Genovesi, Antonio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Antonio Genovesi

Luigino Bruni

Antonio Genovesi, maestro riconosciuto della Scuola di economia della seconda metà del Settecento oltre che primo cattedratico della disciplina, inaugura una stagione feconda del pensiero economico italiano. Pur all’interno di una visione ispirata a forme di utilitarismo settecentesco, Genovesi è profondamente influenzato dalle impostazioni neoplatoniche (Shaftesbury) e dalle filosofie del senso morale (da Gershom Carmichael a Francis Hutcheson), il cui insegnamento è raccolto anche da Adam Smith. È altresì influenzato dalla concezione tomista del bene comune e dell’etica delle virtù. L’idea della eterogenesi dei fini, da un lato, e dall’altro l’idea antropologica di animal civile (ispirata a Giambattista Vico), entrambe al centro del suo pensiero, rendono per la prima volta esplicita una concezione cooperativa del mercato concorrenziale. È una linea argomentativa di questo genere che induce Genovesi a rovesciare il celebre adagio di Thomas Hobbes (homo homini lupus) nel suo contrario: homo homini natura amicus.

La vita

Antonio Genovesi nacque il 1° novembre 1713 a Castiglione (oggi Castiglione del Genovesi), piccolo paese del salernitano, da padre calzolaio, di famiglia nobile decaduta.

Si dedicò fin da giovane alla vita ecclesiastica e nel 1737 venne ordinato sacerdote. Dopo aver vissuto per qualche anno a Buccino (Salerno), nel 1738 si trasferì a Napoli. Qui studiò filosofia frequentando le lezioni di Vico, il cui pensiero sarebbe rimasto una costante fonte di ispirazione anche nella sua produzione economico-sociale. Nel 1739 fondò una scuola privata per insegnarvi filosofia e teologia iniziando così a maturare anche la sua esperienza pedagogica.

In quegli anni conobbe Celestino Galiani attraverso il quale ottenne il primo incarico universitario di professore di materie metafisiche nel 1745. Nel 1743, intanto, aveva pubblicato il primo tomo degli Elementa metaphysicae (l’ultimo, il quarto, uscì nel 1752), opera filosofica duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici a causa degli influssi nordici (René Descartes e John Locke in particolare) presenti nel suo pensiero, al punto da non ottenere l’approvazione ecclesiastica (imprimatur) dell’arcivescovo di Napoli, cardinale Giuseppe Spinelli, per il rifiuto di Genovesi di eliminare alcuni passaggi del testo. Per questa ragione Genovesi venne accusato dagli ambienti curiali anche di ‘ateismo’, come ricorda Giacomo Racioppi (1871, p. 105). Rischiò per questo di perdere l’abito talare e dovette ricusare, almeno formalmente, alcune delle sue tesi, per non perdere la cattedra di filosofia, come scritto esplicitamente in un’Appendix agli Elementa che scrisse nel 1744 «dedicandola» al cardinale Spinelli (Villari 1959).

La cattedra la perse tuttavia solo pochi anni dopo, ma fu una felix culpa che lo portò a occuparne un’altra, più rilevante per la storia del pensiero, quella di commercio e meccanica.

In quegli anni burrascosi molto importante fu per la sua attività il sostegno del vescovo di Taranto (Celestino Galiani), suo amico ed estimatore. Nel 1745 pubblicò gli Elementa artis logico-criticae (noti anche come Gran logica) e, nello stesso anno, ricevette da Celestino Galiani la cattedra che fu di Vico, etica o filosofia morale. Nell’agosto del 1746 iniziò le lezioni nelle quali inserì, grande novità per il tempo, anche elementi di politica.

Nel 1747 si riacuì la persecuzione della curia e del cardinal Spinelli, che gli negò l’imprimatur per la pubblicazione della seconda parte degli Elementa, poiché una commissione teologica, composta in buona parte da nemici dichiarati di Genovesi, trovò in essa più di cento tesi eretiche. Così commenta Genovesi nella sua Autobiografia:

Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi sì turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie (Vita di Antonio Genovesi, 1756, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, 1962, p. 22).

Il rapporto con le autorità ecclesiastiche del tempo restò una nota costante in tutta l’attività di Genovesi, al punto che anche le sue Lezioni di economia civile furono messe all’indice con decreto del 23 giugno 1817 (Villari 1959, p. 17).

In realtà Genovesi aveva un autentico spirito cristiano e una genuina fede cattolica che conservò per tutta la sua esistenza, sebbene non condividesse le scelte temporali e politiche della Chiesa del suo tempo, in linea qui con il movimento anticuriale di Pietro Giannone che tanto influenzò l’intero movimento riformatore meridionale. Nel frattempo, conobbe e intrattenne rapporti anche con Ludovico Antonio Muratori che dureranno fino alla morte di quest’ultimo (purtroppo la corrispondenza tra i due sembra essere andata quasi interamente perduta), altro importante autore della ‘pubblica felicità’, ed entrò a far parte del circolo culturale dell’Accademia delle scienze di Massa Equana di Bartolomeo Intieri, un anziano fiorentino umanista e riformatore che, con il suo approccio galileiano alla scienza, ebbe un ruolo molto importante nel passaggio di Genovesi dalla metafisica all’economia, da «metafisico a mercatante».

