Gramsci, Antonio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica (2013)

Antonio Gramsci

Aurelio Musi

Tra i maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento, Antonio Gramsci fu uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia (1921). Per le sue idee, all’avvento del fascismo, venne condannato a più di venti anni di carcere. Durante la reclusione, che lo portò infine alla morte, scrisse un’assidua e amplissima serie di appunti e note, occasionali o programmate, più sparse o più unitarie, brevi e non brevi, notevoli per l’impegno e la portata della riflessione teorica e storica, in una prospettiva marxistica non scolastica, presentata, e non solo per ragioni di mascheramento imposto dal carcere, soprattutto come «filosofia della prassi». L’eredità intellettuale che egli poté così lasciare nei suoi ‘quaderni carcerari’ apparve in tutto il suo rilievo quando nel dopoguerra quei testi furono pubblicati e divennero un punto di riferimento del pensiero del tempo, facendo di lui uno dei massimi rinnovatori della cultura italiana postfascista, non senza una notevole importanza anche sul piano internazionale. In particolare, ebbero un’immediata e rilevante influenza le sue riflessioni sulla storia italiana del Risorgimento e dell’Unità.

La vita

Nato ad Ales (Cagliari) il 22 gennaio 1891, Antonio Gramsci dopo il liceo classico frequentò la facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Iscritto al Partito socialista dal 1913, lavorò come redattore al «Grido del popolo» e all’«Avanti!», prima di fondare, insieme a Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, il settimanale «L’Ordine nuovo», nel 1919; due anni dopo, partecipò alla fondazione del Partito comunista d’Italia (PCd’I).

Nel 1922, entrato a far parte dell’Esecutivo del Komintern, Gramsci si trasferì a Mosca, dove conobbe Julija Schucht, che sarebbe divenuta sua moglie. Nel 1924, fondato il quotidiano «L’Unità», tornò in Italia come deputato e, nell’agosto dello stesso anno, divenne segretario del PCd’I. Arrestato nel 1926, nel 1928 fu condannato a più di venti anni di reclusione, che scontò prevalentemente nel carcere di Turi (Bari), dove ebbe inizio la stesura dei suoi Quaderni, cui si dedicò fino alla metà del 1935. Durante il carcere finì per trovarsi in discussioni e dissensi con il suo stesso partito, allora del tutto condizionato dalla sua obbedienza statalista. Nel 1934, a causa delle cattive condizioni di salute, era stato trasferito in una clinica di Formia, ottenendo in seguito la libertà condizionata. Morì a Roma, nella clinica Quisisana, il 27 aprile 1937.

Storico europeo e italiano

La biografia intellettuale di Gramsci presenta, fra gli altri, un carattere che, generalmente, viene scarsamente considerato nella vastissima letteratura gramsciana: egli è stato, infatti, uno storico europeo e italiano al tempo stesso, perché ha saputo collocarsi in un orizzonte e una sensibilità internazionali, comuni a molti intellettuali dei primi decenni del 20° sec., riflettendo con originalità sui problemi della storia nazionale. Ci si riferisce qui a un orizzonte in cui il nesso fra storia e vita, tra passato e presente è stato al centro dell’attenzione e dell’interesse di molti studiosi: basti pensare alla cultura storicistica, a intellettuali come Max Weber ed Ernst Troeltsch, al rinnovamento storiografico prodotto dalla rivista «Annales» in Francia (penso in particolare a Marc Bloch), a Benedetto Croce. Il concetto di vita non è stato naturalisticamente inteso, ben s’intende, ma profondamente calato nella realtà storica, rivelandosi solo così capace di restituire i suoi molteplici significati, tutti declinati nella sua dimensione spazio- temporale in grado di assumere il posto centrale in una considerazione integrale, priva di steccati disciplinari, della conoscenza umana. Il concetto di storia contemporanea in Croce appartiene precisamente a questo contesto, a questo spirito del tempo in cui il rapporto passato-presente è trasfigurato dal pensiero dell’attualità della vita nell’atto in cui riflette su un fatto, un problema, un processo storico. E le categorie, i modelli, le concettualizzazioni non sono astrazioni, ma intimamente calati nella realtà storica che vogliono rappresentare.

Gramsci ha dato un contributo di grande rilievo in questa direzione: la filosofia della prassi è stato il suo modo di tradurre e interpretare il rapporto tra vita e storia; la formulazione di categorie quali blocco storico, egemonia, rivoluzione passiva, moderno principe e così via ha trovato la sua legittimazione solo nella considerazione storica, a sua volta funzionale all’azione politica.

