CAGNONI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CAGNONI, Antonio

Raoul Meloncelli

Figlio di Giovanni, medico, e di Serafina Nobili, "donna gentile e colta", nacque l'8 febbr. 1828 a Godiasco (Voghera). Ancora fanciullo rivelò una forte inclinazione per la musica e il padre lo affidò a Felice Moretti (noto anche come padre Davide da Bergamo), il quale impartì al C., non ancora decenne, le prime nozioni di teoria. Successivamente fu inviato a Milano e dal 1842 divenne allievo del conservatorio, ove poté ricevere una completa educazione musicale. Avviato dapprima allo studio del violino con un certo maestro Ferrara, si dedicò poi esclusivamente allo studio della composizione e fu allievo prima di P. Ray e poi di F. Frasi "censore" e "maestro di composizione", che fu suo insegnante fino al 1847. In questo periodo, rivelatosi di fondamentale importanza per la sua formazione artistica, ebbe come condiscepoli A. Ponchielli, G. Bottesini e A. Fumagalli.

Il suo primo lavoro, l'operetta Rosalia di S. Miniato (libr. G. Bassi, Milano, conservatorio di musica, 28 febbr. 1845) composta a soli 17 anni, offrì la prima dimostrazione del suo talento teatrale, presto confermato dall'opera I due savoiardi (libr. Tarantini, ibid., 13 giugno 1846), anchessa accolta favorevolmente dal pubblico milanese presente alle probabilmente sole rappresentazioni tenute nel piccolo teatro del conservatorio. Il primo vero successo giunse comunque l'anno successivo con l'opera Don Bucefalo (libr. C. Bassi, Milano, teatro Re, 28 giugno 1847 e poi Napoli, teatro S. Carlo, autunno dello stesso anno).

Questo lavoro, accolto ovunque con immenso favore, fu senza dubbio la sua opera meglio riuscita e in certo senso condizionò la succebsiva produzione del C., che non riuscì a uguagliarne la freschezza dell'ispirazione e la vivacità dell'invenzione. Il ruolo del protagonista, affidato dapprima al basso Rocco, divenne poi uno dei cavalli di battaglia di Alessandro Bottero, che ne offrì una estrosa ed efficacissima interpretazione e contribuì al successo dell'opera, rappresentata con successo in tutti i maggiori teatri italiani e nel 1865 anche al Théâtre-Italien di Parigi. Questo lavoro, che, come si è detto, procurò al giovane studente del conservatorio milanese una celebrità precoce e insperata, impressionò favorevolmente anche il Fétis, che, dopo aver assistito nel 1850 a una rappresentazione veneziana dell'opera, pur non essendo un ammiratore del C., ammise di trovarvi "de la verve comique et de l'effet dans les morceaux d'ensemble".

Particolarmente versato nel genere comico, il C. continuò a produrre per il teatro con ritmo pressoché costante e compose dapprima Il testamento di Figaro (libr. C. Bassi, Milano, teatro Re, 26 dic. 1848), accolto con buon successo, poi Amori e trappole (libr. F. Romani, Genova, teatro Carlo Felice, 27 apr. 1850; parzialmente rifatta, Roma 1867). Frattanto si era dedicato anche all'attività direttoriale e nel 1849 si recò a Marsiglia, ove tornò ancora nel 1852. Nello stesso tempo, aveva fatto rappresentare La Valle d'Andorra (libr. Giorgio Giachetti, Milano, teatro della Canobbiana, 7 giugno 1851) e Giralda (libr. Giorgio Giachetti, Milano, teatro S. Radegonda, 8 maggio 1852), lavoro che si rivelò scenicamente poco efficace e riscosse soltanto un successo di stima. Comunque era ormai entrato nel numero dei compositori teatrali più apprezzati e dapprima l'opera La fioraia (libr. Giorgio Giachetti, Torino, teatro Nazionale, 24 nov. 1853), poi La figlia di Don Liborio (libr. F. Guidi, Genova, teatro Carlo Felice, 18 ott. 1856) accrebbero il suo prestigio.

Tuttavia nel 1856 interruppe temporaneamente la sua carriera melodrammatica e si stabilì a Vigevano, ove fino al 1863 occupò il posto di maestro di cappella della cattedrale. Da questo momento cominciò a interessarsi con maggiore impegno alla musica sacra, ricevendone peraltro sensibili influssi che si faranno poi avvertire sulla sua successiva produzione teatrale, cui continuerà a dedicarsi seppure con un ritmo meno serrato.

