GRISONIO, Annibale

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRISONIO (Grisoni), Annibale

Silvano Cavazza

Nacque a Capodistria, nell'Istria veneziana, intorno al 1490.

Mancano notizie sui genitori. Il cognome era molto diffuso a Capodistria, ma non sembrano imparentati con lui né Francesco Grisonio (m. 1550) - nel 1545 oratore della città a Venezia per l'elezione del doge F. Donà, seguace del vescovo P.P. Vergerio, di cui aveva sposato la nipote - né un altro Francesco Grisonio, figlio di una sorella del vescovo, divenuto francescano osservante e avversario dello zio. Qualche notizia sui parenti diretti del G. è offerta da Vergerio, in un libro pubblicato nel 1549 subito dopo la fuga dall'Italia: aveva "due fratelli frati di zoccoli, et due sorelle monache, et due pizzocchere" (1549, c. [b3]v); è noto il nome di un altro fratello, Giovanni Andrea, laico, che viveva a Capodistria nel 1546.

Il G. abbracciò la carriera ecclesiastica e passò gran parte della vita lontano dalla città natale. Il 19 ag. 1520 è menzionato a Padova come testimone nel conferimento di una laurea; era allora già sacerdote, ma ancora studente. Manca l'attestazione della laurea in utroque iure, sicuramente conseguita negli anni successivi, probabilmente a Padova. All'inizio degli anni Trenta compì un soggiorno a Roma e nello stesso periodo divenne canonico del duomo di Capodistria. Nel 1534 si trovava a Venezia, al servizio del nunzio pontificio G. Aleandro come esperto giuridico; in tale veste il 2 giugno sottoscrisse la condanna al carcere perpetuo per eresia di un luterano.

Nel 1540 il cardinale Francesco Corner, amministratore della diocesi di Brescia, lo nominò vicario generale.

Nella prima metà del Cinquecento la città aveva forti legami con la Chiesa capodistriana: B. Assonica, vescovo di Capodistria dal 1503 al 1529, era stato anche vicario a Brescia; il suo successore D. Valvassori (bergamasco come l'Assonica) aveva svolto in città funzioni episcopali, in assenza del cardinale Corner.

Il G., associato nelle sue funzioni con D. Savallo, patrizio bresciano e arciprete di Salò, fu confermato nella carica nel 1543 dal vescovo di Brescia Andrea Corner, nipote del cardinale Francesco. Per l'assenza dei titolari il G. ebbe la completa responsabilità della guida della diocesi. Dal 5 al 22 ott. 1540 effettuò la visita pastorale di 41 parrocchie, da Verziano a Travagliato, di cui è pervenuta un'ampia relazione; nel 1541 fece pubblicare a stampa la tabella, da distribuire ai confessori, dei casi per cui l'assoluzione era riservata all'autorità vescovile: Casus episcopales quorum absolutio reservata est per r.d. Annibalem Grisonium iuris utriusque doctorem (foglio volante, s.n.t.).

Il G. curò molto la formazione spirituale dei fedeli. Brescia in quegli anni attraversava un periodo di particolare fervore religioso; allo stesso tempo tra il clero e i laici della diocesi si diffondevano il luteranesimo e posizioni ostili alla Chiesa romana. Egli si propose di venire incontro alle esigenze di rinnovamento spirituale circolanti, purché si indirizzassero verso forme controllate dall'autorità vescovile e pienamente conformi all'ortodossia.

All'inizio del 1544 invitò il gesuita Giacomo Laínez a predicare nella cattedrale per la Quaresima. Laínez iniziò le sue prediche il 24 febbraio e rimase in città per sei mesi: tenne l'ultimo sermone per la festività di S. Lorenzo (10 agosto). La sua attività portò a numerose riconciliazioni con la Chiesa e a roghi di libri eterodossi. Prima di partire, d'intesa con il G., fondò una congregazione ("ristretto") di 12 sacerdoti, particolarmente impegnata nella confessione dei fedeli; in seguito, in una lettera a Ignazio di Loyola del 19 sett. 1544, ebbe parole di elogio per il Grisonio. Un'analoga prospettiva di riforma religiosa fu seguita dal G. nel 1545, quando affidò l'assistenza spirituale delle religiose di S. Maria della Pace a Francesco Cabrini, che in precedenza aveva avuto difficoltà con le autorità ecclesiastiche quale seguace dell'eremita fra Raffaele (Cistellini, 1955, pp. 29 s.; Prosperi, 1972, attribuisce il conferimento dell'incarico al successore).

