DI COSTANZO, Angelo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DI COSTANZO, Angelo

Paola Farenga

Nacque a Napoli con ogni probabilità nel 1507 da Alessandro e Roberta Sanfremondo.

Appartenente al ramo della famiglia ascritto al "seggio" di Portanuova dove, nei pressi della piazza omonima, "alla strada delli Costanzi" si trovava la loro dimora, il D. fu il primo di quattro fratelli: Tommaso, Orazio e Cola Francesco, che ricoprì la carica di regio consigliere e venne eletto più volte sindaco.

Nulla sappiamo dei suoi studi, ma il consistente gruppo di liriche latine da lui composte testimonia una solida educazione umanistica. Sposò Lucrezia Di Costanzo prima del 1536, anno in cui ricevette il feudo di Cantalupo in liquidazione della dote, e da essa ebbe due figli, Pietro Antonio e Alessandro, che entrambi gli premorirono: Alessandro, morto a 16 anni, fu particolarmente caro al padre che per la di lui scomparsa compose alcune delle sue più belle liriche.

Per la sua stessa appartenenza alla nobiltà di seggio il D. partecipò attivamente alla vita politica napoletana e la sua azione fu sempre indirizzata alla tutela dei privilegi e dell'autonomia del patriziato cittadino, al quale i suoi rappresentanti cercavano di far riconoscere un ruolo di guida nell'amministrazione del Viceregno. Nel 1536 lo troviamo con Carlo Mormile rappresentante del "seggio" di Portanuova nella deputazione ristretta incaricata dall'Assemblea generale del Regno di studiare la richiesta fatta da Carlo V di un contributo di 3.500.000 di ducati d'oro per la nuova guerra contro i Turchi ritenuta imminente. È il momento dell'alleanza fra patriziato cittadino e baronato contro il viceré don Pedro de Toledo che conduceva una politica volta ad abbattere il potere baronale e annullare l'autonomia del Regno. Gli avversari del viceré tentarono di sfruttare l'occasione cercando di condizionare l'approvazione del contributo alla sostituzione del Toledo. Su questo punto la deputazione si spaccò e il tentativo fallì per la dichiarata opposizione di Carlo V: dalla testimonianza del Rosso (G. Rosso, Istoria delle cose di Napoli..., Napoli 1770, pp. 67 s.) arguiamo che il D. fu tra quanti chiesero l'allontanamento del Toledo: il che permetterebbe di spiegare la supposta avversione di questo nei suoi confronti e le successive vicende del "cosiddetto esilio". Ma questo esilio, che secondo il Tafuri e il Gallo sarebbe durato fino alla morte, altro non è che l'amplificazione romantica di episodi ben limitati nel tempo e causati dalle sue intemperanze; nel 1540, a causa di un'aggressione da lui compiuta ai danni di un Antonio Villano, venne bandito da Napoli una prima volta. Una seconda volta, forse per un atto simile, fu confinato a Cantalupo nel 1546, ed è questa la circostanza che ha fatto lungamente discutere i biografi. In realtà l'allontanamento del D. non dovette durare più di due anni: il 30 ag. 1546 era già a Cantalupo come testimonia una lettera a Bernardino Rota nella quale lo ringrazia per l'offerta di interessamento onde ottenere la riduzione del bando, bando che comunque era destinato a scadere entro dieci mesi. Ma solo da poco il D. doveva essere a Cantalupo, visto che lo troviamo fra i membri dell'Accademia dei Sereni fondata a Napoli nella primavera di quello stesso anno. Il bando sarebbe dovuto scadere per la metà del 1547: nel dicembre, invece, il D. è ancora a Cantalupo, impossibilitato a recarsi a Napoli se non travestito. Il bando, dunque, ben lungi dall'essere ridotto, per motivi che noi ignoriamo gli deve essere stato prolungato, non oltre, comunque, il 1548, dal momento che nel marzo del 1549 era di nuovo a Napoli.

Nel 1546, prima che il bando lo costringesse a Cantalupo, il D. fu tra quanti partecipavano alle riunioni degli Incogniti e dei Sereni, le accademie formatesi nella primavera di quell'anno e che, insieme a quella degli Ardenti, sul finire dell'anno successivo furono soppresse per ordine del Toledo in quanto politicamente e religiosamente sospette per l'intrecciarsi al loro interno di simpatie ereticali e sentimenti antispagnoli. Nonostante le vicissitudini dell'allontanamento forzato da Napoli, il biennio 1546-47 fu particolarmente fecondo per il D.: a questo periodo risalgono, infatti, tutti i sonetti sicuramente databili della sua produzione e inoltre, come testimonia la lettera al Rota del dicembre 1547, una commedia, IMarcelli, scritta ad imitazione dei Menaechmi plautini.

