GIACOMINI TEBALDUCCI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GIACOMINI TEBALDUCCI, Antonio

Vanna Arrighi

Nacque a Firenze il 1° ag. 1456 da Iacopo di Tommaso, detto Papi, e da Giovanna Giugni. La sua famiglia, il cui nome era stato semplicemente Tebalducci, cominciò proprio nel corso della vita del G. a essere designata nelle fonti coeve anche come Giacomini.

Quella del G. era una facoltosa famiglia di banchieri, attiva a Firenze, Genova e Pisa, che non aveva mai avuto un particolare rilievo nella vita politica fiorentina; dal 1466 il coinvolgimento dello zio paterno del G., Piero di Tommaso, nella congiura ordita da Luca Pitti, Angelo Acciaiuoli e Diotisalvi Diotisalvi per rovesciare il regime dei Medici comportò per l'intera famiglia l'interdizione ventennale dagli uffici pubblici, nonché l'esilio da Firenze per lo stesso periodo e il pagamento di una forte ammenda.

Poche le notizie documentate sugli anni della giovinezza del Giacomini. I suoi principali biografi, Iacopo Nardi e Iacopo Pitti, furono indotti dall'ammirazione per le sue gesta successive e dalla nostalgica simpatia per il regime repubblicano, di cui il G. fu esponente, a presentare in chiave eroica e avventurosa anche il primo periodo della sua vita, cosa che i pochi documenti rintracciati sembrano smentire: il G. ebbe effettivamente problemi con la giustizia, ma più per debiti e malversazione che per motivi ideologici e politici.

Come accadeva ai rampolli delle famiglie del ceto mercantile fiorentino (e non sotto la spinta di difficoltà economiche, come affermano Nardi e Pitti), il G. fu precocemente avviato all'attività commerciale e svolse il suo apprendistato nella filiale di Pisa del banco dei Salviati; questo rapporto di lavoro si interruppe bruscamente nel 1477 con il suo improvviso trasferimento a Napoli, che assunse il carattere di una vera e propria fuga; egli, nella sua qualità di cassiere del banco Salviati, aveva riscosso una somma di denaro da Bernardo Peruzzi, ma poi ne aveva omesso la registrazione nei libri contabili, non è chiaro se per appropriarsene o per negligenza. Perseguitato dalla giustizia su denuncia del Peruzzi, si rese irreperibile trasferendosi a Napoli, dove tentò, senza successo, di intraprendere un'attività commerciale nell'ambito della colonia di mercanti fiorentini. Per qualche tempo si adattò anche, stando a Nardi e a Pitti, a fare la guardia armata presso Castel Nuovo. Ma ben presto anche a Napoli ebbe problemi con la giustizia, avendo contratto un forte debito con Raffaello Acciaiuoli: per questo fu incarcerato per alcuni mesi, tra il 1483 e il 1484, nella Vicaria. Nardi e Pitti attribuiscono invece la carcerazione del G. a una rissa per motivi d'onore; l'attendibilità di questa fonte appare dunque dubbia anche per i particolari forniti dai due autori sul soggiorno napoletano del G., come l'ammirazione destata nel re di Napoli dal suo modo di battersi a duello e le lettere in favore del G. che il re avrebbe scritto al condottiero Roberto Sanseverino, allora al servizio del duca di Milano; non sembra infatti probabile che il G. si sia recato direttamente da Napoli a Milano. Una volta scarcerato, probabilmente dietro cauzione pagata dalla famiglia, il G. tornò a Firenze, dove, con atto del 28 apr. 1484, nominò un procuratore per impetrare uno sgravio, o almeno una dilazione, della somma da pagare.

Le difficoltà giudiziarie del G. indussero il padre a emanciparlo, cioè a renderlo giuridicamente indipendente dalla famiglia, in modo che le conseguenze del suo agire non ricadessero sul patrimonio familiare. Di lì a poco, infatti, Peruzzi, venuto a conoscenza della presenza del G. a Firenze, lo citò davanti al magistrato degli Otto di guardia e balia: il G. fu interrogato in merito all'episodio accaduto a Pisa nel 1477 e confessò; fu pertanto condannato a cinque anni di esilio con sentenza del 18 nov. 1486. Probabilmente a questa data il G. cominciò le sue peregrinazioni a Padova, Vicenza, Verona e Milano; egli, che doveva già possedere una certa dimestichezza nell'uso delle armi, divenne un soldato di professione, militando al seguito del Sanseverino e dei Roberteschi di Verona.

