CONTARINI, Angelo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Angelo

Gino Benzoni

Primogenito di Giulio di Domenico e di Lucrezia di Andrea Corner, nacque a Venezia l'11 ag. 1581 e nonva confuso coll'Angelo Contarini di Giorgio, di lui un po' più anziano, eletto rettore a Belluno il 24 ag. 1612.

Di ricca ed influente famiglia - del ramo contariniano detto dei "Ronzinetti" -, il C. ebbe un'accurata istruzione: Vincenzo Contarini, dotto cultore di studi classici e docente a Padova, fu suo insegnante privato disvelantegli "omnis antiquitatis atque in primis romanae abstrusiores sensus"; appassionato ascoltatore nell'ateneo patavino delle lezioni di Galilei, quando questi desidera la ricondotta a migliori condizioni, è sin troppo insistente col riformatore allo Studio, lo zio Zaccaria Contarini, perché sia accontentato, come scrive all'interessato Giovan Francesco Sagredo il 1° sett. 1599. E senz'altro l'adolescente C. dev'essere parso al coetaneo Peiresc, che soggiorna a Venezia nel 1600, dotato d'acume e dottrina, se contrasse con lui l'intensa "necessitudo" accennata da Gassendi nella biografia.

Certamente stimolante - al fine di conoscere situazioni ed ambienti cruciali, d'aprire la mente ai grandi temi della politica internazionale e del modellamento dello Stato - il viaggio, nella primavera del 1601, in Francia al seguito d'Antonio Priuli e Giovanni Dolfin ambasciatori straordinari ad Enrico IV. La suggestione di Sarpi - il C. va annoverato tra i patrizi che lo frequentano - arricchisce, poi, ulteriormente la progressiva dedizione alla politica del C., che, al contrario del fratello Domenico, non si sposa e si sottrae all'incombenza dell'amministrazione dei beni di famiglia. Nominato il C., il 30 marzo 1618, rappresentante veneto in Francia, Sarpi ne è lietissimo: potrà, per suo tramite, proseguire la sua corrispondenza con Groslot de l'Isle, cui garantisce che il C. "è soggetto di somma realtà, di gran prudenza e di eccellente cognizione delle cose umane. Egli ha gusto degli uomini e... stima la bontà e virtù ugualmente negli uomini di qual si voglia professione".

Lasciata Venezia alla fine di settembre, arrivato a Bergamo il 4 ottobre, il C. si sposta, essendo impraticabile per i "diluvi continui" la via di Torino, a Coira donde raggiunge Parigi il 4 novembre. Deve insistere per la ripresa dei buoni rapporti franco-inglesi guastati dalla interruzione degli scambi commerciali; lodare incoraggiante i "prudenti termini" via via adottati dal sovrano per superare lo spinoso "affare" del contrasto con la madre sì che possa ricostituirsi la "quiete" del Regno; denunciare la persistenza delle malefatte uscocche e la "connivenza" arciducale contro "la ragione, il comercio, il capitulato di pace"; difendere l'intento pacifico della lega veneto-sabauda calunniata quale "offensiva" dagli Spagnoli; scalzare il credito dell'ambasciatore francese (ispanofilo e filopapale) a Venezia Brûlart de Léon specie quando rientra deciso a andar spargendo "semi lontani dal vero"; contrastare l'operato dell'inviato francese presso i Grigioni, Gueffier.

Quanto all'Ossuna - laddove in Francia c'è chi punta sulla sua irrequietezza (e per la trama antispagnola ha brigato a Napoli il conte Chateauvilain), chi fomenta i suoi contrasti con la corte perché sbocchino in aperta ribellione, chi (soprattutto il duca di Lesdiguières) progetta, forte dell'esplicita disponibilità di Carlo Emanuele I, un "gran colpo" che coinvolga attivamente Venezia -, il C. è addirittura raggelante.

