GRAMMATICA, Antiveduto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 58 (2002)

GRAMMATICA, Antiveduto

Roberto Cannatà

Nacque nei pressi di Roma dai senesi Imperiale e Artemisia Camoja (Baglione; Forcella). Non si conosce l'esatta data di nascita collocabile sul finire del 1570 o all'inizio dell'anno successivo (Papi, 1995, p. 6; Riedl, A. della G., 1998, p. 22).

G. Baglione, il pittore suo principale biografo, spiega l'origine dell'inconsueto nome del G. e racconta che il padre Imperiale aveva deciso di trasferirsi a Roma ma voleva nel frattempo aspettare che partorisse la moglie, che invece lo convinse a lasciare Siena ed in un'osteria nei pressi di Roma diede alla luce un bambino, "sì che Imperiale rivolto alla moglie disse. Io questo disordine ho antiveduto; e però essendo quegli nato, e qui in Roma giunto, e portato a battezzarsi in San Pietro di Vaticano, Antiveduto fu appellato" (p. 292).

La famiglia del G., puntualizza Baglione, si fermò "ad habitare a Borgo", il padre ebbe altri figli, e mise il G. a bottega presso il pittore Giovan Domenico Angelini, detto il Perugino, come conferma un documento riportato da Bertolotti (1876) relativo a una testimonianza in cui il G. precisava di aver iniziato col Perugino e di aver dipinto per lui "diverse pitture, quadri et teste et altre sorte di pitture secondo che è venuta l'occasione". Dagli atti processuali riportati da Bertolotti si viene a sapere che Angelini dipingeva non solo quadri di piccolo formato, come riportato da Baglione, ma eseguiva copie da Raffaello e dal Correggio (Antonio Allegri) e realizzava teste di uomini illustri. È probabile che proprio con lui il G. apprendesse l'arte di eseguire teste che gli valse il soprannome di "gran Capocciante" (Baglione). Già nei cinque mesi antecedenti il 9 dic. 1591 il G. affermava di non frequentare la bottega Angelini, indizio probabile di un'avvenuta autonomia artistica e commerciale che forse poteva comportare già l'apertura di una propria bottega, dove in seguito lavorò anche il Caravaggio (Michelangelo Merisi) appena giunto a Roma. Il 28 ott. 1593 il G. era presente alla prima seduta dell'Accademia di S. Luca: era questo l'inizio di un lungo rapporto che si concluse amaramente con le dimissioni da principe nell'autunno del 1624. Negli anni 1595 e 1597 il G. risulta abitante "nell'isola di S. Trifone" (Riedl, A. della G., 1998, pp. 197, 205, cui si farà riferimento per i documenti ricordati, se non altrimenti indicato). Al 2 febbr. 1599 risale la conferma dei capitoli matrimoniali con la romana Antonina Oliveri. Il 4 nov. 1599 venne battezzato il primogenito Imperiale, e dall'atto risulta che entrambi i genitori erano parrocchiani di S. Trifone. Ai primi del Seicento il G. abitava presso S. Giacomo degli Incurabili come riferisce in una testimonianza il pittore Cristoforo Orlandi che aveva lavorato per più di un anno nella bottega del G. e come confermano gli atti della parrocchia di S. Maria del Popolo per gli anni 1601-14. Dal 1615 fino alla morte il G. risulta abitare in via de' Condotti, dove già dal 1607 viveva Baglione.

Il 16 maggio 1604 entrò a far parte della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon. Il 1° apr. 1606 insieme con Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d'Arpino, stimava le pitture fatte in S. Pietro da diversi artisti: D. Cresti, il Passignano, G. Baglione, C. Roncalli, R. Vanni e B. Castello (Riedl, A. della G., 1998, p. 194). Come fa sapere Baglione, il G. all'inizio riscosse molto successo come "capocciante" ricavandone decenti guadagni. E certamente spinto dalla consapevolezza delle proprie capacità artistiche, oltre che dall'orgoglio, "per far vedere ai Pittori, ch'egli non solo sapeva far le teste, ma ancora le figure, cominciò ad operare de' quadri grandi con ritrarre dal naturale, e ne riportò credito e honore" (Baglione, p. 293). Il successo non tardò ad arrivare; e fra i suoi committenti sono da ricordare illustri collezionisti quali Francesco Maria Bourbon Del Monte, Scipione Borghese, Vincenzo Giustiniani e Ciriaco Mattei, tutti grandi estimatori del Caravaggio, e inoltre Alessandro Peretti Montalto, Ferdinando Gonzaga e i duchi di Savoia.

