COSTA, Angelo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COSTA, Angelo

Cinzia Cassani
Piero Craveri

Nacque a Genova, terzo di sette figli, il 18 apr. 1901 da Federico e Beatrice De Ferrari. La famiglia, originaria dal sec. XVI di Santa Margherita Ligure, era di antiche tradizioni mercantili, tradizionalmente orientate verso la Sardegna.

Alla metà dell'Ottocento, Giacomo (3 ag. 1836-5 apr. 1916) costituì la G. Costa fu Andrea. La società, personale, operava su scala ridotta acquistando e vendendo olio d'oliva e tessuti tra i mercati di Genova e quelli di Sassari, dove i Costa avevano un'agenzia e si avvalevano dell'azione comune di una parte della famiglia lì residente. Nei successivi decenni l'attività della ditta divenne più complessa, verso il 1890 iniziò a commerciare olio verso mercati, quelli americani, che, investiti proprio in quegli anni dal massiccio flusso dell'emigrazione italiana, erano particolarmente ricettivi verso prodotti alimentari nazionali. Nel 1910 la ditta, conservando la medesima ragione sociale, divenne una società in nome collettivo, con un capitale di 600.000 lire versato per due quinti da Giacomo e per il rimanente, in quote eguali, da altri quattro membri della famiglia e, abbandonato il commercio dei tessuti, si dedicò esclusivamente a quello dell'olio. L'attività di esportazione riguardava, sopra tutto, l'olio d'oliva grezzo acquistato nei paesi del bacino del Mediterraneo e rivenduto negli Stati Uniti con il marchio Dante, in Sudamerica con quello Bau.

Le difficoltà poste dalla guerra, con le restrizioni per il commercio con l'estero e per le possibilità di esportazione, misero a repentaglio la rete di affari della ditta, che nel 1918 venne sciolta e posta in liquidazione. I soci - a Giacomo erano intanto subentrati i figli Eugenio, Enrico e Federico - recuperarono i crediti attivi ed investirono il capitale in proprietà immobiliari. La fine della guerra, la liquidazione dei controlli sul rifornimento delle materie prime e la normalizzazione degli scambi commerciali con l'estero segnarono la ripresa delle attività della ditta che, nel 1919, venne ricostituita dai tre figli di Giacomo con 150.000 lire di capitale ed una maggiore chiarezza giuridica delle quote di spettanza. Quelli del dopoguerra furono per la "G. Costa fu Andrea" anni di graduale ma ininterrotto sviluppo; la ditta aveva ancora un carattere esclusivamente commerciale ma, già nel 1921 modifiche apportate allo statuto sociale documentano il progetto d'un aumento di attività: all'acquisto e vendita dell'olio d'oliva si aggiunse, infatti, la raffinazione dello stesso e la fabbricazione dei relativi imballaggi. Nello stesso anno morì Federico e gli succedettero, alla direzione della società, i sei figli maschi.

Il C. aveva allora ventidue anni e con i cinque fratelli ed i tre cugini, figli di Eugenio, rappresenta la terza generazione di una famiglia che, in Genova, ha già salde radici, si identifica e distingue per nome, discendenza, fortuna. Si distingue, soprattutto, per un altissimo senso della famiglia, della sua coesione ed interna solidarietà, che ne fanno una forza dinamica nella produzione ed accumulazione della ricchezza.

"Nessun socio potrà contrarre affari di commercio esterni alla società e speculazioni in borsa né a nome proprio né a nome sociale" ricorda un articolo dello statuto della "G. Costa fu Andrea"; gli uomini della famiglia svolgono attività commerciali in comune dividendo tra loro profitti e perdite e dando vita, così, a quel sistema di collettiva conduzione degli affari della società fondato, oltre che su una reale corrispondenza. di interessi, sulla convinzione che il potenziamento della ditta coincida con l'ampliamento della famiglia, entrambe formando un'entità sociale ed economica tale che una famiglia i cui uomini lavorino bene insieme forma un'unità commerciale ideale. Un'unità che si cementa, inoltre, nei comportamenti, nei valori comuni, nel senso del dovere e del servizio che è legato al possesso della ricchezza, fino a quegli aspetti della vita domestica, l'educazione austera, l'insegnamento profondamente religioso, che modellano i giovani membri della famiglia in modo da renderli adeguati alla continuità di tale sistema.

Il C., al pari dei fratelli e dei cugini, trascorse la giovinezza a Genova in un sereno ambiente familiare, compì gli studi superiori all'istituto Arecco, frequentato dalla buona borghesia genovese, e si iscrisse poi alla scuola superiore di commercio dell'università di Genova dove ebbe per maestro Gino Zappa; nel 1924 si laureò con il massimo dei voti sostenendo una tesi su "L'olivicoltura, l'industria e il commercio dell'olio di oliva".

L'anno successivo ebbe inizio l'apprendistato commerciale presso la ditta: il recupero di alcuni crediti insoluti in Medio Oriente, dove i Costa avevano venduto partite di olio e di altre materie prime, un incarico che doveva fornirgli le basi essenziali della sua preparazione nel campo degli affari: la conoscenza delle merci e degli uomini.

Un anno dopo l'effettivo inserimento del C. nell'attività della ditta venne iniziata la costruzione di uno stabilimento per la raffinazione dell'olio a Sampierdarena. In Italia l'industria della raffinazione aveva avuto inizio, proprio in Liguria, nel primo decennio dei secolo, ma a quell'epoca la "G. Costa fu Andrea" aveva preferito non dirigere le proprie risorse finanziarie nel campo della trasformazione industriale impegnandosi, ancora, a potenziare, sui mercati mediterranei, le relazioni per l'approvvigionamento della materia prima e, su quelli americani, le possibilità di sbocco commerciale. Nel 1925, la maggiore solidità della ditta ed esigenze commerciali orientate, per il progredire del gusto dei consumatori, verso la standardizzazione di tipi d'olio dal gusto ben definito e costante, indussero i Costa ad impegnarsi nell'industria della raffinazione. Lo stabilimento di Sampierdarena venne ultimato nel 1926, e, due anni più tardi, completato con una fabbrica di contenitori di latta per il trasporto dell'olio. Con la sua entrata in funzione i Costa, grazie alla migliore qualità dell'olio, iniziarono a produrne in quantità anche per il mercato italiano ed estesero il commercio internazionale verso l'Australia che rimarrà, però, un mercato sempre secondario al confronto di quelli americani. A questo stesso periodo risale la prima sortita dei Costa in una nuova sfera di attività che in breve avrebbe assunto proporzioni rilevanti: quella armatoriale. L'inizio fu più che modesto e direttamente collegato al traffico oleario: per evitare di pagare alte tariffe di nolo per il trasporto della materia prima ed attuare un giro d'affari il più rapido possibile nel 1924 acquistarono il "Ravenna", un piroscafo di 1.148 tonnellate varato trentacinque anni prima, che fino al 1933, anno della sua vendita, solcherà il Mediterraneo per raggiungere quei centri dell'Asia Minore, Grecia, Tunisia dove il raccolto è stato abbondante e i prezzi sono più convenienti e, caricato l'olio in fusti, trasportarlo a Sampierdarena. Al "Ravenna" nel 1928 si affiancò il "Langano" per il trasporto di merci anche per conto di terzi, e, nel 1931, il "Federico". Quelli fino al 1930 furono anni di piena fioritura per la ditta, che divenne la maggiore azienda dei settore. Le risorse finanziarie necessarie a tale incremento ed estensione delle attività provenivano pressoché interamente da mezzi propri e da capitale privato, un'autosufficienza finanziaria che sarà sempre orgogliosamente rammentata dai Costa. Ma, già negli anni immediatamente successivi al 1930, l'aggravarsi della crisi internazionale ed il conseguente crollo degli scambi commerciali indussero i Costa ad una complessa operazione di riconversione e diversificazione degli interessi della ditta. Sempre più numerosi infatti furono i paesi che adottarono misure tariffarie e monetarie restrittive e, in particolare, si inaridì il principale mercato di sbocco dei loro prodotti: quei paesi del Sudamerica che, resi praticamente insolvibili dal crollo delle loro ragioni di scambio, furono costretti ad adottare dure politiche di freno alle importazioni. In Italia, poi, le difficoltà della bilancia dei pagamenti indussero il governo a limitare le possibilità di importazione sottoponendole ad una crescente regolamentazione amministrativa e ad un aumento dei livelli di protezione tariffaria. I prodotti agricoli ed alimentari furono i primi ad essere colpiti, già nel 1931 i dazi sui prodotti non cereali passarono dal 21,28% del 1927 al 57,6-74,3%. In tale congiuntura, non era difficile per i Costa prevedere un rapido esaurimento della loro principale fonte di attività e profitto, più complesso realizzare il trasferimento dei capitali investiti nel commercio internazionale dell'olio in altre iniziative. La possibilità di attuare rapidi spostamenti di capitale da un impiego all'altro, nel loro caso, era facilitata dalle dimensioni ancor medie della ditta, che consentivano una maggiore mobilità e flessibilità negli investimenti, mentre la libertà di effettuare tali spostamenti dipendeva dalla capacità di diversificare gli interessi e dalla solidità di una dirigenza fortemente accentrata. I Costa potevano essere definiti un tipo di imprenditori prudenti che avevano sempre evitato di lanciarsi in iniziative in cui si giocasse il tutto per tutto, di delimitare troppo rigidamente le loro attività, di ricorrere al credito tanto da non poter disporre di fondi da ritenere propri o ad un eccessivo immobilizzo di questi ultimi, cose tutte che esponevano, nel caso di un'improvvisa chiusura del mercato, al rischio di perdere ogni reddito e, soprattutto, ogni potere in fatto di controllo decisionale dell'azienda.

Nel 1932 i Costa avviarono a Taranto la costruzione di un grande stabilimento per la raffinazione e l'estrazione dell'olio di oliva dalle sanse, che lavorerà con materie prime nazionali e, ancora, nel 1935, sempre in Puglia, a Bitonto, ne acquistarono un secondo adibito anch'esso allo stesso tipo di lavorazione. L'anno successivo iniziarono l'attività armatoriale vera e propria, su rotte transoceaniche, completamente indipendente dal commercio dell'olio. La ditta acquistò due navi di grosso tonnellaggio per il trasporto di carichi secchi ed altre tre furono comprate nel 1935. Per i mezzi finanziari necessari a tali operazioni, per la prima volta, i Costa ricorsero al credito bancario; è il momento della massima depressione per il settore armatoriale, l'Italia ha in disarmo il 25,4% della flotta e il C., ricordando l'immediato favorevole andamento della nuova attività, lo attribuirà proprio all'accortezza di quegli acquisti effettuati a prezzi molto bassi.

