DURINI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

DURINI, Antonio

Nicola Raponi

Figlio di Giacomo, conte di Monza e patrizio milanese, e della marchesa Marianna Ruffino di Diano, nobildonna torinese, nacque a Milano il 6 giugno 1770. Nipote e pronipote di due cardinali della famiglia Durini, Carlo Francesco e Angelo Maria, stati nunzi pontifici rispettivamente a Parigi e a Varsavia, fu avviato quasi naturalmente alla carriera ecclesiastica. Compi gli studi a Roma; nel 1794 ebbe la laurea in utroque iure e lo stesso anno l'iscrizione al Collegio dei nobili giureconsulti di Milano: l'aggregazione avvenne il 30 giugno con un'orazione del marchese Francesco Casati.

Nominato prelato domestico e avvocato concistoriale, pubblicò l'anno seguente una dissertazione De metallis et metallariis et procuratoribus (Roma 1795), rimasto l'unico suo scritto a stampa. Al giovane avvocato era offerta una precoce carriera nell'amministrazione dello Stato pontificio, giacché il 14 marzo 1797 Pio VI, con suo breve, lo nominava governatore di Città di Castello, adducendo la sua "summa fides, prudentia, doctrina atque integritas". Ma lo Stato pontificio, già percorso da correnti giacobine e rivoluzionarie, invaso dai Francesi e parzialmente smembrato dopo il trattato di Tolentino (19 febbr. 1797), era in piena crisi. A Città di Castello, partito il predecessore Bartolomeo Lopez y Royo il 10 febbr. 1798 e prima del suo ingresso, avevano interinalmente le funzioni di governatore il gonfaloniere Filippo Roi e il vescovo Pietro Boscarini. Il D. aveva appena preso possesso dell'ufficio che nel dicembre milizie della Repubblica cisalpina entrarono a Città di Castello, ove si costituiva una nuova Municipalità. Il 12 genn. 1798 i Cisalpini della legione bresciana del generale G. Lechi vi proclamavano la Repubblica esautorando il governatore e imprigionando la guardia della città (fu in questa occasione che i giacobini locali donarono al Lechi, per le sue benemerenze repubblicane, il quadro Lo sposalizio della Vergine di Raffaello, conservato nella chiesa di S. Francesco, nel 1806 riacquistato da Francesco Melzi per la Pinacoteca di Brera). Il D. si era rivolto nel frattempo al governatore di Perugia, che in febbraio gli annunciava l'invio di rinforzi; frenato però dai Francesi l'espansionismo cisalpino, sin dal 1° febbraio questi avevano preso in consegna la piazza di Città di Castello, mentre se ne allontanavano le milizie cisalpine.

Dopo la proclamazione, il 21 febbr. 1798, della Repubblica Romana, il D. fece ritorno a Milano, abbracciando idee liberaleggianti e repubblicane e tornando definitivamente, nel 1801, allo stato secolare. Non si hanno elementi per conoscere l'itinerario psicologico e intellettuale di questa svolta radicale della sua vita, anche se casi analoghi non furono infrequenti fra gli ecclesiastici e la società nobiliare dopo il 1796.

Dopo qualche anno di silenzio, nel 1804 era chiamato a far parte della Municipalità, iniziando una lunga e influente presenza nell'amministrazione comunale e nella società milanese della prima metà del sec. XIX: podestà della città dal 1807 al 1814 e dal 1827 al 1837, fu espressione autorevole di un notabilato locale che mirava a salvaguardare gli interessi locali e nazionali del paese e quelli di ceto mantenendo nei confronti dei mutevoli regimi politici un accorto atteggiamento ora di adesione più o meno calorosa, ora di collaborazione passiva e prudente, ora di cauta opposizione. Il suo nome appare la prima volta nella seduta del Consiglio comunale del 9 nov. 1804, quando, dovendosi rinnovare per la legge 24 luglio 1802 un terzo degli amministratori municipali, cioè dell'organo esecutivo del Comune, il D. vi venne eletto a maggioranza assoluta. Prima come membro, poi come presidente della Municipalità, si occupò di alloggiamenti militari, di festeggiamenti, di problemi inerenti alla nuova veste di Milano capitale della Repubblica Italiana e poi del Regno; tra l'altro collaborò con L. Cagnola alla erezione, dal 1808, dell'arco trionfale di porta Sempione.

Dopo la riforma dell'ordinamento amministrativo del Regno varata da Napoleone con il decreto 8 giugno 1805, che sottoponeva i Comuni a un rigoroso controllo statale mediante l'autorità prefettizia e sostituiva alla Municipalità una Congregazione municipale presieduta da un podestà di nomina regia, il D., che già nella seduta del Consiglio comunale del 6 nov. 1805 era stato incluso nella terna di nomi da presentare al governo, il 30 nov. 1807 fu nominato podestà di Milano per il triennio 1808-1810 e, dopo analoga votazione del 3 luglio 1810, riconfermato per il triennio successivo.

