SALANDRA, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

SALANDRA, Antonio

Federico Lucarini

– Nacque a Troia, in Capitanata (Foggia), il 13 agosto 1853, primogenito di Gaspare e di Giuseppina Granata, entrambi appartenenti a famiglie di professionisti e proprietari.

Il bisnonno paterno, Gaspare, notaio e facoltoso possidente, tra il 1793 e i due anni successivi venne eletto mastrogiurato, carica che ricoprì di nuovo nel 1804. Anche suo figlio Antonio fu un alto funzionario dell’amministrazione borbonica, mentre Gaspare junior aveva accresciuto il patrimonio e consolidato le fortune familiari sposando la figlia di un noto civilista del foro di Lucera, Antonio Granata.

Il piccolo Antonio ricevette in casa i primi insegnamenti dal prelato Gian Prudenzio Savino e fu poi, divenuto orfano della madre, accolto a Lucera dallo zio Raffaele Granata – distintosi durante la repressione del brigantaggio al comando della guardia nazionale e destinato a diventare un personaggio di spicco nell’amministrazione di Foggia – per frequentare lo studio privato tenuto da «un valoroso professore [...] di eloquenza» (De Biase, 1919, p. 17), Francesco Del Buono, socio dell’Accademia Pontaniana. Qui apprese i primi rudimenti di storia e letteratura, due passioni destinate a rimanere costanti per tutta la sua vita. Nel novembre del 1862 iniziò a frequentare il liceo-ginnasio presso il Convitto nazionale di Lucera. La permanenza fu però breve: per la cagionevole salute fu costretto al ritiro, preparandosi presso la scuola privata di Del Buono agli esami di licenza ginnasiale, cui partecipò nella sessione autunnale del 1866, risultando il migliore classificato «e meritandosi le lodi dei professori» (p. 19). Si trasferì quindi a Napoli presso il Convitto fondato e diretto dallo studioso tedesco Hermann Liebler, dove, grazie a Emanuele Rocco, insegnante di lingua e letteratura italiana, approfondì gli studi iniziati a Lucera quattro anni prima, allargando al tempo stesso la propria preparazione nelle lingue moderne. Nel giugno del 1868 conseguì a pieni voti la licenza liceale, iscrivendosi l’autunno successivo alla facoltà di giurisprudenza.

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, a Napoli si andavano affermando l’idea e la prassi di una via conciliatrice fra l’idealismo e il positivismo: Salandra frequentò perciò anche alcuni corsi presso la facoltà di lettere e filosofia, avendo modo di conoscerne i maggiori esponenti: Antonio Tari, Bertrando Spaventa, Augusto Vera, Giuseppe De Blasiis e soprattutto Francesco De Sanctis. Una volta conseguita – il 29 febbraio 1872 – la laurea in giurisprudenza, l’assiduità con quest’ultimo divenne una consuetudine protrattasi fino alla metà del 1876.

Assieme al condiscepolo Alberto Marghieri (futuro professore di diritto commerciale e più tardi eletto rettore dell’Università di Napoli) Salandra incontrò durante quel sodalizio personaggi che gli sarebbero divenuti colleghi in Parlamento nei decenni successivi: Francesco Torraca, Emanuele Gianturco, Giorgio Arcoleo, Roberto Mirabelli e Giustino Fortunato, al quale lo legò un’amicizia ultraquarantennale.

Nel 1875 sul prestigioso Archivio giuridico (vol. 15, pp. 181-204) – fondato e diretto da Filippo Serafini – uscì La dottrina della rappresentanza personale. Lineamenti d’una critica, sua dissertazione di laurea ampiamente arricchita, dove esponeva «una critica [...] demolitrice» dei «fallaci concetti della teoria democratica» con «una interpretazione travisatrice delle forme di Governo che presero a modello le istituzioni inglesi» (Codacci-Pisanelli, 1928, p. 3). Divenuto responsabile, restandolo dal 1875 al 1878, della rubrica Rassegna di studi economici, ospitata nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche, vi affrontò temi di politica economica in riferimento alla situazione italiana. Lo spunto era dato dai libri di due autorevoli accademici tedeschi (Heinrich Gotthard von Treitschke e Gustav von Schmoller) che, partendo dalla ‘questione sociale’, esponevano in merito visioni opposte. Salandra completò questo excursus segnalando gli scritti di Vito Cusumano – esponente del Kathedersozialismus – e recensendo i Primi elementi di economia politica (Milano 1875) di Luigi Cossa, rappresentante di spicco di quella tendenza. La sua visione in merito non era determinata da «incrollabile e smisurata fede nel liberismo smithiano» (Rizzo, 1989, p. 34), bensì dalle ripercussioni economiche e sociali che le proposte riformatrici degli scrittori tedeschi avrebbero avuto in una realtà arretrata. Coerentemente, nel 1877, rivolse una critica durissima al Corso di scienza del diritto pubblicato a Napoli dal repubblicano Giovanni Bovio.