Nel 1939, intanto, cessò quasi completamente la già ridottissima attività d'esportazione e, l'anno successivo, l'introduzione dell'ammasso dell'olio d'oliva ridimensionò le possibilità di commercio dell'olio anche per il mercato nazionale; l'olio ammassato, infatti, fu distribuito con criteri tali che il quantitativo assegnato alla ditta non raggiunse neppure la terza parte dell'olio da questa normalmente acquistato sul libero mercato. Così, nel 1941, allo statuto sociale della "G. Costa fu Andrea" si aggiunse l'acquisto e l'amministrazione dei beni immobili, la distillazione di vinacce, vino e frutti, la produzione e compravendita di mangimi, la litografia, la lavorazione della latta e l'estrazione dell'olio di semi oleosi e, nei quattro anni successivi, sempre ricorrendo al finanziamento bancario, i Costa acquistarono a Manduria, Lecce, Gallipoli, Copertino piccoli stabilimenti per la produzione di alcool da vino e vinaccia anche in considerazione del fatto che i vinaccioli potevano essere impiegati per estrarre olio a scopo industriale. L'anno precedente poi avevano rilevato in Piemonte, a Valfenera, Monesilio, Cuneo, approfittando del grave dissesto della Banca cooperativa di Novara che ne era proprietaria, un gruppo di piccoli stabilimenti per la trattura della seta e, per il loro esercizio, nel marzo dello stesso anno si era costituita la Filanda Costa, società a nome collettivo con capitale di 200.000 lire ripartito in quote uguali tra gli otto soci per l'acquisto, la costruzione, l'esercizio di stabilimenti per la lavorazione della seta ed il commercio inerente ed in genere la proprietà e l'esercizio di stabilimenti industriali ed agricoli di ogni ramo e le operazioni commerciali inerenti.

Nel 1942 con l'officina Verrina di Voltri, che produceva macchine utensili, i Costa ampliarono i loro interessi anche nel settore meccanico, mentre la Filanda Costa incorporò la Società immobiliare Filanda di Roncello e l'anno successivo divenne Filanda e tessiture Costa e, prendendo in affitto tre stabilimenti, estese la sua attività anche alla tessitura. Alla presidenza della nuova società fu il C., ma è probabile - e così vuole la tradizione della famiglia - che in questi anni dedicasse particolare attenzione al settore armatoriale che all'inizio della seconda guerra mondiale consisteva di una flotta di otto navi per complessive 27.534 tonnellate di stazza; a queste si aggiunse, nel 1942, varata a Riva Trigoso, la "Caterina C. " di 8.000 tonnellate, la prima nave costruita su ordinazione.

La guerra, come dieci anni prima la politica economica del fascismo aveva fatto con il commercio dell'olio, distrusse quasi interamente questo secondo grande ramo di attività della storia della ditta; la quasi totalità della flotta fu affondata dalle forze nemiche, salvo la "Langano", la più piccola e più vecchia. In questa congiuntura la cautela che, tradizionalmente, ha contrassegnato tutta l'attività dei Costa imprenditori e uomini d'affari si accentuò; negli anni che immediatamente precedettero il conflitto e fino al suo termine sembrò infatti trattarsi, per i Costa, più di conservare la ricchezza acquisita che produrne di nuova.Gli scritti del C. tra il 1942 e il 1945 (non se ne conoscono di anteriori) aiutano a ricostruire una visione coerente di ordine sociale ed economico, come risultato di questi diversi motivi della sua formazione religiosa, intellettuale e professionale. Sono già squillanti le note del suo acceso liberismo. Per il C., come per tutta la classe dirigente della ricostruzione degasperiana, il legame culturale ed ideale con l'Italia prefascista è stato sempre sottolineato come un luogo comune. Che le radici siano quelle non vi è dubbio, ma l'oggetto di riflessione storica e politica, almeno per il C., appare costituito in modo primario dallo sviluppo economico e sociale durante il periodo fascista.

Il C. non indulge in puntualizzazioni dottrinarie, ma sembra cogliere subito con lucidità quello che è oggi un giudizio storiografico corrente, l'emergere cioè sotto le bardature corporative, tra il 1932 e il 1942, di un sistema di "economia controllata", che aveva fatto sentire i suoi effetti negativi "già prima della guerra" (Scritti, I, p. 82), e che non era se non in apparenza un sistema "dirigistico", in pratica di prevaricazione politico-amministrativa dei gruppi di pressione più forti. Consorzi, impianti (si veda in proposito una lettera ad Einaudi del 1942), ammassi, prezzi sono infatti i termini della sua analisi concreta. E in queste polemiche già è presente quella considerazione del ruolo delle piccole e medie imprese, elemento primario di una economia come quella italiana, donde la considerazione "che il diritto di nascere è ancora più forte di quello di vivere e questo sento di poterlo dire, tanto più che sono un industriale già nato" (ibid., p. 31).

Emerge così da questi scritti un "liberismo pratico", in cui è continuamente presente la trama dei rapporti istituzionali, amministrativi, sociali e politici che fanno da ordito storico all'iniziativa economica, quella consapevolezza della "complementarietà dei fenomeni economici", che non si propone come un assunto teorico, ma come il risultato di un'esperienza, appunto, pratica. Furono certamente queste le convinte premesse di una "restaurazione antifascista liberista". Esse portano già con sé i germi degli esiti contraddittori degli anni '50, in quel non aver valutato fino in fondo che il problema del mercato difficilmente poteva essere disgiunto da un difficile rapporto di contiguità con gli elementi strutturali di un'economia mista e che proprio sotto questo aspetto il nucleo portante dell'eredità fascista difficilmente poteva essere liquidato. Ma furono anche le linee direttrici del primo quinquennio della "ricostruzione" e si svolsero all'insegna di una notevole coerenza di impostazione culturale e politica. Questa coerenza, che è naturale cogliere in quegli anni nell'opera dei grandi liberisti, incominciando da Luigi Einaudi, nel C. fu il risultato di un'esperienza e di una riflessione abbastanza personale, quella di un imprenditore senza posizioni di monopolio, la cui cerchia di attività non si chiudeva nel mercato interno, legato ad un'antica tradizione mercantile, che attraverso l'esperienza e gli studi aveva acquisito una nozione liberale del rapporto tra lo Stato e la società, pur rimanendo profondamente legato alla sua formazione cattolica.

Il liberismo di un siffatto imprenditore cattolico, assai determinato nelle sue convinzioni, e una buona cartina di tornasole per veder sciolte quelle ambiguità ideologiche con cui la dottrina sociale cattolica avvolgeva i temi della politica economica e sociale. Il C. era convinto della coincidenza possibile del liberismo con la socialità cattolica, ma anche preoccupato della possibilità di altre coincidenze. Le sue carte testimoniano un interesse costante, lungo tutto l'arco della sua vita, per il dibattito interno del mondo cattolico su questi problemi.

Le prime polemiche sono con padre Brucculeri. Anche qui il C. non indulge nella polemica anticorporativa, per porre subito l'alternativa, che l'editorialista della Civiltà cattolica, con ambiguità solo dottrinale, lasciava in ombra, tra economia di mercato e controllata. Il cattolicesimo del C. è sotto questo aspetto ancora un cattolicesimo liberale, di netta distinzione tra morale ed economico, tra fini e mezzi, come se le riflessioni sull'esperienza fascista, spazzando via da un lato i "distinguo" dottrinali, chiarificassero dall'altro i materiali concettuali della socialità cattolica.

Sono motivi che ritornano in un dialogo a distanza sulla formazione del programma economico-sociale del costituendo movimento politico dei cattolici, di cui sono significative le polemiche con Enrico Falck e con Pasquale Saraceno. Non v'è alcun dubbio che, rispetto ad ambedue, il C. si riveli buon seguace di Luigi Einaudi, col primo, per la critica puntuale su temi come la "giusta retribuzione", ricondotta ad un concetto rigorosamente neoclassico di salario, rispetto a cui il problema morale si pone sempre come un posterius, la partecipazione operaia attraverso l'azionariato popolare, inteso come quota differita di salario, la previdenza distinta dall'assistenza, i programmi di case popolari, connessi alla formazione del risparmio e al sistema di possibili incentivazioni fiscali e creditizie, mentre con il secondo, c'è già in nuce la polemica sulla natura ritenuta abnorme dell'impresa a partecipazione statale, rispetto alla perfettibile dinamica di un'economia di mercato.

Questi primi scritti testimoniano come il C. divenisse in quegli anni un interlocutore discreto ed intelligente del dibattito politico che seguiva la caduta del fascismo, affacciandosi fuori della cerchia domestica e cittadina. Né lui né alcuno della famiglia, si era compromesso con il fascismo (Mattei, I, introduzione a Scritti e discorsi, 1978, pp. 15 s.; Rossi, 1966, p. 288). Era stato presidente dal 1940 del Sindacato armatori navi da carico del Tirreno e dopo la Liberazione nominato presidente della nuova Associazione armatori. Ciò gli aveva dato l'occasione di primi contatti con le autorità alleate, mentre cominciava ad essere conosciuto, negli ambienti politici cattolici e in quelli industriali, per la sua indipendenza di giudizio.

La Confindustria dal 1943 era retta da una gestione commissariale e avviandosi alla prima assemblea costituente, la scelta del presidente rappresentava un problema, di immagine e di relazioni con la nuova classe politica, non secondario. Nei mesi che seguirono la Liberazione molti grandi nomi dell'industria dei Nord avevano lasciato la guida delle loro attività industriali. Occorreva un uomo "nuovo" e il C. rispondeva perfettamente all'identikit richiesto. Aveva inoltre attivamente collaborato alla preparazione del nuovo statuto confederale e, sebbene il suo nome non compaia tra i firmatari dell'accordo, aveva avuto un ruolo non secondario nella stipula dell'accordo che introduceva la scala mobile: il 10 dic. 1945 la prima assemblea nazionale dei delegati della Confindustria lo nominava presidente affiancandogli una giunta molto rappresentativa, composta da Valletta, Gaslini, Pirelli, Falck, Manuelli, Marzotto, Rocco Piaggio, Faina, Pesenti, De Micheli, De Biasi, Cosulich.

L'incerto clima sociale e politico del paese faceva ritrovare al ceto imprenditoriale, proprio nella confederazione, un riferimento sicuro di immagine e di iniziativa politica e sociale, che altrimenti sarebbe stato difficile, in quella situazione, conseguire. Ciò rendeva possibile ed anche necessaria una gestione autorevole ed accentrata della confederazione, che tuttavia non era facile perseguire, per la diversa composizione e struttura delle imprese italiane e per la loro tradizionale tendenza a stabilire singoli rapporti privilegiati con il potere politico e la pubblica amministrazione e spesso a risolvere autonomamente, in un modo o nell'altro, i conflitti di lavoro.

