DI CAPUA, Annibale

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DI CAPUA, Annibale

Matteo Sanfilippo

Nacque a Napoli verso la metà del XVI secolo da Vincenzo, terzo duca di Termoli, e Maria Di Capua, figlia di Ferrante, secondo duca.

I Di Capua erano di antica nobiltà: nel 1070 un Aldemaro de Capoa, abate di S. Stefano e S. Lorenzo fuori le Mura a Roma, fu fatto cardinale da Alessandro II. Grandi feudatari nel Molise, iniziarono a gravitare verso Napoli con la restaurazione aragonese: erano considerati fra le famiglie più fedeli alla Corona di Spagna.

Non sappiamo niente del D. finché non fu inviato a studiare giurisprudenza a Padova, dove conobbe Torquato Tasso, che lo ricordò nel manoscritto del Rinaldo (VIII canto) come suo protettore. All'epoca (1562) il D. doveva già essere sacerdote ed era considerato futuro successore dello zio Pietro Antonio all'arcivescovato di Otranto. A Padova non riuscì a terminare gli studi, forse distratto dalla frequentazione di salotti letterari, ma anche dalle opportunità meno accademiche offerte dalla vita studentesca. Si dovette trasferire a Pavia, dove divenne infine doctor utriusque iuris e dove fece, parte dell'Accademia degli Affidati. Nuovamente trasferitosi, iniziò a studiare teologia a Roma dai gesuiti: si distinse per le qualità oratorie e divenne amico del cardinale Ugo Boncompagni. Quando questi ascese al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII, il D. fu nominato referendario di entrambe le Segnature e cameriere segreto.

Nel 1576 fu inviato a Praga quale nunzio straordinario presso Rodolfo II recentemente eletto imperatore: formalmente doveva soltanto porgere gli auguri del pontefice, in realtà doveva controllare l'affidabilità del nuovo imperatore. La missione durò meno di due mesi; nel gennaio del 1577 il D. era di ritorno a Roma, dove ebbe la nomina a nunzio ordinario a Venezia. La nunziatura (luglio 1577-novembre 1578) non si segnalò per eventi particolari: il D. raccolse notizie sull'andamento della Controriforma negli Stati limitrofi e si dedicò nuovamente ai suoi interessi letterari. Cercò inoltre di ridurre le pretese di autonomia del patriarca di Aquileia, G. Grimani, ma non ebbe successo.

A Venezia gli giunse notizia della nomina ad arcivescovo di Napoli, nomina voluta personalmente dal papa, che suscitò numerose polemiche: l'arcivescovato di Napoli spettava per tradizione a un Orsini o a un Aragona, mentre al D. era destinato quello di Otranto. Dopo asprissime discussioni il D. poté entrare in Napoli nel febbraio 1579.

La sua attività di arcivescovo si segnalò per lo zelo controriformistico ed ebbe tre obiettivi principali: disciplina del clero e dei monasteri, intensificazione della censura e del controllo sulla stampa, costruzione o ristrutturazione di edifici sacri. Nel 1580 indisse una "santa visita" dell'arcidiocesi e promosse un sinodo provinciale. Grazie alla visita pastorale ebbe chiari i maggiori problemi della Chiesa di Napoli: ignoranza e inerzia del clero; rilassatezza morale di molti monasteri; difficoltà nei rapporti con il potere regio, causate dalle pretese giudiziarie della corte su chiese, ospedali e opere pie; inadeguatezza delle parrocchie. Nominò una commissione per risolvere il problema delle parrocchie: la commissione propose di crearne venticinque nuove e di chiedere al papa la concessione di 3.000 ducati l'anno, dalle franchige delle gabelle pagate al clero regolare della città, per reperire le rendite necessarie. Il D. scrisse un memoriale e cercò di convincere Roma; ma l'iniziativa non ebbe seguito. Nel frattempo ordinò la soppressione di alcune vecchie parrocchie e il trasferimento alla cattedrale dei benefici di queste. La situazione non fu però risolta, se ancora nel 1590 un memoriale del canonico Agnello Russo ricordava l'esistenza degli stessi problemi rilevati nel 1580.