Da un lato l'"intrapresa" gli pare un azzardo incauto e velleitario, dall'altro avanza il sospetto che il viceré si finga "mal contento" per meglio tessere l'insidioso tranello di compromettere Venezia irreparabilmente agli occhi di Madrid. Con siffatti "artificio e machinatione" intanto il duca eludeva la scadenza del rilascio, richiesto con forza da Venezia, di "tante merci sequestrate", si sottraeva alle "tante promesse" di Filippo III di "restituzione". La Repubblica - sostiene il C. - "non vuol altro che la pace e la quiete in Italia", non desidera avventure, ma "conservare il suo"; essa "mira al sodo" e "alla sua sincerità malamente si adatta" l'orditura di congiure basate, per di più, sui "capricci" d'un uomo che ha sempre mostrata "mala volontà" verso di lei. Il suo programma è trasparente: la Spagna deve restituire le "robbe" sequestrate dal duca; questi, che tanto ha predato ai danni della Serenissima, è bene sia rimosso sì che non possa più nuocere.

Ostinato nella sua avversione alla Spagna, Lesdiguières è, invece, convinto sia stata persa un'"occasione" irripetibile: al C., che osserva come alla Serenissima "parrebbe far torto" al re cattolico "quando diffidasse di rihavere ciò che giustamente si pretende", il maresciallo obietta che non si può prestar fede alle "parole" di Madrid. Occorrono "fatti". E - così il C. in una lettera del 4 febbr. 1620 - prendendo "la mia nelle sue mani, ... disse" che Venezia "è troppo savia, spagnuoli non si muovono per parole". Non ha, poi, tutti i torti ché, nel luglio, c'è il "sacro macello" in Valtellina.

Un sanguinoso colpo di mano promosso da Madrid e da Milano contro il "legitimo dominio" dei Grigioni, che è dovere della Francia - perora il C., contrastato dal nunzio pontificio Bentivoglio - stroncare con un'"effettiva risolutione". Col "vano pretesto della religione" il Milanese si congiunge alla "casa d'Austria", si sbarra un "passo" cosi essenziale al "particolar servitio" del re cristianissimo e dei suoi "amici", specie la Repubblica, in Italia. Urge - insiste il C. - Luigi XIII segua le "vestigie" paterne, getti tutto il peso della sua "grande auttorità" per ripristinare il potere delle tre leghe. Non bastano - e il C., involontariamente, finisce col dare ragione a Lesdiguières - "ufficii di parole", ma necessita "quella vehemente et effettiva maniera" degna d'un re che sappia garantire, nell'"interesse proprio del suo regno", la "conservatione dell'Italia". Non è tollerabile la Valtellina resti "occupata da' spagnoli": quell'"acquisto" non è "termine finale" dei loro "vasti dissegni", è tappa intermedia di una smodata ambizione d'"assoluta monarchia", il cui cattolicesimo "ipocrita" (l'aggettivo ha un inequivocabile sapore sarpiano) non deve ingannare. Ma per quanto il C. s'infervori, manca una pronta replica, non v'è la mobilitazione per una dura risposta. Né gli sfugge come l'operazione tutto sommato goda del tacito favore francese: essendo gli Spagnoli "essecutori" d'una mossa cui, prima o dopo, seguirà la "restitutione", la Francia l'ha permessa per ammonire la Repubblica pervicace nel "trattar lega con Grisoni".

Resta, comunque, valido quanto egli ha osservato ancora in una lettera del 12 genn. 1619: Venezia non speri "aiuto" da "questo regno, il cui governo è languido nelle risoluzioni, senza forze, senza previsione alle cose venture, interessato nei propri commodi, oppresso dai mali intestini e bramoso... dell'autorità e grandezza" del re cattolico che pure è suo naturale rivale. La corte è impossibilitata ad esprimere una politica coerente: la lacerano i "disgusti" tra Luigi XIII e la madre; l'invischiano l'interferire di ambizioni; il favorito Luynes non ha statura di statista; il "finissimo ingegno" del "vescovo di Lusson", pel momento ancora finalizzato a navigare tra le "due contrarie parti" sì da ottenere "honori" da entrambe, non s'è ancora impegnato nella ricostruzione dello Stato; ambiguo e torbido personaggio "certo padre capuccino chiamato fra Giuseppe" suggestiona la debole mente del duca di Nevers in farneticanti progetti di crociata; tormentoso il problema finanziario sospinge, per "ritrovar denari" alla "poletta" e alla "vendita di officii". Come può la Francia "far da dovero" nei riguardi della Spagna? Luigi XIII, che soggiogato dal confessore, il gesuita Arnauld, pare anzitutto deciso a voler schiacciare gli ugonotti, a lui "odiosissimi" non "pensa a soccorrerci - scrive il C. il 29 sett. 1620 - o, per dir meglio, non ha persone presso di sé che lo facciano sovvenire di noi e degli affari della Valtellina".