Incerta è l'epoca del suo ritorno definitivo a Firenze: inverosimili e contraddittorie risultano le circostanze descritte da Nardi e da Pitti, secondo i quali il G. tornò a Firenze poco prima del rivolgimento istituzionale del novembre 1494, in seguito alla morte del padre, per sistemare le questioni patrimoniali con i fratelli; il padre del G. era invece ancora vivo nel 1498, quando effettuò la sua denuncia patrimoniale agli ufficiali della decima. Accettabile è invece l'ipotesi che il G. sia stato persuaso a tornare a Firenze da Francesco Valori, il quale nel 1494 fu inviato oratore a Milano e in quella città potrebbe averlo incontrato. Il ritorno del G. a Firenze deve essere avvenuto in conseguenza dell'instaurazione del nuovo regime, una delle caratteristiche del quale fu appunto la piena riabilitazione politica di tutte le famiglie che per motivi diversi avevano avuto a soffrire durante il regime mediceo. La famiglia Giacomini ebbe così nel 1495 nuovamente accesso alla Signoria, con l'elezione del padre del G. al priorato, magistratura da cui essa era rimasta esclusa dal 1462.

La vita del nuovo regime fu agitata da un continuo stato di guerra: alla discesa di Carlo VIII aveva fatto seguito la ribellione di Pisa; nel 1501-02 si aggiunsero la ribellione di Arezzo e le imprese di Cesare Borgia, che accesero nuovi focolai di guerra, sui quali soffiavano anche i Medici, spiando l'occasione favorevole per ripristinare il loro potere sulla città e sullo Stato fiorentino.

Il conflitto animò il dibattito politico e spinse alla modifica dell'apparato istituzionale: fu necessario innanzi tutto rafforzare la presenza di cittadini fiorentini di provata fedeltà nelle zone a rischio di ribellione o di invasione esterna; alla normale rete di podestà e vicari furono quindi sovrapposti i commissari straordinari - uno dei quali fu il G. - con ampi poteri e con il compito di sorvegliare l'operato dei condottieri e delle milizie mercenarie.

I commissari facevano capo ai Dieci di balia, magistratura precedentemente a carattere straordinario che proprio in questo periodo acquistò un assetto stabile nel quadro istituzionale fiorentino, con compiti di direzione della politica estera e della guerra.

Il primo incarico del G. di cui si trova traccia nei documenti è la nomina, per il periodo settembre-novembre 1495, a commissario di Pontedera, che costituiva l'estremo baluardo fiorentino verso il territorio pisano (Cascina aveva infatti seguito le sorti di Pisa e fu riconquistata solo nel 1499) e veniva pertanto utilizzata come base operativa per qualsiasi iniziativa militare diretta contro la città ribelle. Nel dicembre 1495 il G. fu inviato ad Arezzo sempre come commissario, con il compito di "rassegnare" i soldati a piedi e a cavallo, cioè di controllarne il numero e l'armamento. Questo secondo incarico si protrasse fino al febbraio 1496. A maggio-giugno fu inviato prima a Livorno e poi a Campiglia Marittima per sorvegliare le fortificazioni e controllare la sicurezza di luoghi essenziali ai Fiorentini per l'accesso al mare.

Altro luogo di importanza strategica era Montecarlo, in Val di Serchio, posto sulla via di transito dei rifornimenti (da Lucca verso Pisa), che i Fiorentini cercavano di interrompere. A Montecarlo il G. fu inviato nell'agosto 1496 e vi rimase fino al gennaio successivo. In questo periodo conseguì importanti risultati, organizzando diverse scorrerie fino alle porte di Lucca, costringendola a interrompere, almeno ufficialmente, i suoi aiuti ai Pisani. Nel gennaio 1497 fu nominato commissario generale per tutto il Dominio per la guerra contro Pisa e pertanto, lasciato al suo posto il fratello Lorenzo, si trasferì a Livorno.

La città e il porto di Livorno erano in quel momento stretti dall'assedio di truppe assoldate da Pisa e dai suoi alleati veneziani, cui si era aggiunto l'imperatore Massimiliano I. Ma dopo alcuni successi iniziali che portarono i collegati a impadronirsi di Bolgheri e di altri castelli della Maremma, la perdita di gran parte della flotta e il fallimento del progetto di prendere Lari convinsero l'imperatore ad abbandonare Pisa al suo destino e tornarsene in Germania.