In questo contesto riformatore, nacque nel 1751 Della moneta di Ferdinando Galiani, l’altro giovane geniale di quel gruppo di economisti, un’opera economica tra le più originali e importanti del Settecento europeo, e maturò la figura di Genovesi come economista. A lui venne infatti affidata nel 1754 a Napoli la prima cattedra di economia di cui si ha traccia in Europa, voluta e finanziata da Intieri a condizione che fosse Genovesi a ricoprirla e che la lingua delle lezioni fosse l’italiano, una precisa scelta educativa e riformatrice anche questa.

Per i buoni frutti che a volte produce l’eterogenesi dei fini, la cacciata di Genovesi dal campo della filosofia lo portò a concentrarsi negli ultimi quindici anni della sua vita quasi esclusivamente sulle materie economiche, etiche e antropologiche, che fecero del suo insegnamento un magistero riconosciuto in tutta l’Europa illuminista.

Nel 1754 pubblicò il manifesto del programma riformatore del circolo: Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, un’analisi sulle cause e ragioni del declino economico e civile del Regno di Napoli, che ancora oggi conserva tutta la sua forza culturale e di pensiero.

Tra il 1765 e il 1769 Genovesi pubblicò le sue opere più importanti: in primo luogo, le Lezioni di economia civile (in tre edizioni, due a Napoli e una a Milano, tra il 1765 e il 1770, che sono lo sviluppo degli Elementi di commercio del 1757, conservati manoscritti presso la Biblioteca Nazionale di Napoli e ora pubblicati nella prima parte dell’edizione critica delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, a cura di M.L. Perna, 2005), un’opera che fu subito tradotta in tedesco e in spagnolo; quindi la Logica (1766), la Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto (1766), e scrisse il commento a una nuova traduzione italiana dell’Esprit des lois di Montesquieu (pubblicato postumo e incompleto nel 1777: cfr. E. De Mas, Montesquieu, Genovesi e le edizioni italiane dello Spirito delle leggi, 1971). Morì prematuramente a Napoli il 12 settembre 1769.

L’antropologia

Genovesi scrisse il suo trattato di economia in una Napoli illuminista nel maggiore splendore culturale della sua storia, e scelse come titolo Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767). La cattedra interiana a lui assegnata aveva però un altro nome, cattedra di commercio e di meccanica, fatto anche questo importante perché mette l’accento su un aspetto centrale di tutta quella generazione di riformatori napoletani e italiani, e cioè il legame della cultura economica e, in generale, accademica con la tecnica e le applicazioni indispensabili per l’incivilimento.

Dagli artigiani medioevali a Leonardo, da Evangelista Torricelli a Intieri, l’Italia era stata (ed è ancora) capace di sviluppo economico e civile quando ha saputo unire sapere pratico e sapere intellettuale, quando la speculazione ha servito la vita e il benessere della gente.

Per avere una cattedra intitolata direttamente economia civile, dobbiamo aspettare il 1772, quando fu istituita a Modena e a ricoprirla venne chiamato da Francesco III Agostino Paradisi, le cui Lezioni di economia civile (di chiara derivazione genovesiana) sono conservate in manoscritto nella Biblioteca di Modena e Reggio Emilia.

L’economia civile può essere vista come l’approdo moderno di quella visione del mercato iniziata con la civiltà cittadina e con i francescani del tardo Medioevo, fiorita nella Toscana dell’Umanesimo civile della prima metà del Quattrocento, e poi, dopo quasi tre secoli di eclissi o di inabissamento a mo’ di fiume carsico, esplosa durante la grande stagione dell’Illuminismo italiano, napoletano in particolare, ma con significative presenze in Lombardia, Toscana e Venezia (Bruni, Zamagni 2004; Bruni 2009).

Come per i primi umanisti civili, anche per Genovesi la vita civile non solo non si contrappone alla vita buona, ma è vista come il luogo in cui quella felicità può essere raggiunta pienamente, grazie alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità: «se la compagnia reca dei mali, ella dall’altra parte è l’assicuratrice della vita e dei beni; il che è fonte di grandissimi piaceri, ignoti agli uomini della natura» (Della Diceosina [1766], 1795, p. 37). E come per gli umanisti civili e i francescani, anche per Genovesi il mercato è faccenda di philia.

Nella Logica per gli giovanetti troviamo un interessante legame tra la sua antropologia e i premi:

La politica dee di tutte le persone, che compongono lo Stato, fare un corpo più denso e stretto, che sia possibile. Or questo corpo si fa studiandosi colle leggi di mantenere ferma quella mezza proporzionale tra le due primitive forze del cuore umano, concentriva e diffusiva. Ma quella mezza proporzionale non si sostiene, che per le pene convenevoli a’ delitti, pronte, luminose; e per gli premi solleciti e pubblici delle gran virtù (17692, p. 322).

L’antropologia genovesiana, proprio perché basata sull’equilibrio tra queste due forze, sa che se non coltivata adeguatamente la forza diffusiva («l’amore della specie»), la forza concentriva («l’amor proprio», Della Diceosina, cit., p. 17) cresce troppo e produce danni individuali e sociali: «la forza concentriva spesso trae a sé soverchiamente, donde nasce un indebolimento della diffusiva, che strugge il fondo medesimo della concentriva» (p. 19). Al tempo stesso, Genovesi sa che una crescita eccessiva dell’amor della specie produce a sua volta squilibri, poiché «per fare troppo bene agli altri, uccide la medesima, onde cessa la sua efficacia» (p. 19). E in nota (a) aggiunge: «Tutti i soverchio zelanti del ben pubblico sono capitati male. È la continua storia d’Europa di 3000 anni. Tutti gli eroi son morti violentemente». Genovesi, sulla naturalità (e non artificialità) della socialità e sul suo ruolo essenziale per una vita pienamente umana e felice, è in perfetta linea con la tradizione antica (aristotelico-tomista).