Ma nei primi anni del dopoguerra, per le ragioni cui si è accennato, il clima fu favorevole ad una gestione "unitaria" della Confindustria di cui il C. seppe essere l'interprete, anzi rigido tutore, spesso assai oltre l'intenzione dei suoi associati. Questo suo ruolo lo si può cogliere in tre aspetti fondamentali della vita confederale: nello statuto, nella gestione centralizzata della politica sindacale, dei rapporti con il governo e con i partiti, e, infine, nell'assidua e pervicace attività di diffusione dei principi liberisti, una vera e propria "propaganda liberista", condotta in tutte le sedi, incominciando da quella associativa, che è un segno anche della consapevolezza che il C. aveva della incompiutezza culturale e civile del ceto imprenditoriale nel suo complesso e della necessità di dare ad esso nuove chiavi generali di lettura della situazione economica e sociale, dopo un ventennio di propaganda fascista; opera che restò poi, anche quando riemersero vecchie e nuove divaricazioni di interessi tra il ceto imprenditoriale, la cornice ideale entro cui continuò a muoversi la Confindustria.

L'elaborazione dello statuto fu oggetto di acceso dibattito fino alla sua approvazione nell'assemblea del maggio 1946. Si trattava di ritornare, dopo il periodo fascista, ad uno schema confederale basato sull'adesione delle associazioni territoriali e di categoria, invece che dei singoli industriali, il che comportava difficili dosaggi di poteri e di distribuzione di ruoli tra i vari livelli associativi che insieme garantisse la più vasta adesione possibile di imprese all'organizzazione confederale. La scelta fu volta a consolidare due ordini di strutture: l'associazione territoriale mista e l'associazione nazionale di categoria; la prima a dimensione provinciale, carattere intercategoriale e funzione schiettamente di rappresentanza sindacale; la seconda, a carattere verticale, con competenze prevalentemente tecno-economiche. La confederazione si riservava interamente la direzione della politica sindacale, "dando le direttive e le autorizzazioni alle singole associazioni aderenti", che ne restavano strettamente vincolate. Si organizzava poi in tre settori, economico, sindacale e pubblico esterno (rappresentanza nei confronti di qualsiasi autorità). Altra questione rilevante era ancora quella di bilanciare il peso tra piccola e grande industria, assicurando alla prima una rappresentatività adeguata, il che fu risolto con un rapporto scalare tra quote contributive e diritto di voto.

A differenza dello statuto prefascista, che prevedeva il diritto di veto nel caso di stipulazione di accordi pregiudizievoli agli interessi generali dell'industria, quello del 1946 non prevedeva che un obbligo generico di uniformità, senza sanzioni. La struttura organizzativa e il conseguente potere di indirizzo politico erano tuttavia saldamente accentrati nelle mani degli organi direttivi, lasciando ampio spazio all'iniziativa del presidente. Quello che contava era la prassi associativa che vi si sarebbe istaurata e i criteri organizzativi che vi sarebbero stati introdotti.

Il C., che nel primo anno di presidenza aveva tirato le fila dei dibattito statutario, fu poi sempre attento a questo secondo aspetto, poco convinto, quando la questione venne sollevata in tempi diversi, che il problema fosse quello di una riforma dello statuto, in particolare di rivedere i criteri di rappresentatività e di controllo da parte degli associati.

Sono motivi che si colgono in una lettera del gennaio 1951 all'ingegnere V. De Biasi, che sosteneva a nome dell'Assolombarda la necessità di introdurre nuovi organi di partecipazione alle decisioni. La mia impressione - osserva il C. - era ed è tuttora che, non in tutti ma in alcuni dei proponenti, la commissione doveva essere un mezzo per togliere validità alla Confederazione" (Scritti, II, p. 464). Tema che si ripropone vent'anni dopo, nel 1979, quando i giovani industriali si fecero tramite di nuove proposte organizzative, rispetto a cui il C. ribadiva di non poter o accettare che si parli di democratizzazione delle strutture della Confederazione. Per essere troppo democratica nella struttura la Confederazione ha, forse, sacrificato qualcosa nell'efficienza: nel 1945 non si poteva fare differentemente; oggi ritengo sia bene mantenere la struttura democratica attuale, sia pure eventualmente rettificata, (ibid., VII, p. 111).In effetti quella del C. fu una lunga e costante battaglia per il primato dell'organizzazione confederale, il tentativo di tenere saldamente in pugno le fila dei rapporti con il sindacato, i partiti e il governo, che gli riuscì nel primo quinquennio della ricostruzione, per cedere poi lentamente la mano al volgere dei tempi e all'inclinazione degli uomini e delle cose. Tra la fine del 1945 e i primi mesi dell'anno seguente, con il ritorno degli imprenditori alla guida delle aziende, finiva la vacanza di poteri nell'industria ed incominciava la questione sindacale. Delle speranze ed illusioni rivoluzionarie che il "vento del nord" aveva portato con sé restavano alcuni strascichi, tra cui la questione dei consigli di gestione, che si trascinò fino all'anno 1947, riguardo alla quale la posizione della Confindustria, come emerge dalle prese di posizione del C., fu fermissima nel respingere qualsiasi soluzione che mettesse in discussione le prerogative e i poteri dell'imprenditore (Craveri, pp. 109 s.). Ma questa carica politica senza sbocchi acuiva la tensione sociale sulle due questioni cardinali d'ogni confronto sindacale in periodi di vasta riconversione industriale: la questione salariale e quella dei licenziamenti.

C'erano inoltre fattori peculiari di instabilità, incominciando dal carattere costituente che l'azione sindacale rappresentava per la nuova organizzazione unitaria, la C.G.I.L., ricostituita all'indomani della liberazione di Roma su basi politiche e non sindacali.

Questo particolare aspetto di fragilità della costituente democrazia, rendeva assai rigido il modello iniziale di relazioni industriali che era necessario rendere operante. L'identificazione politica tra il cartello dei partiti del C.L.N. e il governo da un lato "e il sindacato dall'altro implicava naturalmente una trattativa tra le parti sociali, che chiamava continuamente in causa la mediazione del governo e attraverso esso i partiti.

Lo sforzo costante del C. si rivolse in due direzioni, la cui sincronia non si presentava facile: da un lato mantenere saldamente accentrato il negoziato e condurlo su linee di forza oggettive, dall'altro tenere il più lontano possibile la mediazione del governo. Sul primo punto c'era una coincidenza di strategia con la C.G.I.L. unitaria, dovuta a premesse politico- ideologiche, ma anche alla necessità di consolidamento della struttura confederale e di controllo politico delle vertenze. Spinte periferiche tuttavia non mancarono sull'uno e sull'altro fronte (Peschiera, 1976, pp. 257 ss.; Bini, 1979, p. 451), ma il problema più difficile fu il secondo, quello di spezzare il circuito sindacato-partiti-governo. Quella del C. fu una strategia in due tempi: salario e licenziamenti. Prima trattare uno schema nuovo di struttura salariale, facendo forza sul tema dei licenziamenti (non a caso dal 1945 al 1947 abbiamo un'alternanza di blocchi dei licenziamenti e di tregue salariali), poi affrontare di petto quest'ultimo. La prima fu una fase tutta sindacale, la seconda fu quella politica, del "quarto partito", come De Gasperi ebbe allora a definire la Confindustria.

La "libertà sindacale", con il suo necessario corollario contrattuale, fu accolta senza riserve dalla Confindustria del C.: era il punto di rottura effettivo con la prassi corporativa e introduceva un elemento reale di autonomia nel confronto tra le parti sociali, un piano parallelo di rapporti di forza, distinto da quello politico e ciò in coerenza con i principi "liberisti". Ma non potendo far perno sulla mediazione governativa si rendeva necessaria, specie in materia salariale, una meditata strategia sui contenuti e non solamente sulle procedure del contenzioso vertenziale.

"L'industria è dinamica - osservava il C. -, non è statica e per prosperare ha bisogno di continuo sviluppo. L'incremento naturale della popolazione è troppo lento per assicurare questo necessario sviluppo che è conseguibile soltanto attraverso l'aumento del tenore di vita delle nostre masse lavoratrici" (Notiziario confindustriale, 1945, n. 15, p. 7). Il C. non respingeva dunque la prospettiva di una economia "di alti salari". Egli la collocava però in una prospettiva di lungo termine, riconducendola alla più generale teoria della distribuzione basata sulla produttività marginale. La crescita salariale era così conseguenza dello sviluppo economico, mai una sua possibile causa, ed ogni intervento volto ad elevare i salari sopra il loro livello teorico aveva ripercussioni immediate sul saggio di occupazione e di investimento.

Questo schema concettuale era funzionale a due esigenze tra loro strettamente connesse, d'ordine pratico, quella di evitare interferenze politiche nella contrattazione salariale e quella di vincolare la dinamica del sistema contrattuale ai postulati del modello teorico, elemento quest'ultimo connaturato anche alla cultura economica e politica del sindacalismo italiano, almeno fino alla seconda metà degli anni '50, e all'inerziale convinzione liberista sottostante alle concezioni ideologiche, sia dei socialcomunisti sia dei cattolici. Il problema era dunque quello di rendere operante questo schema teorico e pratico, in quella fase economica del dopoguerra, caratterizzata da un alto saggio di inflazione. Poiché l'impostazione marginalista faceva perno sulla dinamica reale della distribuzione del reddito, la regolazione degli incrementi nominali di salario era in principio del tutto conciliabile con le premesse, anzi ne poteva facilitare l'innesto, a condizione di predisporre una regolazione normativa che garantisse l'ordinata sincronia tra crescita dei prezzi e dei salari e non fosse di intralcio ad una eventuale manovra deflattiva e di stabilizzazione monetaria.

L'intelligenza politica del C. consistette, a questo riguardo, nel non chiudersi in una posizione di resistenza passiva. Bisognava tra l'altro evitare che avesse seguito il precedente inaugurato col decreto luogotenenziale del nov. 1944, che introduceva l'indennità di carovita. Ad esso erano già seguiti accordi tra le parti che configuravano una pioggia di indennità straordinarie, dettate da continue spinte contingenti, che rischiavano di far perdere il controllo normativo della dinamica salariale.

È in questo quadro, di reciproche necessità di regolarizzazione della dinamica salariale, che maturarono le trattative per l'accordo sulla perequazione salariale nell'alta Italia, siglato poi il 6 dic. 1945. Il C. non partecipò direttamente alla trattativa, ma ne fu un po' il regista, tanto da potersi poi personalmente attribuire la paternità del principale contenuto dell'accordo, il meccanismo di scala mobile (Craveri, p. 210).

La nuova indennità di contingenza riassorbiva tutte le precedenti di carovita e introduceva un automatismo salariale, che sarebbe diventato un elemento fondamentale della struttura salariale, aggiungendosi alla paga base come secondo elemento. L'accordo seguente del maggio 1946, che estendeva la contingenza al Centrosud, introduceva inoltre un terzo elemento (eccedenze di retribuzione risultanti da accordi collettivi tra associazioni o aziende e le commissioni interne). La struttura salariale, così definita nei suoi elementi essenziali, determinava anche la dinamica salariale attraverso le clausole obbligatorie dell'accordo del 1945, che vincolavano qualsiasi futura contrattazione al controllo delle rispettive organizzazioni centrali.