Al termine del 1875 uno dei suoi maestri, Giuseppe De Blasiis, aveva dato vita alla Società di storia patria per le province napoletane, mentre De Sanctis fondava il Circolo filologico cui egli non mancò di dare il suo contributo, mentre la Rassegna di studi economici gli permise di farsi conoscere al di fuori della cerchia culturale dell’ex capitale del Mezzogiorno. Nel frattempo, superò brillantemente l’esame per la libera docenza in economia politica, con una dissertazione scritta su Debiti pubblici nell’economia nazionale e una lezione orale dedicata al Corso forzoso della carta.

Iniziava il lungo periodo di ‘preparazione politica’ affrontando un tema come Il riordinamento delle finanze comunali, attraverso un saggio apparso sulla Nuova Antologia nel 1878 (s. 2, vol. 10, pp. 345-364, 654-687) che ebbe vasta risonanza, e in cui proponeva, accanto alla sovrimposta fondiaria e al dazio di consumo, l’introduzione della tassa di famiglia nei centri più piccoli, riservando quella sul valore locativo alle città medie e grandi. Questo articolo segnò di fatto il passaggio di Salandra dall’Università di Napoli ai circoli accademici, pubblicistici e politici della capitale, dove venne chiamato nel dicembre del 1878 dal ministro dell’Istruzione pubblica De Sanctis, che aveva appena istituito una Scuola complementare di scienze economiche-amministrative. Lo statistico Angelo Messedaglia, direttore dell’istituto, gli affidò l’insegnamento di legislazione economico-finanziaria, inaugurato l’11 febbraio 1879 con una prolusione intitolata La progressione dei bilanci negli stati moderni. Ancora più evidente divenne da allora in poi il nesso tra le tematiche che Salandra esaminava nella sua attività di studioso – l’assicurazione di Stato per gli operai, l’introduzione del divorzio, i rimedi proposti per alleviare la crisi dell’agricoltura – e le questioni all’ordine del giorno nella vita politica italiana durante la prima metà degli anni Ottanta.

Nel giugno del 1881, pochi mesi dopo aver ricevuto da De Sanctis la nomina alla prima cattedra di scienza dell’amministrazione creata nell’ordinamento universitario italiano, la Nuova Antologia ospitò un suo saggio consacrato a Un caso del socialismo di Stato. Lo Stato assicuratore (s. 2, vol. 25, pp. 444-480), in cui dissentiva dall’ipotesi di prevedere un’assicurazione pubblica. Nell’articolo La questione politica dell’agricoltura (in Nuova Antologia, s. 2, vol. 49, 1885, pp. 694-716) affrontò una disamina dei mali che affliggevano le campagne italiane, indicando alcuni rimedi per risollevarne le sorti: miglioramento dei sistemi di coltura del frumento o sua sostituzione con specie più redditizie, interventi dello Stato per incentivare quanti dimostravano di meritare ‘il sussidio della forza sociale’ e ridurre una fiscalità eccessiva, aumento dei dazi di importazione dei cereali. Proponendo altresì la limitazione della spesa e la riforma di comuni e province, egli delineava un programma per un partito conservatore in grado di raccogliere l’eredità della Destra cavouriana.

Nel frattempo si era unito in matrimonio a Maria Anna Salandra, con la quale ebbe cinque figli: Mario Giuseppe (1884), Giuseppe Giustino Augusto (1885), Vittorio Gennaro Guglielmo (1889), Mario Eugenio (1895), Maria Fortunata, tutti nati a Troia, a testimonianza di un ininterrotto legame con il suo territorio.

