Antropologia culturale

Universo del Corpo (1999)

Antropologia culturale

Francesco Remotti

L'antropologia culturale (espressione utilizzata dagli studiosi nordamericani) o sociale (come la definiscono invece gli autori di scuola britannica) ha come oggetto di studio la cultura (intesa come insieme di usi e costumi) delle popolazioni, e in particolare la natura dei fenomeni culturali e il loro concreto manifestarsi, mutevole nello spazio e nel tempo, nelle diverse società umane; i comportamenti adottati dai gruppi umani per far fronte alle necessità materiali e spirituali; nonché le concezioni della realtà da essi elaborate per spiegare e giustificare la propria posizione e funzione nel mondo. Per qualche aspetto, l'antropologia culturale è una scienza sociale molto vicina all'etnologia, che, a partire dagli anni Trenta di questo secolo, si è dedicata essenzialmente alla comparazione di culture etnograficamente e storicamente documentate.

L'uomo diviso: organismo e cultura

Quando tra Ottocento e Novecento si fa strada l'idea di una scienza antropologica distinta dall'antropologia fisica, sembra quasi che la linea di distinzione corra tra sfere o tipi di realtà nettamente separati: da un lato, l'antropologia fisica che studia l'uomo nella realtà biologica e dunque nella sua corporeità; dall'altro, l'antropologia culturale (come si era cominciato a dire negli Stati Uniti) o l'antropologia sociale (come si preferiva dire in Gran Bretagna), la quale invece indaga l'uomo nelle sue manifestazioni culturali e sociali, e dunque (si potrebbe arguire) nella sua spiritualità. Struttura biologica o naturale, da una parte, struttura spirituale o storica, dall'altra, sembrano essere i due campi fondamentali in cui si suddivide e si articola l'antropologia come scienza generale.

Ad avallare una concezione del genere veniva in soccorso la cultura filosofica tedesca della fine dell'Ottocento, secondo la quale esistevano da un lato le Naturwissenschaften ('scienze della natura') e dall'altro le Kulturwissenschaften ('scienze della cultura') o Geisteswissenschaften ('scienze dello spirito'). 'Cultura' e 'spirito' tendevano ad avvicinarsi e a presentarsi come termini sinonimi o come oggetti in qualche modo sovrapponibili, in virtù della loro comune opposizione alla realtà naturale. Interpretata in tal modo, l'antropologia culturale corrispondeva a ciò che in Germania, in Francia, in Italia si continuava a chiamare 'etnologia', ovvero lo studio dei prodotti della spiritualità dell'uomo in condizioni di primitività, cioè in società prive di scrittura.La distinzione tra antropologia fisica e antropologia culturale non concerneva però soltanto tipi di oggetti o di ambiti di indagine (natura/cultura, oppure natura/spirito); riguardava anche i metodi impiegati: l'antropologia fisica rientrava, infatti, nella prospettiva delle scienze naturali con i loro metodi generalizzanti, di contro l'antropologia culturale (similmente all'etnologia) si collocava soprattutto tra le scienze storiche, caratterizzate da interessi per la ricostruzione di processi e di contesti, anziché di leggi.

