MANTEGNA, Andrea

Enciclopedia Italiana (1934)

MANTEGNA, Andrea

Giuseppe Fiocco

Pittore e incisore padovano, nato nel 1431, probabilmente a Isola di Carturo, allora in territorio di Vicenza, morto a Mantova il 13 settembre 1506. Fu l'iniziatore del Rinascimento nel Veneto e il rinnovatore della pittura nell'Italia settentrionale. Era figlio di contadini; ne scoprì il genio e lo indirizzò all'arte Francesco Squarcione; strana figura di pittore e più di pedagogo e d'imprenditore, arrivato all'arte a trentadue anni dalla sartoria, a cui la vecchia storiografia, per vanità provinciale, assegnò il compito d'inventore d'un rinascimento particolare, non possibile in una terra ancora sotto il fascino pieno dell'arte bizantina e della gotica, e che il mondo non ebbe se non da Firenze. Al giovanetto di talento precocissimo intorno al 1445, non prima, quindi verso i quattordici anni, iscritto nella Fraglia dei pittori, si affacciarono, per fortuna in patria, altri vivi esempî; portativi appunto dai Toscani, e spesso dai più alti. Dagli scultori Lamberti, chiamati nel 1415 dalla Serenissima a dirigere i lavori di S. Marco, a Paolo Uccello (1425 e 1443), a Filippo Lippi (1434 circa), ad Andrea del Castagno (1442 circa) vediamo sfilare alcuni dei più grandi rappresentanti del Rinascimento; dei quali non pochi, come il Lippi, ebbero propria sede a Padova, dove dimorò per due lustri anche Nicolò Baroncelli e dove, per altri due lustri, il sommo Donatello conchiuse nel 1453 questa fruttifera, diretta propaganda. Il M. è il figlio genialissimo di questa influenza. Già dal gennaio 1448, uscito dalla tutela del furbo maestro e padre adottivo Squarcione, e abitante in casa propria a Santa Lucia, dipingeva da solo un polittico, oggi perduto, per la chiesa di S. Sofia. Nello stesso anno, era in relazione con Niccolò Pizzolo, di parecchio più anziano, collaboratore del Lippi in certi affreschi padovani per la cappella del Podestà, e di Donatello per l'altare del Santo; e col Pizzolo assumeva di dipingere metà della cappella Ovetari agli Eremitani.

È infatti al Pizzolo ch'egli assomiglia nelle sue opere prime; tanto che solo di recente i documenti hanno potuto darci la distinzione certa della loro rispettiva attività. Un atto del 6 febbraio 1454, poco dopo la morte del Pizzolo, assegna ad Andrea le tre figure dei santi Pietro, Paolo e Cristoforo, negli spicchi della vòlta, dichiarandole già eseguite il 3 settembre 1449; i cherubini nell'intradosso dell'arco trionfale della piccola abside, la testa gigantesca in alto, e le stesse due prime storie di S. Giacomo, nella parete (Vocazione e Predica del Santo) tutti dal lato sinistro, escludendolo dall'esecuzione del Padre Eterno e del S. Giacomo negli spicchi della vòlta dell'abside stessa, da quella dei tondi con i Padri della chiesa, dai cherubini dell'intradosso e dalla testa gigantesca di destra: uniche pitture spettanti al Pizzolo, insieme con l'intera pittoresca pala plastica della cappella.

