DIOSCORO, antipapa

Enciclopedia dei Papi (2000)

Dioscoro, antipapa

Gabriella Braga

Greco di origine e diacono della Chiesa di Alessandria, giunse a Roma nella seconda metà del V secolo per sfuggire alle violenze della fazione monofisita, che lo avevano costretto ad abbandonare la città dove era forse nato: la data della sua fuga da Alessandria è però sconosciuta, così come lo è, del resto, quella del suo arrivo a Roma.

L. Duchesne ha ritenuto che ciò sia avvenuto intorno al 482, e D. sarebbe arrivato accompagnando nell'esilio il patriarca ortodosso di Alessandria Giovanni Talaia. P. Peeters, invece, pensa che D. si sia rifugiato a Roma dopo la morte del papa Gelasio (novembre 496). Comunque la presenza di D., che si legò alla Chiesa romana, non è attestata a nessun titolo dalle fonti note relative ai sinodi romani tenutisi tra il 499 e il 502.

La prima notizia certa della presenza di D. a Roma, connessa con l'altra di una importante missione diplomatica da lui compiuta per conto del papa Simmaco, è tramandata dal cosiddetto Fragmentum Laurentianum del Liber pontificalis, là dove, ricordando la conclusione dello scisma che aveva insanguinato Roma contrapponendo nel pontificato l'arcipresbitero Lorenzo e il diacono Simmaco, si sottolinea che, alla fine, il re Teoderico aveva riconosciuto i diritti di Simmaco, appoggiando quest'ultimo contro la fazione laurenziana, proprio grazie ad una "petitio" che lo stesso Simmaco indirizzò al sovrano per tramite del diacono D. di Alessandria. Tale missione di D. alla corte di Ravenna va posta nell'inverno 506-507 o, più probabilmente, all'inizio del 507. Infatti lo scisma perdurava ancora il 18 settembre 506, come dimostra il Libellus del diacono Giovanni, che in quella data abbandonò il partito laurenziano ed abiurò nelle mani del papa Simmaco; mentre è dell'11 marzo 507 - secondo la datazione proposta da F. Vogel - il rescritto al Senato, con cui il re Teoderico ratificò i decreti del sinodo romano del 502 che aveva riconosciuto Simmaco come papa legittimo. Dopo questa, non si ha più alcuna notizia su D. sino al 519, quando, durante il pontificato di Ormisda, egli venne impegnato in una importante e delicata missione diplomatica per conto della Sede apostolica, questa volta a Costantinopoli.

L'anno precedente, il 10 luglio 518, era asceso al trono imperiale Giustino. Questi aveva subito dimostrato di voler mutare la politica religiosa del suo predecessore Anastasio, rimasto sostanzialmente fedele all'Henotikon, il decreto emanato nel 482 dall'imperatore Zenone che, condannato nel 484 dalla Chiesa romana, aveva portato alla separazione di quest'ultima da quella di Costantinopoli (scisma di Acacio). Il nuovo imperatore aveva a più riprese sollecitato, direttamente e per il tramite del nipote Giustiniano, un incontro con lo stesso papa Ormisda o almeno l'invio a Costantinopoli di legati del pontefice per risolvere la controversia religiosa e ristabilire l'unione tra le due Chiese. All'inizio del 519 Ormisda accolse le richieste del sovrano ed inviò a Bisanzio una delegazione alla quale aveva affidato un compito ben preciso: quello di ottenere che il clero e i religiosi delle Chiese orientali, i quali avevano accettato l'Henotikon, sottoscrivessero ora un documento nel quale si riconosceva l'ortodossia della dottrina cristologica insegnata da Roma, si condannavano Nestorio, Eutiche ed i loro seguaci, si dichiarava di accettare le lettere dogmatiche di papa Leone e ci si impegnava a cancellare dai dittici non solo il nome di Acacio, ma anche quelli dei vescovi che erano stati in comunione con lui.

Della delegazione, secondo l'epitome feliciana del Liber pontificalis, fece parte anche D., oltre ai vescovi Germano di Capua e Giovanni, di incerta sede, al presbitero Blando, al diacono Felice e, secondo la biografia del papa Ormisda inserita nel Liber pontificalis, al notaio Pietro. Tuttavia la lettera, che il papa Ormisda indirizzò per l'occasione, nel gennaio del 519, all'imperatore Giustino e che è stata conservata dalla cosiddetta Collectio Avellana, non nomina D. tra i legati romani.