Qualche decennio prima in tal modo si esprimeva Paolo Mattia Doria, nell’Introduzione al suo saggio La vita civile:

A questa quasi impossibilità, ch’è negli uomini di possedere tutte le virtù, e alla proprietà, che hanno di possedere ognun’uno alcuna, s’ingegna, ed aspira di rimediare la invenzione della vita civile […] La qual cosa mostra la vera essenza della vita civile essere uno scambievole soccorso delle virtù, e della facultà naturali, che gli uomini si danno l’un l’altro, al fine di conseguire l’umana felicità (1710, p. 1).

Se però entriamo nel vivo della visione della vita in comune della Scuola napoletana dell’economia civile, ci accorgiamo subito che per questi autori (non solo Genovesi) la «semplice» socialità, l’essere l’uomo «animale politico», non è sufficiente per qualificare l’umano rispetto agli altri animali. La socialità tipica degli esseri umani è una socialità qualificata, che dobbiamo chiamare reciprocità, amicizia, mutua assistenza o fraternità, espressioni che nel linguaggio di Genovesi e degli autori di quella tradizione sono essenzialmente dei sinonimi:

L’uomo è un animale naturalmente socievole: è un dettato comune. Ma non ogni uomo crederà che non vi sia in terra niun animale che non sia socievole. […] In che dunque diremo l’uomo essere più socievole che non sono gli altri? […] [è il] reciproco dritto di esser soccorsi, e consequentemente una reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni (Lezioni di commercio o sia di economia civile, a cura di M.L. Perna, 2005, I, cap. I, §§ XVI, XVII).

In questo passaggio vi è qualcosa che non troviamo né in Aristotele, né in Smith: per Genovesi la reciprocità (non solo la relazionalità né la semplice socialità) è l’elemento tipico della socialità umana. Per Smith, invece, ciò che costituisce la cifra tipica della relazionalità umana è la «propensity in human nature [...] to truck, barter, and Exchange one thing for another» (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, ed. R.H.Campbell, A.S. Skinner, 2 voll., 1976, p. 25), fondata, come visto, sulla capacità di persuasione. Genovesi pertanto non abbraccia, come il neoplatonico Shaftesbury, la tesi antropologica che l’uomo sia per natura altruista. Gli sta a cuore sottolineare più la reciprocità che l’altruismo. Scrive, per es., nelle Lezioni:

Io vorrei vedere un uomo pienamente disinteressato. Quest’uomo mi pare che dovess’essere men che un uomo; perché egli dovrebbe esser un uomo senza niuno di quei principali istinti comuni della natura umana: 1. Istinto che porta a conservare l’esistenza. 2. Istinto che porta a cercare il comodo. 3. Istinto di distinguersi. Ora un uomo di questa fatta sarebbe un animale come il mommout tanto cercato da’ Moscoviti, come una sfinge egizia, come un’araba fenice (Lezioni, cit., II, cap. XIII, § 24, nota l).

Genovesi vede le relazioni economiche di mercato come rapporti di mutua assistenza. Non quindi impersonali né anonime. Infatti, il mercato stesso è concepito come un’espressione della legge generale della società civile, la reciprocità. La sua teoria della reciprocità vista come legge fondamentale delle relazioni umane deriva anche da una sorta di newtonianesimo morale, al quale egli ispira la sua visione scientifica. Sulla scia di Hutcheson, egli associa la legge di gravità scoperta da Isaac Newton all’idea di reciprocità, poiché tale legge indica una mutua attrazione dei corpi che decresce con la distanza «sociale». Ciò è evidente, e importante, soprattutto nella sua analisi della fiducia, o «fede pubblica», che si pone al cuore delle sue Lezioni di economia civile.

Mercato, fiducia e virtù civili

Il pensiero economico di Genovesi si trova racchiuso in massima parte nelle sue Lezioni, l’opera cui lavorò dall’inizio alla fine della sua attività di docente di economia civile (1754-1769). Egli non fu scrittore sistematico né originale di economia, se guardiamo ai temi considerati più specificatamente economici nel suo tempo (quali la moneta, la popolazione, il lusso, il commercio internazionale), sebbene di tutti questi temi si tratti nelle Lezioni, e di alcuni (come la popolazione) anche con elementi di innovazione che influenzarono lungamente il dibattito teorico e culturale in Italia e oltre.

Le pagine e le idee più belle e innovative di Genovesi vanno rintracciate in ambiti che dagli economisti del suo tempo e da quelli a lui successivi sarebbero stati considerati pre- o paraeconomici, come la fiducia, la reciprocità (mutua assistenza), la felicità pubblica, che Francesco Ferrara giudicherà solo etica applicata, non scienza economica. In realtà il contributo originale di Genovesi alla storia del pensiero può essere correttamente valutato e compreso solo alla luce dell’analisi che egli svolge di questi temi eterodossi e al confine tra etica ed economia; questa è anche una delle ragioni del giudizio, tendenzialmente negativo, dell’opera economica di Genovesi che ritroviamo in tutti quei commentatori (da Ferrara ai nostri giorni) che leggono Genovesi come lo ‘Smith italiano’, o come un precursore degli economisti neoclassici. Letto da queste prospettive, infatti, il pensiero di Genovesi risulta poco interessante.

