di protettori influenti, il F. si dedicò per vivere all'insegnamento della grammatica e delle lettere latine. Occupava, probabilmente nel 1514 e anche negli anni precedenti, il posto di maestro regionario nel rione S. Eustachio, con lo stipendio di 50 fiorini annui. In questo rione, accanto quindi alla Sapienza, il F. aveva, almeno durante l'ultimo decennio della sua vita, una casa dove, imitando il Leto, aveva raccolto numerosi pezzi d'antiquariato.

Nel 1510 intervenne, con un epigramma, nell'opera pubblicata da Giacomo Mazzocchi, libraio e tipografo bergamasco trapiantato a Roma, con la quale Francesco Albertini intendeva rimpiazzare le ormai antiquate edizioni dei Mirabilia Romae; l'epigramma del F. trovò spazio nel frontespizio dell'opera, proprio sotto il titolo.

In quegli anni il F. si dedicò alla metrica latina, che tra l'altro faceva parte dei suoi programmi d'insegnamento. Su richiesta di una sua allieva, Dianora Leoli, figlia di Burgundio Leoli da Pisa, scrittore della penitenzieria e avvocato concistoriale sotto Alessandro VI, compilò un trattatello di esposizione delle leggi della metrica latina, l'Ars metrica e lo pubblicò probabilmente tra il 1510 e il 1512 accompagnandolo con un carme latino.

La ricerca di un protettore, passaggio quasi obbligato per la carriera degli eruditi del tempo, portò il F. ad avvicinarsi a Pompeo Colonna, il futuro cardinale, che nel 1508 era stato eletto vescovo di Rieti. Gli dedicò quindi l'Epistola nova in metro elegiaco, facendola precedere da una lettera al dedicatario. Non risulta però che questi divenisse per il F. il mecenate sperato.

Tra la primavera del 1512 e l'estate del 1513 riusciva a soddisfare una delle sue maggiori ambizioni: dopo essersi definito "Praenestinus" e "Sabinus", poté finalmente ottenere la cittadinanza romana. Grato per tale onore, concepì l'idea di comporre in esametri latini una descrizione della città. Ne venne alla luce il poemetto Antiquaria Urbis in due libri, che fu portato a termine negli ultimi mesi del 1513.

Oltre al Leto, i contatti del F. con i circoli letterari della Roma del tempo riguardavano il gruppo che si riuniva attorno al lussemburghese Johann Goritz (Coricio per gli umanisti) e il gruppo di Angelo Colocci. Come tanti altri umanisti ed eruditi, il F. accolse con entusiasmo, nel marzo del 1513, l'elezione al trono papale di Giovanni de' Medici, Leone X, da cui ci si attendeva una maggiore attenzione alle arti e alle lettere di quella che aveva mostrato il suo predecessore Giulio II, troppo impegnato in una politica di espansione. Sempre alla ricerca di un mecenate che ne esaltasse il cursus honorum letterario, il F. iniziò a guardare in alto, al papa stesso; a lui dedicò i suoi Antiquaria Urbis, che con orgoglio evidente si compiaceva di definire la prima descrizione in versi delle antichità di Roma. Il papa gradì il dono, ma lo invitò a stenderne una versione ampliata in prosa. Il tipografo dell'opera fu Giacomo Mazzocchi, al quale il F. era legato da tempo e con il quale intesserà negli anni che seguirono una stretta collaborazione, sia in vista della pubblicazione di un imponente corpo di iscrizioni urbane che il tipografo andava preparando da anni, e che vide la luce nel 1521 (il F. fornì al Mazzocchi copia di alcune iscrizioni che aveva nella sua casa nel rione S. Eustachio), sia per quello che si può definire il primo repertorio di monete romane. La prima opera, Epigrammata antiquae Urbis, uscì anonima, ed ebbe diverse attribuzioni da parte di chi se ne occupò.