Sia sul piano degli oggetti, sia sul piano dei metodi prevaleva un criterio di fondamentale e inequivocabile distinzione, come se il discorso scientifico sulla realtà umana ('antropologia') fosse realizzabile su due versanti opposti: quello del corpo (delle sue strutture, dei suoi meccanismi, delle sue funzioni biologiche) e quello dello spirito (delle sue modalità, delle sue manifestazioni, dei suoi prodotti). La separazione metodologica, oltre a quella degli ambiti di realtà, si configurava come una garanzia ulteriore contro i rischi di infiltrazione e di sovrapposizione tra prospettive disciplinari diverse. Alla base della distinzione metodologica, però, pare proprio di avvertire una separazione che a lungo ha contraddistinto l'antropologia espressa dal pensiero occidentale, ovvero la separazione dell'uomo tra corpo e anima, tra organismo biologico e spirito, intesi come due realtà del tutto diverse, organizzate in base a principi, regole, caratteristiche opposti.In effetti, se consideriamo non soltanto le origini delle due prospettive disciplinari, ma anche gli sviluppi che esse hanno avuto nel Novecento, è facile constatare come quasi mai si siano verificate connessioni, ricerche di relazioni, intrecci tra metodi, confronti di obiettivi e di risultati. Nella configurazione generale dell'antropologia scientifica del Novecento, è prevalso il criterio della separazione tra i due tipi di ricerca antropologica sulle possibilità di coordinamento, connessione o comunicazione. È un fatto difficilmente contestabile la maggiore vicinanza, assimilabilità e contiguità dell'antropologia culturale con le altre scienze umane, sociali e storiche (dalla sociologia alla psicologia, dalla storia alla critica letteraria, alla stessa letteratura), rispetto all'antropologia fisica. Il modo di argomentare e il tipo di analisi dell'antropologo fisico da un lato e dell'antropologo culturale dall'altro denunciano una distanza reciproca e un'appartenenza ad ambiti disciplinari così diversi che non si può evitare di porsi il problema della loro separazione.

È impossibile, infatti, non chiedersi per quali motivi si siano organizzati sull'uomo discorsi scientifici così diversi; in base a quali ragioni siano emerse strategie scientifiche tanto lontane e opposte; in virtù di quali principi, pretese o ambizioni entrambe le prospettive rivendichino comunque, ognuna per proprio conto, il diritto di essere riconosciute come antropologia.Una delle motivazioni è l'esistenza di un''antropologia' precedente alla formazione delle due prospettive antropologiche (antropologia fisica e antropologia culturale), la cui caratteristica distintiva sarebbe proprio la separazione tematica e oggettuale tra la dimensione organica (corpo) e la dimensione culturale (spirito). Sotto questo profilo, antropologia fisica e antropologia culturale non sarebbero altro che la riproduzione, in termini di organizzazione scientifica (paradigmi, metodi, tradizioni, comunità), di un'opposizione le cui radici sono culturali e storiche, e anzi teologiche, piuttosto che scientifiche, ossia la distinzione e separazione tra corpo e anima, a cui il pensiero occidentale dimostra di essere fedele anche quando si propone come discorso scientifico. In altri termini, è possibile che l'opposizione, la separazione, la non comunicazione tra antropologia fisica e antropologia culturale siano motivate da un'antropologia 'implicita' e 'prescientifica', di cui l'una e l'altra subiscono i condizionamenti. Il principio basilare di questa antropologia è che corpo e anima (spirito, cultura) non soltanto siano fatti in modo radicalmente diverso, ma anche che obbediscano a destini separati, ovvero che quanto avviene nell'organismo non abbia un particolare significato o una particolare incidenza sulla cultura e viceversa.