Questo silenzio è stato considerato da E. Caspar - che non riteneva giusta l'emendazione proposta da Duchesne e da Th. Mommsen al suddetto passo dell'epitome feliciana - non tanto come una possibile lacuna nella tradizione manoscritta della stessa Collectio Avellana, quanto piuttosto come la prova che D. non era stato allora uno dei rappresentanti ufficiali della Sede apostolica, ma che faceva parte della delegazione allo stesso titolo del notaio Pietro, e cioè come semplice esperto (ma di particolare rilievo, nel caso specifico, per la sua conoscenza delle lingue greca e latina, e per la cognizione dei problemi delle Chiese orientali). Con tali conclusioni di Caspar, però, contrastano i dati desumibili da tutte le altre lettere conservate dalla Collectio Avellana, dalle quali risulta che D. partecipò a pieno titolo all'attività della missione romana, a differenza del notaio Pietro, il quale viene ricordato una sola volta, in una missiva del febbraio-marzo 519, come estensore di un atto ufficiale. D'altro canto, che D. fosse in realtà in quella circostanza l'uomo di fiducia del pontefice, ma soprattutto il personaggio centrale ed essenziale della missione, appare da una lettera inviatagli dallo stesso Ormisda il 3 dicembre 519.

D. lasciò Roma, insieme con i suoi compagni, nel gennaio-febbraio del 519. Raggiunta Brindisi, si imbarcò e, attraversato l'Adriatico, sbarcò ad Aulona (odierna Valona); di là, seguendo la via Egnazia, si diresse verso Costantinopoli. Durante il viaggio verso la capitale i legati papali cercarono di far sottoscrivere ai vescovi delle città che via via raggiungevano il documento di cui erano latori. I vescovi delle città di Scampis e di Lignidus (Ocrida), che raggiunsero all'inizio di marzo, accettarono di firmare; quello di Aulona dichiarò che avrebbe seguito le decisioni che avrebbe preso il suo metropolita; mentre il presule di Tessalonica, Doroteo, promise - ma solo dopo molte discussioni - di sottoscrivere il documento quando quest'ultimo fosse stato accolto anche a Costantinopoli. D. ed i suoi compagni arrivarono nella capitale il 25 marzo; a 10 miglia dalla città trovarono ad accoglierli, con grande seguito, le massime cariche dell'Impero: il "magister militum" Vitaliano, Pompeo e il "comes" Giustiniano. Il giorno successivo, nel palazzo imperiale, alla presenza dello stesso Giustino, davanti al Senato e a quattro vescovi inviati dal patriarca iniziarono i colloqui. Secondo le istruzioni che i delegati della Chiesa romana avevano ricevuto, il documento di cui erano latori non poteva essere discusso ma doveva solo essere approvato e sottoscritto. Il 28 marzo, giovedì santo, il patriarca di Costantinopoli Giovanni II firmò il documento alle condizioni richieste dal papa, anche se ottenne che alle formule di fede in esso contenute venisse premesso un "proemium modicum".

Nonostante la rapidità con cui si giunse alla firma da parte di Giovanni II, le trattative non erano state affatto facili, e per il loro successo l'azione di D. era stata fondamentale. Secondo l'epitome feliciana, in una riunione tenutasi nella basilica di S. Sofia il clero costantinopolitano aveva chiesto che gli venisse data ragione della condanna di Acacio; in caso contrario, avrebbe rifiutato di accordarsi con la Chiesa romana. Sarebbe stato proprio D., che aveva avuto il compito di spiegare i motivi della condanna di Acacio, a convincerli, tanto da far loro superare ogni difficoltà, comprese quelle che derivavano dalla richiesta di escludere dai dittici non solo il nome di Acacio, ma anche quelli degli altri vescovi che avevano aderito alle tesi di Acacio ed accolto l'Henotikon.