A Roma frequentò il circolo politico di Silvio Spaventa, Sidney Sonnino, Antonio Starabba di Rudinì, i corregionali Alfredo Codacci-Pisanelli e Giuseppe Pavoncelli, al quale lo accomunava la rappresentanza della proprietà fondiaria e della produzione cerealicola, mentre con Sonnino condivideva la tendenza moderata a creare un modello agrario concorrente con quello industrialista che guidava lo sviluppo dell’Italia. L’avvicinamento era avvenuto quando l’uomo politico toscano, direttore assieme a Leopoldo Franchetti della Rassegna settimanale, lo aveva invitato a prendere parte al dibattito sulla nascente ‘questione meridionale’, mettendo tuttavia in evidenza la differenza che separava le proposte riformatrici dei due fondatori della rivista, freschi reduci dall’Inchiesta in Sicilia, rispetto alle posizioni sostanzialmente immobiliste del loro interlocutore.

In occasione delle elezioni politiche del 23 maggio 1886, Salandra si candidò nel collegio plurinominale di Foggia e condusse una campagna molto accorta, sia ribadendo il legame con il luogo di nascita sia consolidando il credito conquistato presso i cittadini foggiani come risolutore delle loro difficoltà economiche. Il responso delle consultazioni fu lusinghiero per il neodeputato, che entrava a Montecitorio come il terzo eletto del proprio collegio (5805 voti), a notevole distanza da Pavoncelli (8287 voti) e subito dietro Tito Serra (6788 voti), ma prevalendo sul candidato uscente ministeriale, il duca Prospero Guevara Suardo.

In Parlamento rifiutò di schierarsi con la Sinistra meridionale, composta da uomini che nel 1876 avevano preso il potere «mediante una rinascita di spiriti borbonici, mescolati a fermenti democratici» (Salandra, 1928, p. 357), mentre i dissidenti della Destra, cui egli apparteneva, tentavano una convergenza con la cosiddetta Pentarchia.

Il 26 gennaio 1887 la sconfitta di Dogali provocò le dimissioni del VII governo presieduto da Agostino Depretis; mentre questi era impegnato nei contatti che avrebbero dato vita al suo ultimo gabinetto, sulla Nuova Antologia del 15 marzo 1887 uscì l’articolo Parlamentarismo e patriottismo nella crisi presente, in cui l’anonimo estensore avanzava due ipotesi: la clamorosa revanche della Destra tradizionale o l’ascesa al potere della Sinistra giacobina. Salandra fu incaricato da alcuni deputati conservatori dissidenti di stendere una brochure – dal titolo Camera e Ministero –, uscita senza firma il 27 marzo, in cui si esponeva la posizione del gruppo, favorevole a una intesa programmatica con Francesco Crispi e l’ala della Pentarchia a lui vicina. Si rinunciava, così, a garantire «governi di partito, non governi di coalizione» a favore della costituzione di «un Governo autorevole». La crisi si risolse il 4 aprile con la formazione dell’ultimo gabinetto guidato da Depretis, con Crispi all’Interno, Giuseppe Zanardelli alla Giustizia, Michele Coppino all’Istruzione pubblica, e un netto spostamento dell’asse politico a sinistra. La collaborazione tra lo statista siciliano e Salandra portò all’adozione della legge 10 luglio 1887, n. 4665, Modificazione alla tariffa doganale e altri provvedimenti finanziari, con l’aumento del dazio di importazione sul grano e frumento da 1,40 a 3,75 lire al quintale: una misura con implicazioni di ordine economico, politico e sociale, ma che – secondo il relatore Salandra – non avrebbe causato un rincaro delle farine e del pane.