La parte iniziale, le Notae di Valerio Probo, è dichiaratamente a cura di Mariangelo Accursio. Il resto dell'opera, costituito da iscrizioni ed emendazioni, fu attribuito da alcuni (pochi) allo stesso tipografo Mazzocchi, con scarso fondamento se non riguardo alla spinta editoriale e alla decisione di portare l'opera alle stampe, da altri all'Albertini, attribuzione che, posta in forma dubitativa da vari autori, trovò il suo consolidamento soprattutto in uno scritto del suo concittadino A.B. Gori. A favore di tale attribuzione, con nuovi argomenti relativi soprattutto a un'opera dell'Albertini che il Mazzocchi dichiarò di prossima pubblicazione nel 1510 e che mai stampò, si pronuncia J. Ruysschaert (Albertini, Francesco, in Diz. biogr. degli Italiani, I, Roma 1960, p. 725), affermando che tale opera mai stampata sarebbe servita di base alla parte antica degli Epigrammata. Un'altra tradizione, facente capo soprattutto ad A. Agustín e a G. Marini, identifica invece nel F. il principale responsabile dell'opera. Nella prefazione al Corpus di J. Gruter (Amsterdam 1707) si fa cenno all'opera, attribuendola al F. sulla base dell'Agustín, ma aggiungendo che A. Colocci e Marco Volaterrano avevano partecipato alla stesura. Il motivo per cui il Mazzocchi stampò l'opera come anonima va forse ricercato in alcuni dissapori, cui fa cenno il Weiss, sia tra l'Albertini e il F., sia tra il F. e il Mazzocchi. Le varie ipotesi collimano tutte su un solo punto: che gli Epigrammata furono opera di varie mani e che molti concorsero a compilarla.

Sicuramente del F. è il trattato col quale intendeva offrire, attraverso una serie di riproduzioni di monete e medaglie imperiali, un repertorio iconografico degli imperatori e della loro cerchia muliebre, corredato di brevi cenni biografici. Con il titolo Illustrium imagines l'opera venne pubblicata nel 1517 dal Mazzocchi, che vi includeva una sua lettera di dedica a J. Sadoleto, mentre Leone X concedeva allo stampatore un privilegio di sei anni.

Negli anni successivi il F. venne a contatto con un grande i cui interessi archeologici proprio allora si erano andati affermando: Raffaello, che già dal 1515 aveva ricevuto incarichi riguardo alle antichità di Roma. L'urbinate iniziò verso il 1519-20 a valersi dell'esperienza del F., visitando con lui le rovine di Roma; il F. indicava all'artista quelle rovine che secondo lui avevano un precipuo interesse archeologico, e Raffaello ne eseguiva uno schizzo. Alla morte dell'urbinate, a raccoglierne l'eredità non fu comunque il F., ma piuttosto il ravennate Marco Fabio Calvo.

Stranamente (forse a causa dei succitati dissapori) il tipografo col quale il F. tanto aveva collaborato, il Mazzocchi, non inseriva gli Antiquaria Urbis in una silloge di vari scritti su Roma antica e nuova (De Roma prisca et nova, Romae 1523), tra i quali spiccava quello dell'Albertini. Pure le voci del tempo (F. Arsilli, Antonino Ponti, Pietro Bembo, il Sadoleto) sembrano tutte concordi nell'attribuire al F. la fama di illustre archeologo; lo trascurarono invece Colocci, sia nella lista di poeti che aveva preparato per suo uso privato sia nei voluminosi codici dove raccoglieva versi latini di poeti contemporanei, e Scipione Bongallo nella sua Calliope, dove esaltava i poeti antichi e moderni. La ragione di ciò potrebbe essere cercata nell'indole del F., che lo portava a vivere un'esistenza ritirata, estranea a tutto ciò che non riguardava l'insegnamento e gli studi.

Morto Leone X nel 1521 e il suo successore due anni dopo, quando fu un altro Medici, Clemente VII, a salire sul trono di S. Pietro, il F. volle attrarre su di sé l'attenzione del nuovo papa con un poemetto latino sull'origine e la storia dei vari anni santi, in previsione di quello che si avvicinava.

Il F. aveva ormai una certa età; se è proprio lui quell'Andrea registrato come occupante una casa nel rione S. Eustachio nel censimento della popolazione di Roma redatto poco prima del sacco, risulta avere soltanto tre persone con lui, a manifestazione di un'esistenza modesta. Riuscì ancora a portare a termine tra il febbraio e il marzo 1527 le Antiquitates Urbis, mandando a compimento il consiglio che gli aveva dato Leone X. Dopo il sacco di Roma del F. si perdono completamente le tracce, tanto da rendere probabile l'ipotesi che vi perì.