Gramsci europeo, dunque, ma a partire dalla considerazione della storia italiana, unitariamente intesa dal Medioevo all’Ottocento, che assorbe quasi integralmente la sua attività di storico. Il problema politico del Risorgimento è allora centrale nella prospettiva gramsciana. Il dirigente comunista individua «il blocco storico delle forze conservatrici, cogliendone la chiusura economico-corporativa come prosecuzione di un’antica stratificazione che aveva posto limiti precisi alla funzione svolta da esse nel Risorgimento»; identifica altresì «gli elementi costitutivi di un nuovo blocco storico che le circostanze della vita italiana nel periodo post-risorgimentale avevano già variamente mobilitato sulla scena politica nazionale e che si trattava ora di coordinare in stretta unità e di rendere consapevoli del loro compito» (Galasso 1978, p. 168).

Se questa è la caratterizzazione storico-politica del discorso di Gramsci, non appaiono condivisibili quelle interpretazioni che ne prescindono completamente. Un esempio in tale direzione è l’opera di Alberto Burgio (2003). Egli ritiene che Gramsci si dedicherebbe all’analisi storica solo per capire il funzionamento delle singole formazioni sociali, in particolare di quella capitalistica. L’approccio strutturalista, che considera i concetti gramsciani astrazioni decontestualizzate, induce l’autore a una critica radicale dell’interpretazione storicista. Nei Quaderni sarebbe allora contenuta per Burgio una teoria critica della modernità.

Il problema del Risorgimento

Il Quaderno 19, scritto da Gramsci tra il 1934 e il 1935, è pressoché interamente dedicato al Risorgimento. A dimostrazione del fatto che egli è dotato di una robusta coscienza storica, di una straordinaria lucidità nella progettazione intellettuale e che considera la prospettiva unitaria di lungo periodo fondamentale nella vicenda italiana, è il punto di partenza dell’analisi: un progetto di ricerca e una proposta di periodizzazione.

Una doppia serie di ricerche. Una sull’età del Risorgimento e una seconda sulla precedente storia che ha avuto luogo nella penisola italiana, in quanto ha creato elementi culturali che hanno avuto una ripercussione nell’Età del Risorgimento (ripercussione positiva e negativa) e continuano a operare (sia pure come dati ideologici di propaganda) anche nella vita nazionale italiana così come è stata formata dal Risorgi-

mento. Questa seconda serie dovrebbe essere una raccolta di saggi su quelle epoche della storia europea e mondiale che hanno avuto un riflesso sulla penisola (A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, 1975, p. 1959).

Gli esempi a questo riguardo non sono saggi separati, ma formano un itinerario periodizzante: dai significati della parola Italia nei tempi diversi; al passaggio dalla Repubblica all’impero romano che modifica radicalmente «la posizione relativa di Roma e della penisola nell’equilibrio del mondo classico, togliendo all’Italia l’egemonia territoriale e trasferendo la funzione egemonica a una classe imperiale cioè supernazionale» (p. 1959); al Medioevo o età dei Comuni «in cui si costituiscono molecolarmente i nuovi gruppi sociali cittadini, senza che il processo raggiunga la fase più alta di maturazione come in Francia, in Ispagna, ecc.» (p. 1960); all’età del mercantilismo e delle monarchie assolute, che per l’Italia ha una scarsa portata nazionale perché essa è soggetta a potenze straniere,

mentre nelle grandi nazioni europee i nuovi gruppi sociali cittadini, inserendosi potentemente nella struttura statale a tendenza unitaria, rinvigoriscono la struttura stessa e l’unitarismo, introducono un nuovo equilibrio nelle forze sociali e si creano le condizioni di uno sviluppo rapidamente progressivo (p. 1960).

Tutte le questioni trattate – e si ribadisce così la premessa di queste note sul nesso vita-storia – «saranno presentate come viventi e operanti anche nel presente, come forze in movimento, sempre attuali» (p. 1960).

Dopo aver discusso la letteratura sulle origini, Gramsci passa alle interpretazioni del Risorgimento. Una prima serie è di carattere politico immediato, ideologico e non storico. Gramsci distingue «un gruppo di interpretazioni in senso stretto», da Alfredo Oriani a Mario Missiroli, Piero Gobetti e Guido Dorso, un «gruppo di carattere più sostanziale e serio» come quelle di Croce, Arrigo Solmi, Luigi Salvatorelli, le interpretazioni di Curzio Malaparte e Carlo Curcio. Un altro gruppo importante è costituito dai libri di Gaetano Mosca, Pasquale Turiello, Luigi Zini, Giorgio Arcoleo e gli articoli apparsi sulla «Nuova antologia»: è una letteratura conseguenza della caduta della Destra storica, dell’avvento al potere della Sinistra e delle innovazioni ‘di fatto’ introdotte nel regime costituzionale per avviarlo a una forma di regime parlamentare.