La commedia, oggi perduta, dovette avere una certa diffusione e conferirgli prestigio anche come autore teatrale, se valse a farlo assumere da A. Sebastiani, vescovo di Minturno, quale interlocutore del secondo libro dell'Arte poetica nel quale tratta "Della scenica poesia".

Anche gli anni successivi al suo rientro a Napoli rivestono una particolare importanza per l'attività letteraria del D.: mentre compie un primo tentativo di portare a termine il progetto dell'Istoria (1556-1560) e continua a partecipare attivamente alla vita delle accademie cittadine come membro dell'Accademia del Lauro, che si riuniva intorno a Giovanni Geronimo Acquaviva d'Aragona, promotore di un tentativo di poesia satirica in volgare, e alla poetessa Laura Terracina, la sempre più massiccia presenza dei suoi sonetti nelle raccolte poetiche pubblicate a Venezia in questi anni gli riconosce un posto di primaria importanza nel numero dei poeti contemporanei.

Le sue rime compaiono insieme a quelle di L. Tansillo e di B. Rota nel Libro terzo delle rime didiversi illustri signori napoletani pubblicato da G. Giolito de' Ferrari a Venezia nel 1552 e ivi ristampato come Libro quinto nel 1555; venticinque sonetti di questa raccolta vengono poi compresi nella silloge Rime di diversi et eccellenti autori, curata da L. Dolce e apparsa, sempre per il Giolito, a Venezia nel 1556 e ivi ristampata nel 1563 con il titolo Il primo volumedelle rime scelte da diversi autori. Nel 1554 è fra gli autori del Tempio della divinasignora donna Giovannad'Aragona fabbricato da tutti i più gentilispiriti e in tutte le lingueprincipali del mondo, curato da G. Ruscelli (Venezia, P. Pietrasanta, 1555), e con il De Saxonica victoria è presente nella raccolta Antonii Terminii... et aliorumillustrium poetarumcarmina (Venezia, G. Giolito, 1554). Ma particolare rilievo assume la presenza di ben 63 sonettidel D. in apertura dei Fiori delle rime de' poeti illustri... (Venezia, Sessa, 1558), raccolta curata dal Ruscelli con la dichiarata intenzione di riunire in essa i più autorevoli rappresentanti della moderna poesia italiana da offrire all'imitazione dei contemporanei. Sarà proprio attraverso i Fiori che fra il 1579 e il 1582 in Francia Ph. Desportes avrà modo di conoscerlo e lo prenderà a modello insieme al Tebaldeo e a Panfilio Sasso.

Parallelamente allo svolgersi della sua attività letteraria continuò l'impegno del D. nella vita politica napoletana: nel 1553 fu tra i promotori dell'invio presso Carlo V di G. Seripando e fra gli estensori del documento a lui affidato perché lo sottoponesse all'approvazione del re. La missione, che seguì la morte del Toledo ed era in funzione della nomina del nuovo viceré, si prefiggeva di istituire un rapporto privilegiato fra monarchia e nobiltà, e il suo esito positivo, dovuto anche al prestigio del Seripando, garantì al patriziato napoletano il monopolio dell'apparato politico-amministrativo. Mantenendosi sulla stessa linea, più tardi il D. sarà, con il nipote Scipione, fra i difensori dell'autonomia dei "seggi" in materia di nuove aggregazioni.

Con l'attività politica del D. si lega perfettamente la realizzazione del progetto dell'Istoriadel Regno di Napoli da lui concepito, secondo quanto afferma nel proemio dell'edizione a stampa, fin dal 1527.