Il giudizio si inverte, invece, se interpretiamo le Lezioni di economia civile come l’approdo moderno della tradizione classica e cristiana delle virtù civili e del bene comune che, pur cogliendo lo spirito e le novità del suo tempo, tendeva a leggere le dinamiche economiche all’interno della vita civile, e il mercato come espressione delle leggi che regolano la società: «in natura queste parole giusto, onesto, virtù, utile, interesse non si possono se non istoltamente disgiungere» (Della Diceosina, cit., p. 49).

La sua attenzione alla dimensione etica della vita civile lo portò a scrivere pagine importanti, soprattutto nella Diceosina (come dice lo stesso nome del libro, una italianizzazione della parola giustizia in greco: dikaiosyne), sui diritti primitivi dell’uomo, che lo pongono, certamente nei Paesi latini, tra i fondatori della tradizione dei diritti umani:

Ogni ingenita proprietà dell’uomo, sia di corpo, sia d’animo, è un’usia, uno jus, un diritto innato dell’uomo. […] La vita, le membra, la libertà, le ingenerate forze dell’animo e del corpo, sono diritti nati con noi: un pezzo di terra preso dalla comune madre, e coltivato per l’uso della vita, gli animali selvatici addomesticati, ecc., sono dei diritti legittimamente acquistati: tutto ciò, che ci torna dai giusti patti e contratti, è di diritto trasfusoci (Della Diceosina, cit., pp. XVI-XVII).

Inoltre, aggiunge un diritto che oggi sarebbe chiamato (da autori come Amartya Sen) un diritto sociale, quello di mutuo soccorso: «serbate intatti i diritti di ciascuno: anzi, soccorreteli quando sapete, e potete» (p. 21). E più avanti specifica:

Tra i diritti della nostra natura non si vuol mettere solo quello di esser sicuro delle sue proprietà, che dicesi diritto perfetto, ma quello altresì di essere uomo soccorso dall’altro uomo ne’ suoi bisogni, quel del reciproco soccorso, il quale dicono diritto imperfetto, “parendo, che non si possa forzar altri a prestarcelo” (p. 38).

E in nota aggiunge spiegando con estrema chiarezza questo punto fondamentale:

E’ l’idea, che se n’ha ne’ corpi civili, ne’ quali di rado questo diritto vien sottomesso alle leggi, per avere illimitabili termini, onde il più delle volte non è capace di figura, o limitazione morale. Ma nella natura ha una funzione così perfetta come il jus stesso, non essendo meno fuori della via della felicità l’inumano e crudo, che l’iniquo. […] L’Evangelo n’ha fatto l’anima della legge Cristiana , cosicché nel decreto di giustizia finale (Matt. XXV) le causali, per cui dà la vita eterna, o l’eterna morte, è appunto l’osservanza, o trascuratagine del diritto di soccorso (p. 38).

In queste frasi vi è molto della filosofia dell’economia civile di Genovesi, della sua visione del mercato come mutua assistenza e reciprocità.

Per comprendere allora la visione che Genovesi ha della vita economica, occorre partire dalle sue tesi antropologiche ed etiche, e quindi porre a cuore del suo sistema non parole classiche come moneta, popolazione, lusso, ma fiducia, mutuo vantaggio, felicità. Iniziamo dalla fiducia.

Come per i francescani del Tre-Quattrocento, il mercato è per Genovesi una faccenda di fides. Una parola chiave dell’economia civile genovesiana è infatti «fede pubblica», che è vista da Genovesi (e dalla tradizione dell’economia civile) come la vera precondizione dello sviluppo economico: «la confidenza è l’anima del commercio, […] senza di essa tutte le parti che compongono il suo edificio, crollano da se medesime» (G. Filangieri, La scienza della legislazione, [1780], ed. critica a cura di V. Ferrone, 2003, p. 93).

Nel pensiero di Genovesi c’è una sostanziale differenza tra fiducia privata (che è la reputazione, un bene privato che può essere ‘speso’ sul mercato) e quella pubblica: quest’ultima non è la somma delle «reputazioni» private, ma comprende anche l’amore genuino per il bene comune. È un concetto simile a ciò che i moderni teorici sociali chiamano social capital, cioè il tessuto di fiducia e di virtù civili che fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire e mantenersi nel tempo (L. Bruni, R. Sugden, Moral canals. Trust and social capital in the work of Hume, Smith and Genovesi, «Economics and philosophy», 2000, 16, pp. 21-45). Anche per questa ragione, come sottolineerà quasi un secolo dopo il genovesiano Lodovico Bianchini, la fede pubblica non è solo mezzo, ma è anche «parte della ricchezza» di una nazione (Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli Stati, 1855, p. 21).