Come podestà dovette svolgere anzitutto le consuete funzioni di rappresentanza e organizzare feste e cerimonie che la presenza della corte del viceré a Milano e le vicende napoleoniche imponevano alla città: TeDeum per le vittorie imperiali, ingressi solenni di principi e generali, feste per le nozze di Napoleone con Maria Luisa, feste per la nascita del re di Roma; in questa occasione il D. si recò con una delegazione milanese a Parigi, dove il 27 apr. 1811 presentò indirizzi di felicitazioni all'imperatore e all'imperatrice. Anche se non mancò qualche screzio con il governo, il D. interpretò bene la politica dell'amalgama avviata dal Melzi e proseguita dal governo italico; con decreto 19 dic. 1807 fu insignito dell'Ordine della Corona di ferro e l'11 ott. 1810 nominato conte del Regno.

La legge 8 giugno delineava la moderna figura del sindaco capo dell'amministrazione comunale ma altresi ufficiale del governo e queste funzioni si scorgono nell'attività del D., che come podestà avviò il servizio di stato civile e il servizio di statistica, svolgendo pure le funzioni di ufficiale sanitario e presidente della commissione comunale di Sanità, di membro della congregazione di Carità, di ispettore delle scuole e delle caserme, di presidente della commissione di Pubblico Ornato (cioè lavori pubblici e urbanistica). I settori nei quali si indirizzò la politica del D., sia nel periodo francoitalico sia più tardi sotto l'Austria, furono soprattutto l'assetto urbanistico e il riordinamento edilizio della città (per il quale si valse dell'opera del Cagnola, per molti anni anche lui consigliere comunale, e d'altri artisti e tecnici cui si deve la sistemazione della Milano neoclassica); l'incremento e la liberalizzazione del commercio cittadino, "attesi i principi liberali - come diceva una sua relazione sempre stati in uso in questa città e sempre più estesi dal presente governo"; infine il riordinamento della finanza locale: un suo "Progetto per centralizzare l'esazione dei diversi rami d'introito a favore del Comune di Milano", nel quale si auspicava l'unificazione delle imposte e del sistema di riscossione, fu alla base dei nuovo regolamento tributario del Comune entrato in vigore nel 1812.

Alla scadenza del secondo triennio di carica il Consiglio comunale l'aveva riproposto ancora nella seduta del 20 sett. 1813 come podestà, ma la crisi dell'Impero napoleonico comportò la proroga automatica dell'ufficio, che divenne eccezionalmente delicato nell'aprile del 1814, quando, l'abdicazione di Napoleone a Fontainebleau pose il problema della sorte del viceré Eugenio e del Regno Italico e Milano si trovò fra tre eserciti: quello austriaco del Bellegarde verso il Veneto, quello inglese del Bentinck verso la Liguria, quello di Gioacchino Murat nel Bolognese e con le truppe italiche del generale Pino in città. Il D. ebbe un ruolo assai importante nello scontro fra i partiti milanesi che volevano mantenere in vita il Regno Italico, ma non erano d'accordo sul nome da proporre: Melzi e il Senato favorevoli ad Eugenio; i cosiddetti italici, guidati dal giovane Federico Confalonieri, inclini chi al generale Pino, chi al Murat, chi all'arciduca Francesco d'Este; la vecchia aristocrazia filoaustriaca propensa a un principe di casa d'Austria. Il D. propendeva per Francesco d'Este, nipote di Maria Teresa, considerato quasi milanese per aver vissuto a Milano dalla nascita per 17 anni.