Per trent'anni il D. attese al paziente e faticoso lavoro di raccolta delle fonti portandolo a termine solo nel 1556, quando si accingeva alla stesura dell'opera come testimonia una lettera scritta nel luglio di quell'anno al Seripando, nella quale manifesta l'intenzione di discuterne con lui alcuni aspetti e soprattutto di consultarlo circa l'opportunità di usare la lingua "italiana o la latina". È il caso di ricordare che la pubblicazione recente degli Historiarum sui temporis libri XLV di P. Giovio aveva confermato l'attualità dell'uso di questa lingua in opere storiche di largo respiro, ma, come sarà per Camillo Porzio, anche per il D. l'intervento del Seripando fu forse decisivo per la scelta della "lingua comune italiana... a tal che possa essere letta e intesa da tutti". Il manoscritto C.X.5 della Biblioteca nazionale di Napoli, segnalato dal Volpicella, costituisce la realizzazione del progetto annunciato nella lettera al Seripando: esso contiene sette libri dell'Istoriede la sua patria preceduti da un Proemio di dedica al cardinale Carlo Carafa, nipote di Paolo IV: la dedica e la lettera citata permettono di datarne la composizione agli anni 1557-59. Nel manoscritto sono illustrati gli avvenimenti del Regno dall'incoronazione di Giovanna I alla partenza di Renato d'Angiò, che segna la definitiva affermazione di Alfonso d'Aragona: ma nelle intenzioni del D., espresse nella dedica al Carafa, la narrazione avrebbe dovuto proseguire fino alla morte di Ferdinando I. Il manoscritto coincide con i primi sette libri dell'Istoriadel Regno di Napoli d'incerto autore pubblicata da G. Gravier nel tomo IV della sua Raccolta di tutti i più rinomatiscrittori..., con l'aggiunta di un ottavo libro comprendente gli avvenimenti del regno di Alfonso I fino alla di lui morte: l'Istoria anonima, quindi, testimonierebbe un secondo momento della redazione dell'opera. La redazione manoscritta costituisce una prima fase dell'elaborazione dell'Istoria nella quale il D. si mantenne fedele al modello costituito dai Diurnalidel duca di Monteleone, coincidendo anche i limiti cronologici della narrazione e l'esposizione cronachistica dei fatti limitata agli avvenimenti interni del Regno senza la preoccupazione di illustrarne i rapporti con il quadro più generale degli avvenimenti italiani. Una notevole differenza d'impianto e di stile divide la redazione manoscritta da quella affidata alle stampe i cui primi otto libri vennero pubblicati a Napoli da M. Cancer nel 1572, preceduti da una dedica al viceré cardinal di Granvelle, mentre l'edizione completa in venti libri, dalla morte di Federico II alla vigilia del 1494, fu stampata all'Aquila da G. Cacchi nel 1581 dedicata a Ferrante Caracciolo. Le date testimoniano del paziente lavoro di revisione cui il D. sottopose la prima stesura dell'opera ampliandone i limiti cronologici col recupero degli avvenimenti precedenti il regno di Giovanna I, in modo da illustrare compiutamente l'intero ciclo dell'autonomia del Regno, e nello stesso tempo ricostruendo la trama dei complessi rapporti che ne legano le vicende a quelle delle altre potenze italiane, in particolare il Papato, sempre, però, valutando negativamente gli interventi del re di Napoli nelle vicende esterne: un giudizio negativo che si estende anche ai ripetuti tentativi di riconquista della Sicilia ed individua la causa della rovina degli Aragonesi nell'alleanza con gli Sforza sancita dal matrimonio di Isabella con Gian Galeazzo Sforza.

Concepito nel 1527 mentre si svolgeva l'ultimo violentissimo scontro fra le due grandi potenze per il possesso del Regno, il progetto dell'Istoria giunge a compimento quando la situazione politica, dopo i difficili anni del Toledo, si avvia a normalizzazione. Il D. può guardare dunque all'oggetto della sua opera, all'epoca dell'autonomia del Regno, come ad un ciclo storico ormai definitivamente concluso con il rispetto dovuto alle "care memorie" e con il rimpianto per il prestigio e lo splendore che la presenza e il servizio del re conferivano alla nobiltà, ma anche con l'occhio rivolto al presente, al ruolo di mediatrice del potere sovrano che la nobiltà si accingeva a svolgere. In quest'ottica va collocata la preoccupazione, particolarmente evidente al confronto delle due redazioni, di sottolineare il ruolo da essa svolto nella difesa dell'autorità sovrana, ruolo nel quale la nobiltà cittadina si contrappone ad un baronato provinciale irrequieto e geloso delle proprie prerogative e ad una "plebe" infida e sempre pronta a "far novità". La volontà del D. di sottolineare l'importanza della funzione svolta dalla nobiltà è particolarmente evidente nell'episodio dello scontro fra Margherita di Durazzo e gli Otto del buono stato durante l'assedio posto a Napoli dai partigiani di Luigi d'Angiò, scontro in cui la perdita della città è determinata dall'avversione della reggente nei confronti della magistratura espressa dai seggi. Allo stesso tempo il D. sottolinea l'importanza dell'alleanza fra sovrano e patriziato e tratteggia con simpatia le figure di quei re che esaltarono la virtù guerriera della nobiltà e insiste nell'evidenziare l'infedeltà dei capitani.