Tra febbraio 1891 e marzo 1896, dall’insediamento del primo governo di Rudinì alla definitiva uscita di scena di Crispi – tranne la parentesi del gabinetto Giolitti dal maggio del 1892 al dicembre del 1893 – Salandra fu ripetutamente sottosegretario alle Finanze e al Tesoro nei dicasteri diretti da Giuseppe Colombo, Luigi Luzzatti e Sonnino. L’obiettivo principale degli esecutivi guidati da Rudinì – ripianare il deficit di bilancio – vide confrontarsi chi voleva la riduzione delle notevoli spese amministrative e altri, con il marchese siciliano in testa, che optavano per un incremento dell’imposizione fiscale, soprattutto delle tasse di successione per i patrimoni superiori alle 500 lire, oltre all’istituzione del monopolio dei fiammiferi. Nel maggio del 1892 – uscito dal governo il ministro delle Finanze Colombo, contrario a tali misure – i deputati votarono la sfiducia sul progetto, provocando la caduta della maggioranza. Salandra si astenne nella votazione di fiducia al nuovo gabinetto, presieduto da Giovanni Giolitti, che risultò assai risicata e tale da costringere l’uomo politico piemontese a chiedere al sovrano lo scioglimento della Camera e ai colleghi l’esercizio provvisorio per sei mesi.

Nell’autunno del 1893, dopo la rielezione del 6 novembre 1892, Salandra negoziò l’ingresso del gruppo di Centro nella compagine ministeriale guidata da Crispi, tentando di coniugare un piano di risanamento economico con l’introduzione di un pacchetto impositivo in grado di fornire – scrisse a Sonnino – un «risultato più sicuro e immediato senza nuove inquisizioni e tormenti morali ai contribuenti» (Sonnino, 1981, pp. 70 s.). Gli sforzi coordinati di Sonnino e Salandra per il risanamento del deficit – in aperto dissidio con la politica coloniale crispina – si avvertirono in misura più consistente sui bilanci degli ultimi anni dell’Ottocento, fino a raggiungere e superare l’obiettivo del pareggio con l’esercizio 1898-99.

Esauritasi l’esperienza dei gabinetti di Rudinì, il generale Luigi Pelloux formò un ministero con figure di spicco della Sinistra costituzionale, che si dimise nel maggio del 1899 per non essere battuto a Montecitorio sulla politica estera e si ricostituì sotto l’influenza determinante di Sonnino, con Salandra ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, carica che costituì soltanto una parentesi al termine della quale iniziò per lui un lungo periodo di opposizione al nuovo corso dominato da Giolitti.

Negli anni compresi tra la formazione – nel febbraio del 1901 – del ministero Zanardelli-Giolitti e la caduta dell’esecutivo diretto da quest’ultimo, nel marzo del 1905, l’attenzione del deputato di Lucera si concentrò su tre aspetti: la politica tariffaria sui cereali, la ‘questione meridionale’ e il divorzio.

Due anni dopo la fine del primo brevissimo esperimento di governo con Sonnino tra febbraio e maggio 1906, durante il quale era stato ministro delle Finanze, Salandra ingaggiò una battaglia a proposito del mantenimento dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, tematica già dibattuta fin dal 1904, quando Vittorio Emanuele Orlando, allora al dicastero dell’Istruzione pubblica, aveva lasciato ai singoli comuni la facoltà di provvedervi. Nel febbraio del 1908 il contrastato argomento sbarcava a Montecitorio, con la mozione avanzata da Leonida Bissolati sull’importanza che l’esecutivo si impegnasse ad «assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma, l’insegnamento religioso» (L’insegnamento religioso nella scuola italiana, a cura di E. Catarsi, Milano 1989, p. 24). Essa venne respinta alla Camera con votazione per appello nominale e Salandra ne trasse motivo per compiacersi della solidità di certi elementi di coesione sociale che il liberalismo continuava a evidenziare. Quanto le ragioni del realismo politico prevalessero in Parlamento egli lo avrebbe sperimentato poco dopo, esattamente a partire dal 2 dicembre 1909, quando Giolitti – dopo la bocciatura della riforma tributaria basata su un’imposta progressiva globale, concernente i redditi di ricchezza mobile, i terreni e i fabbricati – rimise al re il proprio mandato e dieci giorni più tardi il sovrano conferì l’incarico a Sonnino il quale affidò all’amico il ministero del Tesoro. Il gabinetto, tuttavia, non ebbe sorte migliore del primo, sia perché proponeva un programma così vasto da non poter essere realizzato, sia a causa della scarsa duttilità del leader di San Casciano, aggravata dalla mancanza di una maggioranza stabile e indipendente dalla figura di Giolitti. Vittorio Emanuele III – posto di fronte all’avversione della Camera per la soluzione avanzata riguardo alle convenzioni marittime – non poté firmare il decreto di convocazione dei comizi elettorali e a Sonnino non rimase altro che presentare, il 21 marzo 1910, le dimissioni dell’intero esecutivo, lasciando di fatto la porta aperta per il ritorno dello statista piemontese. Prima che quest’ultimo riprendesse il potere vi fu una parentesi di circa un anno – durata fino alla primavera del 1911 – nel corso della quale il governo rimase nelle mani di Luzzatti. Il momento che riassunse meglio la posizione tenuta da Salandra nei confronti del nuovo ministero fu quello del dibattito sul disegno di legge riguardante il monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita il cui andamento – tra giugno 1911 e febbraio 1912 – fu scandito da una campagna di stampa a esso ferocemente avversa. Salandra fu contrario al monopolio perché non era giustificato da un ‘supremo interesse pubblico’ e perché votando a favore si accrescevano – a suo avviso – i rischi per un parlamentarismo prossimo alla crisi e i pericoli per la tenuta delle istituzioni liberali.