Fra le prime opere del G., come tramanda Baglione (p. 293), va menzionata la pala d'altare della chiesa di S. Ladislao "ove è a sedere in aria un Christo con Angioli, e s. Ladislao e un Vescovo; e da basso in ginocchione s. Giacinto in atto d'orare per il Popolo; e 'l quadro piacque molto a' Pittori". Il santo vescovo è da identificare con Adalberto da Praga (Riedl, A. della G., 1998, p. 72).

La pala, databile sul finire del Cinquecento, nella struttura compositiva è debitrice del Perdono di Assisi di F. Barocci (Marino, pp. 48-50), la cui iconografia era ampiamente nota attraverso le stampe, fra cui una tratta da un'incisione dello stesso Barocci. La pienezza formale delle figure esula tuttavia dalla cultura baroccesca e sembra trovare più facili appigli nel revival raffaellesco di fine Cinquecento (per esempio, l'iconografia del Salvatore ricorda nella postura quella della Madonna di Foligno o il Cristo benedicente nella stanza della Segnatura, l'Isaia di S. Agostino e l'Apollo del Parnaso nella variante incisa da M. Raimondi) e anche nelle opere di Cristofano Roncalli, del Cavalier d'Arpino o di Federico Zuccari (Riedl, A. della G., 1998, p. 74). Notevole il trattamento delle teste delle singole figure studiate o ritratte probabilmente dal naturale. Il gusto per una forma armoniosamente dilatata, la ricerca di un'espressione intimista e l'uso di una stesura cromatica delicatamente sottile stanno già a indicare le direttrici di sviluppo della pittura del Grammatica.

Sempre del primo periodo rimangono alcune figure di sante, diffuse per mezzo di stampe di invenzione del G., quasi tutte recanti la data 1598. Alcune (S. Prassede e S. Cristina) sono considerate di influsso baroccesco (Zeri, pp. 103 s.); altre (S. Lucia, S. Caterina, S. Degnamerita) sono più affini allo stile di Cesari e di Roncalli; infine, S. Agata e S. Apollonia sono accostabili alle personificazioni delle Virtù di Giovanni e Cherubino Alberti, cui il G. era legato da amicizia, nella sala Clementina in Vaticano (Riedl, A. della G., 1998, p. 30). La Presentazione al tempio del Museo civico di Viterbo, proveniente dalla chiesa del convento di S. Agostino, ricorda nella studiatissima disposizione delle figure alcuni brani della stanza della Segnatura o più genericamente lo schema dello Sposalizio di Brera. Sono stati rilevati anche qui influssi barocceschi (Marino, pp. 52-54; Volpe, p. 5), tenui si direbbe, commisti a una più sensibile ricezione di spunti naturalistici dal Cavalier d'Arpino e dei primi tentativi caravaggeschi di Baglione (Papi, 1995, p. 86). Riedl (A. della G., 1998, p. 30) riscontra affinità fra le sante incise e alcune figure femminili, fra cui Maria, del dipinto viterbese. Sembra qui delinearsi, sia pure lievemente, un modo più vigoroso di dipingere rispetto alla pala romana di S. Stanislao che meglio si verrà precisando più avanti dietro la spinta dell'arte caravaggesca. La S. Cecilia di collezione privata (Salinas, Spagna) è l'unica opera firmata e datata (1611) del Grammatica.

L'atmosfera è fortemente caravaggesca, richiamando i due quadri con Suonatore di liuto (San Pietroburgo, Ermitage, e New York, Metropolitan), anche se nella esecuzione delle teste sembra affiorare un ricordo di G. Reni e un richiamo, nell'acconciatura dei capelli della santa, all'Apollo del Belvedere o alla Venere Capitolina (Riedl, A. della G., 1998, p. 78).

La S. Cecilia del Prado di Madrid, la cui passata attribuzione a Lionello Spada o al Domenichino, Domenico Zampieri (Pérez Sánchez, 1965, p. 212) fa capire il rapporto essenziale con la pittura bolognese che qui sembra accentuarsi rispetto al dipinto di Salinas, riecheggia nella larghezza delle forme non solo Reni ma forse anche P.P. Rubens. Il Suonatore di tiorba nella Galleria Sabauda di Torino conferma la predilezione del G. per i soggetti con strumenti musicali derivati dal Caravaggio e dalla sua cerchia (Papi, 1995, p. 15), motivo interpretato con vena sottilmente lirica e con gusto spiccato per l'eleganza e la delicatezza del tocco, quasi sorprendente per precisione e raffinatezza. L'opera è ritenuta frammento di una composizione a tre figure di cui si conosce una copia, già presso Bangel a Francoforte. La S. Cecilia con due angeli, firmata, nel Museu nacional de arte antiga di Lisbona, era attribuita alla scuola dei Carracci, quando Longhi la restituì al G. nel 1928.