Si gettavano così le basi di una lunga stagione di contrattazione salariale, che durò quasi un quindicennio e che ebbe il suo principale elemento dinamico proprio nell'indennità di contingenza, anzi pressoché l'unico nel primo quinquennio, accanto a cui, poi, dai primi anni '50, andarono lentamente sviluppandosi le incentivazioni individuali e collettive del rendimento del lavoro, che la lotta al cottimo, diffusa nelle rivendicazioni dei primi anni, al di là delle stesse direttive sindacali, non aveva reso praticabile. Un altro elemento caratteristico della struttura sia salariale sia contrattuale, introdotto dagli accordi del 1945 e del 1946 sulla contingenza, furono le così dette gabbie salariali, la rigida distinzione cioè per gruppi merceologici e per zone territoriali dei minimi di paga, che rispondeva ad una visione compartimentata e statica del mercato del lavoro, quale aveva presieduto la contrattazione corporativa e che veniva a costituire un altro solido argine alla dinamica rivendicativa.

Concludono la manovra salariale del primo anno di presidenza del C. sia l'accordo del dicembre 1945, che estese la gratifica natalizia (tredicesima) agli operai, sia quello del marzo 1946, per gli impiegati e gli appartenenti alle categorie speciali, che introdusse gli scatti di anzianità. Da tutto ciò emerge un disegno coerente in tutte le sue implicazioni che aveva il pregio di evitare una incontrollabile crescita salariale incanalandola entro solidi argini normativi.

Fu così possibile alla Confindustria del C. di affrontare la difficile estate del 1946, caratterizzata da una recrudescenza delle spinte conflittuali e da interventi politici nella materia salariale, come il "premio della Repubblica". Dinnanzi a questa duplice pressione il C. poneva con maggiore durezza il problema dei licenziamenti, che la riconversione produttiva rendeva necessari, con l'effetto, in un primo tempo, di frenare la spinta salariale. Ne nacquero infatti i due successivi accordi di tregua salariale dell'ottobre 1946 e del maggio 1947.

Ma se il C. aveva potuto affrontare la questione salariale, tenendosi il più possibile al riparo da interferenze politiche, quella dei licenziamenti, per l'impatto sociale ancora maggiore che comportava, richiedeva una piena copertura politica. Nasce qui la leggenda del "quarto partito" e dell'asse privilegiato De Gasperi-Costa. In realtà, come mostra il carteggio, tra i due esisteva un rapporto di grande reciproca stima ed influenza, ma nessun legame consolare, anzi, specie con gli anni '50, le divergenze non vennero a mancare. Ma nell'inverno del 1947, fino a dopo il 18 apr. 1948, si determinò invece una vitale coincidenza di punti di vista tra l'azione politica dell'uno e la gestione degli interessi industriali dell'altro.

Se si confronta il documento di politica economica preparato dal C. per le autorità monetarie e di governo, nel settembre 1946, all'indomani delle dimissioni di Corbino, e quello del marzo 1947, il cosiddetto "memoriale" Costa, inviato a De Gasperi, le direttive sono le stesse, ma l'urgenza dell'intervento politico è assai più accentuata nel secondo. Le ricostruzioni storiche del periodo mettono prevalentemente l'accento sulla contrapposizione di linee e sui rapporti di forza all'interno della coalizione di governo. Sappiamo poco invece sul triangolo che si stabilì tra la Confindustria, la Banca d'Italia e De Gasperi. Il C. vi giocò certamente il ruolo di garante convinto della ripresa produttiva, alle condizioni della svolta liberista. Le sue dichiarazioni di quel periodo sono sostanzialmente connotate da un ottimismo condizionato, ma di fondo. "Preciso anzitutto - aveva dichiarato alla Commissione economica del ministero della Costituente -che io confido che la ricostruzione non richiederà né 5 né 8 anni, ma soltanto 1 o 2 anni" (Scritti, I, pp. 177 s.).

Il viaggio negli Stati Uniti del C., che seguì quello di De Gasperi, entra in questo quadro. "La conclusione a cui sono venuto - egli notava al ritorno in una riunione di giunta della Confindustria - è questa, che per aver credito in America è cosa che dipende più da noi, che, da loro" (Arch. d. Confindustria). L'amministrazione statunitense stava esaurendo i suoi programmi di aiuto postbellico e ancora non si affacciava l'ipotesi del piano Marshall. Il C. aveva tuttavia colto una potenziale disponibilità finanziaria verso gli operatori italiani. Coglieva inoltre che il nuovo quadro internazionale avrebbe garantito un progressivo ampliamento degli scambi internazionali, con una stabilità, sia di rapporti politici sia monetari, certo assai diversa dal periodo prebellico. La strada era aperta, occorreva solo costruire alcuni presupposti politici per percorrerla. Il memorandum a De Gasperi poneva al centro dell'azione di politica economica del governo la stabilizzazione della lira, la riduzione del disavanzo pubblico e la connessa manovra creditizia, il mantenimento della tregua salariale, la liberalizzazione dei prezzi vincolati e, per il commercio estero, la sostituzione ai vincoli monetari sugli esportatori, del controllo sugli impieghi, come si appresterà a fare Merzagora al ministero del Commercio con l'Estero. Sono in esso presenti tutti gli elementi della svolta del giugno 1947: l'unione di intenti con Einaudi e De Gasperi era completa.

Il C. non esitò a far tutti gli sforzi possibili per appoggiare la svolta politica di De Gasperi, adoperando le leve di potere a sua disposizione (finanziamenti, stampa, ecc.). Condusse, ad es., in prima persona, servendosi di Achille Lauro, l'allineamento del gruppo parlamentare qualunquista al quarto governo De Gasperi (Setta, pp. 259 ss.). Nel luglio 1947, costituita la nuova maggioranza, la strada era spianata.

La stretta creditizia rendeva improrogabile una nuova disciplina dei licenziamenti. L'accordo del 7 ag. 1947 sulle commissioni interne modificava l'orientamento dei precedenti accordi, basati su procedure di contingentamento dei licenziamenti e distingueva per la prima volta i licenziamenti per riduzione del personale da quelli individuali, operandone così di fatto uno sblocco generale. Il nuovo ministro del Lavoro, Amintore Fanfani, assecondava questo processo, non sostenendo i ricorsi al governo del sindacato e varando, con una serie di decreti legislativi, un ampliamento di funzioni della Cassa integrazione guadagni ed altri provvedimenti, al fine di rendere più scorrevoli le procedure di licenziamento collettivo (Craveri, p. 221; Peschiera, p. 262).

Lo sfrangiamento delle vertenze azienda per azienda, senza sostegno da parte delle autorità pubbliche rendeva sempre più debole la posizione sindacale, né era possibile, a pochi mesi dalle elezioni del '48, la ripresa di un'offensiva basata su scioperi generali, cosicché la stabilizzazione sociale poteva dirsi compiuta già prima di quella scadenza.

La normalità verso la quale la situazione politica e sociale si andava avviando mutava l'ordine dei problemi e degli interventi dell'iniziativa confindustriale. Ne abbiamo un primo segnale già nell'ottobre del 1947, da un promemoria che il C. redasse a seguito d'una riunione presso la Banca d'Italia con De Gasperi e i ministri finanziari, in cui si erano valutate le conseguenze della stretta creditizia e la tenuta del cambio della lira. Non c'era del resto questione di governo attinente agli interessi degli industriali che il C. non seguisse nel dettaglio e con anticipo rispetto ai tempi di approvazione ed esecuzione del provvedimento. Qui il mito del "quarto" partito incomincia a stemperarsi. Il rapporto del C. e della sua organizzazione con la nuova maggioranza di governo, e in particolare con la D.C., era certo di carattere privilegiato, ma assai meno osmotico, e col tempo doveva divenirlo sempre di meno, di quello che comunemente si afferma.

Ancora tutto da indagare è il rapporto tra classe politica di governo e burocrazia statale, che pure molti considerano un fattore decisivo nella costruzione del nuovo sistema di potere. Fu certamente quello della burocrazia un punto vitale di influenza dell'organizzazione imprenditoriale e di incrocio del rapporto con lo stesso ceto politico. Ci sono analisi, anche concettualmente elaborate, intese a definire la Confindustria come "gruppo di interesse" agente nei riguardi della pubblica amministrazione attraverso un "rapporto di clientela" sulla base di un "accesso strutturato" (La Palombara, 1966, p. 251). La parte analitica di questo genere di schematizzazione sociologica aiuta a chiarire i contenuti e la capillarità della pressione confindustriale sui gangli ritenuti vitali della pubblica amministrazione. Quanto all'estensione ne abbiamo una conferma indiretta nel progressivo ampliamento della struttura stessa dell'organizzazione confindustriale; nella già citata lettera a Di Biasi, del genn. 1951, il C. poteva affermare che "se noi misurassimo in cifra ed uguale a 100 la differenza tra la politica economica seguita dal governo ed una politica che noi consideriamo perfetta, vediamo che almeno il 90 è rappresentato da problemi per i quali si e prospettato al governo la giusta soluzione" (Scritti, II, p. 462).

Qualche anno dopo, in un confronto diretto con Ernesto Rossi, poteva rivolgere all'autore dei Padroni del vapore questo interrogativo, senza riceverne una risposta puntuale: "risalendo dal 1946, quali leggi sono state fatte e quali sono state applicate, per l'azione o la pressione degli industriali? " (ibid., IV, p. 50).Dal punto di vista del C. la contraddizione tra questi due diversi ordini di considerazioni è solo apparente. Egli poteva vantare un'impostazione coerente della organizzazione confindustriale, impegnata su tutto l'insieme dei problemi di politica economica ed industriale e, in quest'ottica, di volta in volta su ciascun singolo problema o provvedimento, ma mai in modo slegato ed intermittente su questo piuttosto che su quello. Non era una distinzione solo formale, ma significava dare un orientamento ed una giustificazione generale al comportamento di gruppo di pressione della Confindustria, che aveva risvolti politici e pratici rilevanti, innanzitutto sul piano organizzativo, perché comportava un tentativo di non discriminare tra questo o quell'interesse industriale, talora in conflitto (sempre nel dibattito con Rossi, il C. poteva rivendicare "che i grandi industriali hanno avuto il loro peso come l'hanno avuto i piccoli e che nessuno ha mai avuto, con l'attuale presidenza, un peso preponderante": ibid., p. 47), in secondo luogo che i rapporti con le forze politiche e i pubblici poteri erano gestiti dalla Confindustria come organizzazione e non come intreccio di lobbies. Icriteri con cui il C. sopraintendeva al finanziamento dei partiti (per conto della Confindustria, singole imprese e unioni industriali ne erogavano poi per proprio conto), attraverso un comitato confederale denominato "la torretta", dal luogo di riunione della sede confederale di piazza Venezia, escludevano quelli che egli stesso ebbe più volte a definire i "turpi negozi", cioè intese dirette in funzione di questo o quel provvedimento, e i finanziamenti detti "a stringa". I contributi della Confindustria ai partiti della maggioranza (spesso era la stessa D.C. a provvedere a distribuirli agli altri partiti di governo) furono in un primo tempo notevoli: erano dati al segretario e dovevano coprire le spese fisse dei partiti; andarono poi dopo il 1953 progressivamente diminuendo di importanza (Mattei, 1980, p. 73), largamente sostituiti da quelli delle imprese pubbliche, in particolare dall'E.N.I. (Martinelli, pp. 257 ss.).