Cessato il pericolo da quel lato, il G. si trasferì in Lunigiana, altra zona da cui giungevano rifornimenti a Pisa via terra. Pose la sua base presso Fivizzano, nella fortezza della Verrucola, e da qui batteva incessantemente le zone circostanti per interrompere le vie di rifornimento e fortificare i luoghi fedeli ai Fiorentini. In Lunigiana rimase quasi per l'intero primo semestre del 1498. Nel frattempo era morto Carlo VIII e sul trono francese era salito Luigi XII. Per verificare le intenzioni del nuovo sovrano su Pisa i Fiorentini cominciarono i preparativi per un attacco in forze contro la città, assoldando come capitano generale Paolo Vitelli. I Veneziani, alleati di Pisa, informati di questi preparativi, vollero creare un diversivo e, non potendo entrare in Toscana attraverso la Lunigiana, ben sorvegliata dal capitano Gaspare Sanseverino oltre che dal G., cercarono di penetrarvi dalla Romagna, usando come base operativa Faenza. Da lì si impadronirono del borgo (ma non del castello) di Marradi, avamposto fiorentino in Romagna: il che diffuse il panico tra il ceto dirigente fiorentino. In quella zona del Dominio fu allora inviato in gran fretta, nel settembre 1498, il G., la cui opera di difesa delle postazioni toscane in Romagna fu facilitata dall'invio di rinforzi da parte del duca di Milano.

Di lì a poco Bartolomeo d'Alviano, celebre condottiero assoldato dai Medici, tentò con le sue truppe di impadronirsi di Bibbiena. Subito il G. fu trasferito nel Casentino, dove giunse dopo soli quattro giorni, con pochissimi soldati fidati. Occupò con l'astuzia il castello di Poppi e da lì organizzò la resistenza contro l'Alviano, in attesa di ricevere rinforzi dal territorio pisano al comando del Vitelli. Il G. stesso rimase ferito, ma non volle abbandonare il teatro della battaglia; in questa circostanza ci fu uno screzio tra lui e il Vitelli, che aveva catturato un corriere veneziano, ma si rifiutava di consegnarglielo. L'episodio fece nascere nel G. dei sospetti sul Vitelli, tanto che se ne lamentò ripetutamente con i Dieci di balia. Per ovviare al contrasto tra il Vitelli e il G., i Dieci non trovarono di meglio che richiamare quest'ultimo a Firenze e sostituirlo in Casentino con Piergiovanni da Ricasoli.

Il G. giunse a Firenze alla fine di gennaio 1499; nel frattempo però egli era stato eletto membro degli Otto di guardia e balia, la magistratura che sovrintendeva all'ordine pubblico.

Nel giugno 1499 la Signoria in carica, di cui il G. faceva parte in qualità di priore per il quartiere di S. Maria Novella, decise di approfittare della pace firmata con Venezia nell'aprile precedente per sferrare un attacco poderoso contro Pisa, lasciata sola dai Veneziani. Fu richiamato pertanto in servizio il Vitelli e si provvide a finanziare l'impresa, con alcuni importanti successi iniziali, come la riconquista di Cascina (26 giugno 1499) e la presa della fortezza di Stampace (10 ag. 1499), ma inaspettatamente il Vitelli diede l'ordine della ritirata. Questo gesto, insieme con le voci di presunti contatti da lui avuti con i Medici, provocò la rottura definitiva tra il Vitelli e il governo fiorentino, determinando la sua condanna a morte, eseguita il 1° ott. 1499.