Le testimonianze più significative di questo periodo della sua vita, legate soprattutto all'esperienza in campo religioso, sono affidate a varie composizioni sorrette da una sapiente condotta stilistica e animate da una commossa e sentita ispirazione, tra le quali emerge una messa funebre composta per l'anniversario della morte di Carlo Alberto ed eseguita a Torino nel 1859.

Frattanto l'editore Ricordi gli aveva commissionato un'opera seria e il C, interrompendo il volontario esilio, decise di riprendere l'attività teatrale componendo la tragedia lirica Il vecchio della montagna, ossia L'emiro (libr. F. Guidi, Torino, teatro Carignano, 5 sett. 1860), che, replicata poi alla Scala di Milano nel 1863, venne accolta freddamente sia dal pubblico sia dalla critica, che stentavano a riconoscervi quelle doti di freschezza e briosa originalità rivelate dal C. in opere come Don Bucefalo, entrata autorevolmente a far parte del migliore repertorio operistico europeo. Ciò nonostante la sua vena non era ancora esaurita e la sua maestria di compositore, affinatasi con il passar degli anni e le molte esperienze artistiche, gli permise di riconquistare il pubblico con l'opera Michele Perrin (libr. M. M. Alarcello, Milano, teatro Filodrammatici, 7 maggio e teatro S. Radegonda, 12 maggio 1864; poi Montevideo, teatro Solis, primavera 1873, e Malta, teatro Reale, stagione 1886-87). Questo lavoro, rappresentato in Italia e all'estero sempre con lo stesso clamoroso successo, gli valse, su proposta del ministro della Pubblica Istruzione, la croce dell'Ordine Mauriziano e soprattutto poté riconquistargli i favori del pubblico e della critica. Giunto ormai al culmine del successo, continuò a riscuotere consensi e a godere i favori del pubblico, che si mostrò benevolo nei confronti dei suoi lavori successivi in cui l'ispirazione del compositore sembrò essersi alquanto affievolita. Fece infatti rappresentare l'opera Claudia (libr. M. M. Marcello da George Sand, Milano, teatro della Canobbiana, 19 maggio e teatro la Scala, 20 maggio 1866), definita dal Tebaldini "idillio pieno di sentita melodia, veramente italiano", quindi La tombola (libr.F. M. Piave da La cagnotte di Labiche, Roma, teatro Argentina, 19 genn. 1868) e Un capriccio di donna (libr. A. Ghislanzoni, Genova, teatro Carlo Felice, 10 marzo 1870): lavori che in certo senso preparano e preannunciano la terza e ultima fortunata creazione artistica del C., quel Papà Martin (libr. A. Ghislanzoni dal dramma francese Les crochets du père Martin, Genova, teatro Carlo Felice, 4 marzo 1871) che, accolto entusiasticamente fin dal suo primo apparire sulle scene italiane, grazie anche a una efficace interpretazione di A. Bottero e di V. Fioravanti, venne ripreso con rallestimento di Carl Rosa e il titolo di The porter of Havre al Lyceum Theatre di Londra (1875) e quindi alla Volksoper di Berlino (1910).

Nel 1873 infine il C. decise di trasferirsi a Novara, ove, succedendo a C. Coccia, assunse le funzioni di maestro di cappella della cattedrale e divenne contemporaneamente direttore dell'istituto musicale. Qui, più che a Vigevano, poté comporre musica sacra pur continuando a scrivere per il teatro: rappresentò infatti la commedia Il duca di Tapigliano (libr. A. Ghislanzoni, Lecco, teatro Sociale, 19 ott. 1874), ottimamente interpretata dal Bottero e dal Fioravanti, e Francesca da Rimini (libr. A. Ghislanzoni, Torino, teatro Regio, 19 febbr. 1878), con cui concluse la sua carriera di autore melodrammatico. Tuttavia il C. non rimase a lungo in una città dove i suoi desideri di rinnovamento della musica religiosa si scontravano con una mentalità limitata e retrogada "fermatasi a Generali, Nini, Coccia e Mercadante" e nel 1887 accettò l'invito dei membri della Congregazione di Carità di Bergamo che gli offrirono la direzione della cappella di S. Maria Maggiore, posto rimasto vacante alla morte del Ponchielli.

Il C. morì a Bergamo il 30 apr. 1896, dopo una laboriosa attività consacrata quasi esclusivamente alla musica sacra.

Lasciò, non rappresentato, un Re Lear in 5 atti (libr. A. Ghislanzoni, terminato nel 1893), varie messe, mottetti e altra musica religiosa. Fu inoltre valido insegnante d'armonia e composizione ed ebbe tra gli allievi C. Pontoglio.