Il gusto dell'antichità, la fermezza metallica, la brunitura del colore, proprî del M. tipico, appaiono quindi nella seconda serie degli affreschi Ovetari, e si deve pensare più che per altro, per la crescente influenza dei toscani e per il contatto di Iacopo Bellini, imparentatosi appunto nel 1454 con Andrea, per avergli dato in moglie la figlia Niccolosa. Questa maniera più decisa e potente s'inizia con l'Assunta, oggi restituita, anche per documenti, al grande maestro, e continua nelle scene di sinistra: il Battesimo di Ermogene, il Giudizio di S. Giacomo, l'Andata al supplizio, il Martirio, con ferrea potenza, e con respiro spaziale così pieno da permettere all'artista perfino l'uso del punto di vista ribassato nell'Andata al supplizio. È questa fermezza metallica, questa preziosità coloristica, questa astrazione formale, il punto di partenza della scuola ferrarese, direttamente nata dalla padovana; nella quale, come del resto nel Parenzano, si accentuerà quel gusto del caricaturale e del contorto che il M. aveva potuto cogliere nel 1449 a Ferrara da Rogier van der Weyden, ma che per il maestro è solo un episodio, notabile ad es. nel brutale carnefice del Martirio di S. Giacomo e nei pezzenti dell'Adorazione dei pastori di Clarence Mackay (New-York), che gli è prossima per tempo. E come da questo petrigno M. partivano i pittori ferraresi, partiva dal M., prospettico virtuoso, quel senso spaziale, che - attraverso Ansuino da Forlì, collaboratore con Bono da Ferrara dell'artista nella parete destra della Cappella, assunta dopo la morte di Giovanni d'Alemagna (con Antonio Vivarini accollatosi la metà delle pitture, non andate oltre al soffitto) - giunse a Melozzo da Forlì e fu una delle fonti della sua gloria.

Accompagnano questo meraviglioso momento di attività agli Eremitani, la ritmica lunetta sul portale maggiore del Santo, con S. Banardino e S. Antonio, inginocchiati a venerare il monogramma di Cristo (1452), il monumentale polittico di S. Luca dipinto per Santa Giustina di Padova, oggi a Brera (1453-54), e la non meno solenne S. Eufemia di Napoli (1454). Dopo il qual anno, forse per la lotta che gli faceva lo Squarcione, sdegnato per la parentela stretta con i Bellini, il M. trovò utile allontanarsi alquanto da Padova; e si deve probabilmente a questo la breve parentesi veneziana, in contatto col suocero, per i mosaici della cappella dei Mascoli in S. Marco, certo seguiti dopo il 1454. Ove spetta ad Andrea il cartone di quella patetica Morte di Maria, che l'artista riprese più tardi anche a Mantova; scena che poté far pensare allo stesso Andrea del Castagno. E deve essere intorno a quell'anno il fregio del monumento a Federico Cornaro ai Frari, purtroppo frammentario e guastissimo, che precorre per ricerche plastiche illusive il soffitto della Stanza degli sposi a Mantova. Ma ormai a Padova, dove la sua attività stupefacente era osteggiata, l'artista non si sentiva a suo agio; e si deve certamente a questo l'intervento degli aiuti nella cappella Ovetari, ove Andrea si riserbò la sola stupenda duplice scena del Martirio di S. Cristoforo, che pare far presentire un M. più pittore, più morbido, più veneziano insomma; degna conclusione dell'attività locale. Meglio anche del polittico di San Zeno a Verona, eseguito contemporaneamente, prima del 1459, dove il ricordo della pala plastica di Donatello al Santo di Padova, che vi è ripetuta quasi alla lettera, richiama l'artista alle sue predilezioni formali, e al solito colore più ausiliario che costruttivo.

Dopo quell'anno, Andrea M. lascia definitivamente il suo Veneto, ove aveva però ormai spalancato le porte dell'arte nuova, non solo ai pittori, ma anche agli scultori, dal Bellano ai Lombardi, per stabilirsi a Mantova, ov'è suo, per testimonianza dello Scardenone, l'autoritratto bronzeo della cappellina sepolcrale in S. Andrea. Ivi la sua arte non ebbe che onori e ammirazione, e la sua difficile natura non altro che carezze, come pittore di corte dei Gonzaga; ai quali questa illuminata protezione ridonda del resto oggi più a vantaggio di tutte le mutevoli vicende della loro signoria. L'ingresso dell'artista a Mantova è testimoniato, oltreché dal carteggio del marchese Ludovico, dal possente ritratto del cardinale Mezzarota, oggi a Berlino, certo dipinto in quell'anno o agl'inizi del 1460, quando era in quella città. Ma le opere più tipiche del primo periodo sono quelle conservate a Firenze: il trittico cioè con l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al tempio e l'Ascensione, che alcuni ritengono provenire dalla cappellina del castello di Mantova, ma che potrebbe essere stato dipinto durante la sicura permanenza del M. in Toscana, dal luglio del 1466 al 1468 (?). Preziosissima opera, di una minuzia lineare sbalorditiva, e di un colore vivido fino allo stridulo, per ricchezza, non rifuggente dalle lumeggiature d'oro, e prova più di un ritorno sulle vecchie posizioni che di uno sviluppo; come la piccola Morte di Maria di Madrid, il Cristo nell'Orto di Londra e altre pitture condotte con tecnica quasi da miniatore. Non inutile dimora, se proprio dopo quella vediamo il M. condurre a termine, nel 1474, quella stupenda serie di dipinti per la Stanza degli sposi, nel castello di Mantova, che è la seconda tappa vittoriosa della sua arte, e diciamo pure, dello sviluppò della sua arte.