Un'allusione alle difficoltà superate è nella stessa relazione che il 22 aprile D. inviò ad Ormisda: in essa infatti il diacono, pur rassicurando il papa che il patriarca Giovanni II aveva sottoscritto il testo del documento di cui erano latori, redatto in greco e in latino, accenna anche ai "multa certamina" che si erano dovuti superare per giungere all'accordo, che aveva visto tornare alla comunione con la Chiesa di Roma non solo il patriarca di Costantinopoli, ma anche tutti i vescovi e gli archimandriti presenti nella capitale. La vicenda non era tuttavia ancora conclusa. Altri problemi rimanevano aperti, tra cui quello relativo alla successione alla sede di Antiochia.

La rapida e felice soluzione dello scisma nella capitale non fu infatti seguita da risultati altrettanto rapidi nelle altre città dell'Impero, come poté constatare a sue spese il legato papale Giovanni, il quale, dopo la Pasqua, era tornato a Tessalonica per far sottoscrivere il documento pontificio, secondo gli accordi presi durante il viaggio d'andata, dal vescovo di quella città, Doroteo. Lo accompagnavano il presbitero costantinopolitano Epifanio ed il "magister scolae" Licinio. Dopo una decisa presa di posizione dello stesso Doroteo, la popolazione insorse contro il legato: nel corso del tumulto Giovanni venne malmenato e ferito, rischiando di venire ucciso.

Per questa ed altre ragioni D. con gli altri membri della delegazione fu costretto a trattenersi a Costantinopoli finché l'opera di consolidamento della riunione fra le Chiese orientali e la Chiesa di Roma non fosse stata conclusa. D. dovette inoltre affrontare altre e impreviste difficoltà. Guidati dal loro abate Massenzio erano giunti a Costantinopoli, qualche tempo prima, alcuni monaci oriundi della Scizia Minore (odierna Dobrugia), che avevano elaborato e cercavano di pubblicizzare una loro dottrina cristologica (teopaschismo) che i legati pontifici, così come del resto il patriarca di Costantinopoli e lo stesso Giustino, rifiutarono di riconoscere come ortodossa.

Non riuscendo nel loro intento sebbene potessero contare sull'appoggio del "magister militum" Vitaliano, forse parente di uno di loro, nel giugno 519, dopo un nuovo ed inutile confronto con i legati papali, abbandonarono Costantinopoli per raggiungere Roma dove intendevano sottoporre le loro tesi direttamente al giudizio del papa, nella speranza che quest'ultimo le riconoscesse ortodosse. Giunti nell'Urbe in quello stesso mese, vi rimasero sino all'agosto 520.

Il 29 giugno D. inviò al papa una lettera per informarlo delle difficoltà che lui ed i suoi compagni continuavano a incontrare nel far sottoscrivere dai vescovi delle singole città orientali il Libellus, come ad Efeso dove, riferiva, "est [...] iniurata synodus Chalcedonensis". Gli dava inoltre notizia della elezione alla sede di Antiochia, avvenuta con l'appoggio di Giustino, di Paolo, un presbitero della Chiesa costantinopolitana. In quella lettera, infine, D. analizzava a fondo, dal punto di vista teologico, la dottrina propugnata dai monaci sciti dell'abate Massenzio e faceva una relazione estremamente dettagliata della questione da loro sollevata e del succedersi degli avvenimenti durante la loro permanenza a Costantinopoli.

Tale lettera, così come le altre inviate al papa dagli altri legati, giunse a Roma troppo tardi. Ormisda aveva già accolto bene i monaci sciti e, richiesto di giudicare le loro dottrine, approvò quello stesso Libellus fidei che i suoi legati in Oriente non avevano accettato. Tuttavia, quando conobbe il parere di questi ultimi, decise di rimandare i monaci sciti a Costantinopoli e di affidare la soluzione del problema teologico al patriarca Giovanni II. Di fronte all'irrigidimento dei monaci, che si rifiutarono di partire e si posero a cercare adesioni tra il clero romano, il Senato, i vescovi africani allora esuli in Sardegna, ottenendo dal maggiore esponente di questi ultimi, Fulgenzio di Ruspe, una lettera dogmatica di approvazione, il pontefice si indusse infine ad espellerli da Roma (estate 520).