La XXIII legislatura – inaugurata nel 1909 – fu sciolta nel settembre del 1913 con un decreto che indiceva le elezioni per il 26 ottobre, elezioni che videro Giolitti vincitore, grazie al ‘patto Gentiloni’. Il 17 dicembre Salandra invitò i colleghi a votare la fiducia al ministero in nome dell’auspicata nascita di un partito unitario delle classi medie e dell’attuazione di una politica estera che consentisse di «mantenere alto il nostro posto nel mondo» (De Biase, 1919, p. 105), pronunciando una strenua difesa del liberalismo uscito indebolito dalla prova elettorale del ‘quasi suffragio universale’.

Nel febbraio successivo, Giolitti si vide respingere il progetto di legge per la precedenza del matrimonio civile su quello religioso e presentò al re le dimissioni dell’esecutivo. L’ipotesi di un mandato a Sonnino, con l’eventuale sostegno di Bissolati e della sua corrente, tramontò nel volgere di ventiquattr’ore. Giolitti indicò allora al sovrano Salandra come suo successore e riuscì – su richiesta del deputato pugliese – a convincere il ministro degli Affari esteri, Antonino Paternò Castello di San Giuliano, a rimanere alla Consulta. La crisi fu breve e già il 21 marzo l’esecutivo poté insediarsi. Lo formavano tre deputati della Sinistra zanardelliana, Ferdinando Martini alle Colonie, Augusto Ciuffelli ai Lavori pubblici e Luigi Rava alle Finanze, mentre il Centro e la Destra erano rappresentati da Luigi Dari alla Giustizia, Luigi Rubini al Tesoro, Edoardo Daneo all’Istruzione pubblica, Giannetto Cavasola all’Agricoltura, Industria e Commercio e Vincenzo Riccio alle Poste e Telegrafi; alla Guerra fu chiamato il generale Domenico Grandi e alla Marina confermato l’ammiraglio Enrico Millo. Il 5 aprile il voto della Camera fu di 303 voti favorevoli, 122 contrari e 9 astenuti.

La parola d’ordine del rassemblement lanciata da Salandra alle sparse forze liberali – che soltanto l’autorevolezza di Giolitti aveva trasformato in maggioranza – si presentava di difficile realizzazione. La dichiarazione di Vittorio Emanuele Orlando riassunse lo spirito con cui era stata data la fiducia: attesa positiva, anche se non sempre adesione, per l’esperimento di un ‘grande partito liberale’ che si contrapponesse all’estrema sinistra e favorisse una collaborazione con cattolici e nazionalisti, cercando anche il sostegno di una parte della grande borghesia italiana. La verifica fu data da due avvenimenti: le elezioni amministrative del giugno-luglio 1914 e i tumulti della Settimana rossa che investirono la penisola tra il 7 e il 14 giugno e furono prontamente sedati. Le consultazioni videro prevalere – a Torino, Genova, Firenze e Roma – i ‘contratti clerico-moderati’, favoriti dall’esecutivo ed estesi, nella capitale, ai nazionalisti. Ciò determinò il rafforzamento di Salandra e dell’esecutivo.