Il D. cercò inoltre di provvedere allo stato spirituale della sua arcidiocesi: tentò di migliorare l'educazione religiosa del clero, favorì le missioni interne, fece venire a Napoli gli oratoriani. Infine, intensificò il controllo sulla pubblicazione e la vendita di libri. Il 28 genn. 1583 ordinò che non si stampasse senza l'approvazione di tre delegati arcivescovili (il teologo Giovanni Battista da Potenza, il canonico Giovanni Francesco Lombardo, il carmelitano Filocalio Faraldo da Napoli) e senza la licenza rilasciata dall'arcivescovo o dal suo vicario. Stabilì inoltre che tutti i librai fossero obbligati, pena la scomunica e la perdita dei libri, a preparare un elenco di tutte le opere in vendita: temeva infatti che fossero venduti libri stampati all'estero. Per la stessa preoccupazione nominò altri tre delegati per controllare i libri in entrata e in uscita. In tutte le sue attività napoletane il D. fu costantemente coadiuvato dai gesuiti.Nell'estate del 1586 il D. fu nominato nunzio con potere di legato a latere in Polonia presso la corte di Stefano I Báthory.

Questi, che stava progettando un'espansione verso Oriente ai danni della Russia, aveva infatti chiesto di sostituire mons. G. V. de Buoi, vescovo di Camerino, con un nunzio di maggior prestigio, uomo di grande nobiltà, fortuna, autorità, che potesse essere tramite efficiente con la S. Sede in una situazione estremamente delicata. La scelta cadde sul D., che aveva quei requisiti (godeva tra l'altro di una rendita annuale di quasi 16.000 scudi), era ben visto a Roma e a Madrid e soprattutto era molto ambizioso, quindi disposto ad affrontare anche grossi rischi.

Nel settembre il D. abbandonò la sua arcidiocesi, si fermò a Roma per ricevere le necessarie istruzioni e proseguì per Venezia con Antonio Possevino, che lo doveva mettere al corrente della situazione nell'Europa orientale. Il 1º genn. 1587 fu raggiunto dalla notizia della morte del Báthory: richiese istruzioni da Roma e gli fu ordinato di affrettarsi.

Da un memorandum di A. M. Graziani, segretario di Stato del pontefice, sappiamo che a Roma si decise di accelerare la missione e di far proseguire il D. "per non arrischiar la dignità d'un cardinale per cose tanto incerte" (Biaudet). Lo stesso documento sottolineava la necessità di dargli un compagno, che conoscesse il regno di Polonia, ma il nunzio non poté usufruire di un tale consigliere e si trovò gettato allo sbaraglio. La vera ragione, per la quale il D. doveva affrettarsi, era la ferma volontà pontificia di impedire al nuovo re, chiunque egli fosse, il giuramento di osservanza dei pacta conventa. Questi contenevano gli "articoli di Enrico", cosiddetti da Enrico di Valois, che per primo li aveva giurati, nei quali erano inserite le deliberazioni della Confederazione di Varsavia del 1573 sul principio della tolleranza religiosa. L'infrazione del giuramento comportava automaticamente il diritto dei sudditi a considerarsi sciolti da ogni obbligo verso il sovrano.

In Polonia il D. si trovò di fronte a una difficile successione: la nobiltà polacca era divisa in due fazioni, pro e contro gli Asburgo, ognuna con un suo candidato al trono. La fazione filoasburgica, per lo più di origine tedesca, voleva un membro della casa imperiale. La fazione opposta, guidata dal gran cancelliere del Regno, Giovanni Zanoyski, e dalla vedova del Báthory, Anna Iagellone, voleva un candidato di origine polacca, sostenitore di una politica attenta al pericolo per l'indipendenza della Polonia rappresentato dall'Impero: candidato di questa fazione fu Sigismondo Vasa, figlio di Giovanni III di Svezia e di Caterina Iagellone.