I caratteri comuni a tutta questa letteratura secondo Gramsci sono i seguenti: la pretesa di trovare un’unità nazionale, almeno di fatto, da Roma al periodo contemporaneo, riflesso di una «torbida volontà di credere, un elemento di fanatismo ideologico che deve risanare le debolezze di struttura e impedire un temuto tracollo»; l’eccessiva importanza attribuita agli intellettuali «piccoli borghesi in confronto delle classi economiche arretrate e politicamente incapaci»; la «storia feticistica», per cui «diventano protagonisti della storia personaggi astratti e mitologici» (Quaderni del carcere, cit., pp. 1979-80).

Il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato (p. 1981).

In un altro luogo dello stesso Quaderno, Gramsci stigmatizza la storia come biografia nazionale. Essa scambia il desiderio con la realtà, pensa l’Italia come qualcosa di astratto e concreto allo stesso tempo

come la bella matrona delle oleografie popolari, che influiscono più che non si creda nella psicologia di certi strati del popolo positivamente e negativamente (ma sempre in modo irrazionale), come la madre di cui gli italiani sono i figli. Con un passaggio che sembra brusco e irrazionale, ma ha indubbiamente efficacia, la biografia della madre si trasforma nella biografia collettiva dei figli buoni, contrapposti ai figli degeneri, deviati, ecc. (p. 2069).

Presentazione doppiamente antistorica: perché contraddice la realtà e perché sminuisce la figura e l’originalità degli uomini del Risorgimento. Ma la critica di Gramsci si abbatte pure su L’Età del Risorgimento italiano (1931) di Adolfo Omodeo: un’untuosa santificazione del periodo liberale. Il difetto maggiore di tutte queste interpretazioni è il loro carattere ideologico: non suscitano forze politiche attuali, non aiutano «le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive» (pp. 1983-84). Come ha notato Galasso, Gramsci non accetta qui l’interpretazione del Risorgimento in termini di «conquista regia»:

egli coglie perfettamente il significato di ammodernamento e di liberazione delle energie nazionali connesso intimamente alla grande pagina di storia vissuta dall’Italia nel secolo XIX (Galasso 1978, p. 127).

E valuta adeguatamente lo sforzo compiuto dagli uomini del Risorgimento sia verso i nemici esterni sia verso quelli interni che si opponevano all’unificazione.

Non è possibile vedere in Gramsci sic et simpliciter uno dei tanti revisionisti del Risorgimento, uno degli episodi di quel processo al Risorgimento di cui si è tanto parlato. Il processo ci sembra, invece, che Gramsci lo faccia non al Risorgimento, e neppure alla soluzione risorgimentale, della cui necessità e positività storica nelle condizioni date egli si rende pienamente conto, bensì al partito d’azione, da un lato, e alla politica dello Stato italiano unitario, post-risorgimentale, dall’altro lato (Galasso 1978, p. 129).

È questa posizione che spiega anche l’oscillazione esistente fra la critica all’interpretazione del Risorgimento inteso come «conquista regia» in alcuni luoghi, quelli nei quali viene discussa la letteratura risorgimentale, e la sua sostanziale accettazione in altri. Diventa allora centrale nell’intera riflessione storica di Gramsci

il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia. Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati (Quaderni del carcere, cit., p. 2010).

È questo il punto centrale dell’analisi di Gramsci non solo per il merito e per il contenuto, ma anche per il metodo. Egli infatti, proprio in relazione al rapporto tra moderati e Partito d’azione, precisa il significato di due concetti che userà largamente nelle sue argomentazioni: gruppo sociale dominante e gruppo sociale dirigente. Il dominio è esercitato sui gruppi avversari anche con la forza armata, la direzione intellettuale e morale sui gruppi affini e alleati. Ma

un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante, ma deve continuare ad essere anche dirigente. I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il così detto trasformismo non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica (pp. 2010-11).