Intesa come una loggia che non si fermi alle sole pareti, ma spazi lontano, offre da un lato la corte dei suoi signori, attorno al patriarcale Ludovico e all'opulenta marchesa Barbara di Brandeburgo; e dall'altro, sopra uno sfondo di paesaggio ancora più aperto, che sembra dilatare l'ambiente, l'incontro del marchese Ludovico col figlio neocardinale Francesco. Dilatazione che arriva nel soffitto, tutto dipinto a finti rilievi, con i busti degl'imperatori romani, tanto bene inventati da parere rilievi veri, alla coraggiosa novità del sottinsù: ottenuta fingendo aperta la vòlta nel mezzo, da un occhio protetto da balaustrata, dalla quale sporgono dame con le loro cameriere, pavoni e vasi, e fra cui occhieggiano curiosi i genietti; mentre più in alto profonda il cielo azzurro, solcato da caldi grappoli di nubi. Basterebbe questa novità per fare comprendere come sia giusto connettere al glorioso M. l'inizio del Correggio, che porterà questa vittoria sino alle più meravigliose conseguenze, aprendo un campo ricchissimo alla pittura cosiddetta decorativa; come ci provano le opere sue a Parma e nella stessa Mantova, testimoniate dal Cadioli, e in parte ancora esistenti. Derivazione che A. M. Taja nel Settecento nota come vanto grandissimo del Padovano.

Anche più evidente è l'importanza del contatto diretto e fecondo con Firenze nell'incisione, iniziata dal M. con gusto, metodo ed evidenza pollaioleschi, appunto intorno al 1475; con tanta bravura poi da poterne essere considerato quasi il secondo fondatore. Le due scene di Baccanali, e quelle con combattimenti di Tritoni, più della Madonna, del Cristo resuscitato fra due santi, e della Deposizione, esemplare anche per Raffaello, per la stupenda bravura del nudo, per l'impeto, per la nobiltà del ritmo, appaiono veri capolavori, anche se la tecnica vi risulti talvolta titubante e intinta di manierismi gotici.

Dopo questo momento, massimo dell'arte del M., il pittore pare volere dar corpo sistematicamente a quei fantasmi dell'antichità, che l'educazione umanistica padovana avevano alimentato nel suo cuore ardito. Dopo le saltuarie rievocazioni degli eremitani, questo fervore per l'antico, più interno che esterno, naturalmente, dati i pochi esemplari classici ch'egli poteva aver avuti sotto gli occhi sin'allora, si era quasi addormentato. Ma ecco, di fronte al sereno S. Giorgio trionfatore, oggi a Venezia, donatelliano non classico, il tormentato grande S. Sebastiano di Aigueperse (Louvre), e il piccolo di Vienna, avvicinare, quasi per dargli risalto, lo spasimo del martire alle fredde rovine, più albertiane che veramente classiche; ma in cui l'antichità è pure la chiara intenzione. Nel soffitto della stanza degli sposi, il contatto è meglio riuscito, anche perché l'iconografia dei Cesari lo aiuta. Ma questo e pieno e stupendo raggiungimento, tutto dovuto a quel romanticismo divinatore dell'antichità che il Berenson ha tanto bene rilevato, solo nel Trionfo di Cesare: cioè in quella serie di nove quadri, destinati a sfondo di teatro, oggi in miserande condizioni a Hampton Court.