La redazione definitiva dell'opera testimonia anche l'impegno letterario del D.: attraverso una puntuale revisione tendente ad eliminare ogni traccia di particolarismo linguistico egli giunge ad utilizzare un italiano letterario che ha tutti i caratteri della lingua comune, mentre la struttura ipotattica della frase, senza indulgere alla retorica, gli consente di rendere nella narrazione il ritmo stesso degli avvenimenti. Inoltre, per dare respiro alla narrazione o per riempire le pause, inserisce ampie digressioni nelle quali discostandosi dal suo impegno di storico si ispira a modelli essenzialmente letterari: così le figure e le imprese dei baroni sono rappresentate con i toni dell'epica cavalleresca e la descrizione del maremoto che sconvolse Napoli nel 1343 diviene occasione per un esercizio di stile in gara con la prosa latina del Petrarca, mentre l'episodio di Camiola Turinga apre una parentesi di carattere novellistico che ricorda, in negativo, la novella di Giletta di Narbona (Decameron, III, 9).

Il proemio nell'edizione a stampa illustra la genesi dell'opera e il metodo usato per ricostruire, per quanto possibile, la "verità". Il D. afferma di averne concepito il progetto nel 1527 a Somma, dove da Napoli si era ritirato per fuggire la peste e dove per lo stesso motivo si trovavano il Sannazaro e il Poderico: qui discutendo con loro del Compendio di P. Collenuccio, che rivolge pesanti accuse di infedeltà agli abitanti del Regno, sarebbe stato da essi esortato a scrivere una storia che di queste accuse dimostrasse la falsità. Il D. perseguì il suo scopo utilizzando tutto il materiale che gli fu possibile consultare: narrazioni di contemporanei e documenti d'archivio, gli storici e le testimonianze letterarie: evitando di affrontare avvenimenti per i quali non fosse reperibile una documentazione attendibile, ed esercitando un attento controllo delle affermazioni contenute nelle sue fonti secondo l'insegnamento della storiografia umanistica che proprio a Napoli, col Pontano, aveva trovato la sua prima sistemazione teorica. Ma, nonostante il suo scrupolo di ricercatore, la mancanza di un metodo critico, che è conquista moderna, gli impedisce di riconoscere nei Diurnali di M. Spinelli un grossolano falso attirandogli l'accusa del Fueter di essere addirittura l'autore della falsificazione: "II Di Costanzo non si limitò ad adornare retoricamente la narrazione di annalisti medievali, ma si fabbricò da se stesso gli autori-fonti quando mancavano relazioni minute, seguendo l'esempio di Annio di Viterbo" (I, p. 159), accusa la cui fondatezza è messa in discussione dal Croce. Il proemio dell'Istoria, rievocando un episodio che in quanto rinvia all'illustre precedente del proemio decameroniano non è forse esente da suggestioni letterarie, e ricollegandone il progetto alle figure del Poderico e del Sannazaro, in particolare quest'ultimo, sottolinea la continuità di una tradizione culturale: sulla stessa linea di continuità si pongono le rime del D., frutto di felice mediazione fra i modelli del petrarchismo e la propria personale esperienza maturata nell'imitazione del Sannazaro, e se l'opera sua di maggior impegno fu l'Istoria, prestigio e riconoscimenti gli vennero invece dalla produzione poetica che si esprime essenzialmente nella forma del sonetto. La maggior parte di questa produzione è costituita da variazioni sul tema amoroso, mentre un nucleo consistente affronta motivi occasionali: il gruppo delle liriche in morte del figlio, la celebrazione della potenza spagnola e i sonetti dettati dall'amicizia e dalla comunanza di interessi poetici. Del sonetto il D. fu ritenuto sostanziale innovatore: sfruttando abilmente l'uso dell'enjambement egli riesce a svolgere con estremo equilibrio un'idea non comune che, annunciata nei primi versi, giunge solitamente a soluzione nella terzina finale; di qui il carattere "epigrammatico" loro solitamente attribuito.