Altro concetto, utilizzato non in astratto, ma per comprendere l’egemonia moderata, è quello di apparato: cioè il meccanismo, l’insieme di strumenti di esercizio dell’egemonia che, nel caso dei moderati, furono liberali, cioè individuali e privati, non mediati da un programma di partito, ma perfettamente adeguati ai gruppi sociali rappresentati «di cui i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico» (p. 2011). I moderati esercitarono un potere di attrazione che il Partito d’azione non poteva avere. Esso sarebbe potuto diventare una forza autonoma solo se fosse riuscito a contrapporsi con

un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all’attrazione spontanea esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva organizzate secondo un piano (p. 2013).

Giuseppe Galasso si è posto la domanda su che cosa rimanga della critica di Gramsci al Partito d’azione. Egli ha individuato una tensione non risolta nel pensiero storico di Gramsci «tra i due poli di un ragionamento strettamente storiografico, da un lato, e di una petizione di principio su una possibilità non sfruttata dai protagonisti, dall’altro lato» (Galasso 1978, p. 144). Al primo polo c’è la valutazione positiva, storicistica, del moto risorgimentale, in particolare dell’azione svolta dai moderati soggettivamente e nelle condizioni date. Al secondo polo Gramsci denuncia per principio e condanna l’azione svolta dalla sinistra risorgimentale per

un motivo profondo ed essenziale di insoddisfazione e di ripulsa per tutto il corso preso dalla storia nazionale nel punto che costituisce il centro degli interessi storiografici di Gramsci (Galasso 1978, p. 144).

Storia/filosofia, storia/politica

I motivi di questa tensione bipolare si comprendono alla luce della considerazione dei rapporti fra storia e filosofia, filosofia e politica. Gramsci va oltre Croce: egli accetta la sua idea della contemporaneità della storia, ma prospetta una più radicale identità tra storia e politica realizzata, non fallita. Se il politico è uno storico che opera nel presente interpretando il passato, allora lo storico è un politico. Gramsci allarga quindi la portata della formula crociana. Ma bisogna rendersi conto che

quando il Croce parla degli elementi che determinano la contemporaneità della storia, parla di interessi della vita morale (in cui la politica è assorbita e risolta) o culturale; quando, invece, ne parla Gramsci, parla di interessi immediati della vita politica e sociale in senso stretto (Galasso 1978, pp. 147-48).

Se nel discorso storico di Gramsci l’interesse per la politica determina un’innegabile tensione, che spesso resta irrisolta e provoca contraddizioni, oscillazioni, incertezze, va comunque riaffermata, al di là di essa,

una profonda unità metodologica e culturale del pensiero di Gramsci, se si tengono presenti i suoi concetti di fondazione scientifica dell’azione politica e di rapporto tra politica e storia. In ultima analisi, quindi, l’intero discorso storico-politico di Gramsci non esce fuori dal quadro del discorso storico e le implicazioni di teoria politica e gli schemi di azione politica che Gramsci ne trae non pretendono e non sono riducibili ad un significato o valore concettuali diversi da quelli dei canoni di ricerca storica che Gramsci pure evince dallo stesso discorso (Galasso 1978, p. 219).

È qui dunque il carattere autenticamente rivoluzionario dello storicismo gramsciano e del suo progetto filosofico come «gnoseologia della politica» (Buci-Glucksmann 1975; trad. it. 1976, p. 172). Anche la critica del concetto di ideologia sia come «illusione» nel senso crociano, sia come «sistema di idee» che riproduce la struttura economico-sociale secondo l’interpretazione deterministica, soprattutto di Nikolaj I. Bucharin, si collega al discorso storico-politico che approda al valore attivo delle ideologie. La rifondazione di Gramsci parte dalla critica al positivismo e al meccanicismo nella doppia versione del revisionismo idealistico (Georges Sorel e Croce) e del revisionismo del marxismo ufficiale. Il suo obiettivo è quello di colmare il vuoto di una reale tradizione ideologica e culturale di massa a partire da una ricognizione puntuale del terreno nazionale, del Risorgimento e della formazione dello Stato unitario. Questa ricognizione è propedeutica alla lotta contro il blocco storico dominante che ha proseguito l’azione dei moderati vittoriosi nel confronto risorgimentale. Ecco perché Croce, in quanto chiave intellettuale di volta di questo blocco, diventa l’interlocutore privilegiato di Gramsci.