Il fallimento dell'azione cominciata sotto i migliori auspici provocava nel ceto dirigente fiorentino una diffusa e profonda sfiducia sulle possibilità di riconquistare Pisa, tanto che per un certo periodo non si trovò chi volesse accettare l'incarico di commissario in quella città. Fu il G. che si offrì volontariamente e il 17 nov. 1499 fu eletto commissario generale dal Consiglio degli ottanta. Pose la sua base operativa a Cascina e da lì organizzò diverse azioni di disturbo alle postazioni nemiche e visite d'ispezione alle opere di fortificazione; gli fu anche affidato il pagamento del soldo alle armate francesi, finalmente giunte a dar man forte ai Fiorentini. Questa missione si protrasse fino al 10 giugno 1500, quando, dopo aver ripetutamente chiesto licenza, partì da Cascina diretto a Volterra, dove il 19 giugno sarebbe dovuto divenire capitano (il capitanato di Volterra era uno dei tanti "uffici estrinseci" della Repubblica fiorentina, cui però, nel caso del G., era stata aggiunta anche la nomina a commissario dei Dieci di balia per cose attinenti alla guerra). Nel frattempo la Signoria gli aveva invece ordinato di rimanere a Cascina, inviando a Volterra il fratello Lorenzo; l'ordine però non poté essere eseguito poiché giunse quando il G. era già in viaggio alla volta di Volterra, dove giunse malato: non fu quindi possibile fargli invertire la rotta per Cascina, dove in sua vece fu inviato Giovan Battista Bartolini.

Ristabilitosi, il G. poté esercitare il suo mandato, che doveva durare sei mesi, ma che fu invece bruscamente interrotto per ordine del governo fiorentino a pochi giorni dalla sua scadenza naturale. A Volterra infatti il G. si scontrò con un altro cittadino fiorentino temporaneamente presente nella città, Antonio Benozzi. In quel periodo questi in quanto gonfaloniere di compagnia faceva parte di uno dei due collegi che affiancavano la Signoria. Sembra che, valendosi della sua altissima carica, il Benozzi avesse rifiutato di uniformarsi alle regole di ordine pubblico imposte dal Giacomini. Questi non mancò, com'era suo costume, di lamentarsene ripetutamente con il governo fiorentino, ma fu sconfitto: con deliberazione dei Signori e Collegi (di cui il Benozzi era membro) del 28 nov. 1500 il G. fu privato dell'ufficio di capitano di Volterra (per il tempo residuo fu sostituito dal fratello Lorenzo) e per due anni gli fu interdetto l'accesso agli uffici maggiori della città.

Intanto le milizie assoldate dalla Repubblica fiorentina per l'impresa di Pisa erano giunte più volte sul punto di espugnare la città, ma poi avevano fallito lo scopo a causa di incapacità organizzative e conflitti interni all'esercito.

Ciò colpì molto i commentatori e in particolare chi - come N. Machiavelli e lo stesso G. - aveva potuto per motivi di ufficio osservare da vicino il comportamento delle milizie mercenarie, constatando l'inaffidabilità e la rapacità dei capitani di ventura. Il G. riversò la sua esperienza in questo campo nelle Avvertenze ai Dieci di balia per la condotta dei conestabili al tempo della guerra di Pisa, risalenti appunto al 1500 (G. Canestrini, pubblicando l'opera integralmente nel 1857, l'attribuì al Machiavelli). In questo memoriale il G. proponeva una serie di misure per sottoporre a un'attenta selezione, prima dell'ingaggio, i capitani di ventura. Inoltre, una volta assunti, i capitani dovevano fornire un accurato elenco dei loro soldati e impegnarsi a sostituire coloro che fossero morti, feriti o che avessero disertato. Infine, si dovevano cambiare le modalità di pagamento, da erogare ai singoli soldati e non al capitano, che talvolta teneva per sé parte del soldo. L'adozione di tali misure avrebbe permesso un risparmio di denaro, migliorato le prestazioni delle compagnie di ventura e istituito un rapporto diretto tra il governo e i soldati, diminuendo il ruolo e l'importanza del capitano.

Da questi suggerimenti del G. traspare un senso di grande scoraggiamento. A chi aveva un po' di esperienza in fatto di capitani di ventura non poteva infatti sfuggire che nessuno di loro avrebbe accettato un ingaggio a quelle condizioni: il capitano teneva troppo all'ascendente sui propri uomini per accettare interferenze.

Il memoriale del G. fu pertanto ignorato dai Dieci di balia, che continuarono a regolarsi secondo i tradizionali sistemi di reclutamento, continuando, però, anche a ricevere cattive prestazioni da capitani assoldati con cospicui esborsi di denaro.