Il richiamo al Domenichino è pure d'obbligo; ma specialmente l'angelo a destra sembra accostabile al tipo facciale talvolta usato da F. Albani. Il dipinto è molto affine a quello di Torino per l'eleganza e la raffinatezza dell'esecuzione. Spunti compositivi possono derivare soprattutto da due dipinti: la Cena in Emmaus del Caravaggio, a Londra, e la S. Cecilia di Raffaello a Bologna, conosciuta a Roma attraverso copie intorno al 1600 (Riedl, A. della G., 1998, p. 86). Una variante più tarda si trova a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, attribuita al G. o alla sua bottega (ibid., p. 89).

La Madonna col Bambino, già a Berlino in collezione privata (ibid., pp. 89 s.), sembra confermare le scelte di fondo del G. per l'apertura verso l'arte carraccesca (Madonna con la scodella di Annibale Carracci della Pinacoteca di Dresda) e quella caravaggesca (Ragazzo morso dal ramarro della National Gallery di Londra).

A proposito del rapporto con l'opera del Caravaggio, la critica ha giustamente evidenziato il modo particolare con cui il G. tende a stemperare il linguaggio caravaggesco con risultati per certi versi affini a un Bartolomeo Cavarozzi, a Mao Salini o a Giovan Francesco Guerrieri (Papi, 1995, pp. 12-14; Riedl, A. della G., 1998, p. 34). La Venere, già sul mercato antiquario romano, è uno dei capolavori del G. per quel perfetto equilibrio tra classicismo, carraccismo e caravaggismo. La dea è rappresentata pensosa, mentre medita sulla vanità dell'attaccamento a ciò che è puramente terreno e perciò effimero (Marini, p. 370). Potrebbe provenire dalla collezione del cardinale Alessandro Peretti Montalto, se coincidesse con la Venere citata da F. Martinelli (Riedl, A. della G., 1998, p. 84) o con quella di A. Ruffinelli in Albano (Szigethi, 1989, p. 110; Papi, 1995, p. 117). Essa è stata accostata, per i puttini, alla Venere dormiente carraccesca (Chantilly, Musée Condé), e se ne è sottolineato il rapporto con la scultura antica, in particolare con la cosiddetta Cleopatra dei Musei Vaticani, e del primo Seicento, vedi il sarcofago di N. Cordier nella cappella Aldobrandini in S. Maria sopra Minerva a Roma (Riedl, A. della G., 1998, p. 84). Certa grazia correggesca del volto di Venere è stata messa in relazione con opere del Domenichino. La messa a fuoco ravvicinata dell'immagine e il taglio compositivo sono oramai influenzati dalla moderna visione del Caravaggio. Il Cristo con i dottori (St. Bride's Bay, Cowdenbeath, Scozia, collezione privata), appartenuto a Ciriaco Mattei, morto nel 1614, ereditato da Giovan Battista Mattei, fu venduto nel 1802 da Giuseppe Mattei insieme con altri cinque dipinti a W. Hamilton Nisbet (Panofski Soergel, p. 188). Sono stati notati nuovamente ricordi caravaggeschi: in particolare nel gesto di Gesù si è voluto cogliere un ricordo della Chiamata di Matteo a S. Luigi dei Francesi; mentre la testa del sommo sacerdote a destra riecheggerebbe quella dell'aguzzino a sinistra nella Crocifissione di s. Pietro in S. Maria del Popolo e quella del Nicodemo nella Deposizione già alla Vallicella (Riedl, A. della G., 1998, p. 109). Il profilo di Gesù si riallaccerebbe anche a quello dell'Apollo del Belvedere. Papi (1995) nota la composizione particolarmente movimentata e vi vede forse un influsso di O. Borgianni, tra l'altro amico del G. che nel 1609 lo presentò alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon e fu tra i testimoni al suo testamento del 1615. Un Cristo con i dottori di maggiori dimensioni era citato nell'inventario (1627) dei beni del cardinale Bourbon Del Monte (Benedetti, pp. 42 s.). Esiste anche un'incisione pubblicata nel 1835 in L'Ape italiana delle belle arti, attribuita a Ludovico Carracci, con una iconografia quasi simile al quadro Mattei, derivata da un dipinto di proprietà del conte di Cebral (Papi, 1995, p. 95; Riedl, A. della G., 1998, p. 109). Della tela con l'Angelo custode, dispersa, ma ricordata da Baglione nella sacrestia di S. Agostino a Roma, sono note diverse copie: una in S. Pudenziana a Roma reca la data 1618; altre sono di più elevato tono, come quella del Museo nazionale di Palermo, considerata talvolta dubitativamente di bottega (Papi, 1995, pp. 101 s.; Riedl, A. della G., 1998, pp. 40-42). Anche nella capigliatura dell'angelo custode è stato rilevato un influsso dell'Apollo del Belvedere, mentre il gesto dell'angelo stesso si rifarebbe a quello del Cristo nella Chiamata di Matteo.

