CANOVA, Antonio

Enciclopedia Italiana (1930)

CANOVA, Antonio

Arduino Colasanti

Scultore e pittore, nato in Possagno il 1° novembre 1757, morto a Venezia il 13 ottobre 1822. Di famiglia benestante, ma impoverita da infelici speculazioni, perdette il padre a tre anni, e mentre la madre, passata presto a seconde nozze con Francesco Sartori, si trasferiva a Crespano, egli rimase col nonno Pasino, che, volendo farne uno squadratore di pietre, lo mandò ancora fanciullo a imparare il mestiere in una cava di marmo. In pochi anni i suoi progressi furono tali da permettersi di scolpire qualche figurina, che donava al figlio del senatore Giovanni Falier, patrizio cordiale e magnifico, nella cui villa ai Padrazzi di Asolo il nonno lavorava ora come capomastro muratore, ora come giardiniere. E appunto in casa Falier il futuro scultore, allora poco più che decenne, ebbe il primo successo, modellando di burro per la mensa di un pranzo solenne un grande leone di San Marco ad ali spiegate. Fu la sua fortuna, perché il Falier, entusiasmato, lo sottrasse al nonno, e lo allogò nella bottega dello scultore Giuseppe Bernardi detto il Torretti, prima a Pagnano, poi a Venezia. Il piccolo C. passava tutte le ore libere della giornata a meditare e a disegnare nella collezione di gessi tratti dalle più famose statue antiche che Filippo Farsetti aveva radunato nel suo palazzo sulla Riva Carbon, e la sera si recava all'accademia del nudo, presso la scuola di belle arti. Morto il Torretti, il C., nell'ottobre del 1773, abbandonò la bottega, avendogli il senatore Falier allogata l'esecuzione di due statue grandi al vero, rappresentanti Orfeo e Euridice. Tre anni egli vi lavorò, figurando il momento in cui Orfeo, uscito dall'Averno, si rivolge a guardare la sposa e trasgredisce il comando di Plutone che gliela ritoglie. Infatti attorno ai piedi di Euridice si addensano nubi di fumo fra le quali una mano esce a ghermirla. Idea ingenua e barocca senza dubbio, ma il barocco imperava e lo scultore aveva cominciato quelle opere a sedici anni. Sono di quel tempo, o poco posteriori, il modello dell'erma del senatore Antonio Renier (Possagno, Gipsoteca), l'Esculapio (Padova, Museo civico) e il gruppo di Dedalo ed Icaro (Venezia, Gallerie dell'Accademia), che esposto alla fiera dell'Ascensione del 1779, suscitò caldi e larghissimi consensi. Nel settembre di quel medesimo anno insieme con gli architetti Giannantonio Selva e Pietro Fontaine, il C. si recò a Roma, centro cosmopolita dove le correnti del classicismo rinascente trovavano impulso europeo e dove sette anni prima Clemente XIV aveva fondato il Museo di antichità, ampliato da Pio VI sotto la guida di Ennio Quirino Visconti. Compiuta una breve corsa a Napoli e a Venezia, dal 1781 ecco di nuovo il C. a Roma, dove eseguì il Teseo sul Minotauro (Londra, proprietà di lord Londonderry) e il monumento di Clemente XIV ai Ss. Apostoli (1787). Fu un trionfo, di cui si fece banditore Francesco Milizia ma di cui meno di tutti sembrava persuaso lo scultore che, nella sua alta coscienza artistica, scriveva a Marco Martinelli "veggo sempre più che ho gran spazio da percorrere".