La temporanea interdizione del G. dai maggiori uffici della Repubblica non significò la sua emarginazione: a lui furono ancora affidati con regolarità incarichi operativi a carattere fiduciario, come appunto quello di commissario militare. Nel 1501 alla lunga e defatigante guerra contro Pisa andò ad aggiungersi il fronte aperto dalle truppe del Borgia, che cercava di conquistare nuovi territori; non riuscì in questo scopo, ma ebbe la possibilità di compiere saccheggi e distruzioni. Nel maggio del 1501 il Borgia entrò nel Mugello, dove, almeno per arginarne l'impatto, il governo fiorentino inviò prontamente il G. con una compagnia di balestrieri, che seguì le truppe del Borgia fino a Volterra; ben presto però, avendo questi lasciato il territorio fiorentino, il G. poté tornare in patria.

Il 4 sett. 1501 il G. fu di nuovo richiamato in servizio dai Dieci di balia come commissario a Pistoia, insieme con Filippo Carducci.

La città era sull'orlo dell'anarchia, essendo scoppiato l'ennesimo episodio dell'eterna faida tra le famiglie Cancellieri e Panciatichi; il G. e il Carducci si comportarono con molta severità, il che acuì il risentimento dei Pistoiesi verso la città dominante. A dicembre furono pertanto richiamati a Firenze, ma il G., malato, vi poté trascorrere solo pochi giorni, poiché di lì a poco fu inviato come commissario a Volterra, dove avviò una efficace attività e riuscì a metter fine a una lunga controversia tra i Volterrani e gli abitanti di Pomarance.

Nell'aprile 1502, mentre ancora si trovava a Volterra, fu eletto commissario contro Pisa, con il compito di devastare i raccolti dei Pisani e di compiere altre azioni di disturbo. Si occupò anche di piazzare l'artiglieria sotto le mura di Vico Pisano, ma non poté procedere all'attacco perché, avendo ricevuto la notizia della ribellione di Arezzo, dovette inviare in quella zona parte delle milizie ed egli stesso di lì a poco tornò a Firenze, dove era stato eletto membro dei Dieci di balia a partire dal 10 giu. 1502.

Probabilmente il G. ebbe licenza di non esercitare l'ufficio oppure, benché membro della magistratura, fu investito di funzioni commissariali, se già dal 2 luglio 1502 era commissario contro gli Aretini e stabilì la sua base operativa a Montevarchi, dove fece confluire soldatesche dalle zone vicine. Giunti gli aiuti promessi dal re di Francia, le armate fiorentine si diressero su Arezzo, che conquistarono senza colpo ferire, essendo nel frattempo giunto un ordine del re di Francia al Borgia e ai suoi generali che intimava la riconsegna della cittadella di Arezzo ai Fiorentini. In questo incarico il G. ebbe come collega per un breve periodo Pier Soderini, che di lì a poco fu eletto gonfaloniere perpetuo della Repubblica; il Soderini ebbe modo di osservare personalmente le qualità del G., del resto ormai ben conosciute, tanto che il Machiavelli, proprio a proposito dell'impresa di Arezzo, scriveva al Soderini di non preoccuparsene, dal momento che il G. gli avrebbe levato "tutte le brighe e fastidi" (Lettere, p. 115).

Ricondotta Arezzo sotto il dominio fiorentino, il G. si dette a riconquistare i castelli circostanti, tra cui quello di Montauto, già feudo della famiglia Barbolani. In questa occasione il G. si impadronì di un saio appartenuto secondo un'antica tradizione a s. Francesco e lo inviò a Firenze, per affidarlo ai frati minori osservanti. Tornò a Firenze alla fine di gennaio 1503 e ne ripartì nel mese di aprile, essendo stato di nuovo eletto commissario generale contro i Pisani, insieme con Pier Francesco Tosinghi: mentre questi risiedeva quasi stabilmente a Cascina, il G. percorreva incessantemente il territorio per organizzare azioni di disturbo contro i Pisani. In questa campagna furono per la prima volta utilizzate su vasta scala le milizie rurali, composte da abitanti del Dominio fiorentino, e che sino allora erano state impiegate solo in compiti ausiliari. Nei mesi di aprile e maggio infatti il Machiavelli aveva predisposto, su incarico dei Dieci, una leva di duemila abitanti del contado e distretto, dotati di armi leggere, sottoposti a un breve addestramento e poi messi a disposizione del Giacomini. Questi, benché fortemente critico nei confronti delle milizie mercenarie, non era ancora diventato un convinto estimatore di quelle rurali, e non perse occasione di lamentarsene e di richiedere ai Dieci l'invio di truppe migliori. Nonostante ciò, il G. seppe conseguire apprezzabili risultati nelle valli del Serchio e dell'Arno, e riconquistare Vico Pisano.