Fin dall'inizio del suo vicariato il G. si mostrò inflessibile verso le infiltrazioni luterane. Già nella visita pastorale dell'autunno 1540 perseguì il prete G. Fornasini, che negava il celibato del clero e l'astinenza del venerdì citando le Epistole di s. Paolo. Dopo l'istituzione del Sant'Uffizio da parte di Paolo III (21 luglio 1542), il G. istituì il tribunale inquisitoriale della diocesi, sotto la sua presidenza in quanto vicario generale e con l'assistenza di un frate domenicano in veste di inquisitore. Il primo processo venne celebrato nel marzo 1543; in breve tempo le inchieste dell'Inquisizione suscitarono l'allarme delle autorità municipali che protestarono a Venezia. Quando, nell'agosto del 1544, venne denunciato per eresia il capitano della Valcamonica, intervenne il governo veneziano e il G. non poté portare a termine il processo. Nel marzo del 1545 fu sostituito nella carica di vicario da Gian Pietro Ferretti, vescovo titolare di Milo.

Nel corso dello stesso anno il G. si trasferì a Venezia, nella casa dei teatini in S. Nicola da Tolentino: forse è proprio lui quel "sacerdote di Bressa", non conosciuto a Venezia, su cui il 9 dic. 1545 chiedeva informazioni a Salò il superiore della congregazione (Paschini, 1926). Negli anni seguenti il G. prese residenza ai Tolentini e fu comunemente considerato un teatino. Rimase tuttavia molto legato ai gesuiti, attraverso il patrizio Andrea Lippomano, protettore della Compagnia a Venezia, ma in precedenza discepolo di G.P. Carafa; nella primavera del 1548 Ignazio di Loyola intervenne ripetutamente a Roma per fare conferire al G. la facoltà di concedere l'assoluzione anche per i casi riservati.

A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta la biografia del G. s'intreccia con le vicende del vescovo di Capodistria Vergerio, con il quale c'erano già stati motivi di contrasto perché, nonostante la sua carica di canonico del duomo, il G. non risiedette mai nella diocesi. Nel dicembre 1545 Vergerio, già sotto processo presso il Sant'Uffizio veneziano, passò per Brescia, suscitando l'allarme del vicario Ferretti. In questa occasione il G. scrisse a un fratello a Capodistria, per metterlo in guardia contro il vescovo accusato di luteranesimo. Nel corso del 1548 Girolamo Muzio, un capodistriano nemico del Vergerio, inviò da Milano una serie di lettere al G. per attaccare il vescovo che aveva introdotto nella loro città natale "la schuola del diavolo" (Muzio, 1550, c. 84v). In luglio il nunzio a Venezia Giovanni Della Casa aprì una nuova inchiesta sul Vergerio, e nel frattempo gli intimò di non ritornare più a Capodistria. Il 22 dicembre arrivò da Roma la richiesta di arrestare il vescovo; contemporaneamente il G. venne nominato commissario inquisitoriale per l'Istria, con i più ampi poteri.

L'incarico era stato sollecitato già il 6 ott. 1548 con una lettera del domenicano Tommaso Stella, vescovo di Lavello, al cardinale M. Cervini (Buschbell, p. 276). Un altro sostenitore del G. era stato il curiale capodistriano Antonio Elio, appena nominato vescovo di Pola come successore di Giovanni Battista Vergerio (fratello di Pietro Paolo), morto da poco. Il commissario doveva in primo luogo raccogliere informazioni contro Vergerio e i suoi seguaci; il mandato gli concedeva di procedere anche in modo sommario e riservato, con piena facoltà di assolvere direttamente i pentiti, dovendo riferire solo ai cardinali del Sant'Uffizio romano. Il Consiglio dei dieci offrì al G. l'assistenza dei propri capitani in Istria e respinse le proteste delle autorità municipali di Capodistria, per le quali il G. non appariva idoneo a quel compito per le parentele e relazioni che intratteneva in città.