Nord e Sud

L’insoddisfazione della linea del meridionalismo classico, che giunge, pur con profonde novità, fino a Francesco Saverio Nitti, e che può essere sintetizzata nel mito del buon governo e dell’industrializzazione promossa dall’intervento statale, fu fortemente messa in discussione dai partigiani della ‘rivoluzione meridionale’: Gaetano Salvemini, Dorso, Gramsci. Pur da posizioni di partenza diverse, – il primo socialista sui generis, il secondo erede e originale interprete del pensiero democratico, il terzo cofondatore del Partito comunista italiano nel 1921 e maggiore esponente del marxismo teorico italiano – essi rivendicarono l’esigenza di una più attiva partecipazione delle élites e delle masse per portare a soluzione la questione meridionale.

Per Salvemini solo con una politicizzazione generale delle masse, e cioè dei contadini meridionali, e con l’identificazione di una strategia di alleanza di classe nel resto del Paese si poteva aggredire la questione meridionale considerata soprattutto una questione di potere. L’analisi più originale riguardava proprio quest’ultimo punto. Una grande proprietà latifondistica, generalmente in mano alla vecchia aristocrazia feudale e alla grande borghesia agraria fusasi con essa, deteneva tanto la maggiore ricchezza quanto l’effettivo potere. Questa classe si era strettamente alleata con il capitalismo settentrionale, garantendo a esso l’appoggio incondizionato della rappresentanza parlamentare meridionale alla sua politica, soprattutto in materia finanziaria e doganale, a cui l’industria settentrionale era legata da un interesse vitale. In cambio i latifondisti meridionali ricevevano carta bianca per la loro azione oppressiva nel Mezzogiorno e pieno sostegno per i loro interessi, che si trattasse sia di contratti agrari sia di dazio sul grano. Dunque, il proletariato rurale meridionale, alleato con il proletariato industriale del Nord, doveva essere il protagonista della sua emancipazione.

Dorso affidava invece alla «borghesia umanistica», al ceto intellettuale, al decentramento e al self government il compito di disfare il blocco agrario meridionale e liberare le masse contadine dal suo potere.

Gramsci, dopo aver criticato il Risorgimento e le modalità di realizzazione dell’Unità italiana, identificando entrambi con una «rivoluzione agraria mancata», riprendeva l’indicazione di Salvemini, relativa all’alleanza tra contadini del Sud e operai del Nord, ma con finalità strategiche completamente diverse. Per Salvemini quell’alleanza doveva servire a fondare una democrazia rurale di piccoli proprietari nel Sud e a liberare la classe operaia settentrionale da una struttura industriale fondata sui monopoli e sul protezionismo: dunque democrazia rurale e spazio alla libera concorrenza interna e internazionale. Per Gramsci quell’alleanza doveva invece servire a distruggere l’intero sistema per costruire il socialismo. Secondo Gramsci il proletariato avrebbe distrutto il blocco agrario meridionale nella misura in cui fosse riuscito, attraverso il suo partito, a organizzare in formazioni autonome e indipendenti masse di contadini poveri. E sarebbe riuscito in tale compito anche in relazione alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale, armatura flessibile, ma resistentissima del blocco agrario.

Passato e presente

Qual è il significato complessivo della meditazione storica di Gramsci?

La meditazione di Gramsci sul Risorgimento è e vuole essere politica, impostazione cioè di un discorso sulle forze dominanti nella società italiana e su quelle che ad esse si oppongono; una politica costruita scientificamente, ossia sulla critica scientifica di tutto il passato (Galasso 1978, p. 153).

Il presente è allora critica del passato e suo superamento: decide ciò che è vivo e ciò che è morto. L’esaurimento storico si riconosce non da fattori contingenti,

ma deve corrispondere alle componenti di fondo della storia e della tradizione nazionale che sono attive nel momento in cui ci si volge al passato. A questo punto il circolo dei pensieri di Gramsci appare completo. Egli si volge alla storia del Risorgimento perché non crede in un’azione politica che non scaturisca dalla intelligenza storica; e critica il Risorgimento, non nella prospettiva del processo al Risorgimento alla Missiroli o alla Gobetti, bensì nella prospettiva di ciò che il presente dimostra non più attuale, e quindi da poter essere gettato via, dell’opera delle generazioni precedenti (Galasso 1978, p. 134).