Terminato l'incarico a Pisa, il G. fu inviato ai primi di novembre 1503 commissario a Modigliana, zona in cui il rischio di infiltrazione veneziana era accresciuto dalla fine delle fortune politico-militari di Cesare Borgia. Vi rimase fino alla fine di gennaio 1504, quando tornò a Firenze lasciando in Romagna la stessa confusa situazione che vi aveva trovato, anche per l'indisponibilità dei Dieci a impegnare troppe risorse in quella zona.

A pochi giorni dal suo ritorno il G. fu inviato a Prato, per partecipare a un incontro con Giuliano Lapi, commissario di Cascina, il capitano Ercole Bentivoglio e due ingegneri idraulici. Il motivo era esaminare la fattibilità di uno studio per la deviazione dell'Arno. Il progetto era stato ideato dal Soderini, ormai scettico sulle possibilità di riconquistare Pisa con un attacco militare e prenderla per fame. L'Arno doveva essere deviato presso la Torre al Fagiano, pochi chilometri a monte di Pisa, mediante la costruzione di un canale che ne portasse le acque a sfociare presso Livorno; ciò avrebbe conseguito due obiettivi: restituire a Firenze la possibilità di usare il fiume come via di transito verso il mare, ponendo fine agli inconvenienti derivanti dal controllo pisano sul basso corso del fiume, e privare Pisa di questo controllo, oltre che di un'importante riserva idrica.

Il progetto fu approvato, tra mille perplessità, dai competenti organi fiorentini; pertanto uno dei principali compiti del G., durante il suo successivo mandato di commissario contro i Pisani (iniziato nell'aprile 1504), fu proprio l'attuazione di questo progetto, con l'impiego di manodopera rurale. Il canale fu effettivamente scavato per alcune centinaia di braccia, ma la pendenza era stata calcolata male, e le abbondanti piogge cancellarono quanto era stato portato avanti con immenso sforzo.

Il fallimento di questo progetto gettò discredito sul gruppo dirigente fiorentino e in particolare sul Soderini, che ne era stato il principale promotore e che, per riscattarsi, divenne ancora più determinato nella volontà di sottomettere Pisa al più presto possibile e con ogni mezzo.

Il 18 sett. 1504 il G. aveva intanto ottenuto licenza di tornare a Firenze. Dal 10 dicembre fu membro dei Dieci di balia. Secondo N. Tommasini fu in questo periodo che, avendo occasioni quotidiane di incontrarsi con il Machiavelli (che dei Dieci era segretario), andò perfezionandosi nei due uomini il progetto di ripristinare la milizia rurale in uso nel Medioevo e di farne il fondamento del sistema difensivo della Repubblica.

Dal 1° ag. 1505 il G. fu di nuovo eletto commissario generale per tutto il Dominio, sotto l'incalzare del pericolo costituito da Bartolomeo d'Alviano. Questo condottiero era infatti sospettato di volersi mettere al servizio dei Pisani, su espressa commissione dei Medici e di Ascanio Sforza; pertanto, appena cominciò a risalire la Toscana da sud, subito fu inviato il G. a sorvegliarlo e contrastarlo, coadiuvato da una piccola armata al comando di Ercole Bentivoglio. Con questi pochi aiuti il G. inseguì l'Alviano nella zona di Campiglia Marittima e presso San Vincenzo gli inflisse una secca sconfitta il 17 ag. 1505.

La notizia di questo successo giunse al governo fiorentino tanto gradita quanto inaspettata, perché gravi erano le difficoltà finanziarie della Repubblica e, siccome la notizia di questa crisi si era diffusa, non si trovavano nemmeno più capitani di valore disposti a mettersi al suo servizio. Anche il G. fu travolto dall'entusiasmo e chiese ripetutamente ai Dieci e al gonfaloniere il consenso a sfruttare l'effetto di questo successo per sferrare l'attacco decisivo contro Pisa. Alla fine l'ottenne, ma, quando l'artiglieria aprì una larga breccia nelle mura di Pisa, non si trovò tra i soldati chi volesse varcarla. L'episodio suscitò il furore del G., che avrebbe voluto far fuoco sugli stessi soldati per punirli della codardia. Egli non poté fare a meno di informare dell'accaduto i Dieci di balia, e fu dato ordine di sospendere l'attacco.

