MOCENIGO, Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 75 (2011)

MOCENIGO, Andrea

Elena Valeri

MOCENIGO, Andrea. – Nacque a Venezia nel 1473 da Leonardo e da Cristina Trevisan, figlia del patrizio veneto Andrea.

Il padre, appartenente a una delle famiglie più influenti del patriziato veneziano (i Mocenigo del ramo di S. Zaccaria), ricoprì incarichi importanti nel governo della Repubblica, tra cui quello di senatore, luogotenente di Udine nel 1494-95, podestà di Verona nel 1497, consigliere del doge nel 1498 e nel 1502, podestà e vicecapitano di Padova nel 1500-01, savio di Guerra nel 1512, savio grande negli anni 1513, 1519, 1520 e 1522, elettore del doge nel 1521 e nel 1523, provveditore alle Acque nel Padovano nel 1520, procuratore di S. Marco nel 1524, savio di Terraferma nel 1527. Nel 1503 partecipò alla solenne ambasciata d’obbedienza al papa Giulio II e alcuni anni più tardi, nel 1509, fu insieme con Domenico Trevisan, Alvise Malipiero, Paolo Capello e Girolamo Donato, tra gli oratori inviati a Roma nel tentativo di persuadere il pontefice a riavvicinarsi alla Serenissima duramente sconfitta dai collegati di Cambrai. Una missione particolarmente delicata, conclusasi dopo sei mesi di trattative con la revoca della scomunica alla città il 24 febbr. 1510, come lo stesso M. non avrebbe mancato di rammentare nella sua opera storica dedicata a quelle vicende (La guerra di Cambrai fatta a’ tempi nostri in Italia, Venezia, A. Arrivabene, 1562, c. 39v). Il M. ebbe quattro fratelli, fra cui Tommaso, «prudente e valoroso, capitan generale» (ibid., c. AIIr); Francesco, entrato nel Maggior Consiglio nel 1493, eletto senatore della Giunta nel 1508, provveditore sui Dazi nel 1509; e Piero «il quale ne le molte fatiche de le legationi, che giovane l’hanno à maggior honori furato, diede saggio di prudenza, di cortesia et di grandezza d’animo incomparabile» (ibid.).

Grazie alla posizione e agli appoggi della famiglia, il M. intraprese la carriera politica, entrando nel Maggior Consiglio il 28 nov. 1491, dopo avere compiuto diciotto anni. Nello stesso tempo si dedicò alla propria formazione culturale, coltivando con successo gli studi classici e avvalendosi dell’insegnamento di maestri di fama. Si cimentò nella traduzione latina della Teogonia di Esiodo e prese parte alle attività dell’Accademia fondata e guidata da Marco Antonio Sabellico, da cui si congedò nel 1500 allorquando iniziò a frequentare l’Università di Padova, dove conseguì la laurea dottorale il 12 ag. 1503. A Pietro Pomponazzi, suo professore presso lo Studio patavino, è legata la stesura di uno dei suoi primi componimenti letterari, un Epithalamion composto per festeggiare le nozze dell’umanista con Cornelia Dondi dall’Orologio celebrate nel dicembre 1500. La stampa di quest’opuscolo, rimasto a lungo sconosciuto, apparve senza note tipografiche, ma risale certamente ai primissimi anni del XVI secolo. Il canto nuziale si dispiega in 246 versi che, intessuti di persistenti rimandi mitologici, testimoniano profonda amicizia e sincera devozione da parte del discepolo. Al periodo universitario è connessa anche un’altra opera dal titolo Enchiridion, una rarissima raccolta di argomentazioni di teologia e di filosofia sostenute dal M. a Padova e a Venezia, all’indomani del conseguimento delle insegne dottorali, nel 1503, come recita l’intestazione. Oltre a mostrare l’abilità dell’autore nella filosofia e nelle lingue latina e greca, il libretto consente di individuare con sicurezza i maestri per i quali, insieme con Pomponazzi, il M. serbava riconoscenza: Vincenzo Merlino, lettore di metafisica, il teologo Antonio Trombetta, il filosofo Maurizio Ibernico, tra i più fervidi animatori della Scuola scotista di Padova. Al 1511 risale la stampa del Pentatheucon, a Venezia per i tipi di Bernardino Vitali, dal momento che le caratteristiche tipografiche dei due volumi risultano del tutto affini. Redatto in lingua latina e dedicato a Giulio II, il Pentatheucon è composto da cinque libri in cui il M. affronta temi teologici.