Per illustrare questa duplicità di impostazione è particolarmente utile considerare la teoria dei livelli, formulata da A.L. Kroeber (uno dei maggiori esponenti dell'antropologia culturale) nella prima metà del Novecento. Proprio all'inizio di The superorganic, un articolo pubblicato nel 1917, egli si richiama esplicitamente alla coppia oppositiva 'corpo' e 'anima' come a una distinzione su cui la nostra civiltà ha riflettuto per diversi millenni, riconoscendo in tal modo una certa analogia, o una certa continuità, con la distinzione tra 'organico' e 'culturale', su cui intende concentrarsi. È importante prendere in esame le considerazioni svolte da Kroeber in quel suo testo, in quanto indicative del modo in cui l'antropologia culturale rivendica il proprio territorio disciplinare nell'ambito più vasto dell'antropologia. "L'antropologia" egli afferma "può essere biologia" da un lato e "può essere storia" dall'altro; inoltre "può essere un tentativo di accertare il rapporto tra l'una e l'altra"; ciò che non può essere, perché improponibile scientificamente, è un miscuglio dell'una e dell'altra (Kroeber 1952, trad. it., p. 67). La differenza tra organico e ciò che organico non è risulta evidente, secondo Kroeber, persino ai "più arretrati selvaggi" (p. 42). La cultura, che l'uomo acquisisce e produce, trova la sua sede precipua nello spazio interorganico, o extraorganico, lo spazio che si determina nelle relazioni sociali tra gli individui e che li sovrasta e li ingloba ('superorganico'). Gli eventi della cultura, i suoi processi, i suoi prodotti hanno una scarsa relazione con il corpo e intrattengono con l'organismo un rapporto di fondamentale estraneità. Organismo e cultura mutano entrambi nei rispettivi processi di sviluppo; ma le modalità dell'evoluzione organica da un lato e quelle dell'evoluzione culturale dall'altro sono del tutto differenti: tra organico e culturale vi è, secondo Kroeber (p. 47), una differenza non di grado, ma di genere, una differenza qualitativa e non meramente quantitativa.

Tra i due ordini di realtà vi è un 'balzo'; e l'evoluzione culturale, che si è innestata tardivamente sull'evoluzione organica, è dovuta a una 'profonda alterazione' (pp. 73, 88). Beninteso, l'emergere dell'evoluzione culturale non comporta alcuna modificazione delle leggi del mondo organico; ciò che si determina è invece "l'aggiunta di qualcosa di qualitativamente nuovo": non "un passo lungo un cammino, ma un balzo su un piano diverso" (p. 89). Non solo; ma le due evoluzioni (organica e culturale) dimostrano di operare con ritmi completamente diversi: di fronte alla velocità di trasformazione della cultura, l'organismo appare assai più lento e quasi statico, a tal punto che tra organismo e cultura si determina una forbice la cui divaricazione appare sempre più ampia. Alle complicazioni e specializzazioni della cultura non corrispondono modificazioni altrettanto significative da parte dell'organismo.

La distinzione tra corpo e cultura si è via via accentuata; è diventata una sorta di 'abisso', di 'iato', di cui i due generi di antropologi (quelli fisici e quelli culturali) occorre che prendano atto, incamminandosi rispettivamente sulle due sponde opposte, senza vantare alcuna illusoria pretesa di averlo varcato o di poterlo varcare tanto facilmente (p. 92).

Nel suo scritto, Kroeber aveva illustrato assai bene le motivazioni profonde che hanno indotto l'antropologia culturale a ritagliarsi un dominio separato, rivendicando anch'essa - in concorrenza con gli scienziati della sponda biologica - l'appellativo di 'antropologia'. In effetti, per quanto criticato, l'articolo di Kroeber ha contribuito a elaborare un paradigma scientifico (come direbbe T. Kuhn) in grado di legittimare la totale autonomia dell'antropologia culturale rispetto all'antropologia fisica. Ma, come lo stesso Kuhn ha posto in luce, ogni paradigma comporta dei limiti, impone dei prezzi; e nel caso del paradigma 'culturologico' dell'antropologia culturale, il prezzo pare essere consistito in una sorta di marginalizzazione dell'argomento 'corpo', lasciato per buona parte agli antropologi del versante naturalistico e biologico. Su questa divisione dell'essere umano in due sfere o livelli, intesi come realtà separate e autonome, si è infine stabilita una sorta di tacito accordo - condiviso, accettato, più che stipulato - tra i cui effetti pare essere la mancata tematizzazione del corpo da parte degli antropologi culturali nella storia della loro disciplina.

