Antropologia cognitiva

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Antropologia cognitiva

Vincenzo Matera

Per a. c. s'intende il settore dell'antropologia culturale che studia le funzioni cognitive umane in connessione con i contesti culturali in cui tali funzioni si esplicano. L'a. c. (o etnoscienza) è nata come sviluppo dell'ambito di studi inaugurato dall'etnologo tedesco F. Boas dopo il trasferimento negli Stati Uniti, dove fondò la scuola di linguistica antropologica. Influenzato dalle idee di K.W. von Humboldt e sulla base di un'intensa attività di ricerca empirica presso gli Indiani d'America, Boas sottolineò il nesso fra lingua, pensiero e realtà. E. Sapir e B.-L. Whorf proseguirono lungo il filone aperto da Boas e proposero una forma estrema di relatività linguistica, nota come ipotesi di Sapir-Whorf, secondo cui la lingua che parliamo modella i nostri pensieri e comportamenti; categorie e distinzioni codificate in un sistema linguistico sono peculiari di quel sistema e non sono commensurabili con quelle di altri sistemi.

Gli studi di Boas, Sapir e Whorf furono ripresi, su basi modificate, dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. Il principio della relatività linguistica, in precedenza un postulato indiscutibile, divenne un principio da verificare e, eventualmente, da confutare. Parallelamente al graduale declino del principio della relatività linguistica (Lucy 1992), si è affermata la tendenza universalista di B. Berlin, influenzata dalle tesi di A.N. Chomsky sull'apprendimento linguistico. Qui di seguito vengono delineati alcuni dei principali sviluppi empirici e teorici dell'a. c. riguardanti la percezione, il linguaggio e, infine, le funzioni cognitive più elevate.

La percezione del colore

Gli studiosi hanno scelto, fra gli altri, il campo semantico del colore per sottoporre a controllo le tesi del relativismo linguistico. In un lavoro del 1969, Basic color terms, Berlin e P. Kay proponevano un'ipotesi forte sulla visione del colore, in cui dato biologico e dato culturale sono entrambi tenuti in considerazione. Gli autori dimostrano che tratti universali del sistema percettivo umano impongono dei limiti ai sistemi terminologici di colore delle lingue in tutto il mondo, tali che dal numero teoricamente molto ampio di possibili configurazioni si arriva a un numero molto basso e prevedibile. Le critiche dal versante relativista non si sono fatte attendere: per quest'ultimo, infatti, l'ipotesi degli universalisti non considera le determinanti culturali; di conseguenza il metodo di indagine non è adeguato a cogliere la dimensione culturale del sistema cognitivo dei colori (Cardona 1990). Il punto cruciale delle posizioni relativiste, insomma, è che la visione e la denominazione dei colori vengono mediate dalle pratiche culturali (Conklin 1955; Tornay 1978). Se, infatti, dal punto di vista della fisiologia la visione è un processo universale, da un altro punto di vista l'uomo vede soltanto i colori che ha imparato culturalmente a riconoscere.

L'analisi componenziale

Le categorie linguistiche sono lo strumento per avere accesso alle categorie culturali. Alla base dell'a. c. c'è l'idea della cultura come fatto mentale: la cultura di una società consiste di tutto ciò che un individuo deve sapere o credere per comportarsi in un modo corretto e accettabile dai membri della società stessa. Ne consegue che l'etnoscienziato deve prendere l'avvio dalla raccolta di tutte le parole che appartengono a un determinato dominio semantico: per es., quello della parentela, quello dei colori o del mondo vegetale. Si ottiene così una folk classification. Quindi, secondo le procedure dell'analisi componenziale, che consiste nello scomporre le parole nei loro elementi semantici e nel mettere in luce le relazioni di opposizione esistenti tra gli elementi, si chiariscono le modalità cognitive di organizzazione del campo in questione, costruendone un modello che, secondo un'ipotesi 'forte', dovrebbe corrispondere a una sorta di mappa mentale dei parlanti. L'analisi componenziale presenta tuttavia alcuni limiti, come l'impossibilità di essere sottoposta a verifica, la sua stessa estrema complessità, il fatto che resta oscuro il rapporto fra il modello semantico costruito e le strutture psicologiche e cognitive dei nativi (Cardona 1986; Foley 1997).