Il G. iniziò la sua visita a Capodistria il 3 dic. 1548, restando in città fino al 31 genn. 1549; il 1° febbraio si trasferì a Pirano, nella medesima diocesi; fece ritorno nel capoluogo il 18, proseguendo la sua opera per il resto del mese. Prima di iniziare gli interrogatori tenne nella cattedrale due prediche: nella prima invitò i fedeli a denunciare e a punire severamente gli eretici ("i catholici doveriano lapidar i luherani", Campana, p. 222); nella seconda sostenne che la carestia da cui la città era afflitta rappresentava la punizione divina per i peccati contro la fede dei suoi abitanti. A Capodistria egli interrogò oltre duecentodieci testimoni, assistito da un notaio bresciano da lui stesso designato, dal capitano veneziano e da due domenicani del luogo. Ottanta persone furono accusate di eresia, trentaquattro delle quali si presentarono spontaneamente; quasi tutti confessarono i propri errori e abiurarono. Due soli inquisiti furono arrestati e inviati a Venezia per il processo. A Pirano i testimoni furono cento, i rei confessi che abiurano sette. Il 1° febbraio il commissario ricevette l'ordine di trasmettere a Roma gli indizi che aveva raccolto contro Vergerio, ma già il 18 gennaio precedente il Consiglio dei dieci aveva ordinato l'arresto del vescovo, che però non si fece trovare e il 1° maggio lasciò definitivamente l'Italia per la Svizzera.

A Pola, dove si trasferì il 28 febbraio, il G. fu ostacolato nella sua azione dal capitano veneziano Girolamo Calbo, che venne a sua volta accusato di eresia. La missione si protrasse fino al 3 maggio: il G. ascoltò ottantuno testimoni e inquisì ventotto persone, di cui otto abiurarono; alcuni imputati, tra cui tre canonici del duomo e il parroco della vicina Dignano, si sottrassero al processo con la fuga.

Nel frattempo si erano ripetute le accuse e le proteste contro l'azione del commissario; il nunzio G. Della Casa a Venezia lo difese strenuamente, ma all'inizio di maggio la missione fu interrotta, senza che egli potesse visitare le altre località dell'Istria. Le polemiche sul suo operato continuarono per tutta l'estate del 1549; il 31 agosto G. Calbo scrisse di lui al vescovo Elio, definendolo uomo "il più tristo et il più scelarato che produsse mai la natura", nonostante ad alcuni potesse apparire "il più santo huomo et il più da bene che si trovi" (Negri, p. 607). Nello stesso periodo Vergerio pubblicò a Poschiavo, in Svizzera, un libro in cui denunciava in toni drammatici l'"afflittione et persecutione" messa in atto dall'inquisitore nella sua antica diocesi.

A Roma, invece, furono molto soddisfatti dell'azione del G.; il 20 luglio 1549 un breve pontificio gli dava facoltà di continuare la sua attività di commissario a Conegliano, nella diocesi di Treviso. In agosto il nunzio Della Casa propose che fosse inviato come inquisitore a Brescia; in una lettera del 31 agosto infine chiedeva per lui (senza successo) la diocesi di Lavello, lasciata libera da Tommaso Stella, passato a Capodistria. In ottobre il G. venne inviato a Chioggia, per indagare sul vescovo di quella città, Giacomo Nacchianti, che era sotto inchiesta da oltre un anno per posizioni giudicate eterodosse. Gli interrogatori iniziarono l'8 ottobre e prima della fine del mese il G. fu in grado di stendere un'ampia relazione per il nunzio. Dopo la morte di Paolo III (10 nov. 1549) Nacchianti si recò a Roma e ritrattò, conservando così la sua carica.

Negli anni seguenti il G. risiedette a Venezia, dove ebbe la cura spirituale delle monache di S. Giustina; collaborò anche come canonista con il nuovo nunzio pontificio, Ludovico Beccadelli. Egli era molto temuto per gli stretti rapporti che intratteneva, quale teatino e collaboratore del Sant'Uffizio, con il cardinal Gian Pietro Carafa, capo dell'Inquisizione romana; per questo motivo fu spesso in conflitto, con grande imbarazzo del nunzio, sia con i francescani, che avevano in città la responsabilità della conduzione dei processi inquisitoriali, sia con la magistratura dei Tre savi all'Eresia. Nel febbraio 1552 corse voce che il G. avesse in mano una lista di duecento patrizi sospettati di idee eterodosse; la notizia si mostrò infondata, ma suscitò egualmente vivaci reazioni. Questa condotta intransigente riscosse critiche anche in Curia: il 5 marzo il cardinale M. Cervini scrisse da Roma al nunzio, lamentando "la poca desterità del Grisonio nelle materie delle heresie" (Nunziature di Venezia, VI, p. 64).