L’attentato che ebbe come vittime l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie fu la motivazione ufficiale perché – dopo l’ultimatum di Vienna alla Serbia – tra il 31 luglio e il 4 agosto si mobilitassero la Russia, la Germania, la Francia e il Regno Unito. Salandra, nonostante il patto che legava l’Italia a Vienna e Berlino, dichiarò la neutralità il 3 agosto, senza aver consultato Giolitti e Sonnino: il primo dette il proprio assenso, il secondo – irritato per la decisione – voleva scendere in campo al fianco delle potenze centrali; di San Giuliano tenne un atteggiamento prudente perché, pur cosciente dei pericoli della neutralità, restava dubbioso sugli alleati da scegliere. Alla sua morte – avvenuta il 16 ottobre – Salandra assunse l’interim degli Esteri fino al rimpasto, avvenuto il 5 novembre, con Sonnino alla Consulta e Orlando alla Giustizia. Il 3 dicembre il presidente del Consiglio espose alla Camera le linee di politica estera affermando che l‘Italia intendeva tutelare le proprie legittime aspirazioni. Il 5 dicembre a Montecitorio Giolitti sostenne la correttezza della posizione italiana, rivelando che già nel 1913 l’Austria-Ungheria avrebbe voluto muovere guerra alla Serbia ma, per l’art. 7 del trattato di Alleanza, l’Italia aveva ritenuto che non esistessero le condizioni per un intervento. Il 17 dicembre – in sostituzione dell’ambasciatore tedesco Hans von Flotow – Berlino inviò a Roma l’ex cancelliere Bernhard Heinrich Karl von Bülow, mentre iniziavano le trattative con Vienna, che sostituì il ministro degli Esteri Leopold von Berchtold con István Burián von Rajecz. Ovviamente le parti avevano obiettivi diversi sulle concessioni territoriali da ottenere o da accordare; alla luce dell’incertezza di Salandra e della volontà di Sonnino di raggiungere – anche con la guerra – gli obiettivi prefissati, il quadro era molto complesso. I due statisti trovarono il definitivo punto d’incontro nella decisione di sottoscrivere il Patto di Londra il 26 aprile 1915.