Giunto ormai all’età della maturità («in aetate medioxima», c. IIv) come affermava egli stesso nella lettera dedicatoria al pontefice, il M. iniziò ad assumere i primi incarichi nel governo della Repubblica, avendo in precedenza mancato la nomina a oratore in Francia nel 1505 e, successivamente, presso l’imperatore. Nel 1511 era savio sugli Imprestiti, nel 1514 savio sulle Decime, nel 1516 senatore. Gli impegni affidatigli non gli impedirono di avviare in quei frangenti la stesura della sua opera storica, una narrazione in prosa latina delle vicende intercorse durante la cosiddetta guerra di Cambrai, nella quale, tra il 1509 e il 1517, un’ampia coalizione di Stati europei, nel tentativo di arrestare la progressiva espansione della Serenissima, aveva combattuto e quasi distrutto la potenza veneziana.

Già nella seconda metà del XV secolo la Repubblica aveva individuato nella storiografia, sia delle origini sia delle vicende contemporanee, una valida alleata nella propria azione politica; successivamente, la sorprendente ripresa all’indomani della disfatta di Agnadello, insieme con l’urgenza di rispondere alla montante pubblicistica antiveneziana, determinò un ulteriore incremento della scrittura storica e la decisione di istituire la figura dello storiografo pubblico. In questa direzione sembrava procedere, il 28 giugno 1515, la decisione del Consiglio dei dieci di concedere al M. il permesso di consultare ogni documento «usque in praesens» al fine di agevolare la redazione della sua storia, «opus quidem praeclarum et carum habendum» (Fulin, p. 193). Nello stesso tempo veniva posto divieto all’autore di mostrare il lavoro ad alcuno e, tanto più, di darlo alle stampe «nisi prius, finito opere, illud praesentaverit Capitibus Consilii X revidendum, et de eo faciendum ut deliberabitur» (ibid.). Nonostante queste delibere potessero confortare l’aspirazione del M. a questa carica, il 30 genn. 1516 un decreto del Consiglio dei dieci nominò Andrea Navagero custode della libreria Nicena e gli commissionò l’incarico di proseguire la narrazione della storia di Venezia che Marco Antonio Sabellico aveva lasciato interrotta al 1487. Una scelta che suscitò un certo stupore, come non esitava a ricordare Marin Sanuto nei suoi Diari, allorquando annotava che «fo fato torto a sier Andrea Mozenigo el dotor, di sier Lunardo, qual scrive latine la Historia di la lega di Cambrai in qua et è quasi finita» (XXI, col. 485). Un disappunto reso ancora più amaro, negli anni, dalla mancata consegna da parte di Navagero, il quale non avrebbe pubblicato neppure un rigo della storia commissionatagli. Lo stesso M. alluse alla vicenda evidenziando, nella dedica della sua opera storica, che «per ciò non dimando alcun premio, il quale voi per vostra benignità solete dare a coloro che solamente promettono di bene operare, come, che niente o poco giovino alla Repubblica» (c. n.n.).

Il 30 nov. 1518, il Consiglio dei dieci accordò al M. la licenza di stampa, dopo che i cancellieri Francesco Fagiuolo e, poi, Giampietro Stella avevano portato a compimento la revisione dell’opera definita «opus praeclarum et dignum maxima commendatione» (Fulin, p. 193). Tuttavia, il Bellum Cameracense fu dato alle stampe solo nel 1525 a Venezia per i tipi di Bernardino Vitali.

L’opera, come recita il titolo, narra in sei libri le vicende della Lega di Cambrai, secondo un approccio tematico di tipo sallustiano. La scelta del tema, che aveva Venezia come protagonista, inseriva chiaramente questo testo nella produzione letteraria sviluppatasi nella Repubblica a partire dal secondo decennio del Cinquecento al fine di rappresentare il punto di vista e le ragioni veneziane nello scontro politico e militare in atto tra la Serenissima da una parte e molti Stati d’Italia e d’Europa dall’altra. Tanto più che il M., membro del patriziato e magistrato tra i più noti della Repubblica, era un esponente della classe dirigente che aveva guidato la città lagunare sino a quei drammatici avvenimenti. La narrazione, che avrebbe dovuto abbracciare gli anni 1509-17, prende le mosse in realtà – «per fare l’historia più chiara» (La guerra di Cambrai..., c. Ar1r) – dal secolo precedente, nel quale, secondo il M., affondavano le radici del presente disastro, in linea con la migliore storiografia coeva e successiva.