All'inizio del 1551 il G., in qualità di avvocato canonista, difese i barnabiti.

Il 19 febbr. 1551 il Consiglio dei dieci aveva infatti intimato ai membri forestieri della Congregazione di abbandonare il territorio della Repubblica. A Venezia i religiosi avevano trovato ampio seguito negli ambienti patrizi, ma il loro proselitismo preoccupava le autorità.

Nel febbraio 1552 il Sant'Uffizio romano, allarmato per le posizioni eterodosse che erano affiorate tra i barnabiti in altre sedi, fece compiere a Venezia un'inchiesta sul loro conto dal nunzio e dal Grisonio. Questi, in marzo, si recò personalmente a Roma per riferire sulla delicata questione, prendendo alloggio in casa del cardinale Carafa. Non è sicuro, tuttavia, che le accuse mosse ai membri veneziani della Congregazione trovassero origine proprio da lui. Il G. era molto vicino agli ambienti devoti che si occupavano degli ospedali e delle opere di carità. Continuò anche a manifestare la propria amicizia nei riguardi dei gesuiti: nel 1553-54 procurò di trovare fonti di reddito al collegio veneziano della Compagnia, che era in grandi difficoltà finanziarie e lo stesso Ignazio di Loyola lo ringraziò nelle sue lettere.

Il 24 marzo 1558 Paolo IV nominò il G. commissario inquisitoriale per l'Istria, la Dalmazia e il Friuli. Dalle diocesi di quelle regioni arrivavano a Roma notizie allarmanti sulla cattiva condotta del clero e sulla diffusione dell'eresia. Nello stesso periodo in cui veniva emesso il provvedimento Vergerio aveva attraversato il Friuli per raggiungere Duino, in territorio austriaco ma poco distante da Capodistria, dove si era fermato dal 18 al 25 marzo, incontrando parenti e seguaci. Il G. iniziò la visita da Capodistria il 27 aprile, avocando a sé i processi per eresia in corso presso il tribunale vescovile. In maggio interrogò i parenti di Vergerio (compresi i due figli del defunto Francesco Grisonio, di 9 e 10 anni), sequestrò molti libri distribuiti dall'antico vescovo e condannò all'abiura due suoi seguaci. Per Antonio de Apollonio, che era relapso avendo già ritrattato nel 1549, raccomandò clemenza al Sant'Uffizio, perché era "persona povara, carico de famiglia […] et piutosto semplice che maligno" (Del Col, 1998, pp. 112 s.). Anche per questa nuova inchiesta Vergerio attaccò violentemente l'inquisitore, chiamandolo in un libro pubblicato nello stesso anno "monsignor "Animale" Grisonio, quel pover chietino" (Vergerio, 1558, c. D1v).

Il G. fu inflessibile nei riguardi degli ecclesiastici concubinari o indegni: in maggio mise sotto inchiesta lo stesso vescovo di Capodistria, T. Stella, e dieci tra preti e frati. Nella seconda metà del mese si recò in altre località dell'Istria veneziana, prendendo provvedimenti contro una trentina di sacerdoti. Ritornato a Capodistria, raccolse le abiure segrete di altri sei accusati di eresia. L'11 e 12 giugno condannò per concubinato e violenze il vescovo di Parenzo P. Gritti; in luglio processò nelle diocesi di Ossero e di Cherso oltre cinquanta persone, tra ecclesiastici e laici, per diverse violazioni del diritto canonico. Tra luglio e settembre fu ad Arbe, poi a Rovigno, emettendo altre condanne per eresia, atti di irreligiosità e concubinato: tutti gli inquisiti abiurarono e si riconciliarono con la Chiesa. In settembre esaminò il caso del vescovo di Veglia, A. Dumio, che aveva molto preoccupato Paolo IV. La complicata questione si presentò meno grave del previsto: si trattava essenzialmente di un conflitto tra il vescovo e la comunità cittadina, che aveva dato luogo a una interminabile serie di denunce e controdenunce. In ottobre il G. dovette interrompere bruscamente la sua missione per una grave malattia che lo obbligò a ritornare a Venezia. Era ancora infermo il 16 dicembre.

Le ultime notizie sul G. risalgono al giugno 1559 (Del Col, 1998, pp. XXXVII s.; Firpo - Marcatto, pp. 609-611). La morte dev'essere avvenuta, probabilmente a Venezia, in una data di poco successiva.

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