Il C. non si fa illusioni: sulla Francia non c'è da far affidamento. Osservatore attento e pungente scruta la contraddittoria effervescenza della vita di corte, la tallona nei suoi spostamentì a Tours, Chartres, Poitiers. Una ridda d'accordi e litigi, un carosello d'ambizioni e frustrazioni. Soprattutto un costante brusio di "mille discorsi", "alcuni dicono", "chi dice". Si parla, ad esempio, di possibili nozze della "terza sorella del re" col principe di Galles, per quanto ci siano, in fatto di matrimonio, "strette pratiche" di Giacomo I con la Spagna. E si chiacchiera assai di quelle, dell'11 febbr. 1619, tra Cristina, appena tredicenne, e Vittorio Amedeo di Savoia: "tutta mesta" la fanciulla e spesso singhiozzante per lo "sposalitio" con un uomo che avrebbe desiderato "più giovane, meno brutto" e con un titolo più prestigioso di quello di "duca". Ed un moto di pietà sfiora il C. - che è, invece, sarcastico, quando si dilunga sul debito coniugale assolto, finalmente, il 25 genn. 1619, dal re, con grande soddisfazione di Roma e Madrid le quali vedono, così, rassodato l'indirizzo filospagnolo della corte - quando riferisce come la sposa sia condotta piangente al talamo nuziale dalla cognata, mentre Luigi XIII, suo fratello, con "reprensioni" tenta di farla smettere.

Non va, infine, trascurato - della permanenza parigina del C. - come abbia dimorato per qualche tempo presso di lui Giovan Battista Gualdo per perfezionare, in sintonia col nunzio Bentivoglio, l'adesione al cattolicesimo del giurista Giulio Pace e il suo rientro in patria. Ciò non senza un "pochettino di risentimento" da parte del C., il quale si sente scavalcato; il che non esclude Pace debba anche alle pressioni del C. la "lettura in primo luogo de iurisprudentia" a Padova con una retribuzione non scoraggiante rispetto a quella; di 1.500 scudi complessivi, di cui godeva a Valence. Vanno, altresì, rilevati i frequenti rapporti del C. col Marino, che si serve della valigia diplomatica del C. per mantenere i contatti con il suo editore e i suoi corrispondenti a Venezia. Ed è il C. ad avere per primo in mano quella "parte" della Galeria, edita, scorrettissimamente, nel 1619 da Ciotti; da lui Marino può verificare quanto il libro sia "sconcacato", sì che, scorrendolo, l'invade la "compassione" di se "stesso".

Né la partenza dei C. da Parigi del 23 maggio 1621 segna la fine del rapporto col poeta. Questi assicura che non sarà "negligente a pagargli qualche particella de' debiti miei con la gratitudine degli inchiostri"; un ringraziamento che ritiene doveroso tanto più che conta sull'intervento dei C. per far bloccare uno scritto offensivo nei suoi confronti. E Marino accusa ricevuta d'un "rotoletto" trasmessogli "per via" del C., mentre, una volta a Roma, nel 1623 strepita perché una copia dell'Adone non è ancora pervenuta allo stesso da Parigi, pur avendo egli disposto accuratamente il sollecito invio dell'omaggio. Comunque è il C. che, il 12 sett. 1623, afferma - assieme a Girolamo Priuli e Giulio Strozzi - essere autentica la "lettera" con cui Marino affida al tipografo Giacomo Scaglia l'esclusiva di ristampa e vendita dei poema.

Di nuovo a Venezia, il C. nel 1622 è savio di Terraferma ed incaricato d'accogliere e scortare un visitatore imbarazzante quale il principe di Condé Enrico II; del 25 novembre il colloquio in casa sua tra quello e Sarpi, ove alla loquacità fastidiosa del primo si contrappone l'elusiva reticenza del secondo. Savio del Consiglio nel 1625 - una "degna elettione" a riconoscimento dei suoi "meriti" e "virtù", si complimenta dall'Aia Alvise Contarini -, il C. nel 1626 è inviato, con Marcantonio Correr, in missione straordinaria a Carlo I d'Inghilterra, ufficialmente per dolersi della morte del padre e per congratularsi della sua successione nonché del matrimonio con Enrichetta Maria di Francia: ma sono sottintesi la preoccupazione per la pace con la Spagna stipulata dalla Francia a Monson il 5 marzo 1626 e il conseguente tentativo di rivitalizzare - con i rallegramenti per le nozze con la figlia d'Enrico IV - la traballante alleanza franco-inglese.