Per Genovesi è proprio la mancanza di «fede pubblica» che spiega il mancato sviluppo civile ed economico del Regno di Napoli, un’analisi che a distanza di due secoli e mezzo non ha perso nulla della sua attualità. In quel Regno, denunciava la tradizione dell’economia civile, abbondavano la «fiducia privata» (intesa come legami particolaristici, legati al sangue o a patti feudali di vassallaggio) o l’onore, ma era troppo scarsa la fiducia pubblica e generalizzata, quella che nasce dalle virtù civili. Di questo era estremamente convinto anche qualche decennio dopo Gaetano Filangieri, per il quale non esiste sviluppo civile ed economico senza «confidenza nel Governo, confidenza nei magistrati, confidenza negli altri cittadini» (La scienza della legislazione, cit., p. 5), che sono le prime e principali risorse per ogni tipo di sviluppo collettivo e individuale.

Se è vero che lo sviluppo dei mercati porta sviluppo civile ed economico, per la Scuola napoletana è ancora più urgente sottolineare che la coltivazione della fede pubblica è la precondizione di qualsiasi discorso di sviluppo economico e civile: «niente è più necessario ad una grande e pronta circolazione, quanto la fede pubblica» (Lezioni, cit., p. 751).

Importante è quanto poi Genovesi specifica in nota «Questa parola fides significa corda che lega e unisce. La fede pubblica è dunque il vincolo delle famiglie unite in vita compagnevole» (p. 751). Nella seconda edizione napoletana (1768-1770) abbiamo un’estensione di questa nota, nella quale viene rafforzato il significato di fede come legame della società.

Sempre nelle Lezioni (libro II, capitolo X), Genovesi spiega ai suoi studenti e ai suoi concittadini come la fede pubblica sia soprattutto una faccenda di reciprocità genuina, e non solo di contratti. Per l’economista napoletano la fede pubblica non è un capitale che si costruisce fuori del mercato e che poi il mercato utilizza; il mercato, invece, è concepito come parte della società civile. Per questo il suo discorso sulla fede pubblica è direttamente economico:

Dove la fede è per niente, sia in quella parte che costituisce la reciproca confidenza degli uni cittadini negli altri, sia nella certezza delle contrattazioni, sia nel vigore delle leggi e nella scienza e integrità de’ magistrati. […] perché dove non è fede, ivi non è né certezza di contratti, né forza nessuna di leggi, né confidenza d’uomo a uomo. Perché i contratti son legami, e le leggi civili patti e contratti pubblici anch’esse (p. 752).

Strettamente legato al tema del commercio, del mercato e delle sue virtù connesse alla mutua assistenza, vi è un avvincente dialogo a distanza tra Genovesi e Montesquieu. Come ultima impegnativa opera (rimasta incompiuta) della sua vita, Genovesi commentò infatti l’edizione napoletana dello Spirito delle leggi di Montesquieu. E nell’annotare questo importante lavoro sullo spirito non solo delle leggi ma della modernità, Genovesi scrive alcune tesi che sono state al centro di dibattiti sul suo pensiero, perché in queste annotazioni sembra sostenere una tesi sul commercio diversa, in quanto molto più critica, rispetto a quella contenuta nelle sue Lezioni di economia civile, dove, come tanti illuministi, anch’egli aveva associato il commercio alla civiltà e allo sviluppo dei popoli.

Innanzitutto, è fin troppo evidente che Genovesi aveva una visione positiva e civilizzante del commercio e del mercato. Lo stesso titolo che aveva scelto per il suo trattato dice già molto: Lezioni di commercio o sia di economia civile, un ‘ossia’ che parla da solo. Una tesi chiara che ritorna in frasi come questa:

Ho udito dire qui tra noi ad alcuni che noi non abbiamo commercio. Questo significa che 800.000 famiglie di questo regno non formano un corpo civile. Or chi dice questo, è uomo senza capo (Lezioni, cit., p. 513).

Dal Genovesi delle opere precedenti alle Lezioni, è più volte ripetuto che uno dei frutti del commercio «è di portare le nazioni trafficanti alla pace.[…] la guerra e il commercio sono così opposti come il moto e la quiete» (Lezioni, cit., p. 290).

La lode per i commerci e per le civili ricchezze non fa comunque dimenticare agli autori della Scuola napoletana che i beni non fanno, di per sé, la felicità. Sia in Filangieri sia in Bianchini e in tanti altri illuministi civili è forte la convinzione che incivilimento significhi equa distribuzione della ricchezza:

Le ricchezze esorbitanti di alcuni cittadini, e l’ozio di alcuni altri suppongono l’infelicità e la miseria della maggior parte. Questa parzialità civile è contraria al bene pubblico. Uno stato non si può dire ricco e felice che in un solo caso, allorché ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia (G. Filangieri, La scienza della legislazione, cit., p. 12).

In tutta l’economia civile è presente un’idea di commercio come reciprocità e come esperienza pienamente umana e umanizzante. Giuseppe Palmieri così scrive: «Non vi può essere società senza commercio; anzi si può dire ch’ella nasca dal bisogno medesimo» (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1788, 1805, p. 147). E per Giacinto Dragonetti, senza sviluppo del commercio e del mercato non si dà pubblica felicità:

è il commercio una comunicazione reciproca, che gli uomini tra loro si fanno delle produzioni delle loro terre, e della loro industria […] Per mezzo del commercio gli Imperi sorgono appoco appoco in secreto, e quasi nel silenzio a spese delle nazioni oziose, che poi si assoggettano. Tutti i popoli, e tutti i cittadini, di ciascuna nazione sono tra loro in una guerra d’industria, e dove questa cessi, quivi mancheranno le cose più necessarie al vivere umano (Delle virtù e de’ premj, 1768, pp. 61, 67).