La candidatura di D. come successore sulla cattedra di Alessandria d'Egitto del patriarca Dioscoro II, morto da qualche tempo, venne proposta ufficialmente a Giustino I da Ormisda, come si trae dalla lettera di quest'ultimo al diacono alessandrino in data 3 dicembre 519. Le ragioni che avevano spinto il pontefice a caldeggiare tale candidatura erano strettamente legate all'origine di D. e alla fiducia che un uomo, il quale era stato capace di portare a soluzione, secondo le direttive del pontefice, lo scisma di Acacio, sarebbe stato il più adatto - con la sua dottrina e la sua moderazione - a correggere gli indirizzi dottrinali assunti dalla Chiesa nella quale aveva iniziato la sua vita ecclesiastica. Le trattative durarono a lungo, ma furono senza esito: l'imperatore non volle - o non poté, per ragioni interne - impedire l'elezione e la consacrazione a patriarca di Alessandria di un monofisita intransigente, Timoteo III. La ferma resistenza delle diocesi del Ponto, dell'Asia e dell'Oriente ad accettare che fossero cancellati dai dittici, oltre a quello di Acacio, anche i nomi di vescovi che avevano comunicato con lui, ma che i fedeli veneravano per la santità della vita; il sempre maggior irrigidimento dei monofisiti dei patriarcati antiocheno e alessandrino che non erano stati piegati dalle più forti persecuzioni; la fortuna sempre crescente che incontravano le teorie teopaschite, spingevano infatti Giustino e Giustiniano a mitigare le loro stesse posizioni in materia religiosa e ad invitare il pontefice a fare altrettanto.

In questa situazione ancora in buona parte fluida fu di nuovo D. - come si trae da una lettera dello stesso Giustino ad Ormisda del 19 gennaio 520 - a svolgere un ruolo determinante, e questa volta nel giudicare l'ortodossia delle professioni di fede e delle dottrine cristologiche esposte nelle "suppliche" fatte via via pervenire all'imperatore dalle province orientali. D'altro canto, all'inizio di marzo di quel medesimo anno fu sempre D. ad inviare al pontefice una lettera per informarlo della morte del patriarca Giovanni II, avvenuta nel mese precedente, e della elezione, come suo successore, del presbitero Epifanio. In quella lettera D. non mancava anche di esprimere il suo giudizio sul nuovo eletto.

D. rimase in Oriente con i colleghi a seguire gli avvenimenti sino ai primi di luglio. Quindi, sebbene non fosse riuscito a raggiungere tutti i suoi obiettivi (a parte la lentezza dello sviluppo del processo di unificazione avviato a Costantinopoli, non aveva ottenuto la reintegrazione di alcuni vescovi ortodossi che erano stati allontanati dalle loro sedi nella fase più aspra dello scisma acaciano), lasciò la capitale con una parte della delegazione pontificia. Restò a Costantinopoli il vescovo Giovanni, che non era ancora in grado di mettersi in viaggio a causa dei postumi delle ferite riportate l'anno precedente a Tessalonica. Con i suoi compagni D. giunse a Roma agli inizi di settembre. Da questo momento, per un decennio, le fonti a noi note più nulla riferiscono di lui, anche se nel 526, secondo G.B. Picotti, egli avrebbe avuto un ruolo importante al momento dell'elezione di Felice IV. Questo pontefice, stando all'epitome cononiana del Liber pontificalis, "ordinatus est ex iusso Theoderici regis". L'intervento del re ostrogoto a favore di Felice IV trova conferma nella lettera inviata al Senato di Roma dal re Atalarico subito dopo la morte di Teodorico. In essa il nuovo sovrano ricorda che per giungere all'elezione papale una persona "summota sit" e, sempre secondo G.B. Picotti, molto probabilmente questa persona è Dioscoro.

Le fonti in nostro possesso tornano a parlare di D. nel 530 in occasione dello scisma apertosi nella Chiesa romana. Alla morte di Felice IV D. venne eletto alla cattedra di s. Pietro dalla maggior parte del clero e del Senato di Roma, e venne quindi consacrato nella basilica costantiniana del Salvatore. Contemporaneamente - forse nello stesso giorno, il 20 o 22 settembre - veniva consacrato papa nella "basilica Iulii" anche Bonifacio II. Lo stesso Felice IV, cercando di mantenere l'istituto della designazione del successore da parte del pontefice ancora vivente aveva designato Bonifacio alla successione in una solenne cerimonia alla presenza dei rappresentanti del clero e del Senato e con un "praeceptum" cui era stata data larga pubblicità.