Anche da questo punto di vista la gestione confindustriale del C. non si può dire fosse improntata a criteri "corporativi", ma riproduceva un indirizzo tradizionalmente "liberale". Ciò presupponeva una sintonia non solo di schieramento con i partiti della maggioranza, ma anche una costante concordanza sul piano degli indirizzi di fondo dell'azione di governo. Al contrario una frantumazione di linee e atteggiamenti interni alla maggioranza e al governo stesso comportava inevitabilmente un'uguale rifrazione nell'orbita confindustriale. È proprio questo l'elemento, forse determinante, per valutare la parabola decennale della prima presidenza del C., dagli anni dei primo dopoguerra alla fine del centrismo degasperiano.

Vennero in realtà determinandosi, già all'indomani del 18 aprile, gradi e sfumature diverse di sintonia tra l'azione confindustriale e l'iniziativa politica dei governi centristi. La gestione del piano Marshall e la concomitante politica di bilancio e creditizia, condotta in quegli anni, trovavano sostanzialmente d'accordo il C. con la linea governativa. La stabilizzazione della lira aveva rallentato di molto gli effetti della scala mobile; gli squilibri del mercato del lavoro e la dura politica d'ordine pubblico avevano inoltre ulteriormente congelato la situazione sociale e ogni dinamica salariale. Divergenze crescenti vennero accumulandosi invece su altri aspetti della politica economica, dalle politiche pubbliche di sostegno dell'occupazione ai programmi di finanziamento e sviluppo delle partecipazioni statali, in particolare il nuovo statuto dell'I.R.I. e la costituzione dell'E.N.I., alle politiche di liberalizzazione degli scambi e ai primi passi di unione doganale del mercato europeo.

La, politica di liberalizzazione degli scambi costituiva di per sé una profonda rottura di una lunga tradizione protezionistica, che aveva una sua chiara lettura liberista, sempre riconosciuta dal C., ma che urtava grandi interessi e si ripercuoteva all'interno stesso della Confindustria. Sono tensioni già visibili nei primi passi dell'unione doganale italo-francese del 1949, ma che si rinnovano con durezza nel 1952, in occasione della liberalizzazione degli scambi portata avanti da Ugo La Malfa (Scalfari, 1961, p. 127) e dell'istituzione della C.E.C.A. Tutti punti di attrito che videro l'interessamento di schieramenti difformi, chimici, zuccherieri, cementieri, parte dell'industria milanese guidata dall'Edison nel primo caso, gli interessi siderurgici privati della Fiat e della Falck nel secondo. La compattezza del fronte industriale sui problemi sindacali tendeva inevitabilmente ad incrinarsi su quelli economici, mettendo a dura prova la stessa formula associativa confederale, che, come notava appunto il C. (Scritti, II, pp. 457 ss.), univa strettamente le due figure operative, a differenza delle organizzazioni padronali di altri paesi.

Ma agli attriti contingenti inevitabili che la rivoluzione liberoscambista di quegli anni alimentava se ne aggiungevano altri più insidiosi, che derivavano dal capillare ripristino e sviluppo, rispetto agli anni '30, degli strumenti di intervento pubblico nell'economia (compreso il rilancio dell'I.R.I. e la costituzione dell'E.N.I.), di cui la nuova classe politica di governo si impadroniva, facendone uno dei pilastri di consolidamento dei canali di consenso del nuovo sistema di potere. È un quadro che è stato più volte descritto, mettendo l'accento sulla natura contraddittoria d'una cornice liberista e d'una crescente prassi di intervento pubblico, fuori da qualsiasi disegno propriamente dirigistico.

Naturalmente i giudizi variano profondamente a seconda proprio dell'ottica dirigistica o liberista con cui questo periodo viene analizzato, ma gli aspetti patologici che di esso vengono sottolineati sono in larga parte simili e uguale è la contraddittoria fenomenologia che da ambo i lati vi si descrive. Per una critica liberista, gli scritti del C. sono una miniera di osservazioni puntuali e pertinenti, che troviamo specie nelle lettere e negli appunti indirizzati, su varie questioni, a De Gasperi stesso e ai ministri dei dicasteri economici, nei quali possiamo tra l'altro leggere le crescenti difficoltà della impostazione del C. nella gestione della Confindustria.

Venendo progressivamente sempre meno un nesso tra gli indirizzi generali e le prassi concrete di politica economica del governo, l'impostazione unitaria che veniva data dal C. alla politica confindustriale perdeva di efficacia e diveniva sempre più difficile mantenere una coerenza di linea, che d'altra parte era al C., da più parti, rimproverata, con l'imputargli la "mancanza di quella duttilità che si richiede in campo politico e ripugnanza a porre il problema su basi di reciprocità" (Vitale, p. 31). C'era in questo genere di critiche la percezione confusa e strumentale di un mutamento profondo di rapporti tra il ceto imprenditoriale e lo Stato, che segnava il tramonto definitivo delle speranze liberali della ricostruzione, il venir meno della convinzione di una identificazione degli interessi dell'industria privata con quelli generali della collettività, e la costruzione delle basi portanti del consenso democratico della nuova società di massa, da parte del sistema politico, preminentemente proprio sugli strumenti di intervento pubblico. Quanto questa linea dovesse alterare gli equilibri strutturali del nostro sistema economico non era allora percepibile, in una fase di crescente espansione dell'economia italiana, e non lo sarebbe stato visibilmente per oltre un quindicennio. Restava la debolezza della risposta liberista, già visibile negli anni del centrismo, che furono di incubazione del nuovo modo di governare, e ancor più dopo il 1955, quando il C. lasciò la presidenza della Confindustria e prevalse una linea di difesa degli interessi industriali, che, ispirata ai criteri di "duttilità" e "reciprocità", disancorati da una concezione generale dei rapporti tra Stato e industria, finiva per evidenziare il processo continuo di marginalizzazione della categoria industriale dal sistema di potere politico, in particolare per quel che riguarda i suoi organi di rappresentanza nazionale.

Dei vari aspetti attraverso cui questo processo può essere analizzato, proprio quelli politici, apparentemente più nascosti, meritano di essere sottolineati, ed hanno come punto di svolta il 1952, l'anno in cui i nodi politici del centrismo vennero al pettine e che segnò il trapasso dal centrismo politico a quello sociale, in cui si compendiava l'interclassismo democristiano e trovava modo di radicarsi con i nuovi strumenti di governo. Il C. coglieva questo trapasso in vari aspetti della vita nazionale. Sono significative a questo proposito le polemiche con La Pira nel '52-'53 e con Pastore nei primi mesi del 1952.

Il C. aveva riposto qualche speranza nella costituzione dei sindacati anticomunisti, in particolare nella C.I.S.L. Vi vedeva, come del resto gran parte dell'opinione moderata, un elemento importante per sottrarre alla C.G.I.L. il monopolio della organizzazione operaia. Ancora nel 1953, nella grande vertenza intercategoriale sul conglobamento, che sboccò in un accordo separato della Confindustria con la C.I.S.L. e la U.I.L., questa preferenza si manifestava apertamente. Il C. misurava tuttavia il prezzo di queste operazioni con lenti conservatrici, ma certo non superficiali.

Quando la C.I.S.L. incominciò ad elaborare alcune delle sue proposte più caratteristiche, basate su una concezione della contrattazione, come scambio bilaterale, produttività-salario, costi di produzione-condizioni di lavoro, così da individuare una strada plausibile di penetrazione nel tessuto industriale, lungo una linea di collaborazione-contestazione, quali ad esempio si proponevano di essere i comitati misti di produzione, il C. si preoccupò subito della cornice generale in cui quelle proposte si collocavano, respingendo gli accenti "giustizialisti" di cui era intriso il neocontrattualismo cislino. "Ho l'impressione che Lei faccia confusione tra ingiustizia e odio di classe" (Scritti, III, p. 51), sottolineava il C. a Pastore. La dualità di toni, collaborativi e contestativi, gli faceva preferire in linea di principio l'interlocutore socialcomunista, che al classismo univa una concezione contrattuale inequivoca. La durezza con cui il C. condusse, dopo il 1948, lo scontro con la C.G.I.L. si accompagnava ad un giudizio positivo per la controparte socialcomunista (che ritroviamo del resto in altri autorevoli rappresentanti dell'industria, come ad es. Valletta, e che ha la sua testimonianza più nota nei riconoscimenti del C. a Giuseppe Di Vittorio), che non è di maniera, ma si riconduce a quest'ordine concettuale.

La parabola della C.I.S.L. diveniva poi per il C. un segnale emblematico del modo in cui andava articolandosi l'interclassismo democristiano, per gruppi di interessi che si organizzavano come correnti interne di partito (era la C.I.S.L., attraverso la corrente di base della D.C., a proporre per prima lo sganciamento delle industrie a partecipazione statale dalla Confindustria), donde una crescente instabilità e vischiosità di linea generale che il C. coglieva nella stessa azione di governo. Una frase di De Gasperi, in cui si sottolineava che "talvolta si licenziano gli operai senza riguardo a necessità sociale, tal altra si sciopera, senza riguardo per i consumatori", era per il C. occasione di una dura messa a punto (Scritti, III, pp. 116 ss.).

Egli avvertiva chiaramente che si sgretolavano i presupposti politici ed economico-sociali, su cui si era fondata la svolta del 1947 e del 1948. Riveste notevole importanza un documento che egli redasse, all'indomani delle elezioni del giugno 1953, sull'organizzazione e la politica della Confindustria (ibid., pp. 426 ss.). Sono riflessioni che riportavano la discussione al punto di partenza della nuova vita politica italiana, cioè ai mesi seguenti la caduta del fascismo. Il problema non era più quello della transizione da un regime ad un altro, ma della stabilizzazione conservatrice della nuova democrazia italiana e la ricetta non si identificava più nel centrismo degasperiano.