Partiti all'inizio di maggio e varcato con grave rischio il San Gottardo innevato, i due, passando per Basilea e Worms, raggiungono Rotterdam salpandone il 24 giugno. A Londra, il 3 luglio, l'"ingresso" coincide con un momento di gravissima crisi: esplode in tutta la sua virulenza l'"odio" per il duca di Buckingham; c'è la "inaspetata disolutione del parlamento"; tumultuano i marinai "fuggiti dall'armata", mentre è "commune opinione che questi stati siino per essere invasi" dalla Spagna e perciò il "consiglio regio" è in riunione permanente. L'accoglienza riserbata al C. e al Correr non può essere che frettolosa e distratta; e i ragionamenti che essi avviano cadono tutti sulle "presenti turbolenze dei mondo". Non resta, preso congedo il 25, che ripartire: dopo una breve sosta a Parigi, i due, toccate Lione e Ginevra e omaggiato a Rivoli il duca di Savoia, rientrano, alla fine di settembre, a Venezia.

Eletto. il 3 dic. 1626, ambasciatore presso la S. Sede, il C. parte da Venezia alla fine d'aprile del 1627, giungendo a Roma il 23 maggio.

Lo attende un periodo difficile, fitto di snervanti controversie, con un pontefice iracondo, di "temperamento caldo", "bilioso", anche se, nella sua natura umorale e mutevole, non restio ad essere ammansito, disposto ad essere placato. Logorante, Comunque, per il C. trattare con lui: ora Urbano VIII è "placido e affabile", "tutto allegro" e sorridente, ora l'espressione è cupa, la faccia "scura"; ora l'accoglie festevole, ora l'investe con "grandissima veliemenza et... furia, battendo il piede in terra", in preda a violenta alteraziorte. Un rapido susseguirsi di atteggiamenti contrastanti dettato, d'altronde, anche dall'altalena dei sequestri e dei dissequestri connessi colla giurisdizione adriatica misconosciuta dal pontefice, incline a citare la capitolazione del 1510, "documento" che il C., invece, ritiene indegno di "riflesso", di "verun immaginabil fondamento". E la Repubblica, a sua volta, sebbene facile ad accontentarlo con frequenti rilasci, non intende rinunciarvi. "Quei signori ci restituiscono due barche - commenta il papa - e doppo ne prendono sei. Ci fanno di quegli scherzi chel Piovano Arlotto faceva a' suoi cani; in una mano teneva il pane, nell'altra i sassi". Elemento di turbamento altresì il ventilato disegno di "condur" il Reno nel "Po grande alla Stelata": una "novità" che suscita l'opposizione di Venezia, cui, peraltro, Urbano VIII pare propenso, tanto più che, come dice, il 10 dic. 1627, al C. (il quale, in contatto con Benedetto Castelli ed estimatore del suo scritto Della misura delle acque, è in grado di motivare come il rischio dell'accresciuto livello del Po sia effettivo), è progettata "nel nostro", laddove la Repubblica, col "taglio del Po", ha operato "anco... gran parte in quello della Chiesa". Fattore di tensione la protratta "ispeditione della coadiutoria di Aquileia"; rinviando l'esplicita conferma del coadiutore a successore del patriarca defunto, il pontefice cerca di sottrarsi alle opposte pressioni del C. e dell'ambasciatore cesareo. Con la "sospensione" tergiversa per non "dar disgusto a nessuno dei due, largo invece di mezze promesse" con entrambi. Ma il C. deve vigilare perché non introduca di soppiatto la possibilità di dividere la "giuridittione" del patriarcato; occorre, infatti, sventi la temuta ipotesi dell'"erettione" del vescovato di Gorizia. Altro motivo di frizione la permuta, cui Venezia s'oppone, del vescovato di Vicenza con quello di Padova voluta dal papa, per il cardinal Federico Cornaro: "resti nel suo di Vicenza" ordina il Senato all'intrigante prelato, laddove Urbano VIII dichiara che non può revocare la sua decisione. "Ci siamo impegnati coll'haver proposto questa chiesa" dì Padova "in concistoro; certo non potemo e non volemo ritrattar".