Per la pala con la Madonna, Bambino, s. Carlo Borromeo e il beato Giovanni Bonvisi in S. Maria Corteorlandini a Lucca un'inscrizione su di un piedistallo a sinistra della mensa rende nota la data 1614 dell'originario altare ligneo (Riedl, A. della G., 1998, pp. 90-93). Lo schema compositivo a piramide di derivazione rinascimentale è tuttavia rivissuto in chiave moderna, caravaggesca.

Tra la fine del 1614 e gli inizi del 1615 sono collocabili le due storie con Alessandro che riceve la famiglia di Dario e Alessandro che nel letto distribuisce regali ai suoi, dipinti dispersi, anche se del primo si conosce una copia pubblicata da Volpe (pp. 3-7).

Le opere furono commissionate dal cardinale Alessandro Peretti Montalto per decorare le pareti del salone del palazzo di Termini all'Esquilino e facevano parte di un gruppo di undici dipinti realizzati da alcuni dei più famosi pittori dell'epoca, quali il Domenichino, F. Albani, A. Tempesta, G. Lanfranco, G. Baglione e Antonio Carracci (Riedl, A. della G., 1998, pp. 37 s.). La Fuga in Egitto, firmata, del Museo della Sacrestia della cattedrale di Toledo, può essere affiancata per la figura dell'angelo alle due versioni del S. Pietro liberato dal carcere (Roma, collezione privata, già Montecarlo, Christie's). Sono stati individuati esiti analoghi a Borgianni (Pérez Sánchez, 1970, p. 300) né si possono omettere affinità con C. Saraceni, i cui tipi, come il s. Giuseppe nel Riposo nella fuga in Egitto (Frascati, eremo camaldolese), sembrano affini al S. Pietro. La composizione della Fuga in Egitto toledana è stata messa in relazione con un'invenzione di F. Zuccari incisa da Cornelis Cort, ripresa anche da Cherubino Alberti. A differenza della stampa zuccaresca, sia Cherubino sia il G. rappresentano s. Giuseppe con un fagotto di panni in mano (Riedl, A. della G., 1998, pp. 111 s.).

Esiste una serie di dipinti di incerta cronologia, alcuni dei quali sono stati collocati intorno alla metà del secondo decennio o poco oltre. Innanzi tutto la Maddalena al sepolcro del Kunsthistorisches Museum di Vienna e la Sacra Famiglia di Palazzo Pitti, permeata di una sottile aura poetica, che è stata collegata a opere di Raffaello, Barocci, Caravaggio, Borgianni e Simon Vouet (Papi, 1995, p. 97; Riedl, A. della G., 1998, pp. 96 s.), dando ragione all'affermazione del medico G. Mancini che aveva descritto lo stile del G. come una mescolanza della "maniera del secolo perfetto con quella di questo secolo" (p. 305). Anche la Madonna con Bambino e s. Anna di Varsavia (Museo nazionale) e di Glasgow (Art Gallery), sembrano condividere la cronologia della tela Pitti. Medesima la datazione, seppur controversa, della Madonna col Bambino (già a Londra, Sotheby's) e del dipinto con medesimo soggetto a Monaco (Alte Pinakothek), considerato autografo (Papi, 1995, p. 95) o dubitativamente copia antica (Riedl, A. della G., 1998, p. 105). La Salomè con la testa del Battista (Aschaffenburg, Staatsgalerie) fu datata intorno al 1615 da Longhi (1928: ed. 1968, p. 139). Sul fondo del piatto, con la testa del Battista è stata rintracciata una frammentaria iscrizione: "F. 16[-]6" (Riedl, A. della G., 1998, p. 114).