Tassonomie, partonomie e altri modelli cognitivi

La relazione di inclusione può assumere due forme: l'elemento x è un tipo di X (passero è un tipo di uccello); l'elemento y è una parte di Y (dito è parte della mano). La prima forma logica è alla base delle tassonomie, mentre la seconda è alla base delle partonomie (Wierzbicka 1985; Berlin 1992; Foley 1997). Molta parte delle nostre conoscenze è organizzata secondo modelli di questo tipo. Per gli universalisti i principi logici da cui derivano le relazioni di opposizione e di inclusione dipendono da facoltà innate della mente. Attraverso la metafora informatica, come il processore di un computer può elaborare dei dati secondo un programma stabilito, così la mente opererebbe in base a processi psicologici determinati dal bagaglio innato degli esseri umani. Gli universalisti, tra cui il citato Berlin, sostengono l'indipendenza delle classificazioni dalla mediazione culturale; gli esseri umani seguono la loro capacità innata di organizzare in categorie le differenze e somiglianze che si impongono all'attenzione in misura più o meno forte, ma che sono comunque presenti in natura.

Il principio dei contorni sfumati

La nostra costruzione conoscitiva della realtà procede secondo il principio dei contorni sfumati, che concerne il grado di nettezza delle definizioni (Berlin 1992). Gran parte delle configurazioni con cui lavora il cervello degli esseri umani (parole, significati, forme visive, immagini) è riconosciuta all'istante, ma questo meccanismo ammette un certo margine di indeterminatezza. Ciò ci distingue dal computer: un calcolatore riconosce due istruzioni come uguali solo se lo sono anche nei dettagli; il nostro cervello ci consente invece di correggere l'errore, entro certi margini. Se non avessimo la capacità di riconoscere, con un certo margine, la parola, il significato, l'immagine, riportandola alla sua classe astratta e, quindi, di riconoscere come identiche occorrenze che in realtà non lo sono, i nostri processi cognitivi risulterebbero impediti e, insieme, lo stesso processo complessivo della comunicazione. Uguale discorso vale per le configurazioni mentali (taxa, cioè nuclei concettuali delimitabili). È questa la base della teoria del prototipo e dei concetti politetici, elaborata negli anni Settanta dalla psicologa cognitiva E. Rosch (Rosch, Mervis 1975) e utilizzata anche in ambito antropologico. Nella teoria del prototipo il significato è inteso come uno schema cognitivo, al quale un certo esemplare si conforma più o meno precisamente. Il taxon 'uccello' sarà preciso al centro, dove trovano posto gli esemplari tipici (passero, rondine, ecc.), ma sempre più sfumato ai bordi (struzzo, pinguino). I concetti politetici consentono di porre, a fianco dell'organizzazione ad albero dei livelli di una tassonomia, un'organizzazione orizzontale, relativa a rapporti tra elementi della stessa categoria fondati su criteri percettivi, funzionali, affettivi, sinestetici, di contiguità spaziale o metaforica. Accanto alla tassonomia, che resta una modalità importante dell'organizzazione conoscitiva del mondo, vanno indicati gli schemi prototipici, le classificazioni politetiche e quelle analogico-associative. Dal punto di vista teorico, ciò che appare rilevante nell'a. c. è la convergenza dell'antropologia e della neuropsicologia sul terreno delle scienze cognitive. Tuttavia, se attribuire tutto il pensiero e il comportamento umani a premesse culturali è un errore, può esserlo anche attribuirli interamente al cervello. Secondo B. Shore (Shore 1996), l'avvicinamento di a. e psicologia cognitive può realizzarsi nell'ambito di una teoria della cognizione basata sulla nozione di ragionamento analogico.

Gli uomini possono imporre significati al mondo costruendo nuovi modelli perché il pensiero umano è analogico, in grado di riconoscere modelli a partire da input sensoriali. Il cervello in questo senso appare costantemente impegnato in una dialettica con l'ambiente, nel corso della quale i modelli sono imposti su nuovi dati e possono venire modificati per far fronte a nuove situazioni. Questo permette lo studio dei tratti culturali come legati al pensiero individuale e non più solo a una cultura collettiva, nozione, questa, che peraltro è sempre più difficilmente teorizzabile.

bibliografia

H.C. Conklin, Hanunóo color categories, Albuquerque 1955.

E. Rosch, C.B. Mervis, Family resemblances: studies in the internal structure of categories, in Cognitive psychology, 1975, 7, pp. 573-605.

S. Tornay, Voir et nommer les couleurs, Nanterre 1978.

A. Wierzbicka, Lexicography and conceptual analysis, Karoma 1985.

G.R. Cardona, Storia universale della scrittura, Milano 1986.

G.R. Cardona, I linguaggi del sapere, Roma 1990.

B. Berlin, Ethnobiological classification, Princeton 1992.

J.A. Lucy, Grammatical categories and cognition. A case study of the linguistic relativity hypothesis, Cambridge 1992.

B. Shore, Culture in mind: cognition, culture and the problem of meaning, New York 1996.

W.A. Foley, Anthropological linguistics: an introduction, Cambridge (Mass.) 1997.

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