Ecco allora svelarsi il progetto riformatore dell’economia civile: costruire una società postfeudale dove, grazie alla ricompensa corretta alle vere virtù (e scoraggiando e punendo le false), si potesse finalmente avviare una nuova fase di vita civile e di sviluppo. In che modo riconciliare allora la tesi sul commercio come civiltà di Genovesi e dell’intera scuola dell’economia civile (a partire dagli umanisti civili, e prima ancora dai francescani) con la critica che Genovesi fa a Montesquieu? In quel suo commento alla tesi di Montesquieu sullo «spirito del commercio» («l’effetto naturale del commercio è il portare la pace»), Genovesi, infatti, scrive qualcosa che sembra andare effettivamente in una direzione diametralmente opposta rispetto a quanto da lui stesso affermato nella sua intera opera. In quella nota leggiamo:

Il gran fonte delle guerre è il commercio. Egli è geloso, e la gelosia arma gli Uomini. Le guerre de’ cartaginesi, e de’ Romani, de’ Veneziani, de’ Genovesi, de’ Pisani, de’ Portoghesi, e degli Olandesi, de’ Francesi, e degli Inglesi ne sono testimoni. Se due nazioni trafficano insieme per reciproci bisogni, sono questi bisogni che si oppongono alla guerra, non già lo spirito del commercio (Spirito delle leggi del Signore di Montesquieu, con le note dell’Abate Antonio Genovesi, t. 2, 1777, p. 195).

Occorre però, anche in questo caso, scavare sotto la superficie per capire il senso di questa frase, e leggere l’affermazione di Genovesi alla luce del discorso che abbiamo fatto sul mutuo vantaggio e sulla mutua assistenza. Giuseppe Palmieri critica lo spirito del commercio se inteso nel senso mercantilista del termine (la concezione dominante fino all’Illuminismo), in cui il commercio era profondamente legato allo spirito predatorio e di conquista degli Stati, un commercio inteso e vissuto quindi non come assistenza reciproca ma come ‘gioco a somma zero’. Genovesi e l’economia civile lodano, invece, il commercio quando si afferma tra persone e tra popoli sulla base dei diversi bisogni e della ‘mutua assistenza’, come emerge dalla frase: «trafficano assieme per reciproci bisogni».

Genovesi torna su questo stesso tema anche nell’incipit del capitolo XVII del Libro primo delle sue Lezioni, dove vi sono alcune affermazioni che mettono in luce come dai suoi primi scritti sul commercio (gli Elementi di commercio del 1757) alle Lezioni si sia determinato lo sviluppo della sua concezione di spirito del commercio, più positiva all’inizio, e più critica alla fine, quando lo spirito di commercio diventa quasi un sinonimo di ‘spirito di conquista’. In quest’opera Genovesi distingue i «fini» del commercio (riprendendo le tesi di Jean-François Melon), che sono quelli di «promuovere e alimentare la popolazione di comodi della vita» (Lezioni, cit., p. 523), dallo «spirito» del commercio. Sebbene, ancora in questo passaggio, si ritrova la frase: «Lo spirito poi del commercio non è quello delle conquiste. Tra i barbari si conquistan le persone e le terre, tra’ popoli trafficanti le ricchezze» (p. 523). E in nota (a) viene aggiunta una considerazione rivelatrice: «A molti è paruto stranissimo ch’io metta per spirito del commercio lo spirito di conquistare. Tant’è: molti leggono per non pensare. Dicano dunque: perché si traffica, se non per acquistare?».

Da qui risulta che per Genovesi la frase «lo spirito del commercio non è quello delle conquiste» va correttamente intesa in senso normativo (deve essere) e non descrittivo (è). Tesi, queste, di un’impressionante attualità: anche oggi, lo spirito del commercio produce pace e benessere quando è espressione di socialità umana, di creatività, di innovazioni, e di quelle virtù sociali di cui stiamo parlando in questo volume; diventa invece «gran fonte delle guerre» quando si allea con lo spirito dell’avidità (speculazione), con lo spirito di potere che produce la volontà di dominio e di sopraffazione dei popoli, per non parlare dell’alleanza con la malavita e la criminalità organizzata. Occorre saper discernere tra gli spiriti buoni e quelli maligni che convivono nei mercati e nell’economia, poiché spesso coesistono gli uni accanto agli altri, nelle medesime persone, imprese, istituzioni.

Felicità

Centrale nell’opera di Genovesi è il tema della felicità, una colonna anche della tradizione italiana di economia civile. Esiste, infatti, un rapporto profondo, sebbene in parte inatteso e taciuto, tra economia e felicità.

L’economia moderna nasce in diversi Stati italiani come scienza della ‘pubblica felicità’. Il riferimento culturale di quella stagione di studi sociali, direttamente collegata all’Umanesimo civile, è la tradizione aristotelica, secondo la quale la felicità è dopo le virtù, poiché ne è il loro senso e pieno compimento. Anche la vita civile, compresi l’agorà e il mercato, quando non diventa crematistica innaturale (cioè ricerca della ricchezza come fine in sé, e non come mezzo per vivere bene), è per Aristotele luogo di pratica delle virtù, e dunque di felicità.