La composizione risente l'influsso della Salomè del Caravaggio (Londra, National Gallery) ed è stata messa in relazione, specie se si tiene conto della variante già a Parigi, anche con la Salomè di Bernardino Licinio (Riedl, A. della G., 1998, p. 116). Moir (1976, p. 135) ritiene che potesse far parte della collezione del cardinale Bourbon Del Monte, nel cui inventario dei beni del 1627 è segnalato "un quadro di Herodiade di mano dell'Antiveduto di palmi cinque". Il dipinto di Aschaffenburg, stando alle misure, sembrerebbe avvantaggiato in tale tentativo di identificazione, rispetto alla versione già sul mercato antiquario di Parigi (Riedl, A. della G., 1998, p. 115).

A questo periodo apparterrebbero pure la S. Caterina d'Alessandria (Sibiu, Museum Brukenthal), la S. Lucia (Graz, Steiermärkisches Landesmuseum Joanneum), la S. Dorotea (già a Londra, mercato antiquario) e la Giuditta con la fantesca (Derby, Museum and Art Gallery). Queste ultime due tele sono di un certo interesse, piene di riferimenti tematici al Caravaggio e con alcuni connotati stilistici che fanno pensare a S. Vouet o ad Artemisia Gentileschi (Papi, 1995, p. 99). Per la Giuditta di Derby si sa della provenienza, forse originaria, dalla collezione del conte di Altamira in Spagna. Il binomio Vouet - Artemisia è stato tirato in ballo anche a proposito della Giuditta e la fantesca del Museo nazionale di Stoccolma, dipinto forse tra i più noti del G., inserito fin dai tempi di Longhi nell'ultimo periodo del pittore, sebbene la datazione si sia poi consolidata intorno al 1620, se si eccettua l'ipotesi di Papi che la pone nel 1615-16 (1995, pp. 95 s.). Secondo Garrard (pp. 301 s., 553 n. 81) la Giuditta di Stoccolma deriverebbe da un'incisione di H. Aldegrevers (1528), mentre la larghezza compositiva risentirebbe delle eroine di Artemisia, forse più della Giuditta Pitti (1613-14) che di quella di Detroit (1625 circa). In quest'ultima, secondo Papi (1995, pp. 95 s.), si potrebbe vedere un'influenza del quadro del G. di Stoccolma. La Madonna con Bambino (Spoleto, Pinacoteca comunale), con altre due versioni simili, già sul mercato antiquario, sottolinea quel fare del G. tra antico e moderno, dai toni pacati e melanconici, che sa adattare con sapiente moderazione le forme classicistiche (Raffaello e i Carracci) con la nuova visione caravaggesca (Toscano, 1983, pp. 122-125). Le Ss. Prassede e Pudenziana del palazzo della Cancelleria (Roma) sono state avvicinate alla pala con la Madonna con Bambino e santi del duomo di Todi, o alla Madonna di Spoleto (1616-19: Riedl, A. della G., 1998, p. 135) oppure, in un periodo antecedente, al Suonatore della Galleria Sabauda (Papi, 1995, p. 99). Alla fine del secondo decennio risalirebbero anche i due tondi della Pinacoteca di Brera: uno raffigurante S. Cecilia tra i ss. Tiburzio e Valeriano e l'altro S. Domitilla tra i ss. Nereo ed Achilleo (o forse la Disputa di s. Caterina d'Alessandria) secondo l'ipotesi iconografica di Lo Bianco (pp. 234-236). Nell'esecuzione del tondo con s. Cecilia si è voluto vedere l'intervento di un collaboratore (Papi, 1995, p. 103). All'inizio degli anni Venti o comunque all'ultimo periodo del pittore è generalmente riferito un gruppetto di opere tra cui spiccano le muse Euterpe, Polimnia (Torino, palazzo Chiablese) e Tersicore (Londra, collezione privata) per le quali è nota la committenza da parte dei Savoia. Da menzionare inoltre la Maddalena al sepolcro (Ermitage); Maria e le fanciulle ebree (Milano, Compagnia di belle arti) entrambe originariamente nella collezione Borghese (Manilli, pp. 82, 110; Riedl - Schleier, n. 66); il Parnaso (Torino, collezione privata), proveniente dalla collezione del cardinale Bourbon Del Monte (Papi, Note al G. e al suo ambiente…, 1990, p. 126); il Ritrovamento di Mosè, già a Milano, sul mercato antiquario, proveniente dal palazzo di Termini all'Esquilino del cardinale Peretti Montalto (Riedl, 1994, p. 827); e, infine, le Ss. PrassedeePudenziana della Galleria Sabauda, il Noli me tangere nel duomo di San Severino Marche, la Sacra Famiglia di Esztergom (Museo cristiano) e quella di Karlsruhe (Staatliche Kunsthalle) e alcuni dipinti già sul mercato antiquario, quali il S. Carlo Borromeo e due angeli (Londra), la Madonna col Bambino (New York), Marta e Maria ed una figura allegorica (Milano). Per molte di queste opere si è posto l'accento sull'aumentato influsso delle correnti classiciste bolognesi (il Domenichino soprattutto) e in alcune si è colta la parziale connessione con il figlio Imperiale, il cui stile appare più semplificato e più fortemente collegato alle istanze classiciste, tanto è vero che per certe opere, come, per esempio, Maria e le fanciulle ebree, resta talvolta dubbia l'attribuzione al padre o al figlio (Riedl, 1994, pp. 826 s.). Bisogna aggiungere che anche la datazione di alcune opere è tuttora incerta ed è sicuro che, se la tela con le Ss. Prassede e Pudenziana della Galleria Sabauda corrispondesse a quella citata nell'inventario di Asdrubale Mattei del 1613 (Cappelletti - Testa, p. 167), cambierebbe per alcune di esse la cronologia fin qui suggerita.