Argomento di gran lunga più importante, oggetto pressoché costante d'ogni udienza, quello, gravissimo, della crisi mantovana, del dilagare devastante delle truppe imperiali, dell'impegno veneziano a sostegno del duca di Nevers. Il C. s'adopera senza risparmio per indurre il pontefice a passare dai generici inviti alla pace ad una esplicita dichiarazione antiasburgica, ad una palese "unione" della "Sede Apostolica" con la Serenissima. Ma non riesce a sfondare il muro gommoso del neutralismo papale.

Urbano VIII si dichiara "buon italiano", quindi non è "francese" e nemmeno "spagnolo"; e, soprattutto, è "padre commune", non può abbandonare il culmine di tale "posto" per scendere e schierarsi. Inutile il C. suoni tutta la tastiera della sua oratoria per smuoverlo, per indurlo ad una "dichiaratione". Vano il tentativo di porlo di fronte al giudizio. della storia: "non credemo - gli dice - giamai volesse ella sopportare nell'historie de secoli venturi fosse descritto che sotto il pontificato d'Urbano VIII la libertà d'Italia fosse così ignominiosamente" calpestata, tanto più che egli stesso è consapevole come, "presa Mantoa da' spagnoli, tutto lo stato ecclesiastico rimarrà preda de' barbari". Per quanto il C. s'infervori, perori, insista, Urbano VIII rimane abbarbicato alla nicchia della neutralità. Un'ottima ragione per non abbandonarla è offerta dai copfini completamente sguarniti col Napoletano. Antispagnolo nell'intimo, il papa rimane paludato nella veste di mediatore pacifico al di sopra delle parti. E ciò è sentito dal C. come un cocente smacco personale. Gli manca un successo definitivo con cui fregiare la sua permanenza romana.

Ambasciatore di grande rilievo il C., ma anche criticato: i senatori, l'avvisa il fratello Domenico, trovano troppo libere e "pungenti" le sue "risposte" al card. Barberini; Nicolò Contarini "fa il contrapunto alle vostre lettere". Grave soprattutto la sua compromissione con le ambizioni del card. Cornaro, il quale, non per niente, lo ringrazia, il 14 apr. 1629, di quanto "s'è compiaciuto di dire... a mio pro", al papa e al card. Barberini, "in materia della chiesa di Padova" e chiede la sua "intercessione" per il pronto conferimento del "titolo di S. Marco". Donde la crescente irritazione nei suoi confronti in Senato e in Maggior Consiglio.

Non c'è solo il travalicante appoggio al cardinale. Uomo influente e, pure, vanitoso (lo si desume anche dalla sua ossessiva preoccupazione per l'abbigliamento: vuole pelli preziose, vesti foderate lussuosamente), il C. approfitta della sua veste per fornire ad una numerosa serie di persone che a lui si raccomandano - monache che vogliono un teatino per la quaresima o un altare privilegiato; nobili che chiedono dispense per parenti in saio; arcipresbiteriati da assegnare; concessioni speciali adpersonam;abbazie e canonicati; accreditamento di "reliquie" - "segnalati favori". Ed "infiniti" sono i "memoriali" che il fratello gli trasmette da Venezia. Il suo quotidiano adoperarsi in proposito è spesso puntualmente ricambiato; ma si ha soprattutto l'impressione che così allarghi e rafforzi una sorta di rete clientelare, sulla quale poggiare il proprio prestigio personale. L'austera ombra del Sarpi non fapiù parte dei suo orizzonte morale, anche se la Storia del concilio tridentino figura tra i libri di cui dispone; pare solo preoccupato della propria affermazione individuale. Perciò un sarpiano ad oltranza quale Nicolò Contarini è suo dichiarato avversario, mentre, al contrario, Domenico Molin - già vicino a Sarpi, ma poi soprattutto preoccupato d'emergere - non cessa d'elogiare la "benignità" del C. il quale, a Roma, "sa ben valersi dell'occasioni per favorire con i sospirati honori li servitori suoi".

Rientrato a Venezia il 1° febbr. 1630, lettavi la relazione - in cui lo stizzito ritratto d'Urbano VIII (di "buona intenzione", di "buon ingegno", ma velleitario e inconcludente, perché incapace di tradurre in "effetti" i concetti e, perciò, senza "nervo, ... attitudine, ... animo, ... vigore") risente della delusione per la mancata "dichiaratione" -, e svolte le funzioni di savio del Consiglio, dal 27 apr. 1631 alla fine d'ottobre 1632 è podestà - nonché, temporaneamente, vicecapitano - di Brescia, una città falcidiata dalla peste, afflitta dall'assenza di "carnazi" e dalla scarsità di grano per la "sterilità" del raccolto.