Perdurando l’esasperante (e voluta da entrambe le parti) lentezza delle trattative, il 3 marzo Sonnino aveva inviato all’ambasciatore a Londra, Guglielmo Imperiali, il cosiddetto telegrammone, che conteneva le condizioni alle quali il Paese sarebbe entrato nel conflitto a fianco dell’Intesa. Pochi giorni dopo, Salandra riceveva la fiducia di Giolitti in Parlamento, non avendolo però informato delle trattative con Londra. Il 3 maggio Sonnino decise la denuncia della Triplice Alleanza e la cessazione di ogni colloquio. Il 9 maggio Giolitti arrivò a Roma, accolto alla stazione Termini da dimostrazioni ostili di studenti e nazionalisti. Ricevette Pietro Bertolini che si proponeva come tramite per un incontro con Salandra; poco dopo arrivò Paolo Carcano per comunicargli che gli accordi con l’Intesa si erano conclusi positivamente. Giolitti reagì facendo presente la scarsa preparazione militare e la debole tenuta del Paese: prevedette altresì il protrarsi del conflitto per lungo tempo, la probabile invasione degli austro-tedeschi e la rivoluzione interna. La mattina seguente, a villa Ada, nel colloquio con il re – che aveva incontrato Salandra il pomeriggio precedente – espose le stesse preoccupazioni, aggiungendo che la guerra si poteva evitare accettando le proposte austriache di cui aveva avuto notizia da un deputato in costante contatto con Bülow. Uscito Giolitti, dal sovrano arrivò Salandra per riaffermare la disponibilità alle dimissioni del suo ministero, prestandosi a ‘combinarne’ il rovesciamento alla riapertura della Camera prevista per il 20 maggio. Recatosi all’abitazione di Salandra, Giolitti parlò delle nuove concessioni, controfirmate in calce da Bülow e dall’ambasciatore austriaco Karl Macchio e, all’obiezione che non erano valide se non fatte ufficialmente al governo, egli si fece garante perché pervenissero a Salandra e Sonnino e fossero rese note al Parlamento e al Paese. Il presidente del Consiglio ammise di essersi spinto troppo oltre e per questo doveva dimettersi. Giolitti ribadì che l’esecutivo doveva restare al proprio posto, anche per ‘coprire’ meglio il sovrano. Salandra si recò alla Consulta per informare Sonnino, il quale osservò che l’esecutivo poteva dimettersi soltanto per la sfiducia della Camera «o, almeno, di un forte numero di deputati costituzionali» (Il diario di Salandra, 1969, p. 39) su richiesta di Giolitti, ma Salandra obiettò che non poteva costringerlo a ciò anche perché quella condotta non sarebbe convenuta allo statista piemontese. Il plico arrivato, nel frattempo, dall’ambasciata di Germania, con una lettera di accompagnamento di Bülow, elencava le concessioni che l’Austria-Ungheria era disposta a fare e che evidenziavano come non fosse più possibile appellarsi a proposte insufficienti. Non restava che rifiutare, con motivazioni convincenti, le offerte di Vienna oppure ammettere l’esistenza del Patto di Londra. Il 12 e 13 maggio si tennero due consigli dei ministri. Nel primo Salandra riferì del colloquio con Giolitti; il giorno seguente – con l’accordo dei colleghi – decise di presentare le dimissioni del gabinetto. Lo statista piemontese, chiamato dal re a villa Ada nel pomeriggio del 14 maggio rifiutò l’incarico offertogli, facendo al sovrano i nomi di due radicali, il presidente della Camera Giuseppe Marcora e Carcano, su posizioni interventiste. Ma entrambi, il mattino seguente, declinarono l’invito. Il giorno dopo Vittorio Emanuele III chiamava l’anziano deputato Paolo Boselli e, neppure mezz’ora più tardi dalla fine del colloquio, l’Agenzia Stefani diffondeva la notizia che il re respingeva le dimissioni del gabinetto. Il 20 maggio la Camera votava i pieni poteri per la dichiarazione di guerra che venne ufficializzata quattro giorni dopo.

Salandra e Sonnino avevano deciso da soli l’ingresso dell’Italia nel conflitto, ma dopo l’iniziale consenso dell’opinione pubblica, durato fino all’autunno 1915, iniziarono a palesarsi le prime difficoltà. In particolare, si evidenziarono «nella condotta della guerra sia scollamento tra disegno politico e direzione militare (iI Capo di stato maggiore corrisponde con il governo attraverso il ministro della guerra, che, tuttavia, non viene tenuto al corrente dei suoi passi dal presidente del Consiglio dei ministri Salandra; il piano di operazioni è comunicato da Cadorna al re, ma non al governo), sia attriti tra governo e comando supremo» (Cassese, 2014, pp. 214 s.). A indebolire ulteriormente la posizione del ministero contribuirono diversi e concomitanti fattori. Prima di tutto, il sistematico rifiuto del presidente del Consiglio – da ultimo nel marzo 1916 – di allargare la base del governo ai radicali, per farne un esecutivo di unità nazionale; in secondo luogo, l’incapacità di rivolgere ai Paesi alleati una campagna propagandistica adeguata sul conflitto che andasse al di là dei tradizionali canali diplomatici. Infine, l’oggettiva differenza degli obiettivi tra l’Italia – che metteva in primo piano, anche rispetto ai territori irredenti, i propri interessi nell’Adriatico – e l’Intesa, il cui obiettivo principale era lo ‘schiacciamento’ della Germania. Di conseguenza, la sorte del governo era già segnata: Salandra era stato contestato dalla piazza a Torino nel febbraio 1916. Era solo questione di tempo, come doveva dimostrare la Strafexpedition lanciata, con successo, a metà maggio dagli austro-tedeschi e le conseguenti dimissioni del gabinetto il 10 giugno successivo.