Il D. ebbe ordine di sostenere un candidato della casa d'Asburgo, se possibile l'arciduca Massimiliano, e di offrire alla Polonia ogni sorta di aiuti in cambio di una simile elezione. Sia il pontefice sia il nunzio erano convinti che il Vasa avrebbe giurato i pacta e temevano uno spostamento della Polonia nella sfera di influenza protestante. Il D. iniziò quindi la sua attività pubblica con un discorso per l'elezione, nella quale lodava il regno di Stefano Báthory e ricordava come un regno solido fosse sempre basato sulla saldezza della religione cattolica.

La scelta filoasburgica del papa era pienamente condivisa dal D., del quale bisogna rammentare la fedeltà, tradizionale nella sua famiglia, ai re di Spagna: fedeltà riaffermata in una lettera personale a Filippo II, scritta nel novembre 1586, prima di partire per la Polonia, e in successive missive al duca di Parma, a don Giovanni de Zuñiga, viceré di Napoli, e a Filippo Sega, vescovo di Piacenza e nunzio presso l'imperatore. Tale inclinazione del D. non era condivisa dalla Chiesa polacca: il primate di Polonia e la maggior parte del clero erano per Sigismondo, mentre i Lituani si astenevano dal sostenere un qualunque candidato. Lo stesso Possevino era personalmente favorevole al Vasa in funzione di un disegno strategico contro i Turchi: fu fatto quindi richiamare in Italia.

Il 19 ag. 1587 Sigismondo Vasa fu eletto re di Polonia; tre giorni dopo la fazione filoasburgica rispose eleggendo Massimiliano: era la guerra civile. Il D. confermò il suo appoggio a quest'ultimo e commise gravi imprudenze diplomatiche visitandone il campo, mentre rifiutava d'incontrare il Vasa. La sua scelta e il suo evidente disprezzo per i Polacchi misero fuori gioco il nunzio, quando Massimiliano fu preso prigioniero dallo Zanoyski. Il papa dovette ordinare al nunzio di riconoscere Sigismondo III re di Polonia e inviare il cardinale Ippolito Aldobrandini (il futuro papa Clemente VIII) come legato a latere per negoziare la pace e la libertà dell'arciduca (conferenza di Byton-Bedzin, 1589). Durante le trattative il D. continuò a informare la casa d'Asburgo, tanto che i Polacchi non lo vollero alla conferenza.

Liberato Massimiliano, il D. restò in Polonia alcuni anni, ma la sua posizione era ormai irrimediabilmente danneggiata. Riuscì a rientrare nelle grazie del nuovo sovrano e di Anna Iagellone e questi richiesero per lui la porpora nel 1591; ma a Roma non si aveva più fiducia nel nunzio. Parenti e amici cercarono di perorare la sua causa, che sembrò migliorare quando Lucrezia Cibo Malaspina, figlia di un cognato del nunzio, sposò Ercole Sfondrati, nipote di Gregorio XIV, ma quest'ultimo morì dopo neppure un anno di pontificato. Gli ultimi anni della nunziatura di Polonia passarono senza eventi di rilievo: il D. raccolse informazioni sull'impero turco, cercò di evitare riavvicinamenti diplomatici fra questo e il regno polacco e di interrompere i contatti fra Sigismondo III ed Elisabetta d'Inghilterra, promosse con scarsi esiti la penetrazione cattolica in Moldavia.

Nel 1591, ormai gravemente malato di gotta, fu finalmente richiamato a Roma: sulla strada del ritorno si fermò alla corte imperiale per rendere conto delle sue attività in Polonia. Proseguì quindi per l'Italia, si fermò nuovamente a Venezia, dove gli scrisse il Tasso, dopo decenni di silenzio, per domandare aiuto e protezione. Giunto infine a Roma e appurata definitivamente l'impossibilità di ottenere la porpora, cercò di ritornare il più rapidamente possibile alla sua Napoli, che non aveva cessato di seguire durante gli anni polacchi.