Tecniche e tradizioni del corpo

Abbiamo assunto la teoria di Kroeber come espressione emblematica della marginalità del corpo dal punto di vista dell'antropologia culturale. Sceglieremo ora un altro momento della storia del pensiero antropologico per dimostrare il movimento contrario, ossia la messa a fuoco della problematica del corpo dal punto di vista delle scienze sociali. Alla metà degli anni Trenta, in uno scritto piuttosto curioso e solitario, M. Mauss indica come 'terra incolta', come zona di confine 'alle frontiere delle scienze', la vasta, ramificata e ignota area del corpo e dei suoi usi. Mauss aggiunge che "è in queste zone mal suddivise che giacciono generalmente i problemi urgenti", e che prima ancora di indirizzarvi la ricerca occorre procedere a una definizione e denominazione adeguata (Mauss 1950, trad. it., p. 385). I rilievi critici di Mauss si attagliano bene alla zona d'ombra prodotta dall'antropologia culturale in merito al corpo. Ma vediamo ora l'impostazione che egli propone.Dopo aver constatato che sui terreni incolti (come gli argomenti attinenti al corpo) si è soliti segnalare la propria ignoranza con la scritta 'vari', la prima azione di Mauss consiste nella formulazione della categoria 'tecniche del corpo', con cui organizzare la nuova area d'indagine. Il presupposto è che "gli uomini, nelle diverse società, si servono [...] del loro corpo" (p. 385). Il corpo si configura in primo luogo come un mezzo; anzi, "il corpo è il primo e il più naturale strumento dell'uomo" (p. 392). Nella prospettiva di Mauss, l'uomo è innanzi tutto un animale habilis (p. 396), dotato di abilità che gli consentono di adattarsi all'ambiente e di garantire la propria sopravvivenza. Prima ancora di provvedere alla costruzione di strumenti e utensili esterni all'organismo, l'uomo si rivolge al proprio corpo utilizzandolo come uno strumento, facendone anzi lo strumento principale e fondamentale della sua dotazione tecnica.

Considerando il corpo come un 'oggetto tecnico' e come un 'mezzo tecnico' (p. 392), Mauss da un lato lo sottrae all'isolamento epistemologico in cui era stato relegato e dall'altro lo inserisce tra gli oggetti di cui le scienze sociali dovrebbero occuparsi. Nello stesso tempo egli dilata e articola il concetto di tecnica. In questa prospettiva, 'tecnica' non riguarda più soltanto l'apparato e le abilità della tecnologia meccanica (tecnica litica, tecnica metallurgica e così via), perché fra gli strumenti di cui l'uomo può disporre e che anzi egli stesso forgia il corpo viene a occupare una posizione assolutamente prioritaria: "prima delle tecniche basate sugli strumenti, c'è l'insieme delle tecniche del corpo" (p. 393). La dilatazione del concetto di tecnica non è però soltanto di ordine quantitativo (il corpo come oggetto o strumento in aggiunta agli utensili della tecnologia), ma anche qualitativo: il concetto di tecnica, quale emerge dalla nozione di 'tecniche del corpo', non comporta più soltanto un rapporto con l'ambiente esterno e un criterio di efficacia come adeguamento o capacità di trasformazione dell'ambiente, ma anche un riferimento esplicito all'aspetto della 'tradizione'. Secondo Mauss, tecnica è 'un atto tradizionale efficace' (p. 392), dove se l'elemento 'efficacia' rinvia all'idea di una 'forma' adeguata che la tecnica produce o in cui consiste, alla sua riconoscibilità, alla sua fruibilità, l'elemento 'tradizione' richiama invece il mondo dei 'simboli' e dei 'valori' (pp. 387, 393), dunque alla società in cui le tecniche vengono osservate e trasmesse. È molto probabile in effetti che la nozione di tecniche del corpo, così strettamente legata a quella di tradizione e di società, abbia assunto per Mauss un valore paradigmatico.