Tale coalizione di governo non sembrava aver garantito quella unitarietà di indirizzo politico necessaria a mantenere un rapporto organico tra industria e Stato, tra mercato ed intervento pubblico. Si sottolineava l'ambivalenza e la frantumazione delle iniziative perseguite dai vari dicasteri e si notava anche che "il persuadere il presidente del Consiglio è risultato spesso insufficiente per il rifiuto ad approfondire problemi economici" (ibid., p. 436).Ne derivava una frantumazione di consenso che rendeva precaria la stabilità della coalizione e poteva aprire delle brecce incontrollabili nel fronte anticomunista. È evidente l'attenzione al problema delle alleanze di Destra e di Centro, che aveva scaldato il clima politico degli anni precedenti e che aveva avuto nella "operazione Sturzo" il suo giro di vite. Per il C., allora, il punto centrale non era più quello della coalizione, ma del sicuro referente conservatore su cui doveva far perno l'azione confindustriale. Aveva sostenuto i Comitati civici nel 1948, e nel 1952la sua attenzione si era concentrata su Gedda e l'Azione cattolica. "Gli aiuti all'Azione cattolica - diceva - bisogna continuarli, per rafforzarla anche nei confronti del partito democristiano" (ibid., p. 439), osservando ancora che "si dovrà soprattutto cominciare a rendere ben chiaro il concetto che nel nostro paese il socialismo marxista è la via più facile per condurre al comunismo e che il socialismo cattolico, dovuto alla confusione che si fa tra socialismo e socialità, non può non sfociare che in socialismo marxista" (ibid., p. 440)e concludeva con l'augurio, che "si possa formare un nuovo partito che ottenga un successo tale da potere, insieme con la DC, formare una maggioranza" (ibid., p. 443).

II "quarto" partito si trasformava così in un'illusoria ricerca politica. Negli anni che seguirono la caduta di De Gasperi questa ricerca si accentuerà sul versante dei partiti laici, mentre il C. l'aveva cercata prevalentemente nel movimento politico dei cattolici. Gli si riproponeva, con segno diverso, una contraddizione che già gli si era presentata alle origini della sua formazione, quando aveva tentato di conciliare socialità cattolica e liberismo economico. La sua nuova attenzione verso la Destra dello schieramento politico non pareva storicamente destinata ad avere maggiore fortuna.

Il C. lasciò la presidenza della Confindustria nell'assemblea dell'8 febbr. 1955. Fu un'uscita discreta, senza rotture, consumata nel segno della continuità della vita confederale. L'assemblea aveva deliberato di nominarlo membro a vita del comitato di presidenza e della giunta esecutiva; rimase attento a tutti i problemi politici e sociali che via via emergevano. Ma il distacco fu nei primi anni marcato, mentre si accentuava il suo ruolo nella conduzione delle attività imprenditoriali della famiglia.

Al finire della guerra i Costa possono essere considerati un gruppo imprenditoriale proprietario di medie e piccole imprese dislocate in vari rami, con interessi nel Nord e nel Sud del paese. Di queste, numerose operavano nel campo alimentare, in settori secondari dell'estrazione e raffinazione dell'olio d'oliva, come la lavorazione delle sanse o la produzione di alcool da vinaccia, in attesa che potesse riprendere, con la normalizzazione del commercio internazionale, la consueta attività esportatrice della ditta. È il caso degli stabilimenti siti nell'Italia meridionale e di quello di Sampierdarena che, in quegli anni, fu completato con una saponeria ed una fabbrica di estrazione di olio dai semi oleosi. Quello dell'olio di semi era un mercato che nel dopoguerra, dopo iniziali resistenze, acquisterà un peso rilevante nel settore della produzione olearia. I Costa con lo stabilimento di Vignole Borbera e la partecipazione alla società Savma, un nuovo grande stabilimento per la lavorazione di semi di soia, con la marca Ojo, saranno i primi, in Italia, a produrre il confezionato. Sempre in campo alimentare la ditta trattò, anche, della produzione e commercio di mandorle noci e nocciuole e lavorazioni relative, vini, liquori e relativi sottoprodotti e commercio di questi, commercio e lavorazione di prodotti ortofrutticoli. Ma, in prospettiva, il commercio internazionale dell'olio assumerà progressivamente un peso minore nel volume di affari della ditta: "l'esportazione verso l'America, fiorente nel decennio 1925-35, è andata gradatamente diminuendo per un complesso di cause contingenti fino a ridursi oggi a cifre molto modeste. Più attiva l'esportazione di olio d'oliva verso i paesi europei: in Germania, in particolare, la marca Dante detiene il primato assoluto rappresentando l'ottanta per cento circa del totale esportato dall'Italia, mentre tutte le altre marche di olio d'oliva italiane si dividono il restante venti per cento. Altro primato nostro: il mercato persiano. Si tratta però sempre di ammontari modesti" (Non ho mai cercato gli utili con il favore della politica, intervista al C., in Oggi, 8 dic. 1971).

È nel settore armatoriale ed in quello delle costruzioni che si appuntarono, nell'immediato dopoguerra, i maggiori sforzi e gli interessi dei Costa. Nel 1944 essi acquistarono la maggioranza azionaria della Società costruzioni immobiliari, una S.p.A. di proprietà dei Romanengo, un'antica famiglia di imprenditori genovesi, per altro già legata ai Costa da vincoli di parentela, con cui operarono per la ricostruzione di stabilimenti industriali danneggiati dagli eventi bellici. In seguito, tramite altre società appositamente costituite - la Langano, la Montemaggio, l'Immobiliare via Donghi, l'Immobiliare via Bovio S.p.A. - intervennero anche nel campo dell'edilizia residenziale, turistica ed in quello della progettazione, soprattutto in Liguria, Lombardia, Piemonte, Lazio e Puglia. Negli anni successivi l'attività edilizia acquisterà notevoli dimensioni; la S.C.I., lavorando sia in proprio come azienda immobiliare sia in conto terzi per la costruzione di complessi di edifici ad uso ufficio, realizzerà, tra l'altro, la sede della Confindustria a Roma e, a Genova, quella della società Italimpianti, e nel settore degli impianti industriali e commerciali, per la stessa G. Costa fu Andrea, il complesso industriale di Vignole Borbera. In campo armatoriale per i Costa, come per altri armatori italiani, la ripresa delle attività fu inizialmente legata alla concessione da parte del governo statunitense delle "Liberty", piccole navi costruite in serie nei cantieri americani e destinate al rifornimento delle truppe sui fronti di guerra. Il governo italiano ne acquistò cinquanta al prezzo medio di 250.000 dollari ciascuna e concesse agli armatori acquirenti il 25% della valuta a cambio ufficiale: variamente modificate, queste navi costituirono l'armatura delle nuove flotte mercantili. Nel 1947 i Costa ne ottennero due; l'anno precedente essi avevano iniziato la ricostruzione della flotta con la consegna da parte dei cantieri di Pietra Ligure di due piccole navi da 600 tonnellate alle quali ne seguirono altre quattro sempre di modesto tonnellaggio, tutte adibite al piccolo cabotaggio. Nel marzo del 1948 ebbe inizio l'attività passeggeri, l'"Anna C.", ex "Southern Price", una motonave di 12.030 tonnellate costruita in Inghilterra nel 1929, trasformata in nave di linea per 850 passeggeri salpò dal porto di Genova per il Sudamerica e, nel giugno dello stesso anno, la ditta inaugurò il nuovo magazzino armatoriale al Ponte Assereto. A questa prima seguirono altre due navi passeggeri, l'"Andrea C." e la "Giovanna C." di circa 8.000 tonnellate, anch'esse adibite al servizio di linea sulla stessa rotta.

Lo sviluppo del settore passeggeri è legato in questi primi anni del dopoguerra alla ripresa di quel flusso migratorio extraoceanico che il fascismo prima, la guerra poi, avevano interrotto. Genova divenne un grande polo di raccolta per quanti attendevano un imbarco; furono le navi della Linea C., adattate con servizi di massa, a trasportarli in Sudamerica. Nel 1952 con la "Franca C." di 6.822 tonnellate, varata nel 1914, si inaugurò il servizio di linea passeggeri Italia-Venezuela. Nel 1955 i Costa costituirono la Lloyd Tirrenico S.p.A. con cinquanta milioni di capitale sottoscritto dalla Filanda e tessiture Costa, presidente il C., e dalla Langano S.p.A., amministratore unico Giacomo Costa; la società insieme alla Lloyd Tigullio, diretta da Mario Costa, divenne cocaratista della G. Costa fu Andrea che conservò la figura di società armatrice. Nel 1957 fu varata presso i cantieri Ansaldo la "Federico C." di 20.416 tonnellate, prima nave passeggeri costruita dalla Linea C. con un mutuo ipotecario di 994 milioni stipulato presso l'I.M.I.; la nuova unità entrò in esercizio nel 1959 con un viaggio per Buenos Aires. All'inizio del 1960, la flotta dei Costa ammontava a 43.098 tonnellate di navi da carico e 74.787 tonnellate di navi passeggeri, e nel 1962 la Lloyd Tirrenico aumentava il capitale sociale da 50 a 500 milioni mediante l'emissione in contanti ed alla pari di 4.550 nuove azioni dal valore nominale di 100.000 lire ciascuna. Nello stesso periodo i Costa parteciparono alla costituzione della Rivalta Scrivia S.p.A., una società con quattro miliardi e mezzo di capitale frazionato tra centocinquanta soci, tra i quali I'I.F.I.-FIAT e la Pirelli, per la creazione di un grande centro di ricezione, deposito, distribuzione merci a Rivalta Scrivia nei pressi di Tortona, al confine tra Liguria e Piemonte. Il progetto era quello di supplire alle insufficienze ed alla congestione dell'area portuale di Genova che inducevano gli operatori economici a preferire i porti dell'Europa settentrionale e a trasformarla, con l'avviamento dei nuovi impianti, nella porta meridionale del Mercato comune europeo. Negli anni successivi, i Costa potenziarono il settore mercantile della flotta con l'acquisto di una motonave e tre turbonavi adibite al traffico con il Centro e Sudamerica e, nel 1966, entrò in servizio la "Eugenio C." di 30.567 tonnellate, nave ammiraglia dell'armamento libero italiano costruita, ricorrendo ad un mutuo I.M.I. di nove miliardi e mezzo di lire, presso i cantieri di Monfalcone. Nei due anni successivi i Costa, al fine di realizzare "una gestione unitaria con conseguenti riduzioni dei costi ed il più razionale impiego delle navi a disposizione", concentrarono l'intera attività armatoriale in un unico organismo. La Lloyd Tirrenico mutò la propria ragione sociale in Costa armatori S.p.A. aumentando, in seguito alla fusione con la Lloyd Tigullio, il capitale sociale ad un miliardo. Alla nuova società che assunse la figura di armatore venne poi conferito l'intero settore armatoriale della G. Costa fu Andrea del valore di quattro miliardi; il capitale sociale della Costa armatori aumentò così a cinque miliardi mentre la società conferente fu intestataria di azioni per un valore pari a quello del complesso armatoriale conferito divenendo, in tal modo, la società controllante. Negli anni successivi, con la nuova società i Costa dovranno far fronte ai mutamenti ed ai nuovi indirizzi nel campo dei trasporti. Al declino dei servizi di linea passeggeri sulle rotte transoceaniche corrispose lo sviluppo del settore crocieristico. La quasi totalità delle navi di linea venne trasformata ed adibita all'esercizio delle crociere nel Mediterraneo, nei Caraibi ed in Sudamerica mentre, in previsione di un aumento di traffico verso il Nord ed il Sudamerica, fu particolarmente curata la flotta mercantile.

