ANTINOMIA

Enciclopedia Italiana (1929)

ANTINOMIA (gr. ἀντινομία; fr. antinomie; sp. antinomia; ted. Antinomie; ingl. antinomy)

Vito FAZIO-ALLMAYER

Dicesi antinomia la coesistenza di due leggi fra di loro contraddittorie e riferentisi ad un unico oggetto. Basandosi sul principio di contraddizione, l'esistenza dell'antinomia prova o che l'oggetto delle due leggi non esiste, o che si tratta solo apparentemente d'un unico oggetto.

Kant si serve di questo mezzo per dimostrare che non possiamo pensare i fenomeni del mondo sensibile come cose in sé, né i principî del loro collegamento come aventi valore per le cose in sé e non soltanto per l'esperienza; ma se ne serve soprattutto per dimostrare la necessità per la filosofia di svegliarsi dal sonno dogmatico e dedicarsi alla critica della ragione. È appunto "per togliere lo scandalo dell'apparente contraddizione della ragione con sé stessa", rivelatogli dallo studio di Hume, che Kant si pose alla sua opera critica. La dottrina delle antinomie è perciò fondamentale per intendere la posizione della filosofia critica. L'antinomia della ragione pura è costituita da quattro tesi, alle quali si oppongono quattro antitesi. Ciascuna di queste coppie si riferisce a una delle quattro classi delle categorie (quantità, qualità, relazione e modalità).

Prima coppia: il mondo ha un cominciamento nel tempo e un limite nello spazio; il mondo è infinito nel tempo e nello spazio.

Seconda coppia: tutto nel mondo consta di elementi semplici; non vi è niente di semplice, tutto è composto.

Terza coppia: vi sono nel mondo delle cause agenti con libertà; non vi è libertà, ma tutto nel mondo accade secondo le leggi della natura.

Quarta coppia: nel mondo vi è un essere necessario; non esiste un essere assolutamente necessario né nel mondo, né fuori del mondo come sua causa.

Queste coppie sono, secondo Kant, dimostrabili in modo inoppugnabile: la tesi si dimostra sempre mediante la confutazione dell'antitesi e viceversa. Kant chiama matematiche le prime due antinomie, perché esse si occupano dell'addizione e della divisione dell'omogeneo, dinamiche le altre due, perché si occupano del collegamento di cose che possono anche essere eterogenee. Questa eterogeneità è però solo un presupposto, e non trova altra giustificazione che nell'esigenza etica del suo pensiero.

Nella prima antinomia, quando ci si riferisce, sia per affermarlo, sia per negarlo, ad un limite del mondo nello spazio o nel tempo, si dovrebbe parlare sempre del mondo della propria esperienza, poiché tempo e spazio sono forme della propria intuizione. Ma poiché non si può esperimentare né uno spazio infinito né un tempo infinito trascorso, né si può esperimentare la limitazione del mondo mediante uno spazio vuoto o un tempo vuoto, tanto il limite quanto l'assenza di limite nel tempo e nello spazio dovrebbero esistere in sé fuori dell'esperienza. Si perviene così al concetto contraddittorio di un mondo sensibile esistente in sé. Quindi tanto la tesi quanto l'antitesi sono false.

Nella seconda antinomia, quando si afferma che il corpo è composto di elementi semplici, o che è sempre decomponibile, si dà come esistente in sé antecedentemente all'esperienza ciò che può essere solo contenuto di esperienza, poiché le parti di un corpo esistono solo nella partizione, ossia nella rappresentazione che ci si fa di esse. Anche in questo caso tesi e antitesi sono false, perché riferite ad un concetto contraddittorio simile a quello che Kant porta ad esempio di "circolo quadrato", del quale si dovrebbe dire che non è rotondo, perché è quadrato, e che è falso che non sia rotondo, perché è circolo.

Per queste antinomie non c'è via d'uscita, poiché, ove si dicesse, per esempio, che il mondo limitato è quello sensibile, e il mondo illimitato è un mondo non sensibile, non si direbbe niente, in quanto non si sa che significato attribuire al tempo e allo spazio in un mondo sovrasensibile.

Diversa è la situazione per le altre due antinomie. In esse infatti la contraddizione sussiste solo se l'essere libero e l'essere necessario si vogliano concepire tutti e due come esseri fenomenici; ma nulla, secondo Kant, ci costringe a farlo, essendo possibile riferire la necessità naturale ai fenomeni e la libertà alle cose in sé, così com'è possibile distinguere la causa del fenomeno dalla causa dei fenomeni, pensabile come cosa in sé. Qui Kant evidentemente dà al termine causa un significato differente da quello che esso ha come collegamento di fenomeni nell'esperienza.

Nelle prime due antinomie si manifesta la contraddizione tra il concetto di totalità come tutto chiuso, proprio dell'intelletto, e la natura infinita della nostra facoltà d'intuire. Ma intelletto e intuizione sensibile debbono concorrere nella formazione della conoscenza dell'esistente, e perciò, dove si contraddicano, distruggono il loro prodotto. Nelle due ultime antinomie si manifesta invece una contraddizione tra la ragione teoretica, che ha un mondo innanzi a sé, e la ragion pratica, che pone un mondo rispetto al quale le esigenze della ragion teoretica varranno solo quando noi ce lo vorremo rappresentare. Queste due funzioni, serbando una relativa indipendenza, permettono di porre come vero tanto quello che deriva dall'una, quanto quello che deriva dall'altra; purché quello che deriva dalla seconda sia presentato solo come postulato pratico e non come conoscenza, perché allora si affermerebbero i contrarî dello stesso sotto lo stesso riguardo e nello stesso tempo.

Anche la ragion pratica ha la sua antinomia che consiste nella impossibifità di considerare la felicità tanto come causa quanto come effetto della virtù. Se essa fosse causa della virtù, non ci sarebbe più virtù, bensì solo azione interessata; ma essa neanche può essere effetto, perché "la connessione pratica delle cause e degli effetti, come conseguenze della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della volontà, ma alla cognizione delle leggi naturali, e al potere fisico di usarle per i proprî fini". La soluzione di questa antinomia è analoga a quella della terza antinomia della ragion teoretica.

Nella critica del giudizio Kant ammette una dialettica non del gusto, ma della critica del gusto considerata nei suoi principî. Essa dà luogo alla seguente antinomia: tesi: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti, perché altrimenti di esso si potrebbe disputare (decidere mediante prove); antitesi: il giudizio del gusto si fonda sopra concetti, perché altrimenti non si potrebbe contestare, qualunque fosse la diversità dei giudizî (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione altrui). La soluzione di quest'ultima antinomia è analoga a quella dell'antinomia della ragion pratica. Kant ne conclude che le antinomie ci costringono a guardare di là dal sensibile e a cercare nel sovrasensibile il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori; poiché non resta nessun'altra via d'uscita per mettere la ragione d'accordo con sé medesima.

Un'ultima antinomia s'incontra nel giudizio teleologico.

La soluzione delle antinomie da punti di vista differenti da quello critico ha formato oggetto particolare di studio delle filosofie post-kantiane.

Bibl.: Kant, Critica della Ragion Pura (dialettica trascendentale, II, capitolo II); Critica della Ragion Pratica (parte 1ª, II, cap. I-II); Critica del Giudizio (parte 1ª, sez. 2ª e parte 2ª, sez. 2ª); Prolegomeni ad ogni futura Metafisica (paragrafi 50-54).

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