Riprese alacremente l'attività pastorale, mostrando di non aver perso il suo zelo controriformistico. Attese all'organizzazione delle parrocchie e dei monasteri, affrontando i problemi annosi che aveva già cercato di risolvere dieci anni prima. Fece abbattere gli edifici fatiscenti e numerose cappelle, commissionò nuove opere per il duomo. Tornò soprattutto a interessarsi attivamente del controllo dei libri: l'esperienza polacca gli aveva infatti mostrato le conseguenze dell'anarchia e dell'eresia, come scrisse nelle lettere ai suoi delegati.

Nel 1587 aveva fatto solennizzare con un editto formale il rogo dei libri sequestrati e aveva ordinato che i possessori di libri proibiti dovessero consegnarli alla Curia pena la scomunica. I roghi si succedettero regolarmente ogni anno nel giorno dei ss. Pietro e Paolo. Nuovi editti sul tema apparvero in sua assenza nel 1588, nel 1589, nel 1590 e nel 1591, mostrando che in fondo essi non davano i risultati sperati. Nel 1592 fu pubblicato un nuovo editto contro i possessori di libri proibiti: si richiedeva nuovamente l'elenco dei libri messi in vendita nelle librerie di Napoli. Nel 1593 il D. rivolse la sua attenzione anche ai rivenditori al minuto e agli ambulanti. In un sinodo del 1595 ribadì i precedenti divieti e ordinò che i maestri di scuola fornissero la lista dei libri che intendevano leggere e commentare. Nel luglio dello stesso anno proibì il possesso di Bibbie, Evangeli, Epistole in volgare e ordinò nuovamente che tutti i libri proibiti fossero portati al palazzo arcivescovile. Il parossistico intensificarsi di questi divieti lo portò non soltanto in conflitto con la cultura napoletana dell'epoca (e in particolare in una continua polemica con lo scienziato e studioso G. B. Della Porta), ma a decisioni paradossali, quali la richiesta di un controllo preliminare sulle iscrizioni funebri.

Durante i suoi ultimi anni il D. si interessò anche degli aspetti della liturgia e cercò di regolamentare lo svolgimento delle festività religiose: in particolare vietò i fuochi d'artificio e i colpi d'arma da fuoco. Nel sinodo del 1595 stabili un controllo sulle prediche e proibì di promulgare indulgenze. Richiese inoltre che tutti i maestri e i lettori dessero all'arcivescovo una professione di fede e fissò alcune norme per i regolamenti di confraternite, compagnie, economie. Proibì infine le messe negli oratori privati durante le festività principali.

Morì a Napoli il 2 sett. 1595.

Dopo la sua morte la Camera apostolica sequestrò i suoi beni, compreso l'archivio privato con tutte le sue lettere. Dalla curia napoletana sparì anche l'originale del sinodo del 1595.

È difficile valutare l'importanza del personaggio. Educato come un grande del vicereame di Napoli, non rinnegò mai la fedeltà alla Spagna e agli Asburgo, anche a scapito dei propri interessi. Grande oratore a detta dei suoi contemporanei, non fu un altrettanto abile diplomatico nonostante una fitta rete di contatti personali. Frequentò ambienti colti, ma non dimostrò una profonda cultura. Visse sempre al disopra dei suoi mezzi, che pure erano copiosi; morendo, lasciò 40.000 scudi di debiti, nonostante i frequenti aiuti del fratello Ferrante, duca di Termoli. Anche il suo zelo controriformistico ebbe scarsi risultati. Fu figura emblematica del trapasso politico e culturale avvenuto in Italia nella seconda metà del sec: XVI e dell'incapacità di saper comprendere i mutamenti dei tempi.

Opere: De auspicata salute, [Venezia] s.d.; Oratio Annibalis de Capua nuntii, habita ad illustrissimum Senatum Regni Poloniae et magn. Ducatus Lithuaniae, pro nova regis electione, Romae 1587; Editto intorno all'ordine et modo che s'ha da tenere per introdurre et estraere stampar libri et altre scritture et per le visite delle stampe et librarie nella città di Neapoli, Napoli 1591.

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