In generale, la tecnica (e non soltanto le tecniche del corpo) è inscindibile dalla tradizione: "non esiste tecnica [...] se non c'è tradizione" (Mauss 1950, trad. it., p. 392). Ed è l'elemento 'tradizionale' (l'incidenza delle tradizioni) ciò che distingue nettamente l'uomo dagli altri animali e che collega le tecniche ai particolari contesti storici e sociali, consentendone la trasmissione. La dimensione 'efficacia', in quanto rende una tecnica generalizzabile in vista di scopi e funzioni determinate, non è sufficiente a distinguere l'umanità dagli altri animali; la seconda dimensione ('tradizione') è invece tipicamente umana, e non solo contribuisce a distinguere l'uomo dagli altri esseri, ma diversifica significativamente gli uomini tra loro.L'importanza del contributo di Mauss all'elaborazione di un'antropologia del corpo consiste certamente nell'abbozzo morfologico e tipologico contenuto nel suo scritto (enumerazione e classificazione delle molteplici tecniche del corpo: dalle tecniche del parto a quelle dell'allattamento e dello svezzamento, dalle tecniche del sonno e del riposo a quelle del movimento e della danza, da quelle della consumazione del cibo a quelle dell'accoppiamento e così via); ma più ancora essa deriva dai suggerimenti e dagli approfondimenti della dimensione 'tradizione'.

Alla base dell'antropologia del corpo di Mauss vi è una triangolazione significativa: la nozione di 'tecnica', di 'oggetto' a cui essa si applica e di 'tradizioni' che informano la tecnica. L'innovazione, ciò che fa sì che dalle pagine di Mauss cominci ad affiorare un'antropologia (culturale) del corpo, è la considerazione delle tradizioni. Questo elemento pone la condizione per cui le tecniche del corpo non siano solamente il camminare, il mangiare, il copulare ecc. in quanto tali, ma il camminare, mangiare, copulare secondo certi modi socialmente trasmessi, modelli tipici di questa o quella società, di questo o quel gruppo sociale. L'aver impregnato la nozione di tecnica con l'elemento tradizione è come l'aver posto una sorta di filtro tra l'agire tecnico e i suoi obiettivi. Si tratta - potremmo dire - di uno schema a priori che guida e incanala le reazioni tecniche; ma, lungi dal generalizzare il comportamento tecnico, lo particolarizza: rende le sue forme e i suoi modi peculiari di società, situazioni, contesti.

Secondo Mauss, tutte le tecniche sono caratterizzate da questa 'specificità culturale' (p. 387): le 'forme' che assumono o a cui danno luogo risentono non soltanto del rapporto con l'oggetto e con i suoi obiettivi funzionali, ma anche delle 'abitudini' specifiche di ogni società. L'attività del mangiare, per es., è certamente una risposta a bisogni naturali dell'organismo; e le caratteristiche strutturali e funzionali di quest'ultimo impongono, unitamente ai condizionamenti ambientali, limiti piuttosto netti all'alimentazione (non si può mangiare di tutto, così come non si possono superare per difetto o per eccesso determinate soglie critiche). Ma l'argomento di Mauss è che entro certi limiti più o meno duri e invalicabili le tradizioni foggiano in modo più particolare le tecniche del corpo (come, beninteso, qualsiasi altra tecnica): non sono le funzioni organiche, sono invece le tradizioni culturali a dare una forma più definitiva alle tecniche del corpo. In questo modo il corpo assume veri e propri habitus, qualcosa di più che non le mere abitudini, in quanto habitus è l'ἕξις, "facoltà ed esperienza", di cui parla Aristotele (p. 389). Questi habitus variano da società a società, così come variano secondo le 'convenienze', le 'mode', il 'prestigio', in quanto hanno una 'natura sociale'. Inoltre, l'idea di uno schema tradizionale funzionante come filtro o incanalatore delle tecniche del corpo si abbina al concetto di una 'ragione pratica', la quale - secondo Mauss - opera a livello collettivo e individuale: questa ragione si esprime attraverso l'apparato degli habitus che adornano o foggiano il corpo, utilizzando 'simboli morali e intellettuali' ed esprimendo le 'scelte' che sono alla base delle varie tradizioni (pp. 389, 393 e 397).