Stroncando con energia occultamenti, accaparramenti e contrabbandi, il C. garantisce l'approvvigionamento di 40.000 "somme" di frumento che - pur se ben lungi dal raggiungere le 75.000 a suo tempo fissate per le "consegne" obbligatorie - si rivelano bastevoli dato il calo pauroso della popolazione. E, per nutrire i poveri, blocca il prezzo - laddove, a Desenzano oltrepassa le 70 lire - a 17 lire per staio veneziano. Si preoccupa, altresì, di rivitalizzare le due "arti", già trainanti, della "lana" e della "ferrarezza"; per la prima, da tempo "annichilita", propugna agevolazioni fiscali; per la seconda caldeggia una liberalizzazione della esportazione delle armi, un'accorta politica di richiamo per "operari" e "maestranze" altrove emigrati, un programmato impegno statale d'assorbimento della produzione sì che gli ordinativi pubblici assicurino "non dover mancar mai lo spazzo" ai "loro" ripresi "lavori". La domanda statale insomma subentri quale incentivo pei "lavoranti d'armi", visto che il Senato - di contro alla sua opinione - ribadisce la proibizione di "vendita" o "estrattione di alcun'arma fuori dello stato".

Grata parentesi tra siffatte fatiche organizzative e direttive l'arrivo d'una copia del Dialogo dei massimi sistemi inviatagli da Galilei che il C. riceve "con grandissimo gusto", deciso a leggerla "con... particolar contento". Le "opere singolari" di Galilei sono in effetti presenti nella biblioteca del C.; ma non risulta egli - quando l'autore cade in disgrazia - pronunci una sola parola in sua difesa. Suona allora retorico il più volte proclamato "desiderio" d'"impiegarmi in occasioni di suo servitio". Il C. è uomo troppo preoccupato di sé per mettere a repentaglio la propria consolidata posizione. Più dei rischi gli piacciono gli omaggi: ed è contento se il letterato palermitano Giovan Battista di Settimo intitola a lui Le glorie delle virtù, un panegirico in ottava rima, ove diventa "padre della luce" e "sole d'accesa virtù" dardeggiante la laguna; e si compiace quando, nel 1641, il marchigiano Pietro Petronio gli indirizza il suo Raccordo sopra le lagune di Venetia, ché l'autore afferma concentrarsi in lui "potere... sapere... volere".

Di nuovo savio del Consiglio, il C. è riformatore allo Studio di Padova quando Fortunio Liceti chiede a lui il rinnovo della cattedra patavina di "filosofia ordinaria" congiunta al "titolo del primo luogo" e ad un congruo aumento di stipendio, quale reputerà giusto la sua "sonuna benignità". Eletto, assieme a Renier Zeno (il quale, al tempo della rappresentanza romana del C., era stato - in quanto inimicissimo dei Comaro - il più rampognante critico del suo operato), il 29 marzo 1637 ambasciatore straordinario al neoimperatore Ferdinando III, il C. s'accinge, col collega, al viaggio il 14 settembre.