Compositore non privo di qualità, ma discontinuo e non sempre sorretto da un'ispirazione vivace e spontanea, fu ammirato per l'ottimo mestiere caratterizzato dall'immediatezza della linea melodica e l'originalità dello sviluppo armonico, tanto che il Pougin ne ammirò "la verve, la chaleur, le brio, l'action scénique, une gaîté franche et communicative avec laquelle viennent parfois contraster des accents d'un sentiment tendre mélancolique et touchant…" e poi, pur lodando la sua musica "claire facile mélodique et correctement sinon élégamment harmonisée", non poteva esimersi dal rilevare come il suo punto debole si celasse nell'uniformità delle idee e dei ritmi e nel procedimento un po' banale della strumentazione. Tuttavia il giudizio parzialmente negativo veniva poi mitigato dal riconoscimento delle molte qualità naturali rivelate dal C. nel corso della sua carriera; qualità che anche nelle prove meno fortunate come Claudia vennero messe in rilievo dal Ghislanzoni, il quale sulla Gazz. mus. di Milano del 27 maggio 1866, pur non potendo fare a meno di stroncare il lavoro, ammirava la produzione "…di un maestro in progresso che assimila i trovati più recenti dell'arte, di un maestro che ha cuore e dottrina… e se le melodie originali scarseggiano, se anche nelle forme l'imitazione apparisce talora con troppa evidenza, la critica deve arrestarsi riverente dinanzi a un autore che mostra di aver meditato il suo tema, che ha uno stile irriprovevole, che accenna di poter far meglio mentre è già riuscito a far molto bene".

Ed invero il C. fu artista dignitoso e soprattutto consapevole delle sue qualità come dei suoi limiti, tanto che Ippolito Valletta ebbe a dire di lui: "…non ha mai cercato di sforzare la sua natura… consolidò con studi pertinaci le sue attitudini, acquistò presto una invidiata facilità di presentare elegantemente i propri pensieri, batté le vie curando costantemente e minutamente i dettagli; si giovò dei progressi strumentali, ma non costrinse a voli troppo alti la sua fantasia; aveva la coscienza di non essere chiamato ad essere novatore e non cercò di esserlo" (Tebaldini). Non meno significative si rivelano le testimonianze offerte dalla sua produzione religiosa, sebbene l'ispirazione orientata in senso profano risulti talora monocorde e non sempre diretta ai fini esclusivi della liturgia.

Fonti e Bibl.: I. Cambiasi, I. R. Conserv. di musica, in Gazzetta mus. di Milano, V (1846), pp. 193, 294; Sangiorgi, A. C., ibid., XXIII(1868), pp. 298-302; XXXIV (1879), p. 110; G. Tebaldini. A. C., ibid., LI (1896), pp. 317 ss.; Alla mem. del comm. A. C., Mortara-Vigevano 1896; A. Colombani, L'opera ital. del sec. XIX, Milano 1900, p. 234; F. Clément-P. Larousse, Dict. des opéras, Paris 1905, I, pp. 51, 117 s., 195, 246, 369, 371, 456, 468, 482 ss., 515;II, pp. 7-38, 833, 980, 1032, 1079, 1090, 1127; Il Marzocco, 17 maggio del 1931 (recensione); Bergomum, XXV(1931), pp. 158 ss.; A. Loewenberg, Annals of Opera 1597-1940, Genève 1955, coll. 862 s., 1017; A. Geddo, Bergamo e la musica, Bergamo 1958, pp. 197, 201 ss., 206, 222, 289, 298; A. Caselli, Catalogo delle opere liriche pubblicato in Italia, Firenze 1969, pp. 76 ss.; F. J. Fétis, Biogr. Univ. des Musiciens, I, Paris 1873, p. 147; Suppl., a cura di M. A. Pougin, I, ibid. 1878, pp. 140 s.; J. D. Brown, Biographical Dictionary of Musicians with a Bibliography of English Writing on Music, London 1886, p. 135; U. Manferrari, Diz. univ. delle opere melodrammatiche, I, Firenze 1954, pp. 181 s.; G. Grove's Dict. of Music and Musicians, II, London 1954, p. 17; R. Eitner, Quellen-Lexikon der Musiker, I, Graz 1959, p. 265; C. Sartori, in Enc. d. Spett., II, Roma 1954, coll. 1470 s.; La Musica, Diz., I, Torino 1968, p. 323; C. Schmidl, Diz. univ. dei music., I, p. 274; H. Riemann, Musik-Lexikon, I, Mainz 1959, p. 265; Encicl. d. Musica Ricordi, I, Milano 1963, p. 364; F. Abbiati, Storia della musica, III, Milano 1968, pp. 383, 405.

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