Mauss non parla di antropologia culturale (bensì di sociologia) e non utilizza il concetto di cultura (bensì di tradizioni); ma il programma che egli delinea - ovvero la messa in chiaro del funzionamento della ragione pratica che si esprime attraverso habitus, costumi, tradizioni - è stato fatto proprio da quella disciplina che ha posto il tema della variabilità culturale degli esseri umani al centro dei suoi interessi.

La costruzione culturale del corpo

L'antropologia di Mauss ritiene che il corpo sia un'entità naturale che - attraverso tecniche e modelli appositi - subisce processi di particolarizzazione in gran parte inevitabili e più o meno incisivi. Dato che vivere in società significa sempre adattare sé e il proprio corpo a contesti particolari, il corpo appare come il risultato di molteplici interventi di modelli e tradizioni sociali. Le società - sosteneva A. van Gennep all'inizio del Novecento - trattano il corpo come un pezzo di legno su cui incidono i segni della propria identità, i simboli delle proprie tradizioni. Il problema è di vedere quanto siano importanti questi simboli culturali, quanto indispensabili le tecniche tradizionali. Si tratta di decidere quanta autonomia si è disposti ad accordare al corpo come struttura naturale e quanta incisività si è inclini ad attribuire alla dimensione culturale: da queste decisioni scaturisce il senso generale dell'antropologia che si professa.

A lungo l'antropologia culturale - anche quella che ha fatto proprio il contributo di Mauss - ha in fondo seguito l'impostazione di Kroeber: come struttura naturale, il corpo ha la sua autonomia; le tecniche del corpo (per usare l'espressione maussiana) vi si sovrappongono, facendone uno strumento che si adatta a stili e obiettivi particolari di una determinata società. In questa prospettiva, il corpo si piega, suo malgrado, a esigenze di identificazione sociale.

Come realtà biologica, esso costituisce un polo non solo autonomo, ma riluttante rispetto alle esigenze sociali: la società si incarica di sovrastarlo, di addomesticarlo, di farne uno 'strumento' (ancora un'espressione maussiana) in vista dei suoi obiettivi, i quali trascendono ovviamente la corporeità in quanto tale. Un po' come dire: la società ha le sue ragioni (la cultura) che il corpo non conosce, in virtù delle quali esso viene sottomesso, particolarizzato, culturalizzato. Per riprendere la tematica iniziale, si può affermare che in questo modo l'antropologia culturale riproduce ancora la distinzione corpo/cultura, anche se essa non si traduce più in una netta separazione, ma al contrario in un interessamento della cultura (di ogni cultura) al corpo: ogni cultura si sofferma sugli organi e sui processi corporali, li ingloba e spiega in schemi più ampi (spesso di ordine cosmologico), ne sfrutta le potenzialità simboliche.

Come hanno dimostrato M. Douglas e F. Héritier, se da un lato il corpo suscita un interesse conoscitivo in cui intervengono categorie socialmente formulate, dall'altro esso si presta a essere utilizzato come fonte di simboli mediante cui spiegare la società stessa. Anche in questo modo il corpo ha abbandonato la posizione marginale che esso aveva assunto alle origini dell'antropologia culturale (quando si trovava di fatto relegato a una prospettiva puramente biologica e naturalistica) per collocarsi - o almeno tentare di farlo - sempre più al centro di questa disciplina.Il mutamento di posizione del corpo nelle prospettive di ricerca dell'antropologia culturale può essere motivato mediante il ricorso a due concetti o punti di vista: in primo luogo, l'accresciuta consapevolezza dell'ubiquità del corpo nella cultura; in secondo luogo, la tesi della costruzione culturale dell'organismo, delle sue funzioni, nonché delle sue manifestazioni.

a) Nella conclusione del suo saggio Mauss si sofferma sulle tecniche del corpo che sono "al fondo di tutti i nostri stati mistici" (Mauss 1950, trad. it., p. 409), ancorché la nostra cultura, ossessionata (potremmo aggiungere) dalla separazione anima/corpo, non ne abbia fatto un tema cosciente. "Per entrare in 'comunicazione con Dio'", aggiunge Mauss, è indispensabile approntare adeguate tecniche del corpo (per es. quelle della respirazione).