Negli ipsissima verba di Genovesi, ci sono alcune «massime e prime verità» relative alla morale, tra le quali: «Che perciò bisogna essere virtuosi, per esser felici: che siamo di virtù capaci: e che questa virtù non sia una voce vana, e chimerica, ma vera, e reale» (Meditazioni filosofiche sulla religione, e sulla morale, 1758, 1766, p. 2).

Economia civile e pubblica felicità sono dunque due parole chiave dell’intero movimento illuminista italiano (e in un certo senso europeo), sebbene i significati e gli accenti siano diversi nei vari Paesi, e anche all’interno del singolo Paese (come nel caso dell’Italia). Economia civile (Napoli), politica (Milano), pubblica (Milano), nazionale (Venezia), sono tutti aggettivi che identificano prima un tratto comune nel Settecento riformatore e solo dopo indicano differenziazioni regionali o nazionali. Il tratto comune mostra un cambiamento radicale della nuova economia rispetto all’economia aristotelica e antica, dove la legge dell’oikos (casa), quindi l’oikos-nomos, finiva laddove iniziavano le leggi della polis, la politica; la prima basata essenzialmente sul legame del sangue e sulla gerarchia, la seconda sulla philia tra uguali.

L’economia politica (civile, pubblica, sociale, nazionale) indica con il suo stesso nome che la natura e le leggi di questa scienza lasciano la casa, o la comunità, per occuparsi della dimensione nazionale, della ricchezza delle nazioni o della pubblica felicità. Inoltre (e qui l’Italia è davvero in compagnia dei principali pensatori illuministi europei, da David Hume a Immanuel Kant, da Montesquieu a Smith), uno strumento essenziale per la felicità pubblica è lo sviluppo dei mercati e del commercio. I tratti di diversità sono anch’essi molti, tra cui l’eredità classica aristotelico-tomista (e ciceroniana, soprattutto in Dragonetti), l’Umanesimo civile e Vico nell’economia civile di Napoli, il pensiero francese e il sensismo in quello milanese, e altri ancora. Inoltre, la felicità è anche una tipica parola della modernità, dell’Illuminismo latino (italiano, francese, spagnolo) in un modo tutto particolare. La pubblica felicità diventa anche una sorta di slogan degli economisti italiani del Settecento, un crisma della tradizione italiana dell’economia, che durerà fino a tutto l’Ottocento e che oggi torna a rivivere. «Tutti i nostri economisti – scriveva sul finire dell’Ottocento l’economista italiano Achille Loria, riportando una tesi di dominio comune nell’Italia del tempo – si occupano non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica» (Verso la giustizia sociale, 1904, p. 85).

Il tema della pubblica felicità fu al centro dei trattati (anche nei titoli stessi) di molti autori italiani, da Muratori (Della felicità pubblica) a Giuseppe Palmieri (Riflessioni sulla pubblica felicità), da Isidoro Bianchi (Meditazioni su varii punti di felicità pubblica e privata) a Pietro Verri, il quale sottolineava che «[i]l discorso Sulla felicità ha per oggetto un argomento comunissimo, sul quale tanti e tanti hanno scritto» (Meditazioni sulla felicità, 1763, 1963, p. 3), e molti altri autori del Settecento. Doria iniziava a Napoli il suo La vita civile (1709), un testo che è stato un’importante fonte del pensiero di Genovesi e della Scuola napoletana, dove si afferma un chiaro rapporto tra vita civile e pubblica felicità, un connubio che ha prodotto qualche anno dopo anche l’espressione economia civile: «Primo oggetto dei nostri desideri è senza fallo l’umana felicità» (p. 1).

Vi è un passaggio centrale per comprendere questo aspetto dell’idea di felicità presente in Genovesi:

Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri (Autobiografia, lettere e altri scritti, cit., p. 449).

Qui il paradosso consisterebbe nell’affermare che la felicità nasce dal fare felici gli altri (un tema, anche questo, di sapore aristotelico e, ancor più, tomista). Per questa tradizione la felicità ha natura paradossale, proprio perché è costitutivamente relazionale: una «vita buona» non può essere vissuta se non con e grazie agli altri (facendo «gli altri felici»). Ma proprio per questo non abbiamo sulla felicità un controllo pieno: l’essere umano per realizzarsi ha bisogno di reciprocità, ma per averla deve fare il salto della gratuità, la quale può anche non essere ricambiata (e qui sta un rischio micidiale, avvertito da Platone e da molta della filosofia greca). Senza la gratuità, a ogni modo, la reciprocità genuina (e con essa la società) non si sviluppa.

L’aggettivo pubblico che normalmente seguiva la parola felicità è particolarmente pregnante, poiché esprime la natura strutturalmente sociale della felicità: essa o è pubblica o non è. Anche se gli economisti del Regno di Napoli, e in certa misura l’intera tradizione italiana, attribuirono alla felicità pubblica una centralità che possiamo correttamente considerare la caratteristica principale della scuola italiana classica di economia, ciò non significa affatto sostenere che il tema fu una prerogativa della sola Italia. Tuttavia, va riconosciuta una certa matrice latino-cattolico-comunitaria al tema della felicità pubblica, distinta dal diritto individuale alla pursuit of happiness, più tipico della cultura calvinista-individualista-nordamericana.

La felicità, allora, può anche essere considerata, e a ragione, una quarta parola del programma di riforma moderno, insieme a libertà, uguaglianza e fraternità. Una quarta parola cui Genovesi e l’economia civile hanno dato un contributo fondamentale.