Un grande senso di delusione si diffuse nel gruppo dirigente fiorentino e, in particolare, un diluvio di critiche si abbatté sul Soderini, ma coinvolse anche il G. e il Bentivoglio, accusati di leggerezza e di ambizione personale.

Grande fu lo sdegno e la frustrazione del G., che minacciò di partire da Cascina e di interrompere il suo ufficio senza aspettare la licenza dei Dieci. A stento ne fu trattenuto dal Machiavelli che, con lettera del 23 sett. 1505, lo esortava a rimanere al suo posto per non dare argomenti "agli invidiosi e ai traditori". Finalmente, alla metà di ottobre, ottenne il permesso di tornare, ma fu penoso per lui affrontare i commenti ostili e irritati.

Gli appartenenti alla fazione anti-soderiniana erano ovviamente i più polemici e si spinsero tanto oltre da accusare il G. di malversazione e chiedere il controllo della gestione del denaro pubblico durante il suo incarico. Tutta la sua contabilità fu passata al setaccio, ma sembra che ne risultasse al massimo qualche lieve negligenza nella tenuta delle scritture.

Fu probabilmente in questo clima che maturò la determinazione di far approvare il progetto della milizia rurale. Questa, secondo il G., oltre a essere meno costosa delle truppe mercenarie, avrebbe conseguito risultati migliori perché formata da sudditi legati da vincoli di lealtà e obbedienza a quello stesso ordinamento giuridico a favore del quale erano chiamati a combattere; inoltre, nei confronti di chi si fosse dimostrato non all'altezza della situazione si poteva disporre di efficaci misure deterrenti, come multe, confische dei beni e perfino della condanna all'esilio.

Ispirato dal Machiavelli e dal G., e col sostegno del Soderini, il progetto per la milizia popolare andò in porto il 6 dic. 1506, con la provvisione che la istituiva. Il Dominio fiorentino fu diviso in distretti, ognuno dei quali doveva fornire un reparto di fanteria ("bandiera") da affidarsi a un capitano, fiorentino o mercenario, per l'addestramento. Per presiedere a questa operazione fu istituita la magistratura dei Nove di ordinanza e milizia, di cui il G. fu membro per otto mesi a partire dal 12 genn. 1507. Fu incaricato di compiere le ispezioni a varie bandiere, tra cui quelle di Pescia e di San Miniato (il 4 febbr. 1507) e quelle di Firenzuola e Dicomano (dal 18 febbraio al 15 marzo).

Questi furono gli ultimi incarichi ufficiali ricoperti dal G.: ben presto fu messo da parte, un po' per l'età e per motivi di salute, ma anche perché la questione di Pisa, dimostratasi irresolubile sul piano militare, tornò di pertinenza dei politici di professione.

L'ultimo intervento pubblico del G. è del 1512, quando partecipò, in qualità di membro del Consiglio degli ottanta, a una pratica convocata nell'imminenza dell'ingresso in territorio toscano delle armate imperiali, cui anche i Medici avevano legato le loro speranze di riconquista del potere.

In quell'occasione il G. si propose, nonostante l'età e le cattive condizioni di salute, per recarsi con tremila fanti in Mugello e opporsi all'avanzata imperiale, ma trovò "li animi ostinati e le orecchie sorde" (Pitti, p. 257). Com'è noto niente poté il regime repubblicano per sottrarsi alla sua sorte e i Medici tornarono a Firenze con poteri ancora maggiori di quelli goduti prima del novembre 1494.

Con il cambio di regime la milizia popolare fu abolita e tutti i capitani disarmati, con l'unica eccezione del G., che non volle piegarsi e a cui furono lasciate le armi, in considerazione dell'età e della fama da cui era circondato. Lo stesso Giuliano de' Medici, poco dopo il rientro della famiglia a Firenze, si recò a far visita al G. a casa sua, attratto dalla celebrità di un uomo che, benché al servizio di un regime ostile, aveva dato prova di lealtà e coraggio, oltre che di sincero attaccamento alla patria.

Il G. morì a Firenze nel gennaio 1518 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria Novella.