Negli anni Sessanta, Douglas ha posto in luce il nesso tra temi cosmologici e teologici da un lato e quelli relativi all'igiene corporale dall'altro (Douglas 1966). Il corpo è presente anche quando ci si rivolge a un mondo cosiddetto soprannaturale, quando in definitiva si cerca di trascendere la corporeità. A ben guardare, il corpo è presente ovunque nella cultura: dai fenomeni di comunicazione ai rituali, dalla parentela alla politica, dalla tecnologia e dall'arte alla religione, non vi è manifestazione culturale che possa prescindere da una qualche connessione col corpo. Probabilmente, questa ubiquità ha contribuito a rendere il corpo un oggetto alquanto opaco sotto il profilo teorico: essendo in ogni dove, il corpo è rimasto inesplorato per una disciplina che ha provveduto ad articolare il proprio campo (la cultura o la società) in una serie di settori più o meno autonomi. In effetti, a parte l'illuminazione di Mauss, il corpo si è imposto come oggetto di particolare interesse per l'antropologia culturale soltanto quando sono state messe in discussione le distinzioni categoriali dei suoi settori (parentela, politica, diritto, arte, religione ecc.) e, alla base, la distinzione più importante e culturalmente radicata, quella tra anima (o mente, spirito, cultura) e corpo.

b) Rifiutare o ridiscutere la distinzione mente (cultura)/corpo significa rivedere i loro nessi, le loro reciproche implicazioni alla luce di un più stretto avvicinamento, chiedersi insomma se davvero essi costituiscano, dal punto di vista evolutivo e genetico, entità tanto diverse: significa in definitiva chiedersi se possa essere concepibile un organismo integro e autonomo che sia in grado di funzionare indipendentemente dalla cultura e, correlativamente, interrogarsi circa la plausibilità di una cultura che non passi e non si realizzi attraverso una qualche modificazione del corpo.L'antropologia culturale si è posta questo problema di revisione dei nessi corpo/mente, corpo/cultura; ma il dato significativo e curioso è che lo stimolo principale per questo ripensamento è scaturito non già dalle indagini interne al suo campo di studio, quanto piuttosto dagli esiti delle ricerche condotte sul versante paleoantropologico. Si è così verificato un mutamento decisivo e radicale nel concepire le modalità di formazione dell'umanità. Il punto più nettamente acquisito è l'improponibilità dell'idea secondo cui in un primo tempo l'evoluzione biologica, da sola, avrebbe condotto l'uomo a essere anatomicamente e fisiologicamente quello che è e, in un secondo tempo, soltanto questo essere avrebbe dato luogo alla cultura.