Conclusione

Genovesi e la sua economia civile non sono entrati nel mainstream del pensiero economico dell’Otto e Novecento, neanche in Italia, dove pesante è stato il giudizio su questa scuola pronunciato da Ferrara, l’economista italiano più influente del 19° secolo. Nell’introdurre il 3° volume della sua celebre e influente Biblioteca dell’economista (serie I), così dice degli economisti italiani del Settecento (anche se riconosce a Genovesi di essere stato il primo tra essi): «i meriti della fondazione dell’economia appartengono a Smith inglese, od a Turgot francese, non a Genovesi, a Verri, a Beccaria» (1852, p. XXXVI).

La vera scienza economica si doveva cercare all’estero dunque, non nei classici italici. Gli economisti della generazione successiva a quella di Ferrara, mi riferisco a Maffeo Pantaleoni o a Vilfredo Pareto, continuarono a guardare fuori dell’Italia (Pareto certamente), non a sviluppare la tradizione dell’economia civile. La quale però non si è estinta, ma ha continuato a vivere come fiume carsico in economisti (consapevoli alcuni, ‘portatori sani’ altri) italiani e non solo che hanno continuato, in vari modi, un’idea di economia come incivilimento, legata alle virtù civili (e non solo agli interessi), alla pubblica felicità (e non solo alla ricchezza delle nazioni), che non dimentica il ruolo delle istituzioni (senza diventare hobbesiana).

Questi economisti italiani sono stati e sono (l’elenco non è certamente completo o non discutibile) Salvatore Scuderi, Antonio Scialoja, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Fedele Lampertico, Marco Minghetti, Amintore Fanfani, Luigi Einaudi e, tra i contemporanei, includerei Giacomo Becattini e Stefano Zamagni. In particolare, a continuare la tradizione dell’economia civile non sono stati prevalentemente economisti teorici, ma economisti applicati, scienziati politici, giuristi, e alcuni esponenti della tradizione italiana dell’economia aziendale (Bruni 2009). Ma in un certo senso i più autentici continuatori dell’economia di Genovesi e Dragonetti sono stati gli artefici del movimento cooperativo italiano: mi riferisco a Ugo Rabbeno, Vito Cusumano, Giuseppe Tovini, Luigi Luzzatti, Ghino Valenti, Leone Wollemborg, e ai tanti animatori e fondatori di casse rurali, cooperative di consumo e produzione, che hanno costruito quell’incivilimento teorizzato da Genovesi e dagli economisti civili. Ancora oggi, in Italia, l’economia civile è viva nella cooperazione sociale, nel commercio equo e solidale, nell’economia di comunione, nella banca etica e in tutte quelle forme che fanno della reciprocità e delle virtù civili interiorizzate il loro principale motivo d’azione.

Genovesi morì nel 1769, quando il suo sistema di pensiero economico era ancora in pieno svolgimento (stava lavorando alla terza edizione delle Lezioni, quando scomparve). Con la sua morte, in un certo senso, morì anche il suo progetto di ricerca, che però ha una sua compiutezza, soprattutto in questi tempi di crisi nei quali il richiamo all’etica nell’economia e il bisogno di immaginare nuove virtù del mercato più sociali e meno individuali sono particolarmente urgenti, come lo erano nei tempi di Genovesi:

Sto ora a far imprimere le mie Lezioni di commercio in due tometti. Raccomando l’opera alla Divina Provvidenza. Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. E’ inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza (Autobiografia, lettere e altri scritti, 1962, p. 168).

Opere

Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, scritto nel 1753 come Prefazione a U. Montelatici, Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura, Napoli 1754 (ristampato molte volte, in appendice a tutte le edizioni della Diceosina).

Meditazioni filosofiche sulla religione, e sulla morale [1758], Napoli 1765.

La logica per gli giovanetti, Napoli 17692.

Spirito delle leggi del Signore di Montesquieu, con le note dell’Abate Antonio Genovesi, t. 2, Napoli 1777.

Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto [1766], Venezia 1795.

Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962.

Lezioni di commercio o sia di economia civile [1765-1767], ed. critica a cura di M.L. Perna, Napoli 2005.

Per un elenco completo delle opere di Genovesi cfr., tra gli altri:

L. Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Firenze 1959, pp. 189 e segg.

Bibliografia

G. Racioppi, Antonio Genovesi, Napoli 1871 (rist. 1958).

Economisti napoletani dei secoli XVII e XVIII, a cura di G. Tagliacozzo, Bologna 1937, passim.

Studi in onore di Antonio Genovesi nel bicentenario della istituzione della cattedra di economia, a cura di D. Demarco, Napoli 1956.

L. Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Firenze 1959.

E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla ‘politica civile’, Firenze 1984.

F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Torino 1969, pp. 523-644; 2° vol., Torino 1976, pp. 163-213; 5° vol., t. 1, Torino 1987, pp. 289-300.

F. Di Battista, Dalla tradizione genovesiana agli economisti liberali. Saggi di storia del pensiero economico meridionale, Bari 1990.

M.L. Perna, Genovesi Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 1999, ad vocem.

L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile, Bologna 2004, in partic. capp. 3-5.

Genovesi economista, Atti del Convegno di studi, Napoli 2005, a cura di B. Jossa, R. Patalano, E. Zagari, Napoli 2007.

L. Bruni, L’impresa civile. Una via italiana all’economia di mercato, Milano 2009.

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