Il D. non ne curò mai la raccolta in un canzoniere, ma parte delle sue liriche, affidate alle raccolte veneziane, attraverso questi canali conobbero larga diffusione in Italia e all'estero. Un primo tentativo di procurare una raccolta integrale della sua produzione poetica si ebbe all'inizio del sec. XVIII dopo che l'Arcadia lo ebbe riscoperto e assunto quale modello insieme a G. Della Casa, prediligendolo per la nitidezza e il rigore logico delle immagini oltre che per la poca "religione" nei confronti del Petrarca: il rinnovato interesse per la lirica costanziana determinò un fervore di iniziative editoriali volte a raccogliere e riproporre tutto quanto della sua produzione si trovava sparso nelle cinquecentine: il risultato fu l'edizione delle poesie del D. pubblicata dal Barbiroli a Bologna nel 1709 e salutata con esultanza dal Giornale de' letterati d'Italia (t. I, art- IV, 4, Venezia 1710, coll. 204-211). A questa molte altre seguirono nel corso del sec. XVIII, ma solo nel 1843, sulla base di un codice appartenente alla biblioteca di Salvatore Betti, Achille Gallo tentava la prima edizione integrale del Canzoniere accogliendo tanto le liriche edite quanto gli inediti del codice Betti e, sulla base della supposta passione per Vittoria Colonna, ordinava quelle di tema amoroso dividendole arbitrariamente "in vita" e "in morte". Dopo la morte del Betti la biblioteca andava dispersa e così il manoscritto utilizzato dal Gallo diveniva irreperibile: la sua scomparsa ostacolava tutte le successive iniziative volte a dare un'edizione critica dell'opera poetica del D., edizione ancor più auspicabile dopo la scoperta ad opera del Rosalba di un codice autografo contenente altri inediti nel fondo S. Martino della Biblioteca nazionale di Napoli (cod. 180, già 121 bis). Finalmente nel 1973 Silvia Longhi dava notizia del ritrovamento del codice Betti, oggi alla Biblioteca dell'Istit. di filolog. mod. dell'università di Bologna (descrizione in Cremante, 1978), annunciando anche la prossima edizione delle Rime del D. e facendola precedere da quella delle liriche raccolte dal D. negli anni 1546-47 nel codice napoletano (in Rinascimento, 1975).

L'ultimo periodo della vita del D. fu amareggiato da difficoltà economiche e controversie familiari per motivi patrimoniali; a queste si aggiunsero le critiche seguite all'edizione dei primi otto libri dell'Istoria nel 1572. Nel 1590 il D. ricoprì per l'ultima volta una carica pubblica come eletto del "seggio" di Portanuova.

Il D. morì l'anno dopo, nel novembre 1591 (la notizia è in T. Costo, Memoriale, Napoli 1618, p. 79), in quella villa di Somma che, giovane, lo aveva visto discutere col Sannazaro il progetto dell'Istoria.

Con gli interessi storici del D. e con la sua qualità di rappresentante della nobiltà di seggio si collegano due operette che gli vengono generalmente attribuite: l'Apologiadi tre seggi illustri di Napoli, pubblicata a Venezia, D. Farri, nel 1581 come opera di Antonio Terminio, e l'Opuscolo d'incerto autore che nelle stampe segue l'Apologia. L'Opuscolo prende le mosse dal De varietate fortunae di Tristano Caracciolo per illustrare gli avvenimenti che portarono alla decadenza alcune illustri casate napoletane nel trentennio successivo al 1528 e si conclude con la rovina di Ferrante Sanseverino esule in Francia.

L'Apologia, interessante in quanto testimonia il persistere di una annosa controversia risalente almeno ai tempi di Roberto d'Angiò, è rivendicata al D. da T. Costo (Apologia istoricadel Regno di Napoli, Napoli 1613, p. 127) e da G. B. Bolvito (cfr. Borzelli). Essa si contrappone polemicamente ad un'opera che Giovan Battista Carafa avrebbe avuto in animo di scrivere per rivendicare la più antica nobiltà e quindi il maggior prestigio delle famiglie dei "seggi" di Capuana e Nido. L'autore dell'Apologia si impegna nel dimostrare l'infondatezza di queste pretese attraverso la storia delle più antiche famiglie di Portanuova, Porto e Montagna, ricostruita attraverso le testimonianze di fonti documentarie e si apre con quella cui pertiene il più antico documento: la famiglia Di Costanzo.