Il nuovo successo del C. indusse il principe Don Giovanni Abbondio Rezzonico e i suoi fratelli, cardinali Carlo e Giovanni Battista, a ordinargli il sepolcro del loro zio. Clemente XIII nella chiesa di S. Pietro. Durante i quattro anni di lavoro che richiese l'opera, insensibile alla fatica, alla malevolenza degl'invidi, alla povertà, il C. si diede tutto alla sua arte concedendo alla stanchezza il minor riposo. La pressione del trapano sullo sterno, continuata per giornate intere, finì col deformare l'osso che affondò, comprimendo lo stomaco e alterandone la funzione. Compiuto il monumento, egli era un glorioso mutilato, come Michelangelo dopo la pittura della vòlta della Sistina, ma aveva creato una potente immagine di bellezza. Quel pontefice inginocchiato obliquamente, perché la sua implorazione sia diretta verso la tomba di S. Pietro, è un'imponente figura che respira. Il monumento fu inaugurato nel giorno di Venerdì Santo del 1792 e il C., vinto dall'estrema debolezza, si recò per alcuni mesi a Venezia, e a Possagno; ma nel luglio era già di nuovo a Roma, a modellare il monumento all'ammiraglio Angelo Emo da collocarsi nella sala delle quattro porte in Palazzo ducale, a scolpire in marmo un gruppo di Adone e Venere, che finì nel 1820 (Eaux-Vives, Villa Fabre), il gruppo di Amore e Psiche giacente, modellato nel 1787 (Parigi, Louvre), replicato poi con varianti (Leningrado, già nella collezione del principe Jusupov), e il gruppo di Amore e Psiche in piedi, ordinatogli dal generale Murat (Parigi, Louvre) e nel 1800 replicato per l'imperatrice Giuseppina (Leningrado, Ermitage).

Il maestro, ormai non sa più come corrispondere alle commissioni che gli piovono da tutte le parti, fra tutte importantissima quella di un gruppo colossale rappresentante Ercole che scaglia Lica nel mare, venutagli dal duca Onorato Caetani (Roma, Galleria nazionale di arte moderna). Quando l'uragano politico scoppiò, le legazioni furono invase dai Francesi, le collezioni principesche, la biblioteca, il medagliere, i musei vaticani e capitolini spogliati. Il C. in tanto trambusto eseguì la deliziosa lapide sepolcrale di Leonardo Pesaro (Roma, chiesa di S. Marco), una Maddalena per monsignor Priuli, e terminò il modello del Ferdinando IV, ordinatogli dalla corte napoletana. Ma poi, sconfortato e avvilito, si rifugiò nel Veneto, dove, interrompendo la dimora con viaggi a Vienna e a Monaco, visse a Banafro, Possagno e Venezia fino al novembre 1799. Tornato a Roma e trovato il suo studio intatto, si rimise fervidamente al lavoro eseguendo una Ebe (Berlino, Galleria nazionale), ripetuta poi ancora tre volte sempre variando qualche particolare, il Perseo (1801; Museo Vaticano) e traducendo in marmo i due Pugilatori (1802; Museo Vaticano) modellati nel 1790.

Nell'ottobre del 1802, invitato da Napoleone si reca a Parigi per eseguirne il busto. Tornato a Roma l'anno stesso, lavora al monumento di Maria Cristina (Vienna, chiesa degli Agostiniani), modella la tomba dell'Alfieri, per Santa Croce di Firenze, il Palamede (Cadenabbia, villa Carlotta), spedisce a Venezia il busto di Francesco II d'Austria, ordinatogli già da due anni e condotto sopra una maschera. Di tanto in tanto fu costretto a interrompere il lavoro per correre a Vienna (1805) o a Napoli (1806), dove Giuseppe Bonaparte gli commette la statua equestre di Napoleone, più grande di quante se ne conoscono. I vasti studî dove egli lavora non bastano più a contenere le opere; da mesti pensieri di amicizia e di morte nascono le stele funerarie del senatore Falier, di Giovanni Volpato (Roma, atrio della chiesa dei Ss. Apostoli), del conte di Sonza Holstein (Roma, S. Antonino dei Portoghesi) per il principe Guglielmo di Orange, e intanto egli attende al colossale Napoleone nudo, modella a un quarto dal vero il cavallo per la statua equestre destinata a una piazza di Napoli, crea lo stupendo ritratto di Paolina Bonaparte Borghese, rappresentata nuda in aspetto di Venere vincitrice (Roma, Galleria Borghese), scolpisce la statua sedente di madama Letizia (Chatsworth, collezione del duca di Devonshire) e della principessa Leopoldina Esterházy, esegue, su un mezzo modello, il monumento all'Alfieri; una folla di capolavori in sei anni. Nell'agosto 1810 è di nuovo chiamato a Parigi per fare il ritratto e poi la statua della nuova imperatrice Maria Luigia; da principio non vuole andare e resiste, ma l'11 ottobre è già a Fontainebleau; e mentre lavora e conversa con Napoleone profitta delle sue buone disposizioni per ottenere favori alle arti. Tornato a Roma lavora nello stesso tempo alla statua di Maria Luigia, a condurre in marmo l'Ercole e Lica, tre statue di danzatrici, la Venere uscente dal bagno (Firenze, Galleria degli Uffizî), i busti della baronessa e del barone Darn (Montpellier, museo Fabre), il Paride (Monaco, Museo) e altre statue e stele e ritratti.