L'attività letteraria e scientifica del F. lo portò a toccare vari campi del sapere, come la carriera di un erudito modello del Cinquecento richiedeva: la ricerca archeologica (e in parallelo la numismatica), la composizione latina in versi, le orazioni di encomio. L'inizio di questa attività viene fatto risalire al 1494 dal Weiss (pp. 15 s.), che, pur con qualche dubbio, riconobbe in lui un "Andreas Prenestinus", i cui versi si incontrano nell'ultima pagina dei Priscorum heroum stemmata del domenicano Th. Ochsenbrunner (Roma, Besicken e Mayr), raccolta di una serie di effigi immaginarie di romani illustri. Una ulteriore traccia di verisimiglianza risiede nell'aver anche il F. compilato un simile tentativo iconografico con le sue Illustrium imagines. Sicura invece la firma del F. nell'epigramma che campeggiava sul frontespizio del trattato dell'Albertini del 1510. L'Ars metrica fu ritenuto a lungo erroneamente un incunabolo. L'operetta, di dieci carte, rappresenta un semplice metodo di apprendimento; colpisce se mai per la sua stringatezza, e non si distacca dagli schemi dei vari trattatelli di metrica allora in circolazione. Anche se non godette di una particolare fortuna, è degna di nota una sua ristampa a Cracovia nel 1532, inclusa in Isagogicon artis versificatoriae dell'erudito polacco Simon Prossovianus.

A questa operetta e all'Epistolanova fece seguito un lavoro di maggior peso, quegli Antiquaria Urbis, in versi, di cui il F. andava tanto fiero da prepararne una copia manoscritta di lusso, vergata su pergamena con lettere in oro (Firenze, Bibl. Laurenziana, cod. XXXIII, 37), che fu presentata in dono a Leone X, lievemente differente dalla stampa del Mazzocchi, che uscì a Roma nel 1513.

Lo scopo del poemetto è di offrire una descrizione di ciò che rimaneva della Roma antica, giovandosi di fonti classiche e di iscrizioni, senza però trascurare del tutto i grandi cambiamenti di edilizia urbana avvenuti in tempi più recenti (il nuovo S. Pietro, l'attività edilizia di Niccolò V e dei suoi successori, cenni su varie chiese). Intorno al 1514 o 1515 il F. compose e dette alle stampe un'ecloga latina di tema pastoral-religioso, in esametri virgiliani, che dedicò pure a papa Leone.

La Illustrium imagines del 1517 si colloca nella scia del grande interesse umanistico e rinascimentale per la numismatica, soprattutto dal punto di vista iconografico. Le copie presentano due colophon differenti, uno molto stringato, nel quale si indica brevemente il F., "diligentissimum Antiquarium" come compilatore dell'opera, e un altro che lo sostituì, nel quale si fa cenno alla partecipazione di altri eruditi, precisando però che la maggior parte dell'opera era da attribuire al Fulvio. Al di là del valore intrinseco, il volume è annoverato tra i migliori prodotti illustrati dell'editoria romana del Cinquecento. Alcuni esemplari furono stampati su pergamena.

L'opera ebbe notevole successo, specialmente Oltralpe. Il Juste ne pubblicò una seconda edizione a Lione nel 1524, a cui fecero seguito altre. Nel corso del Cinquecento fu attribuita erroneamente al Sadoleto, al quale in realtà era dedicata: l'errore fu presto corretto da I. Simler, ma finì poi per perpetuarsi nei secoli successivi. Molti studiosi che si occuparono di numismatica, tra cui l'Agustín e J. De Strada, non mancarono di rilevare che l'opera era il primo trattato di iconografia basato sulla numismatica. Essa è di facile reperimento, il che indica l'impressione di un elevato numero di copie.

Il F. non stampò altro fino all'anno del giubileo, il 1525, nel quale sembrava essere ripreso da un fervore di attività. Intanto dedicò a Clemente VII un poemetto in esametri latini riguardante la storia del giubileo e dei vari anni santi. L'opera è piuttosto espressione di serie ricerche che esercizio accademico. Il F. fa cenno ai precedenti storici, ebraici e romani, del giubileo, ai diversi anni santi a cominciare da quello del 1300 di Bonifacio VIII, si sofferma su quello del 1450 di Niccolò V, con attenzione all'attività culturale di quel papa, e descrive il giubileo del 1500, al quale aveva assistito di persona. Una copia impressa in pergamena del carme, con un elegante frontespizio, è nella Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 3609.