Il quadro con S. Luca che dipinge la Madonna (Roma, Ss. Luca e Martina) è una copia del dipinto ritenuto di Raffaello e ora custodito presso l'Accademia di S. Luca, dalla quale il G. ricevette un compenso di 50 scudi il 25 ag. 1623 (Noehles, p. 335 doc. 11). Il 17 genn. 1624 il G. venne eletto principe dell'Accademia in sostituzione di Agostino Ciampelli, dopo estrazione a sorte: gli altri candidati erano i pittori G. Massei, A. Lilli, A. Turchi e lo scultore I. Buzzi.

Nell'ottobre 1624 il G. dovette lasciare l'incarico (Noehles, p. 57 n. 111) sembra, secondo Baglione, perché accusato da Mao Salini e Ottavio Leoni di voler far vendere "ad un gran Signore" il quadro con S. Luca attribuito a Raffaello e di volerlo sostituire con la copia da lui eseguita. Al suo posto fu nominato principe Vouet: di ciò il G. si dolse moltissimo, "e fu in parte cagione, che gli si abbreviasse la vita" (Baglione).

In effetti la vendita del quadro raffaellesco era stata stabilita in una congregazione del 27 maggio 1624 anche al fine di acquisire fondi per la costruzione della chiesa dei Ss. Luca e Martina (Noehles, pp. 335 s. doc. 16), la cui fabbrica era da tempo nei desideri degli accademici e già nel 1614 il G. compare in una lista di donazioni a tale scopo (Gallo, p. 333). Baglione spiega che tutto ebbe origine dall'inimicizia tra Salini e il G., che, coadiuvato dal cavaliere P. Guidotti, aveva fatto approvare una colletta di venticinque membri che avrebbe retto l'Accademia, manovrando in modo che Salini ne rimanesse escluso. Dai documenti è noto che nel 1619 il G. e Guidotti furono incaricati dall'Accademia, insieme con altri due rappresentanti della compagnia, di rivedere gli statuti. Nello stesso anno furono approvate le innovazioni, compresa l'istituzione della colletta, che confluirono poi nei nuovi statuti del 1621. Sulla questione tuttavia il parere di Baglione risulta ambiguo perché, se nella vita del G. sembrerebbe dare a lui la responsabilità dell'esclusione di Salini, invece nella vita di Salini dice che quest'ultimo fu cancellato dal novero ristretto degli accademici "per suo difetto".

Al terzo decennio è databile la Madonna col Bambino, s. Elisabetta e s. Giovannino, St. Mary's New Market (Suffolk), opera fortemente ispirata a iconografie raffaellesche. Tra le ultime opere è generalmente citata l'Adorazione dei pastori nella cappella Graziani in S. Giacomo in Augusta a Roma, menzionata da Baglione con le parole "et ultimamente fece". Sembra che l'idea della Madonna seduta a terra possa derivare dall'Adorazione dei pastori del Caravaggio a Messina (si è pure ipotizzato un viaggio del G. nel Meridione: Brandi; Papi, 1995, p. 121). Il s. Giuseppe potrebbe ricordare la figura di un aguzzino nella Crocifissione di s. Pietro in S. Maria del Popolo. Ma oltre gli influssi caravaggeschi traspaiono altri possibili confronti. La Madonna è stilisticamente affine un po' alle opere di Artemisia Gentileschi, un po' a quelle di Vouet. Dei due pastori, il più anziano sembra collocabile tra Reni e Jusepe de Ribera, mentre l'altro, giovane, che ripete l'iconografia paleocristiana del Buon Pastore, ispirandosi anche alla statuaria (Riedl, A. della G., 1998, p. 170), per il volto tondeggiante rammenta figure di Orazio Gentileschi e degli emiliani (specialmente il Domenichino). La vecchia contadina sembra essere simile a quelle uscite dal pennello di Giovan Francesco Guerrieri e i paffuti angioletti, che volano in alto, si direbbero influenzati dalla cultura bolognese. D'altra parte Riedl (A. della G., 1998, p. 170) ha cercato meticolosamente di evidenziare anche tutti quegli eventuali spunti iconografici che il G. avrebbe potuto attingere dalla tradizione cinquecentesca a partire dal Correggio e dalle incisioni del Parmigianino (Francesco Mazzola) fino all'Adorazione dei pastori di F. Zuccari all'Escorial.