Caduto Napoleone, il C. si recò per la terza volta a Parigi e, dopo lunghe trattative, ottenne la restituzione delle opere d'arte portate via allo stato pontificio sedici anni prima; partita l'ultima cassa, andò a Londra per ringraziare il principe reggente a nome del papa e per vedere i marmi del Partenone raccolti in Grecia da lord Elgin. Fu il suo ultimo viaggio importante. Gli ultimi anni li trascorse a Roma lavorando alle Tre Grazie (un esemplare all'Ermitage in Leningrado, un altro, con lievi varianti, presso il duca di Bedford), al busto e alla statua di Elisa Baciocchi, al gruppo della Pace e della Guerra (Londra, Buckingham Palace), alla Musa Polimnia, al Teseo che uccide il Minotauro (Vienna, Kunsthistorisches Museum), al monumento degli Stuardi in S. Pietro, al busto della Vestale (Milano, Museo civico) e di Saffo (Torino, Museo civico), alle statue di Giorgio Washington e di Pio VI orante (Roma, S. Pietro) e al monumento equestre di Carlo III di Borbone, per ricordare solo le principali fra le sue opere ultime. Il 13 settembre 1821, stanco e sofferente, partì da Roma e si recò a Possagno. Migliorò e volle tornare a Roma, ma, sfinito, dovette fermarsi a Venezia, dove morì.

Giustamente si è scritto che il C. è l'ultimo grande artista italiano, la cui gloria sia stata riconosciuta e confermata da tutto il mondo civile, e l'ammirazione ardente di cui fu oggetto da parte di re, papi, imperatori, artisti e letterati, oltre che all'artista andava in larga parte anche all'uomo, che in tutta la sua vita non ebbe un solo istante chiuso il cuore alla voce della solidarietà umana. Non conobbe odî, beneficò sempre tutti e, quando poté, volle che la sua arte servisse a scopi alti ed umani, diffuse intorno a sé, insieme con le cose belle, la religione dell'amore. L'opera del C. porta i segni delle contraddizioni del secolo in cui è nata quando, come nel Rinascimento, l'antichità tornava a diventare il principale alimento spirituale e, mentre continuava la nuova primavera settecentesca, dalla musica di Marcello e di Pergolesi alla pittura del Tiepolo, del Canaletto, del Guardi e di Pietro Longhi, ancora una volta non si sapeva trovare niente di più nobile e glorioso della grandezza di Roma. Si scopre Pompei ed Ercolano, l'Alfieri esalta gli stessi eroi romani che celebra il Montesquieu, il Winckelmann pubblica i pensieri sull'imitazione delle opere greche e, poco più tardi, sulla storia dell'arte antica proclamando che il solo mezzo per diventare grandi è appunto l'imitazione degli antichi. Uomo del tempo suo, avendo, giovinetto dodicenne, compiuta la prima educazione del suo gusto fra i calchi della raccolta Farsetti, tuffato in piena mitologia in quella Roma nella quale papa Braschi - un nobiluccio di provincia - s'illudeva di rinnovare i fasti di Pericle e di Leone X, il C. era fatalmente portato a racchiudersi sempre più nella rigida formula neoclassica. Ma, in fondo in fondo, nonostante quella sua repugnanza ad abbandonarsi tutto intero alla sua febbre e al suo rapimento, pur in quella difficoltà di fissare senza un largo apparato culturale l'eterna giovinezza della natura, egli ricordò almeno talvolta, le sue origini di settecentista veneziano, che affiorano nella dolcezza molle dei gruppi di Amore e Psiche, nella grazia un po' leziosa dell'Ebe, delle Danzatrici, dell'Amorino della collezione Jusupov, nella raffinata delicatezza delle Tre Grazie dell'Ermitage.