Diverse possono essere state le ragioni di questa doppia elezione. Se nella scelta di D., il quale per la sua origine e per i suoi buoni rapporti con il governo imperiale doveva essere molto meno gradito del diacono Bonifacio, di origine germanica, alla corte gota, si può forse vedere anche una chiara presa di posizione del partito favorevole a Costantinopoli, presente nel clero e nel Senato di Roma, non va tuttavia dimenticato che nel rifiuto del successore designato dal "praeceptum" di Felice IV vi era anche il desiderio di riaffermare la libertà di scelta "per clerum et populum" nelle elezioni episcopali. È significativo che tra gli elettori di D. vi fossero sessanta presbiteri: la quasi totalità del clero superiore romano, dato che, come ha osservato Duchesne, al concilio del 1° marzo 499, "où, vu les circonstances, tous les prêtres romains durent assister, on en compte soixante-sept". Ed è egualmente significativo che in un suo decreto del 530 il Senato di Roma, pur non facendo alcun cenno allo scisma nato dalla contrapposizione di D. a Bonifacio, abbia stabilito che chiunque, essendo ancora vivo il pontefice, trattasse dell'elezione del successore o avesse comunque accettato di trattarne, venisse punito con la confisca della metà dei suoi beni; e che chiunque avesse accettato, vivente ancora il papa, una designazione al sommo pontificato venisse colpito con l'esilio e la confisca di tutti i suoi beni. A favore dell'elezione di D. non vi furono, dunque, soltanto i sacri canoni che ne garantivano la legittimità, ma anche l'alto clero e il Senato, che in questo modo dimostravano di non essere disposti a rinunciare al loro diritto di eleggere il vescovo di Roma. Lo scisma, tuttavia, ebbe breve durata.

D. non ebbe modo di dimostrare quale sarebbe stato l'indirizzo del suo pontificato: il 14 ottobre, dopo neanche un mese dalla sua consacrazione episcopale, morì improvvisamente a Roma. I suoi fautori decisero di rinunziare a dargli un successore, ponendo in tal modo fine al dissidio.

Tuttavia Bonifacio II, non contento del risultato raggiunto, secondo le parole del Liber pontificalis, "zelo et dolo ductus, cum grande amaritudine sub vinculo anathematis cyrographi reconciliavit clero". Il testo del Libellus a cui fa riferimento il Liber pontificalis veniva firmato il 27 dicembre 530 dai sessanta presbiteri che avevano appoggiato l'elezione di D., che veniva anatemizzato come colpevole di non aver rispettato il "praeceptum" di Felice IV. Il Libellus di condanna di D. era conservato negli archivi papali fino al maggio del 535 quando saliva alla cattedra di s. Pietro Agapito, che veniva consacrato il 13 maggio. Tra i primi atti del suo pontificato egli dava alle fiamme, in chiesa, di fronte a tutto il clero e al popolo, il Libellus contro D. sostenendo che era stato estorto "contra canones". Il valore politico di questo atto era chiarissimo. In questo modo Agapito dichiarava, in forma solenne, la illiceità della designazione del successore da parte del pontefice ancora vivente. Ma su un piano privato e personale si può forse supporre che con questo atto egli intendesse anche rendere giustizia all'uomo a cui andava il merito di aver fatto trionfare le ragioni di Simmaco contro quelle di Lorenzo.

Infatti si deve ricordare che Agapito, discendente di una illustre famiglia dell'aristocrazia senatoria, era figlio di quel Gordiano che parteggiando per Simmaco era stato ucciso nel 502 dai fautori di Lorenzo. Alla figura di D. e soprattutto alla sua condanna "post mortem" faranno riferimento Giustiniano nell'editto contro i Tre Capitoli e alcuni padri riuniti a Costantinopoli per il V concilio ecumenico per stabilire che si potevano condannare i morti.

fonti e bibliografia

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