Nello stesso anno pubblicò un'orazione latina in lode di Roma, in prosa di stile ciceroniano. La sua opera maggiore, le Antiquitates Urbis, a cui lavorava ormai da molto tempo ma che terminò solo nel 1526, fu stampata all'inizio del 1527 da un tipografo il cui nome non compare sul frontespizio, ma che disponeva di caratteri usati dal Mazzocchi, e fu munita da Clemente VII, a cui era dedicata, di un privilegio di sei anni.

Nella lunga prefazione dedicata a Clemente VII il F. ci informa delle sue relazioni con Raffaello e offre le motivazioni dell'opera: l'intenzione di preservare le rovine di Roma antica accompagnata da una profonda devozione per la città. Non mancano quindi critiche acerbe alla demolizione di monumenti antichi o alla loro esportazione altrove, fatti che occasionalmente documenta. Il F. si pone sulla scia di Biondo Flavio e dell'Albertini nel tentare di dare una descrizione delle antichità della città, basandosi sulle fonti storiche ed epigrafiche, di cui aveva una notevole conoscenza.

L'opera ha uno schema armonico, trattando ognuno dei cinque libri di cui è composta di argomenti affini; il risultato è una chiara descrizione di quanto ancora esisteva della Roma antica nel primo Cinquecento. Come negli Antiquaria Urbis il F. non tralascia però gli edifici e le grandi opere d'arte più recenti: il nuovo S. Pietro, il Campidoglio, il Ginnasio romano, le Stanze di Raffaello, la Biblioteca Vaticana e altre. Dedica persino qualche riga alla introduzione della stampa a Roma, mentre dà una descrizione delle statue del Belvedere disposte allora intorno a una fontana, ed è l'unica fonte che lo riporti. Elenca poi alcune collezioni private di antichità, tra cui quella del Colocci e quella del cardinale Andrea Della Valle, per la quale si sofferma sulla parte numismatica. All'opera sono aggiunte in appendice un'ecloga latina e un'elegia, entrambe aventi sempre Roma e il suo popolo per tema.

L'opera destò la curiosità degli studiosi, che si affrettarono a procurarsela. Indice della sua popolarità è anche la sua traduzione italiana, opera del fiorentino Paolo del Rosso, che venne stampata dal Tramezzino a Venezia nel 1543. Il testo latino fu ristampato a Roma dai Dorico nel 1545 e la traduzione fu pubblicata di nuovo a Venezia da G. Francini nel 1588. Dopo il Cinquecento la popolarità del volume, per la concorrenza agguerrita di trattati più moderni, declinò rapidamente.

La figura del F., pur così popolare nel Cinquecento, non attrasse l'attenzione degli studiosi nel corso di quel secolo e in quello successivo se non attraverso brevi cenni. Nel Settecento il Cecconi, seppure con molti errori, e il Petrini gli dedicarono più spazio. Poi il F. fu quasi dimenticato fino all'ampio contributo biografico del Weiss. La sua fortuna si perpetuò, com'era prevedibile, nelle descrizioni e nelle guide di Roma, che soprattutto nel corso del Cinquecento fecero uso delle sue opere.

Fonti e Bibl.: L. Cecconi, Storia di Palestrina città del prisco Lazio, Ascoli 1756, pp. 316 s.; P. Petrini, Mem. prenestine disposte in forma di annali, Roma 1795, pp. 195-198; L. Schudt, Le guide di Roma. Materialien zu einer Geschichte der römischen Topographie, Wien-Augsburg 1930, ad Indicem; G. Mercati, Opere minori, III, Città del Vaticano 1932, p. 79; R. Weiss, A. F. antiquario romano, in Ann. della Scuola norm. sup. di Pisa, s. 2, XXVIII (1959), pp. 1-44; F. Ascarelli, Annali tipografici di G. Mazzocchi, Firenze 1961, pp. 41, 64, 114-116; Illustrium imagines di A. F.…, con nota di R. Weiss, Roma 1967; I. Calabi Limentani, A. F., "Alter homo doctus" autore degli Epigrammata antiquae urbis"?, in Epigraphica, XXXI (1969), pp. 205-212; Raffaello e la Roma dei papi (catal. della mostra), Roma 1986, pp. 98, 102; P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, pp. 114, 352.

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