L'iniziativa del Senato italico di mandare una delegazione a Parigi presso le potenze alleate per sostenere la candidatura di Eugenio provocò la reazione antifrancese di nobili e popolani: i primi con una petizione al Senato, consegnata tramite il D., perché riunisse i Collegi elettorali "nei quali solamente - si diceva - risiede la legittima rappresentanza della nazione"; i secondi con tumulti e sommosse che. miziati il 14 aprile, culminarono il 20 con l'eccidio del Prina: due proclami del D., che invitava i cittadini alla calma e a tornare nelle loro case non ebbero in questa occasione alcun effetto. Lo stesso giorno il Consiglio comunale aveva votato un messaggio a lord Bentinck firmato dal D. e da altri esponenti milanesi - fra cui alcuni appartenenti alla massoneria, alla quale secondo taluni anche il D. avrebbe aderito - per perorare la causa del Regno. Il 21 aprile il Consiglio comunale, mancando ogni legittimo titolare del potere dopo l'abdicazione di Napoleone, nominava una reggenza provvisoria di governo composta d'autorevoli esponenti della nobiltà e delle istituzioni milanesi e adottava la coccarda bianca e rossa - i colori di Milano - in luogo della bandiera italica. La reggenza fu confermata il giorno seguente dai Collegi elettorali e si inviò una nuova delegazione al congresso di Parigi della quale faceva parte il Confalonieri. Il D., come appare anche dalla corrispondenza di quei giorni con il Melzi e con le varie delegazioni, fu sempre al centro della delicata situazione come unica autorità fuori discussione. Quando il generale Bellegarde si insediò però alla presidenza della reggenza di governo, il D., il 10 maggio 1814, presentò le dimissioni alla stessa reggenza, ma questa le respinse con una lettera del 12 successivo. Il D. rimaneva momentaneamente al suo posto mentre cadevano le speranze di conservare in vita il Regno Italico: il 22 maggio il Bellegarde scioglieva il Senato e il Consiglio di Stato e il 12 giugno annunciava che il governo austriaco riprendeva possesso della Lombardia.

Il 16 ottobre il D. presentava nuovamente le dimissioni alla regia cesarea reggenza di governo che le accoglieva con decreto 22 ottobre del Bellegarde, il quale invitava il Consiglio comunale a formare la terna per la nomina d'un nuovo podestà. Nel trasmettere il decreto al Comune il segretario della prefettura, Cicognara, si rammaricava di veder tolto "al Comune uno zelantissimo rappresentante" e alla prefettura "nelle circostanze più difficili un efficacissimo cooperatore negli aspetti di pubblica amministrazione" (lettera del 26 ott. 1814). Nella seduta del 29 marzo "1815, il Consiglio comunale votava inoltre un indirizzo di plauso al D. trasmesso dal nuovo podestà Cesare Giulini, in segno di "stima soddisfazione e riconoscenza pei distinti servizi … prestati con tanto zelo, intelligenza e riputazione in vantaggio di questo comune". Il cambiamento di governo non sembrava aver influito nella rappresentanza comunale milanese dove le stesse famiglie e gli stessi uomini continuavano a sedere; lo stesso D. già nel triennio 1818-1820 entrava nel Consiglio comunale e nella seduta del 26 nov. 1818 otteneva ancora il primo posto nella terna per la successione al podestà Giulini. Benché la sua nomina fosse data per certa in considerazione del favore che riscuoteva presso le autorità di governo milanesi, egli non si diede disponibile.

Il D. aveva sposato il 5 marzo 1808 Giuseppina Casati, sorella di Teresa, moglie di Federico Confalonieri: l'intreccio di queste parentele va tenuto presente per comprendere orientamenti politici della nobiltà, indirizzi dell'amministrazione comunale milanese e vicende del Risorgimento in Lombardia. Al D. il Confalonieri aveva indirizzato anni prima uno scritto, Lettera a un amico (Milano 1815) nella quale riassumeva le vicende relative alla caduta del viceré Eugenio; nel 1820 i due fecero parte di una commissione per festeggiare il ritorno a Milano dell'arciduca Ranieri. Dopo l'arresto e l'inquisizione a carico del Confalonieri il D. fu assai vicino ai cognati e fu opera sua la distruzione delle lettere di Carlo Alberto principe di Carignano e di altre carte compromettenti con le quali viceversa il Confalonieri pensava di dimostrare ai giudici il carattere assolutamente innocuo di quelle sue relazioni. Dopo la condanna, il D. fu tra i firmatari, con Teresa Confalonieri e gli esponenti delle influenti famiglie imparentate ai Confalonieri - Litta Modignani, Durini, Daverio, Greppi, D'Adda, Crivelli - dell'appello di grazia all'imperatore, il 30 dic. 1823; anche in seguito si adoperò in suo favore e il Confalonieri nelle sue Memorie gliene rese pubblica testimonianza.