Fonti e Bibl.: La prima biografia del G., la Vita di A. G., di I. Nardi, Firenze, Sermartelli, 1597, fu più volte ristampata nel XIX sec.; l'edizione più recente è a cura di V. Bramanti, Bergamo 1990. I. Pitti riprese il lavoro del Nardi ampliandolo con documenti del G. (oggi tra le sue carte nella Bibl. nazionale di Firenze, Ginori Conti 29, 24; 29, 74; 29, 93): l'opera fu terminata nel 1570 e riscritta nel 1574; fu pubblicata a cura di C. Monzani in Archivio storico italiano, s. 1, IV (1853), 2, pp. 79-384.

Arch. di Stato di Firenze, Raccolta Sebregondi, n. 2566; Raccolta Ceramelli-Papiani, n. 2333; Otto di guardia e balia (Repubblica), regg. 224, c. 134; 232, c. 11; 75, c. 21; Emancipazioni, 11, cc. 74v, 79; Notarile antecosimiano, 12024, cc. 95v, 96v, 106; 15801, cc. 27, 116v; Catasto, 921, c. 427; 1014, c. 217; Tratte, 987, c. 4; 905, cc. 125, 126, 189, 221; Signori e Collegi, Deliberazioni in forza di ordinaria autorità, reg. 102, c. 144; Dieci di balia, Deliberazioni, condotte e stanziamenti, regg. 34, cc. 155, 156; 35, cc. 16, 139; 36, c. 158; 37, cc. 11, 19, 24, 57; 39, cc. 160, 161; 41, c. 141; 42, cc. 147, 148, 149; 43, cc. 39, 45, 101, 107; 45, c. 109; 46, cc. 65, 75, 126; 48, cc. 70, 87, 114, 146, 177, 178; 49, cc. 130, 131, 132, 133, 139, 148, 152, 161, 182, 193, 196; 50, cc. 55, 61, 66, 69, 76, 78, 82, 103, 117, 131, 134, 143, 150, 153, 165, 180, 184, 193; 51, cc. 29, 111, 145; 52, cc. 15, 40, 45, 48, 54, 60, 62, 70; 53, cc. 72, 82, 96, 101; 54, c. 73; 55, cc. 65, 71; Ibid., Missive…, regg. 37, c. 183; 42-51; 54, c. 41; 55, c. 8; 57, c. 8; 58, c. 21; 59, cc. 13, 14; 60, c. 24; 62, cc. 3, 11, 78; 64, cc. 41, 68; 65, c. 14; 66, cc. 7, 12, 25; 68, cc. 12, 46, 50, 51, 53; 69-83; Mediceo avanti il principato, filze 23, n. 397; 68, n. 325; 71, n. 101; Documenti per servire alla storia della milizia italiana dal XIII secolo al XV, a cura di G. Canestrini, in Arch. stor. italiano, XV (1851), pp. 258-268, 272-306, 400 s., 463; N. Machiavelli, Scritti inediti riguardanti la storia e la milizia, a cura di G. Canestrini, Firenze 1857, pp. 129, 147, 193, 206, 262, 317; Id., Opere, a cura di P. Fanfani - L. Passerini, II, Firenze 1874, pp. 283 s. (breve elogio del G.); Id., Epistolario, in Opere, V, Milano 1970, pp. 117 s.; Id., Lettere di Cancelleria, in Opere, IX, Milano 1970, pp. 77, 88-103, 106-110, 115-124, 155-161, 164-167, 178, 219-224, 226 s., 234, 236, 253, 286, 328; F. Guicciardini, Storia fiorentina, in Id., Opere inedite, Firenze 1859, pp. 253, 319; Consulte e Pratiche della Repubblica Fiorentina, 1505-12, a cura di D. Fachard, Genève 1988, ad indicem; …, 1498-1505, a cura di D. Fachard, ibid. 1993, ad indicem; N. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, I, Roma-Torino-Firenze 1883, ad indicem; C.C. Bayley, War and society in Renaissance Florence, Toronto 1961, pp. 247 s., 251-253, 276; J.R. Hale, Machiavelli and Renaissance Italy, London 1961, pp. 14, 59, 63, 82 s., 88, 93, 113; H.C. Butters, Governors and governments in early sixteenth century Florence, 1502-19, Oxford 1985, pp. 56, 81, 87 s., 101.

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