Sempre al D. è attribuita, infine, una Genealogiadell'illustrissima casaCarafa conservata in un manoscritto (n. 1348) della Biblioteca Casanatense di Roma.

Opere. In attesa dell'edizione annunciata dalla Longhi, l'opera poetica del D. si legge nella raccolta del Gallo: Poesie italiane e latine e prose, a cura di A. Gallo, Palermo 1843; cui lo stesso fece seguire le Giunte alle rime del Costanzo, s. l. né d. [ma Palermo 1843]; l'edizione del Gallo comprende 177 sonetti (più i quattro delle Giunte), alcuni componimenti volgari di altro metro e una decina di carmi latini; a questi bisogna aggiungere gli inediti del ms. 180 del fondo S. Martino dellaBiblioteca nazionale di Napoli, pubblicati da S. Longhi in Rinascimento, XV (1975), pp. 250-290. Manca un'edizione moderna dell'Istoriadel Regno di Napoli pubblicata nel 1805 a Milano nella collezione dei "Classici italiani", preceduta da una vita dell'autore di G. B. Tafuri e ristampata più volte intorno alla metà del secolo scorso. Dall'epistolario, infine, a parte le poche lettere pubblicate dal Gallo, manca anche la recensione del materiale esistente (per questo vedi: P. O. Kristeller, Iter Italicum, I e II, ad Indices).

Bibl.: G. M. Crescimbeni, Trattatodella bellezza della volgar poesia, Roma 1712, passim; G. B. Tafuri, Notizie ... intorno alla persona eall'operadi A. D., Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, per A. Calogerà, X, Venezia 1734, pp. 28-124; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, Napoli 1770, 20, p. 345; U. Foscolo, Vestigi della storia del sonetto ital., in Edizione. naz. d. opere, VIII, pp. 137 s.; P. E. Visconti, Considerazioni intorno alla vita di A. D., Roma 1844; S. Volpicella, Delle poesie e della vita di A. D., in Studi di letteratura, storia e arti, Napoli 1876; F. Torraca, L. Tansillo, in Studi di storia d. letter. napol., Livorno 1884, pp. 213 ss.; B. Capasso, Le fonti d. storia d. provincie napol. dal 568al 1500, Napoli 1902, pp. 137-47; L. E. Kastener, Desportes et A. D., in Revue d'hist. littéraire de la France, XV (1908), 2, pp. 330 ss.; G. Rosalba, Di un nuovo codice della poesia di A. D., in Rass. critica d. letter. ital., XVI (1911), pp. 161-67; Id., Tre sonetti rari di A. D. e quattro di L. Tansillo, ibid., XVIII (1913), 2, pp. 64-71; F. Lo Parco, Alessandro Magno invidioso di Leone X in un epigramma di A. D., in Fanfulla della domenica, 9 luglio 1916; P. Veltri, Dagli appunti per una futura biografia di A. D., "Il così detto esilio", Napoli 1921; A. Borzelli, A. D., nota e note, Milano 1921; B. Croce, A. D., poeta e storico, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, s. 1, pp. 88-107; J. G. Fucilla, The Italian imitation of Jéronimo de Heredia, in Modern language notes, LXIV (1929), 5, pp. 318-23; L. Caretti, A. D. volgarizzatore del Petrarca, in Studi e ricerche di letter. ital., Firenze 1951, pp. 111-39; L. Baldacci, Lirici del Cinquecento, in Inventario, XXX (1953), pp. 84-98; B. Croce, A.D. supposto falsario dei "Diurnali" dello Spinelli, in Aneddoti di varia letter., II, Bari 1953, pp. 37-40; E. Fueter, Storia della storiografia moderna, Milano 1970, I, p. 159; E. Pontieri, C. Porzio storico, in Arch. stor. d. prov. napol., XXXIV (1957), pp. 141 s.; R. Colapietra, La storiografia napol. d. secondo Cinquecento, in Belfagor, XVI (1961), 4, pp. 416-24; S. Longhi, Primo bilancio sulle rime del Costanzo, in Studi di filologia e letter. ital. offerti a C. Dionisotti, Milano-Napoli 1973, pp. 209-18; Id., Una raccolta di rime di A. D., in Rinascimento, XV (1975), pp. 231-290; R. Cremante, Per il testo delle "Rime" di A. D., in Studi e problemi di critica testuale, XVI (1978), pp. 81-98.

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