A partire da quel momento – nonostante le voci su una possibile combinazione nel dicembre 1916 fra Salandra e Giolitti e il discorso al teatro Augusteo di Roma il 20 novembre 1918 che riscosse un certo successo – la carriera dello statista pugliese imboccò la parabola discendente. Lo testimoniava il suo comportamento in seno alla delegazione italiana alla Conferenza della pace di Parigi, di cui fece parte nella prima fase per poi declinare l’incarico nella seconda, dopo l’aprile 1919, e soprattutto le vicende che portarono alla marcia su Roma, nell’ottobre 1922, con il profilarsi e l’altrettanto repentino tramonto di una sua presidenza del Consiglio in combinazione con i fascisti. Dopo la presa del potere di Benito Mussolini, Salandra, eletto nel listone fascista nel 1924, venne nominato presidente della giunta del Bilancio fino al 1925 e, già nel 1923, rappresentante italiano alla Società delle Nazioni di Ginevra, dove concorse a risolvere per via diplomatica la ‘questione di Corfù’, occupata dall’Italia nell’agosto di quello stesso anno. L’ultimo atto del suo percorso fu, dopo la ‘crisi Matteotti’, quello del 16 gennaio 1925, quando tolse, assieme a Vincenzo Riccio, e contrariamente a quanto deciso dal gruppo liberale-nazionale da lui presieduto, il proprio appoggio al governo fascista. La nomina a senatore del 20 maggio 1928 lo raggiunse quando era ormai fuori dalla vita politica e intento a scrivere i due libri sulla neutralità e l’intervento.

Morì a Roma il 9 dicembre 1931.

Scritti e discorsi. La politica nazionale e il Partito liberale, Milano 1912; Politica e legislazione, saggi raccolti da G. Fortunato, Bari 1915; I discorsi della guerra con alcune note, Milano 1922; La neutralità italiana, 1914. Ricordi e pensieri, Milano 1928; L’intervento, 1915. Ricordi e pensieri, Milano 1930; Memorie politiche 1916-1925, Milano 1951; Il diario di Salandra, a cura di G.B. Gifuni, Milano 1969; Discorsi parlamentari, I-III, Roma 1969; Salandra inedito, a cura di G.B. Gifuni, Milano 1973.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Fondo Salandra, bb. 1-10; Lucera, Biblioteca comunale Ruggero Bonghi, Carte Salandra. Inoltre: C. De Biase, A. S., Roma 1919; G. Giolitti, Memorie della mia vita, con uno studio di O. Malagodi, I-II, Milano 1922, ad indices; A. Codacci-Pisanelli, La trattazione e l’insegnamento delle discipline amministrative secondo A. S., in Scritti della facoltà giuridica di Roma in onore di A. S., Milano 1928, p. 3-27; C. Sprigge, Il dramma politico dell’Italia, Roma 1945, ad ind.; E. Ferraris, La marcia su Roma veduta dal Viminale, Roma 1946, ad ind.; O. Malagodi, Conversazioni della guerra. 1914-1919, a cura di B. Vigezzi, I-II, Milano-Napoli 1960, ad indices; F. Martini, Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1966, ad ind.; L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di O. Barié, I, Dalla guerra di Libia alla Grande Guerra, Milano 1968, ad ind.; P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Bari 1969, ad ind.; B. Vigezzi, Da Giolitti a S., Firenze 1969; A. Rèpaci, La Marcia su Roma, Milano 1972, ad ind.; S. Sonnino, Diario 1914-1916, a cura di P. Pastorelli, II, Bari 1972, ad ind.; Id., Carteggio 1914-1916, a cura di P. Pastorelli, I-II, Roma-Bari 1974, ad indices; Id., Carteggio 1891-1913, a cura di B.F. Brown - P. Pastorelli, I, Roma-Bari 1981, ad ind.; M.M. Rizzo, Politica e amministrazione in A. S. (1875-1914), Galatina 1989; G.A. Haywood, Failure of a dream. Sidney Sonnino and the rise and fall of liberal Italy (1847-1922), Firenze 1999, ad ind.; F. Lucarini, La carriera di un gentiluomo. A. S. e la ricerca di un liberalismo nazionale (1875-1922), Bologna 2012; S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna 2014, ad ind.; A. Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, Bologna 2015, ad ind.; Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze 2015, pp. 19-39, 105-123; Camera dei Deputati, Portale storico, http://storia. camera.it/deputato/antonio-salandra-18530813 #nav; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, III, Senatori dell’Italia fascista, sub voce, http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/S_f?OpenPage.

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