Precocemente deluso nel suo affetto di fidanzato dalla figlia dell'incisore Volpato, il C. amò, finché visse, la giovinezza, ma non conobbe l'amore. Fu quasi cieco dinnanzi alla donna. La osservò e la studiò come pochissimi nella sua bellezza esteriore e formale, ma raramente ne penetrò la vita, perché gli elementi di essa non furono connessi a una visione totale, non parvero destinati a costituire un insieme fiorito dalla passione. La stessa Paolina Bonaparte, immagine stupenda di virtuosità plastica, è immobile e non respira. La insensibilità del Canova dinnanzi al mistero della vita femminile si accompagna a una quasi completa incomprensibilità degli avvenimenti del tempo suo. Tutto il vasto dramma della rivoluzione e della guerra si svolge invano dinnanzi agli occhi suoi. Passato fra tante distruzioni, fra tante lacrime, fra tante rovine, fra tanti lutti, cresciuto fra il tramonto e l'aurora di due società, vive soltanto dell'arte e nell'arte. Ed è strano che egli abbia invece così ben compreso colui che era apparso subito l'eroe rappresentativo, destinato a dare un carattere all'età sua: Napoleone. Effigiandolo grandiosamente nudo, con l'asta e la clamide militare e, nella destra, il mondo con la vittoria alata, più che l'immagine di un uomo, il C. ha scolpito il monumento del secolo ch'egli rappresenta. Nelle poche pitture che di tanto in tanto, soprattutto per divagarsi, eseguì in tela il C. non riuscì a sottrarsi al più vieto accademismo, se ne togli l'autoritratto del 1790 (Firenze, Uffizî).

V. tavv. CLXXXVII a CXCII.

Bibl.: I. Albrizzi-Teotochi, Opere... di A. C., Firenze 1809, ripubblicato da G. Rosini, Pisa 1821 segg. e da L. Cicognara, Londra 1824 segg.; A. d'Este, Memorie per servire alla vita del marchese A. C., Venezia 1823; G. Falier, Memoria... del marchese A. C., Venezia 1823; G. Bossi, Biblioteca canoviana, voll. 4, Venezia 1823; M. Missirini, Della vita di A. C., Prato 1824 e Milano 1825; G. Rosini, Saggio sulla vita .... di A. C., Pisa 1825 e 1930; H. Delatouche, Øuvres de C., Parigi 1825, Stoccarda 1826 e 1835; Quatremère de Quincey, C. et ses ouvrages, Parigi 1834; A. E. Meyer, Canova (Künstlermonographien), Bielefeld 1898; V. Malamani, A. C., Milano 1911; P. Paoletti, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, V, Lipsia 1912 (con la bibl. precedente); A. Pozzi, A. C., Ferrara 1922; U. Ojetti, Tintoretto, Canova, Fattori, Milano 1922; A. Colasanti, Spiriti e forme dell'arte di A.C., in Nuova Antologia, LVIII (1923); id., A. C. (coll. Artisti moderni italiani), Roma 1927. Un esauriente indice bibliografico sul C. è stato pubblicato di recente da L. Coletti, La fortuna del C., in Boll. del R. Istituto di archeologia e storia dell'arte, I, (1927), fasc. 4°-5°, pp. 21-96.

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