Passando per Trento ed Innsbruck, giungono, il 9 ottobre, dopo un "dispendioso camino", intralciato da "nebbie e venti nel Danubio", nei pressi di Vienna, dove entrano solennemente di lì a qualche giorno. "Breve et di solo complimento" la missione chè debbono condolersi con Ferdinando III per la "perdita" del padre e congratularsi per la sua "degna assuntione". Ma, al di là dello scopo ufficiale, essa offre il destro di lamentare la pervicace aggressività dei "segnani" e di protestare per le "gabelle" imposte a Trieste sui "sali" istriani e di presentare, al ritorno, il 18 febbr. 1638, una relazione particolarmente elaborata consistente in un'accurata disamina del trapasso di potere, in un calibrato ritratto dello stato degli affari di Germania in un elenco aggiornato dei "capi et ministri" di cui s'avvale Ferdinando tanto nell'"armi" quanto nei "negotii". Lusinghiero il giudizio su questo: avvenente, valoroso, colto, poliglotta, affabile, scrupoloso. Ma lo soffocano i "travagli di Germania" che cerca d'affrontare rassodando le alleanze, circoscrivendo la schiera dei nemici. Donde l'accurata politica matrimoniale, la remissività con la Porta, lo smussamento della "poca amistà" con l'Inghilterra sì che non degeneri in "aperta rqttura". Non si può dire ami Venezia. D'altronde - poiché l'"interesse" è l'unica "tramontana" dei "prencipi" - essa, con la sua indipendenza, "grandezza", "potenza", con il dominio adriatico impedente il "libero transito et traffico delle mercantie", costituisce un oggettivo ostacolo per l'Impero, un'occasione d'odio invido. Oltre alla "giurisditione... nel mar", altre "male radici" di "torbido", nei rapporti veneto-ìmperiali, sono rappresentate dalle insidie uscocche, dalle controversie confiriarie, dalle "saline et... sali". Ciò non toglie sia possibile incrementare le possibilità d'intesa soprattutto per le buone prospettive di mercato offerte, purché i prezzi diminuiscano, alle "pannine veneziane", di gran lunga migliori - a giudizio dello stesso Ferdinando - dei "panni di Londra". Certo che per un rilancio generale dei traffici - suggeriscono i due relatori- occorre un deciso e sistematico ammodernamento della viabilità, specie nel deteriorato tratto Pontebba-Portogruaro, altrimenti prevarrà la meglio transitabile linea Graz-Trieste. Urgono - insistono Zeno e il C. - strade "ben rottabili" per un proficuo "mutuo commercio"; questo può fiorire solo in una cornice di transitabilità e sicurezza.

Svanita, nel 1638, una ventilata ambasceria straordinaria in Francia, il C: è di nuovo riformatore all'ateneo patavino e savio del Consiglio finché, il 19 maggio 1640, entra in Roma quale ambasciatore straordinario in merito alla "trattatione" della "lega", proposta dal papa, tra la Repubblica e la S. Sede.

Un "difficile e travaglioso negotio", lamenta il C., "lungamente agitato" in mesi d'"infruttuosa fatica". Difensiva ed antispagnola ad un tempo la "lega pacifica d'Italia" - che si costituisce il 29 sett. 1640 composta, oltre che dal papa e dalla Serenissima, dal granduca di Toscana e dal duca di Parma e Piacenza - in realtà è una somma di titubanze e incertezze e reciproche diffidenze, voluta, a dire il vero, più dal pontefice che da Venezia che - specie quando, col cessare dell'assedio di Casale, la tensione s'allenta - annacqua ancor più i suoi già scarsi entusiasmi. Quanto al C., che si ferma, suo malgrado (afflitto da podagra non vede l'ora d'andarsene; spesso a letto anche per emicranie, più volte sollecita licenza di partire), sino all'inizio di luglio del 1641, deve pure occuparsi, ancora una volta, perché dal "breve" relativo al coadiutore d'Aquileia scompaiano le "parole" alludenti alla "smembratione" della diocesi.

Reduce a Venezia, il C. vi è riformatore, ancora, allo Studio di Padova ed inquisitore venendo inoltre insignito, il 26 dic. 1642, della procuratia di S. Marco de citra. Nominato, il 30 maggio 1643, con Giovanni Grimani, ambasciatore straordinario a Luigi XIV per l'usuale espressione di condoglianza e rallegramento - è morto, il 14 maggio, il padre cui egli succede -, il C. parte, assieme al Grimani, il 1° ottobre e raggiunge, passando per Berna e Lione, Parigi dopo quarantacinque giorni di viaggio.