Le due lunette raffiguranti la Natività di Maria e i Ss. Anna e Gioacchino con la giovane Maria sono collocate nella cappella dell'Icone del duomo di Spoleto, fatta erigere in un periodo che va dal 1623 al 1626 (Toscano, 1963, pp. 148 s.; Riedl, A. della G., 1998, p. 58). L'attribuzione al G. fu segnalata da Strinati (p. 160); e il riferimento al pittore, sia pure con la collaborazione della bottega, tuttora si può leggere nelle recenti monografie sull'artista.

Il G. fece testamento l'8 apr. 1626 (Bertolotti, 1885) e morì cinque giorni dopo, il 13 aprile, e non il 13 gennaio come dice Baglione, nella casa di via de' Condotti; fu sepolto in S. Caterina da Siena come si legge nel Libro dei morti di S. Lorenzo in Lucina (Riedl, A. della G., 1998, p. 205).

Per lungo tempo sulla scorta di un'indicazione di Mancini, che si riferisce a un quadro nell'eremo camaldolese di Frascati, non citato da Baglione, ma rilevato da Bellori nelle postille alle Vite e identificato da Longhi (1916: ed. 1961, p. 234) con il Sogno di s. Romualdo, si sono voluti assegnare al G. alcuni dipinti nella chiesa dell'eremo camaldolese a Napoli (Bologna, pp. 64 s.), attribuzioni che di recente, a partire da Marini (p. 434), sono state messe seriamente in dubbio fino a escludere ogni possibile intervento del G. (Papi, 1995, pp. 135-140) anche nella tela di Frascati (Riedl, A. della G., 1998, pp. 48-51).