In tutti questi anni, il potenziamento e l'estensione delle iniziative della ditta, i nuovi modi di gestione aziendale, i mutamenti dei criteri del commercio internazionale e le nuove esigenze di mercato alteravano le tradizionali condizioni operative: "un tempo ciascuno si specializzava in un mercato dove aveva rappresentanti, corrispondenti, clienti vecchi, dove andava ogni tanto in visita. Bastava nulla, un'amicizia, una parentela per aprire una strada ... Oggi si lavora a fiotti, per questo mercato o per quello, cambiando continuamente criteri, gusto, specialità per accontentare clientele diverse. Tutto ciò provoca un lavoro convulso, disorganizzato, costoso perché non c'è continuità né uniformità" (A. C. il Prudente di Piazza Venezia, intervista al C., L'Europeo, 15 luglio 1951); tutto questo venne in qualche modo registrato ed assorbito dai Costa senza per altro provocare alcun mutamento del sistema con cui tradizionalmente conducevano gli affari della ditta. Se alla vecchia società di persone si sono affiancate società di capitali, la prima, ancora per un ventennio, controllerà i settori di attività più proficui e rappresentativi del gruppo; mentre le seconde, per proprietà azionaria e controllo decisionale, rimarranno saldamente nelle mani dei sette membri della famiglia - tra fratelli e cugini -, ai quali, nel corso degli anni, si affiancheranno figli e nipoti fino a giungere, negli anni Sessanta, ad essere ventitré soci, tutti di famiglia, tutti con eguali poteri anche se con mansioni ben distribuite.

Al C. sarà presto riconosciuta una posizione preminente all'interno della ditta e, quindi, della famiglia: "una indiscussa superiorità intellettuale e manageriale" ricorda il fratello gesuita, Giovanni, che faceva sì che anche singole aziende e numerose famiglie genovesi spesso richiedessero il suo arbitrato. La lunga presidenza della Confindustria non gli impedì di occuparsi degli interessi industriali e commerciali della ditta ed inoltre, come presidente della Confederazione italiana armatori liberi dal settembre del 1945 al novembre del 1972 e, dal 1951 al 1968, dell'Associazione nazionale dell'industria olearia, seguì attivamente i problemi di quelle categorie produttive in cui i Costa avevano i maggiori interessi.

Così ad un altro fratello, Giacomo, le responsabilità della direzione del settore navi da carico del complesso armatoriale della ditta non furono d'ostacolo ad un'intensissima opera di apostolato che, dalla metà degli anni Quaranta fino al marzo del 1977, data della sua morte, svolgerà in seno all'Azione cattolica genovese della quale, eletto nel 1946, rimarrà presidente per ventitré anni. In stretta collaborazione con mons. Siri, futuro vescovo di Genova, nel triennio 1943-45 riorganizzò l'Opera diocesana Auxilium per l'assistenza ai profughi; nel 1953 fu eletto presidente dell'Auxilium-Ucid, una cooperativa edilizia sorta per sua iniziativa grazie alle sottoscrizioni degli industriali cattolici che fornirà 750 alloggi agli emigrati ed a coloro che con la guerra avevano perduto la casa; si fece promotore della realizzazione della Casa dell'emigrante per l'assistenza a quanti giunti a Genova vi sostavano in attesa di un imbarco e, sempre per l'assistenza ai marittimi, della nuova sede dell'Apostolato del mare. Dal 1946 al 1968 fu vicepresidente dell'ospedale Galliera, un grande complesso assistenziale la cui presidenza, per statuto, è affidata all'arcivescovo di Genova; se ne occuperà fino alla morte realizzando l'ampliamento e la completa ristrutturazione dell'Opera pia.

Nel febbraio 1961 Alighiero De Micheli era stato sostituito da Furio Cicogna alla presidenza della Confindustria. Il clima sociale e politico stava profondamente mutando: l'operazione di Centrosinistra evolveva lentamente verso l'approdo di una nuova coalizione di governo coi socialisti.

L'esigenza del padronato di avere un solido punto di riferimento conservatore nello schieramento politico che ne determinasse gli orientamenti, esigenza, come abbiamo notato, presente anche negli ultimi anni della presidenza del C., era stata perseguita tra il 1955 e il 1960 dalla Confindustria di Alighiero De Micheli in modo alquanto semplificato, facendo perno su quello che c'era, partiti laici e destra democristiana, cercando parallelamente con la Confintesa di dare il massimo di valenza politica all'unione degli interessi industriali, agricoli e commerciali. L'operazione non aveva avuto esito positivo, aveva anzi approfondito l'isolamento del padronato privato, pur producendo un forte contrappeso di destra al neocentrismo democristiano, ma non sufficiente ad invertire il processo, già messosi in moto nella prima legislatura. Il Centrosinistra era in realtà il naturale sbocco, non di un incontro storico tra Sinistra e Centro, più in particolare tra socialisti e cattolici, ma delle scelte compiute dalla D.C. dopo il periodo degasperiano, di fondare la sua centralità politica in modo primario fuori delle sedi istituzionali, come centralità sociale, facendo perno sulle strutture pubbliche. L'allargamento dell'area di consenso sociale richiedeva in parallelo, per la stabilità del sistema, quella del consenso politico e l'ingresso dei socialisti nella maggioranza costituiva appunto questa garanzia. Dalle molte analisi e riflessioni che si sono accumulate su questo nodo storico cruciale della vita politica italiana, per il padronato privato ne derivava una conseguenza che contrassegna tutta la storia della Confindustria dopo la prima presidenza del Costa. Una gestione unitaria degli interessi industriali non trovava più il suo corrispettivo ideale e politico nella linea di governo di un qualsiasi schieramento politico, se non come insieme di interessi componibili, riferiti ad una gestione del consenso sociale e politico che aveva sempre più caratteristiche di mediazione di interessi corporativi e di assistenza verso bisogni non organizzati. Di qui, nel mondo industriale, una continua e contraddittoria tendenza alla frantumazione della rappresentanza degli interessi da un lato e alla sua riunificazione dall'altro, intorno ad un referente organizzativo, quale la Confindustria, che risultava naturalmente debole nella sua efficacia politica anche se restava di volta in volta necessario come momento di aggregazione istituzionale degli interessi categoriali. E questa contraddittoria spinta all'unità tornava ad avere soprattutto come motivo urgente il confronto sindacale, solo in seconda istanza quello più generalmente politico.

Il 1959-60 era stato un biennio di timido risveglio della conflittualità sindacale, dopo il lungo letargo che aveva seguito il 1948. Il C. aveva affiancato Cicogna assumendo la vicepresidenza della Confindustria. C'era chi aveva caldeggiato un suo diretto ritorno alla presidenza, puntando su un cambiamento di linea confindustriale, in quegli anni di gestazione del Centrosinistra, attraverso una figura di indiscusso prestigio, che svincolasse l'organizzazione dalle prime file della polemica politica e che seguisse un orientamento più duttile. Gli ultimi anni della presidenza De Micheli erano stati di spaccature profonde nel padronato, con la Fiat e la Montecatini che guidavano posizioni di più moderata apertura politica.

La presidenza di Cicogna era stata una soluzione di compromesso. Non si può del resto classificare il C. tra i fautori del Centrosinistra. Certo egli coglieva l'evolversi della situazione dal punto di vista sia sociale sia politico, ed era al primo aspetto che rivolgeva in particolar modo la sua attenzione. Quali che fossero stati gli esiti della vicenda politica, vedeva chiaramente come fosse necessario per il padronato una politica più flessibile di quella degli anni '50 in tema di distribuzione del reddito. Già nel marzo del 1961 aveva presentato alla giunta della Confindustria un nuovo piano "per favorire l'accesso alla proprietà della casa ai lavoratori dipendenti" (Scritti, IV, pp. 523 ss.). Ma il punto cruciale tornava ad essere la questione salariale e con essa la gestione del sistema contrattuale. Preoccupazione questa generalmente avvertita nel ceto imprenditoriale, al di là dei contrasti di linea politica. In una lettera al consigliere delegato della Edison, V. De Biasi, del febbr. 1961, il C. notava con compiaciuta malizia che "quando ero presidente della Confindustria la mia fatica maggiore era dovuta al fatto di non sentire nessuno, o praticamente nessuno, alla mia sinistra: se avessi sentito Lei alla mia sinistra, il mio lavoro sarebbe stato più facile" (ibid., p. 520). Ora che riprendeva a sovraintendere alla politica sindacale della confederazione, malgrado la diversa disposizione di molti associati, i problemi non erano certo più facili.

In una seconda lettera a De Biasi, di un mese più tardi, il C. notava che "per quanto si riferisce alle differenze di remunerazione tra settore e settore, categoria e categoria ... chi ha la responsabilità di carattere generale, ha più di ogni altro il dovere di occuparsi di contenere queste differenze che creano sperequazioni e non sono utili" e aggiungeva ancora che "purtroppo i settori che stanno bene ed hanno la possibilità, preferiscono evitare il danno della pressione sindacale e concedere quello che altri non può concedere" (ibid., p. 512).

Questa inclinazione naturale all'articolazione contrattuale del sistema delle imprese, che aveva caratteristiche del tutto diverse da quella del dopoguerra, essendo la conseguenza di una fase di sviluppo produttivo, si incrociava d'altra parte con una pressione del sindacato impegnato ad uscire dalla rigida gabbia contrattuale fino ad allora dominante. Il C. avvertiva con lucidità che proprio quelli che erano stati i capisaldi della struttura contrattuale e salariale del dopoguerra rischiavano di divenire i punti di crisi dell'intero sistema. In particolare il rapporto causale che legava l'indicizzazione salariale con la decorrenza triennale dei contratti di categoria e la funzione meramente applicativa, rispetto al contratto nazionale, degli accordi aziendali. Erano punti, questi, tra loro strettamente connessi, che il C. voleva mantener fermi, mentre venivano messi sempre più frequentemente in discussione dalle organizzazioni sindacali, con l'apertura di vertenze, prima della scadenza contrattuale, e il tentativo di dare autonomia alla contrattazione aziendale. Vediamo come la linea difensiva del C. in quel periodo, consegnata in vari documenti e appunti da lui redatti, alcuni dei quali portano la firma di Cicogna (ibid, pp. 528 ss., 535 ss., 644 ss.), fosse insieme legale (obbligatorietà della scadenza contrattuale, carattere applicativo del contratto aziendale, ecc.) ed economica.

Sotto quest'ultimo aspetto il C. coglieva come il problema della produttività divenisse, in una fase di espansione economica, il parametro naturale d'una crescita del salario reale e fosse quindi necessario darne una interpretazione vincolante ai fini della dinamica salariale, nel senso che "i salari debbono essere riferiti alla produttività generale e non aziendale" (ibid., V, p. 229), identificando la prima con l'aumento del reddito procapite. Tesi che apriva da parte padronale un margine di disponibilità ad incrementi reali di salario, garantendo la continuità dell'accentramento contrattuale e senza incidere sostanzialmente sulla distribuzione del reddito.