Le vicende legate alla successione nel Ducato di Milano, il coinvolgimento del re di Napoli, le difficoltà di Firenze, gli interessi imperiali, le ambizioni dei Francesi «desiderosi di occupare tutta l’Italia» (c. 1v) mostravano un complesso sistema di Stati in cui il ruolo e il peso della crescente potenza veneziana erano percepiti sempre più ingombranti. Parallelamente si dispiega la rappresentazione delle errate scelte perseguite dalla Serenissima a partire, secondo il M., dal dogato di Francesco Foscari, autore di un radicale cambiamento nella tradizionale politica lagunare: «Morto poi Thomaso Mocenico mio antico avolo, sotto ’l qual Duca il Vinitiano stato con pace, ricchezze, bonta d’huomini et ottime arti fiorì, successe Francesco Foscari, e cominciò la Filippica guerra, lasciato 'l mare e le mercatantie, onde copiose ricchezze e molti beni erano venuti, e cominciossi a pigliare nimicitia con i Re, et sorgeano le guerre una dopo l’altra, così gli animi si volsero a terra ferma, e lasciarono il ricco mare, onde indeboliti et innamorati del terreno, facilmente da le fatiche a le delicie si mutarono» (c. 6rv). Il M. si faceva portavoce della dura polemica ingaggiata da tempo da una parte del patriziato veneziano e fomentata dalla disfatta di Agnadello che vedeva nell’espansione sulla Terraferma l’origine dei mali per la Serenissima; un giudizio espresso negli stessi anni anche nei Diari del nobile veneziano Girolamo Priuli.

Nononstante il «memorabile» spiegamento di forze avverse di «molti, troppi re […], come non mai nella storia antica» (c. AIIr), in cui peraltro il M. sfumava il ruolo per altri decisivo del pontefice, Venezia aveva saputo reagire. Il racconto diventava dunque l’occasione per celebrare la virtù veneziana e il patriottismo dei suoi sudditi riuniti intorno alla figura del doge Andrea Gritti, protagonista della riscossa, al quale era dedicata l’opera storica e alla cui elezione aveva contribuito, a suo tempo, il padre dello stesso Mocenigo. In questa prospettiva appariva chiaro il tentativo, da parte dell’autore, di legare la lotta di Venezia alla difesa della «libertà d’Italia dalla franciosa tirannia» (c. 12r), come affermava anche l’esortazione inviata, alla vigilia della battaglia per Padova, dal Senato ai soldati della Serenissima che avrebbero dovuto combattere «per la giustizia, per la salute de la patria, per la libertà d’Italia, la quale sogliono i barbari sempre lacerare» (cc. 30v-31r).

Nel 1519, il M. sposò Chiara Duodo, figlia del patrizio veneto Gian Alvise, «donna non bella», come sottolineava Sanuto, ma «la dote era razonevole» e il «parentado bellissimo» (XXVII, col. 30). Da questa unione nacquero quattro figli: Leonardo, morto giovane, Maria, andata sposa ad Antonio Bragadin, Giambattista, abate e canonico di Padova, e Girolamo, che intraprese la carriera politica ed ebbe tra i suoi figli Giovanni, destinato a divenire celebre come uno dei più noti diplomatici del XVI secolo.

Intanto la carriera politica del M. proseguì con altri incarichi: nel 1527 e nel 1529 venne rieletto senatore, nel 1531 fu avogadore e scrutinato come oratore a Roma, senza però riuscire a compiere la missione diplomatica. Podestà di Monselice dal 12 ott. 1532 sino al febbraio 1534, capitano di Verona dal 29 ott. 1536, podestà di Padova dall’ottobre 1540.

Durante questo ufficio morì a Padova il 4 apr. 1542.

Nel 1544, fu dato alle stampe il volgarizzamento del Bellum Cameracense che, certamente promosso dal M., apparve a Venezia col titolo La guerra di Cambrai fatta a tempi nostri in Italia e con la dedica ai figli del M., Girolamo e Giambattista, da parte del sedicente traduttore Andrea Arrivabene, che confessava di avere voluto offrire un dono agli «inesperti» della lingua latina e all’Italia (c. IIIv). Una successiva stampa dell’opera vide la luce sempre a Venezia nel 1562 e, nel XVIII secolo, a Lione all’interno del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae di J.G. Graevius (t. V, pars 4, Lugduni Batavorum 1722).

Di un’altra opera storica del M. è rimasta solo la memoria. Si tratta del racconto della guerra combattuta dal sultano Bajazet II contro Venezia nel 1500. Il testo, redatto in versi latini e costituito da sette libri, è citato con il titolo De bello Turcarum da Francesco Sansovino in Venetia città nobilissima et singolare (Venezia 1653, p. 594) e successivamente da Apostolo Zeno in una postilla alla sua Vita di Marco Antonio Sabellico, «latino carmine lucubrata necdum in publicum emissa» (Venezia 1718, I, p. LV).

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