Rievocazione tanto più meravigliosa, in quanto condotta quasi tutta a termine subito dopo il 1484, prima del viaggio a Roma, che dal 1489 al 1490 lo tenne occupato nei freschi di un'intera cappellina, oggi distrutta, nel Belvedere del Vaticano, per volontà di Innocenzo VIII.

Anche nell'ultimo periodo, l'arte del fiero maestro, benché straniata ormai dalle forme che gli progredivano attorno, s'impone per la sua nobiltà e per qualche trovata non discara al Correggio; come la Madonna della Vittoria, dipinta nel 1495-1496, oggi al Louvre, per la stupenda novità del pergolato a nicchia, che l'avviluppa, e la pala di S. Maria in Organo, ora nella raccolta del principe Trivulzio a Milano, del 1497, famosa per il trio di angioletti ai piedi del trono della Vergine e dei quattro santi, tipici per la scuola veronese. E benché il colore vi sembri sempre più estraneo al suo compito essenziale, è certo che nel Parnaso del 1497, colmo di una grazia degna di Rafnaello, nel Trionfo della Virtù sui Vizî, finito nel 1502, oggi al Louvre, al pari che nell'altro Trionfo del Dio Como, solo ideato dal maestro, ma eseguito dal suo successore a corte, Lorenzo Costa, la sua fantasia non ha stanchezze; come non ne dimostra nelle opere stesse rimaste nello studio alla morte del M., avvenuta nel 1506, cioè lo scorcio stupendo del Cristo di Brera, che lo stesso Rembrandt non dimenticò e il S. Sebastiano della Ca' d'Oro a Venezia, atrocemente saettato, eppure quasi olimpico; esempio, proprio per mano di un veneto, della più astratta metafisica lineare.

E naturalmente si citano appena altre opere insigni: come il ritratto del vescovino Gonzaga a Napoli; la pensosa, donatellesca Madonnina già nella coll. Simon (Kaiser-Friedrich Museum); le tre predelline del polittico di S. Zeno al Louvre e a Tours, che sembrano scolpite in marmi luctrasidi; la Madonna agli Uffizî, minuscola eppure monumentale; il Trionfo di Scipione della National Gallery e la Sacra Famiglia dal misterioso simbolismo della raccolta Mond a Londra; le Madonne del Poldi Pezzoli a Milano e dell'Accademia Carrara di Bergamo; il Cristo morto di Copenaghen; la paletta con la Madonna e i due santi di Londra; la Sacra Famiglia di Dresda, e altre opere, dove il maestro impresse sempre il segno della sua genialità pensosa. Tanto grande che, nelle poche pitture attribuibili alla collaborazione col figlio sopravvissuto appena tre anni al padre, e noto per avere dipinto nel castello di Marmirolo nel 1494, e per avere restaurato le pitture del padre nella Stanza degli sposi, voglio dire il Battesimo di Cristo e la Sacra Famiglia della cappella di famiglia a S. Andrea di Mantova, l'invenzione risulta ormai senza vita. Né poteva essere altrimenti per un'arte che, conquistati quasi di colpo al Veneto la forma e lo spazio, giungendo non solo a renderlo, ma a moltiplicarlo, aveva visto nascerne la vera pittura con Giambellino e con Antonello, e trionfare il genio di Giorgione, senza mai turbarsi nel suo solenne cammino; divenuto alfine solitario e quasi fuori del tempo. (V. tavv. XXVII-XXXII).

Bibl.: Oltre al fondamentale P. Kristeller, A. M., Berlino e Lipsia 1902, vedi: G. Fiocco, L'arte del M., Bologna 1927; id, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXIV, Lipsia 1930 (con esauriente bibl.); A. Venturi, St. dell'arte, VII, ii, Milano 1913; H. G. Heyden, A. M., L'Aia 1931.

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