Questa volta il C. aveva elaborato una linea tipicamente difensiva. Glielo aveva rimproverato lo stesso ministro del lavoro, Fiorentino Sullo, osservando che "potrebbe accadere con la contrattazione articolata quello che accadde a don Ferrante con la peste" (in Politica, 15 dic. 1961). In realtà non si trattava di un'epidemia, ma di una strategia, che soprattutto la C.I.S.L. patrocinava da un pezzo, con un buon supporto di elaborazioni culturali, e che trovò l'interlocutore necessario nel nuovo padronato delle imprese a partecipazione statale, l'Intersind, e l'A.S.A.P., che nel luglio 1962 in un accordo sindacale sanzionavano ufficialmente i diversi livelli contrattuali.

Le vertenze del settore privato furono assai più contrastate e si trascinarono nell'anno seguente, per concludersi, specie nel settore metalmeccanico, con accordi analoghi a quelli raggiunti con l'Intersind, che implicavano profonde modifiche normative e un notevole incremento salariale, tra cui una prima regolamentazione dei premi di produzione aziendale.

Gli anni seguenti videro, per la prima volta dal dopoguerra, una forte spinta inflazionistica, connessa con una stagnazione produttiva, che diede luogo a un dibattito, che da più parti rimetteva in discussione la struttura salariale. Notava il C.: "se nonostante la scala mobile esistente, e purtroppo funzionante, si sono dovuti rinnovare contratti con aumenti di salari superiori all'aumento medio di produttività, che cosa succederebbe se non avessimo la scala mobile ed i sindacati avessero il giusto motivo di richieste dovuto all'aumento dei prezzi?" (Scritti, V, p. 229). La crisi del 1964-65 fece, d'altra parte, da freno alle spinte sociali, mentre la nuova coalizione di Centrosinistra trovava un suo definitivo assestamento su una linea tradizionalmente moderata.

Il C. si era tenuto al riparo dalle cocenti polemiche di quegli anni. In materia di programmazione si era limitato a sostenere dei distinguo molto generali, mentre era stato più attento ai problemi nuovi che la crisi economica proponeva (ibid., pp. 317 ss.), in particolare gli strumenti della politica di breve periodo e la composizione della domanda globale, cioè la ripartizione del reddito nazionale tra consumi ed investimenti. Valutava possibile un riequilibrio moderato della situazione politica e sociale e la possibilità di riassorbire gli effetti del biennio 1962-63. I fatti parevano dargli ragione. Una forte innovazione tecnologica aveva mutato i processi produttivi ed aumentato la produttività; col 1966 la ripresa della produzione pareva riaprire anche una nuova fase di espansione occupazionale. Il C. aveva riassunto interamente nelle sue mani la politica sindacale della Confindustria ed era tornato ad essere a tutti gli effetti il punto di equilibrio dell'associazione confederale. Le pregiudiziali di alcuni grandi gruppi sul suo nome erano venute meno. Del resto non era più, come nel 1945, un uomo nuovo tra le grandi firme dell'industria, non solo per il suo passato di dirigente confederale, ma per la crescita delle attività industriali legate al suo gruppo familiare e per le relazioni finanziarie e industriali che egli stesso rappresentava, tra l'altro come presidente della Banca d'America e d'Italia e vicepresidente della Pirelli. La sua rielezione alla presidenza della Confindustria il 6 maggio 1966 si impose quindi in modo del tutto naturale: pareva il ritorno di una guida sicura tra acque alte che tendevano a quietarsi.

I rinnovi contrattuali del 1966, che furono il primo impegno della nuova presidenza, sembravano confermare questo ritorno alla normalità e il C. poteva dire di veder la contrattazione incanalarsi entro gli argini nuovi che agli inizi degli anni '60 aveva immaginato. Anche la contrattazione aziendale, delimitata per la parte salariale "alla disciplina dei premi di produzione risulta meglio inquadrata e indirizzata, sicché è da prevedere che l'area di attrito rivelatasi piuttosto estesa e vivace in passato, ne risulti più ristretta ed alleggerita" (ibid., VI, p. 224). Fu un'illusione breve. Il 1966 vide anche il rinnovo dell'accordo interconfederale sulle commissioni interne.

Per un ventennio, sebbene non fossero investite di poteri contrattuali, ma concepite come organi di controllo dell'esecutività degli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali, le commissioni interne erano state il veicolo naturale di una contrattazione informale. Ora, con il nuovo accordo, che riconosceva distintamente le rappresentanze sindacali aziendali e le investiva della funzione contrattuale, l'organizzazione sindacale poteva direttamente insediarsi nei luoghi di lavoro, avendo riconosciuta dalla controparte la prerogativa più importante.

Un altro argine normativo cadeva; alla vigilia dell'autunno 1969 sarebbe stata la volta delle gabbie salariali. Al sistema contrattuale e alla struttura salariale del dopoguerra, di cui il C. era stato il maggior artefice, venivano a mancare alcuni essenziali puntelli normativi. Un cronista lo coglieva all'uscita del ministero del Lavoro, nel marzo 1969, dopo aver sottoscritto il livellamento delle zone salariali, rivolgere questa frase al suo collega, Borletti: "Mah, speriamo che non ne vengano troppi guai" (Turone, p. 362).

II C. faceva un ultimo tentativo per fissare ancora una volta l'argine: si sedeva al tavolo della vertenza dei metalmeccanici dell'autunno 1969 per sostenere ancora una pregiudiziale sulla limitazione della contrattazione aziendale di cui il ministro del Lavoro, Donat Cattin, non teneva conto nel suo ruolo di mediatore. Di fatto fu così che il C. uscì dalla scena dei rapporti sindacali che per venticinque anni lo avevano visto protagonista. Parve che dietro di lui crollasse un sistema fondato sull'autocontrollo normativo della contrattazione. Il processo contrattuale si snodava senza più alcun vincolo interno. L'eclisse del sistema, costruito e difeso negli anni dal C., era davvero completa. Rimanevano i vincoli esterni, determinati dal rapporto tra le variabili del sistema economico, di cui il C. aveva intuito, fin dai primi anni '60, la forza cogente di medio e lungo periodo, ponendo il problema della politica dei redditi (Carabba, p. 118), anche se aveva insistito sulla sua linea di difesa normativa.

La seconda presidenza del C. portò dunque questo segno di sconfitta. L'uomo nei suoi principî non era cambiato, mentre profondamente lo erano i tempi. Lo erano anche sugli altri versanti della vita confindustriale.

Le fratture che via via erano venute ampliandosi dopo la ricostruzione, tra gruppi di interessi diversi nel mondo industriale avevano assunto dimensioni nuove e non più controllabili, con il tramonto dei gruppi ex elettrici, l'ascesa rampante della nuova borghesia di Stato, dalle partecipazioni statali alla chimica, proprio in quegli anni in pieno sviluppo. Il C. non si era fatto illusioni di poter svolgere un ruolo di regia, quale quello del dopoguerra. Distanze profonde di concezione e di stile lo separavano da questa generazione di managers, anche se la sua caratteristica cautela nei giudizi lascia trasparire solo qualche spunto, come la considerazione che "unire i capitali e il lavoro, produrre e ricavare è oggi più difficile rispetto a trent'anni fa, fare l'industriale basandosi sull'aiuto dello Stato, ossia a spese della collettività, oggi è molto più facile rispetto al passato" (Non ho mai cercato gli utili col favore dello stato, in Oggi, 8 dic. 1971).

Anche alla gestione dei rapporti con i partiti, specie quelli finanziari, che durante il suo primo decennio di presidenza aveva gelosamente tenuto sotto il suo controllo, dedicò minor cura, lasciando anzi questi ultimi nelle mani di Cicogna (Speroni, 1975, p. 94). I suoi scritti di quegli anni rimangono un insieme sparso di osservazioni puntuali sul processo di decomposizione sociale ed economica di quel sistema di potere. In particolare, le sue antenne di cattolico conservatore sono molto attente agli atteggiamenti di quel mondo, e spesso lo troviamo impegnato in un dialogo polemico con laici ed ecclesiastici, preoccupato degli atteggiamenti radicali che sempre più frequentemente emergevano, e alle conseguenze sociali che potevano derivarne. Ma la pagina probabilmente più amara per il C. fu la discussione che si aprì dopo il 1969 nella Confindustria sulla natura, i compiti e l'immagine della stessa associazione confederale.

Molti si fecero interpreti di un rinnovamento, in cui c'era un'ansia di modernità, che certamente coglieva la necessità di innovare alcuni aspetti dell'organizzazione, ma che soprattutto era dettata dall'illusione che un ringiovanimento della Confindustria costituisse l'inizio d'una soluzione ai problemi gravi che il fronte padronale doveva affrontare. Spezzati tutti gli argini del sistema di relazioni industriali, come non mai incrinati i ponti col sistema politico, con un partito di maggioranza relativa non più in grado di mediare le spinte sociali, specie della classe operaia, e che aveva riversato sul ceto imprenditoriale tutti gli oneri di questa mediazione, l'emergere quindi di una politicità nuova nei rapporti sindacali, facevano richiedere strumenti diversi e uno stile nuovo nella gestione confederale.Il C. coglieva lucidamente le cause di quella inquietudine, ora che le sconfitte sul piano sindacale facevano perdere anche quel referente unitario di identificazione nella Confindustria. Dissentiva dai metodi, dall'improvvisato stile tecnocratico, con cui venivano affrontati i problemi e si limitò anche qui a tener fermo su principi ed opinioni, lasciando maturare gli avvenimenti. In una lettera del gennaio 1970 a Leopoldo Pirelli, che presiedeva la commissione di studio per il nuovo statuto, sottolineava le difficoltà di introdurre nuove disposizioni statutarie prima dell'assemblea dei delegati, e la necessità di convocare quest'ultima secondo il vecchio statuto. Il 16 aprile teneva all'assemblea la sua ultima dichiarazione come presidente e passava la mano a Renato Lombardi, con cui le nuove modifiche statutarie, che prevedevano un sostanziale cambiamento rispetto all'originario statuto del C., un passaggio dal presidenzialismo alla collegialità, avrebbero avuto il loro corso.

Il C. doveva avere ancora un ruolo non secondario nel preparare nel 1974 la successione a Renato Lombardi, quando la vita interna della Confindustria fu attraversata da contrasti sulle candidature, animati da Eugenio Cefis (Scalfari-Turani, p. 452) e il C. fece parte della commissione che propose la candidatura alla presidenza di Giovanni Agnelli.

Il C. morì a Genova il 2 luglio 1976.

Gli Scritti e discorsi di Angelo Costa sono stati pubblicati a cura di F. Mattei in otto volumi, a Milano 1980-1984, con corredo di note storico-biografiche che introducono ciascun documento.

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