Il D. continuava ad essere proposto dal Consiglio comunale come primo ternato per la nomina a podestà: nel 1823 (seduta del 23 settembre) e nel 1826 (seduta del 26 settembre). La composizione della terna in questa occasione fu assai laboriosa e si protrasse dal febbraio all'agosto del 1826, perché coloro che erano via via votati - Giuseppe Pallavicino, Luigi Brivio, Lorenzo Prinetti, Antonio Negri, Tiberio Confalonieri, Francesco Dal Venne, il podestà in carica Carlo Villa, il giovane Gabrio Casati - chiesero d'essere esclusi dalla terna con ragioni che lasciavano trasparire la riluttanza, almeno in quel momento, a collaborare con il governo austriaco e la preferenza semmai ad occuparsi dell'amministrazione dei molti istituti di beneficenza e assistenza, ospedali, opere pie o della gestione del patrimonio e degli interessi familiari. Le stesse ripetute e plebiscitarie votazioni in favore del D. potevano essere interpretate come nostalgia dei ceti dirigenti lombardi per gli uomini e le istituzioni del periodo italico inteso come parziale espressione di governo nazionale. Peraltro il governo viennese non accettò nel 1826 l'istanza del Casati, che venne incluso in tema con il D., il quale con sovrana risoluzione 7 ag. 1827 era nominato podestà. Egli rimase a capo dell'amministrazione milanese per dieci anni, sino al 1837, riproposto con votazione unanime del Consiglio il io marzo 1830 e il 9 maggio 1833 e nominato con sovrane risoluzioni rispettivamente 13 dic. 1831 e 24 febbr. 1834; il governo lombardo, trasmettendo la tema a Vienna il 27 genn. 1833, si esprimeva in favore del D. adducendo l'alto numero di suffragi in suo favore e "le prove di somma capacità e zelo da lui offerte nei precorsi trienni nella medesima incombenza di podestà, nonché la conoscenza sempre maggiore da lui acquisita negli affari del Municipio". Nel 1837, benché sempre primo in tema, gli fu preferito Gabrio Casati.

Dal governo austriaco il D. ebbe i consueti riconoscimenti: cavaliere di terza classe dell'Ordine della Corona di ferro, i.r. ciambellano attuale con nomina del 1831. Nel triennio 1838-1841 fece parte del Consiglio comunale, che ancora nel 1840 e nel 1843 lo riproponeva, benché ormai più che settantenne, per la nomina a podestà; nelle votazioni dell'agosto 1843 la tema risultò composta dal D., Gabrio Casati e un altro Durini, Giuseppe, che andava emergendo fra la notabilità milanese. Ambedue i Durini dichiararono però di non voler essere inclusi nelle terna, che confermò il Casati al primo posto; il ritiro dell'antico podestà di Milano dalla vita pubblica era ormai definitivo.

Il D. ebbe dal matrimonio con Giuseppina Casati otto figli, fra cui Carlo ed Alessandro - quest'ultimo pittore e artista di buone qualità - che presero ambedue parte alle Cinque giornate.

Mori a Milano il 16 apr. 1850.

Fonti e Bibl.: Documentazione abbastanza copiosa a Milano, Arch. stor. civico, Consiglio comunale, Peliberazioni, cartt. 4, 6, 9, 12-16, 18, 21, 22, 25, 32-33, 35, 37, 39; Ibid., Famiglie, cartt. 626-627; Ibid., Acquisti e doni, cart. 10; Arch. di Stato di Milano, Autografi, cart. 194; Uffici civici, p.m., cart. 133. Quasi solo come curiosità segnaliamo le due composizioni: di Fr. Casati, A. D. comiti patricio Mediolanensi in patrium Collegium iudicum comitum et equitum solemniter adlecto Oratio quam habuit…, Mediolani 1794, e, di anonimo, Al occasion ch'el sur Togn Duriin pudestaa de Milan se marida con la sura Peppina Casada, Milano 1808. Cfr. anche Guida di Milano (Bernardoni), Milano 1823 ss. Documenti editi in F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di G. Casati, III, Milano 1889; Carteggio del conte Federico Confalonieri e altri documenti spettanti alla sua biografia, a cura di G. Gallavresi, II, 1-2, Milano 1911-1913; Carteggio di Federico e Teresa Gonfalonieri, a cura di F. Arese-A. Giussani, Milano 1956; Icarteggi di Francesco Melzi duca di Lodi. Il Regno d'Italia, Milano 1965, pp. 430, 551 s., 555 ss. Cfr. inoltre G. Muzi, Mem. stor. e civili di Città di Castello…, Città di Castello 1844, pp. 157 ss., 228; T. Casini, La rivoluzione di Milano dell'aprile 1814, Roma 1897; G. B. Marchesi, Ilpodestà di Milano conte A. D., in Arch. stor. lomb., XXX (1903), 2, pp. 138-176; R. Calzini-P. Portaluppi, Il palazzo e la famiglia Durini in due secoli di vita milanese (1648-1848), Milano 1923, pp. 44 ss.; D. Biandrà Trecchi, Milano e gli Inglesi nel 1814. La missione del barone Trecchi in Rass. stor. del Risorg., XXIV (1937), pp. 521-554; C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, III, Milano 1933-34, passim; E. Rota, Milano napoleonica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, ad Indicem; F. Arese, IlCollegio dei nobili giureconsulti di Milano, in Arch. stor. lomb., CIII (1977), pp. 179, 187; F. Calvi, Il patriziato milanese, Milano 1875, tav. II; Diz. del Risorg. naz., II, p. 969.

N. Raponi

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