Splendido l'ingresso dei due, scrive il 17 novembre, l'ambasciatore ordinario Girolamo - Giustinian, d'un'inesprimibile "magnifficenza" si che, "parve più tosto la marchia d'un re che la comparsa di due ambasciatori". Una "pomposa" e fastosa missione di rappresentanza, dunque, che si conclude a metà dicembre, cui segue il rientro (faticosissimo per il C. ché la stagione è inclemente e lo torturano gli assalti di gotta), all'inizio dei marzo del 1644, a Venezia. Nella relazione, a firma sua e del Grimani, è schizzato il ritratto del nuovo sovrano d'appenacinque anni, in cui si scorgono "gran semi di virtù". Quanto al "consiglio" che assiste la reggente, è stato sfoltito con arresti e rimozioni sì che il "colmo d'autorità" sta nel Mazzarino, "direttore... e arbitro... degli interessi di Francia". Un risultato, questo del "governo tutto" nelle sue mani che - annotano stupefatti - è avvenuto in tempi rapidissimi: in due soli mesi, coll'aiuto della "fortuna", ha ottenuto più che Richelieu in dieci anni di sagace uso di "mille arti". Né ha concorrenti temibili: il duca d'Orléans è futile e vano; il "gran maestro della casa regia" Condé s'accontenta che Mazzarino non lesini con lui; "favori, onori e benefici" tacitano gli aspiranti al potere, "principi e grandi si acquietano per diversi interessi". Riguardo allo scopo reale della missione - rendere accetta la "lega" promossa da Venezia la cui "giustizia" si contrappone alla proterva e ingorda "ingiustizia" barberiniana -, questo può dirsi ottenuto dal momento che il C. e il Grimani sono riusciti a "far spiccar ordini espressi... di non permettere più né leve, né estrazioni di genti e provisioni da guerra ai Barberini". Anche se il divieto è - per non urtare direttamente Urbano VIII formalmente generale, in realtà il vero danneggiato è il pontefice.

Ancora savio del Consiglio, il 16 nov. 1644 il C. è eletto ambasciatore straordinario presso la S. Sede. Deve esprimere al neopontefice Innocenzo X il "sommo contento" della Repubblica per la sua assunzione e, soprattutto, ringraziarlo per aver "rimesso... al lustro primiero" l'iscrizione d'elogio, alla Repubblica nella sala regia che Urbano VIII aveva fatto, oltraggiosamente, eliminare.

Un ripristino che il C. (buon conoscitore della letteratura sulla venuta a Venezia d'Alessandro III e il relativo riconoscimento del dominio adriatico: è stato in rapporto con F. Olmo, Pautore d'una Historia... dell'episodio; non ignora la confutazione di questa stesa, basandosi su Baronio, dal custode della Vaticana Felice Contelori; una Scrittura... del consultore in iure Gaspare Lonigo, dell'inizio del 1638, sullo stesso argomento è a lui indirizzata) valorizza al massimo: poiché le "parole dell'... inscrittione rimessa... sotto la pittura di papa Alessandro terzo erano state scritte col solo pennarello sopra una semplice tavola" ottiene figurino, invece, indelebili "in una lapide d'un finissimo e bellissimo marmo". È questa la sola nota autenticamente positiva del terzo soggiorno - dalla fine dicembre 1644 a metà ottobre 1645 - a Roma del C.; per il resto riemerge, fastidiosa, la questione della "separatione" del patriarcato d'Aquileia, a proposito della quale il Senato invia al C. consulti di Micanzio, e sorge un attrito riguardo al ripristino del consolato della Serenissima ad Ancona ché il papa pretende venga affidato ad un suo suddito. Ma, soprattutto, predomina dal luglio del 1645 il tema dell'attacco turco a Candia; e, laddove Innocenzo X tende ad addebitarlo al "fomento" dato dalla Francia alla "casa otthomana", il C. s'ingegna per convincerlo ad abbandonare ipotesi interpretative per impegnarsi, invece, in un aiuto immediato. Un compito sempre più logorante poiché la "podagra" l'incalza "molestissima", una "pericolosa flussione di testa" lo strema. E, quando, finalmente, può partire, lo colpisce come una mazzata l'annuncio che un errore di trascrizione contabile del fratello, provveditore in Zecca, viene addebitato alla sua "casa fatta rea senza haver commesso delitto, condannata senza colpa et sententiata a risarcire".

Destinatario di voti nell'elezione dogale che vide prevalere, il 20 genn. 1646, Francesco Molin, ancora savio del Consiglio e riformatore allo Studio di Padova, il C. morì a Venezia il 29 genn. 1653.

Una figura la sua che, pur nell'affermazione politica, conosce un'involuzione ideologica; già vicino a Sarpi, già attento "scolare" di Galilei, al termine di una delle due ambasciate straordinarie a Roma presenta "supplica della benedittione straordinaria per due mille medaglie corone per sé et cinque mille per la sua famiglia al numero di 20 persone in circa con la benedittione a ciascheduno in articulo mortis anco per i parenti dentro il primo grado". Un'incetta che certo a Sarpi non sarebbe piaciuta.

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