Il cinquantennio unitario è, da questo punto di vista, la cartina di tornasole del pensiero storico di Gramsci. Il trasformismo è considerato dal dirigente sardo la continuazione, ma anche il deterioramento dell’azione egemonica dei moderati, che hanno trasformato l’egemonia in dominio, decapitando le élites nemiche. Francesco Crispi è il vero uomo della nuova borghesia, non l’anticipatore del nazionalfascismo, ma un esponente del Risorgimento che spinge in avanti la società italiana. Lucido è anche il giudizio sul giolittismo: continuità con Crispi, da un lato, ma più larga partecipazione alla vita statale attraverso il parlamento, con un approfondimento del solco tra Nord e Sud del Paese. A cinquant’anni di distanza dall’Unità, l’esaurimento storico per Gramsci è pienamente evidente:

il mantenimento del blocco industriale-agrario attraverso cinquant’anni di storia italiana unitaria è esso ad inficiare la soluzione risorgimentale, non già una insufficienza intrinseca della soluzione stessa […] È il presente a dar luce al passato, ma questa luce va proiettata sull’intero arco storico delle forze in campo, e non soltanto sull’arco della loro funzione di forze dominanti (Galasso 1978, p. 155).

Alla luce delle precedenti considerazioni appare ancor più chiara l’unitarietà della storia italiana nel senso a essa attribuito da Gramsci. A partire dal comune medievale come fase economico-corporativa dello Stato, la funzione storica della prima borghesia italiana, la funzione direttiva della città in epoca comunale, la critica serrata alla retorica degli storici e all’esaltazione della ‘libertà’ cittadina. Il cosmopolitismo degli intellettuali si accentua poi nell’epoca della Controriforma, caratterizzata dall’assenza di un moderno Stato-nazione in Italia, anche per il dominio di potenze straniere, a differenza di altre realtà europee. Con queste premesse, il Risorgimento, positivo come soluzione unitaria, mostra tuttavia i limiti di una rivoluzione mancata per le responsabilità del Partito d’azione, per non aver affrontato la questione agraria, per aver approfondito le distorsioni fra città e campagna nel cinquantennio unitario.

Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco urbano di industriali e operai che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto disciplinato con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini […]; misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli intellettuali o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove (Quaderni del carcere, cit., pp. 2038-39).

Un ragionamento dunque che va dal presente al passato, perché la storia è politica attuale in nuce:

una storia non di ipotesi, ma di realtà che scaturiscono dal conoscere ciò che del passato è vivo e ciò che è morto, ciò che può essere gettato via e ciò che deve essere conservato (Galasso 1978, pp. 156-57).

Aver concentrato l’attenzione sui problemi della storia italiana non può indurre a dimenticare che Gramsci ci ha lasciato pagine illuminanti su tanti altri temi di storia europea ed extraeuropea, con spunti che meriterebbero oggi ulteriori riprese e approfondimenti. Non si tratta di osservazioni che scaturiscono dall’erudizione, pur straordinaria se si tien conto delle condizioni in cui svolse attività intellettuale il dirigente politico. Colpisce soprattutto la formidabile capacità di intuizione e la sensibilità a utilizzare la prospettiva comparativa nell’analisi dei processi storici. Basta scorrere l’indice analitico dell’edizione critica dei Quaderni per averne significative conferme.

Opere

Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio, E. Fubini, Torino 1965.

Socialismo e fascismo. L’Ordine nuovo 1921-1922, Torino 1966.

La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Torino 1971.

Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975.

Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Torino 1980.

La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino 1982.

Il nostro Marx 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Torino 1984.

L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A.A. Santucci, Torino 1987.

Lettere 1908-1926, a cura di A.A. Santucci, Torino 1992.

A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli, C. Daniele, Torino 1997.

Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito, G. Francioni, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, 2 voll., Roma 2007.

Epistolario, 1, gennaio 1906-dicembre 1922, a cura di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera et al., Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Roma 2009.

Quaderni del carcere, Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. Francioni, 18 voll., Roma 2009.

Epistolario, 2, gennaio-novembre 1923, a cura di D. Bidussa, F. Giasi, M.L. Righi, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Roma 2011.

Bibliografia

E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1974.

Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci et l’État: pour une théorie matérialiste de la philosophie, Paris 1975 (trad. it. Roma 1976).

P. Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Torino 1977.

A. Baldan, Gramsci come storico. Studio sulle fonti dei “Quaderni del carcere”, Bari 1978.

G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano 1978, pp. 116-248.

L. Mangoni, La genesi delle categorie storico-politiche nei “Quaderni del carcere”, «Studi storici», 1987, 28, pp. 565-79.

E. Garin, Gramsci nella cultura italiana, in Id., La filosofia come sapere storico, Roma-Bari 1990.

A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere”, Roma-Bari 2003.

M. Filippini, Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere”, «Historical materialism», 2009, 17, pp. 261-71.

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