Tra i seguaci del G. va ricordato suo figlio Imperiale, che Baglione segnala come buon pittore lamentandone la morte prematura. Difatti egli fu battezzato a Roma il 4 nov. 1599 e morì nella stessa città il 17 sett. 1634 nella casa del Cartolo a strada Vittoria. Anche Mancini parla bene del promettente giovane pittore: "che non degenera dal padre né nei costumi né nella professione della quale, ancora in tenera età, ha dato speranza di dover far gran progresso" (p. 245). Il nome di Imperiale è citato per la prima volta nel 1618 nei documenti dell'Accademia di S. Luca (Papi, 1995, p. 34 n. 110; Riedl, A. della G., 1998, p. 197). Nel 1621 firmava e datava la pala con la Madonna, il Bambino e i ss. Pancrazio e Domenico (Albano, duomo), opera contrassegnata da uno stile strettamente devoto e puristico che, sulla scia degli ideali classicistici carracceschi, sfiora il Sassoferrato, Giovan Battista Salvi (Mignosi Tantillo, pp. 50-52). Del 1624 è la Liberazione di s. Pietro (firmata e datata) in S. Salvatore in Lauro (Brugnoli, pp. 71-74), per lungo tempo ritenuta opera del padre: essa è di più alta qualità rispetto alla tela di Albano, la cui pubblicazione nel 1990 tuttavia è servita ad aprire il dibattito sull'attività di Imperiale, il cui catalogo da allora in avanti ha cominciato ad ampliarsi includendo diversi dipinti in precedenza assegnati al padre. La Giaele della Galleria Pallavicini è stata ricondotta alla mano di Imperiale in occasione della presentazione in mostra della pala di Albano per le "affinità col modellato rotondeggiante della figura di s. Pancrazio" (Mignosi Tantillo, p. 52). L'Allegoria della Grazia divina (Stoccolma, Museo nazionale) è attribuibile a Imperiale per la schematicità del panneggio e il modellato piatto (Riedl - Schleier, pp. 68 s.). La Visione di s. Bernardo, del monastero del Sacramento di Madrid, è stata riconosciuta a Imperiale (Papi, Note in margine alla mostra…, 1990, p. 77; Riedl, A. della G., 1998, p. 56) o alla collaborazione di padre e figlio con una datazione sul finire del secondo decennio (Papi, 1995, pp. 108 s.). La Madonna con il Bambino (collezione privata), pur vicina al gruppo centrale della pala di Albano, rivela una certa maturazione dello stile, anche se nell'ambito di schemi semplici e tondeggianti (Papi, 1995, p. 128; Riedl, A. della G., 1998, p. 54). La Bambina con una colomba della chiesa degli Eremitani di Padova è data a Imperiale, il cui nome "potrebbe venire suggerito dalla rotondità bamboleggiante del viso, dalla fattura elementare delle mani e dalla piattezza del panneggio" (Papi, 1995, p. 130). La Visitazione (Amelia, Museo del Duomo), di buona qualità, è stata prima assegnata al G. (Todini; Kalecinski), poi a Imperiale per i panneggi un po' schiacciati e la semplicità della composizione (Papi, 1995; Riedl, A. della G., 1998). A Imperiale è stata riferita l'Allegoria della Verità e della Misericordia (collezione privata), a sua volta da accostare alla S. Elisabetta (Marsiglia, Musée des beaux-arts), al Salvator Mundi, già a Roma (mercato antiquario), e alla Veronica della Galleria Laurina (Papi, 1995, pp. 129-134; Riedl, A. della G., pp. 54 s. n. 254). Alle volte la differenza stilistica tra padre e figlio si fa minima; e questo giustifica l'esistenza di incertezze circa l'esatta paternità di alcune opere quali, per esempio, l'Elena (Eger, Museo del Castello: Szigethi, 1993, pp. 100-102; Papi, 1995, p. 116) o la Giuditta e la fantesca di Monaco (Papi, 1995, pp. 92 s.; Riedl, A. della G., 1998, pp. 56 s.). Non mancano divergenze su alcuni dipinti, come l'Amore vincitore (Lilla, Musée des beaux-arts), citato nell'inventario Savoia del 1635 come dipinto del G. e a lui di recente attribuito (Riedl, 1994, p. 827), rivendicato poi a Imperiale (Papi, 1995, p. 129) e assegnato nuovamente al G. (Riedl, A. della G., 1998, pp. 129-131). Anche la tela con le Sette virtù (già a Torino, mercato antiquario) ha subito simili oscillazioni attributive: riconosciuta dal 1987 come opera del G. (Cottino) è stata in seguito ricondotta a Imperiale (Papi, Note in margine…, 1990, p. 77; Riedl, A. della G., 1998, p. 56), sebbene alcune notazioni stilistiche siano degne del G.; Cavazzini (pp. 156 s.), invece, la restituisce al padre proponendo di identificarla con un dipinto raffigurante le Sette virtù citato in un inventario Lancellotti del 1640 come opera del G. anche se le misure segnalate negli inventari del 1703 e del 1769 non sono del tutto corrispondenti a quelle del dipinto già sul mercato antiquario. Sempre nello stesso inventario Lancellotti del 1640 sono menzionate altre opere riferite al G.: una S. Francesca Romana, una Musica con quattro figure, una Madonna col Bambino e una S. Francesca Romana con l'angelo, tuttora esistente nella collezione Lancellotti (Cavazzini, pp. 157 s.), citata anche da Riedl (A. della G., 1998, p. 57) come opera in bilico tra padre e figlio.

Fonti e Bibl.: G. Mancini, Considerazioni sulla pittura (1616-21), a cura di A. Marucchi - L. Salerno, I, Roma 1956, pp. 111, 245, 305; G. Baglione, Le vite… (1642), a cura di V. Mariani, Roma 1935, pp. 292-294; J. Manilli, Villa Borghese fuori di porta Pinciana, Roma 1650, pp. 82, 110; F. Martinelli, Roma ornata… (1660-63), a cura di C. D'Onofrio, in Roma nel Seicento, Firenze 1969, pp. 323, 326; V. Forcella, Iscrizione delle chiese…, Roma 1876, p. 346; A. Bertolotti, Gian Domenico Angelini pittore perugino e i suoi scolari, in Giornale di erudizione artistica, III-IV (1876), pp. 65-87; Id., Il testamento e la famiglia del pittore A. della G., in Arte e storia, IV (1885), p. 359; J.A.F. Orbaan, Virtuosi al Pantheon…, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXXVII (1915), p. 34; R. Longhi, Gentileschi padre e figlia (1916), in Opere complete, Firenze 1961, p. 234; W. Noack, in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, Leipzig 1921, pp. 497 s.; R. 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