L'esame delle forme fossili di ominidi precedenti l'Homo sapiens ha posto in luce, infatti, l'esistenza di una cultura ben prima del completamento dello sviluppo cerebrale. Ciò significa - come ha sostenuto C. Geertz - che vi è stato un lungo periodo di sovrapposizione tra mutamenti biologici e mutamenti culturali, durante il quale modelli culturali, corpo, cervello hanno intensamente reagito così da modellarsi a vicenda (Geertz 1973, trad. it., pp. 90-91). In questa prospettiva, la cultura (intesa nella sua sostanza simbolica) si configura non già come un orpello aggiuntivo, ma come un ingrediente indispensabile alla formazione dell'umanità anche sotto il profilo organico e somatico. È vero che gli uomini sono gli animali che più di altri si sono specializzati nella produzione di cultura; ma è altrettanto vero che essi sono il prodotto principale e fondamentale della cultura. Questa tesi concerne direttamente la vita organica dell'uomo e la sua organizzazione somatica, non certo nel senso che ogni cultura costruisca a suo piacere l'organismo umano, ma nel senso che ogni cultura fabbrica modelli di comportamento e di funzionamento dell'organismo in vista di una definizione di umanità. A Giava - precisa Geertz (1973, trad. it., p. 95) - "essere umani non è soltanto respirare: è controllare il proprio respiro con tecniche yoga".Per comprendere bene questo punto e non ricadere nell'idea che le tecniche di respirazione siano una superfluità folkloristica o un orpello tradizionale, occorre ricordare che uno dei presupposti della prospettiva che stiamo ora analizzando è dato dalla tesi della 'relativa incompletezza' dell'uomo dal punto di vista organico e neurologico: le informazioni che egli trae dal suo organismo non sono sufficienti a garantirgli un'adeguata sopravvivenza (pp. 92, 122 e 132).

Per vivere, anzi, per sopravvivere financo sotto il profilo biologico, l'uomo ha bisogno di trarre informazioni dai modelli culturali che sussistono al di là dei confini individuali del suo organismo, ovvero nello spazio sociale della cultura. Se per l'antropologia dell'epoca di Kroeber e di Mauss la cultura è in qualche modo secondaria e successiva rispetto all'organismo, nel senso che prima deve esserci l'organismo biologicamente funzionante e poi si può provvedere alla cultura, per l'antropologia contemporanea il rapporto si rovescia: il corpo si 'completa' (nelle sue attività, nel suo funzionamento, nelle sue manifestazioni) soltanto attraverso la cultura. Le 'tecniche del corpo' illustrate da Mauss non si configurano più come costrizioni apportate a una realtà autonoma e preesistente, un soggiogamento utilitaristico del corpo in vista di fini che gli sono estranei (le ragioni della società); esse sono invece modellamenti che consentono di completare il corpo e di far sopravvivere gli individui nei vari contesti sociali e naturali. La cultura non si limita a reprimere il corpo (non è questo il suo obiettivo): lo foggia, lo modella, fornendo stili e forme di comportamento, dalle attività fisiologiche più comuni alle manifestazioni emotive più intense. Compito della cultura è infatti quello di "dare una forma specifica, esplicita, determinata, al flusso generale, diffuso, delle sensazioni corporee [...] così che possiamo non solo sentire ma anche sapere che cosa sentiamo e agire conseguentemente" (p. 129).

L'antropologia culturale, sorta sul presupposto della separazione cultura/corpo, ha quindi non soltanto avvicinato i due termini, ma ha anche provocato un mutamento di paradigma di cui non è del tutto facile stabilire le implicazioni. Una di queste è comunque l'allargamento della nozione di corpo: intriso di cultura, il corpo non è più soltanto una struttura anatomica a sé stante o un insieme auto-organizzato di funzioni fisiologiche e nemmeno una mera superficie su cui le società dipingono o incidono i propri simboli. Anche ciò che avviene nel corpo, e in particolare le sensazioni e le emozioni, ha il significato di rimettere in discussione il presupposto di separazione su cui si è fondata la cultura occidentale e con essa buona parte delle sue scienze (antropologia compresa). Del resto, se è vero che il corpo è anch'esso un costrutto culturale, una delle implicazioni più importanti è ammettere non già l'esistenza di una 'biologia universale' a cui si contrappone 'un'infinità di culture', bensì "una dialettica [...] tra culture e biologie locali" (Lock 1993, p. 146).

Costretta infine a occuparsi del corpo, l'antropologia culturale l'ha fatto alla sua maniera. Certo, è possibile considerare il corpo come una sorta di struttura universale indipendentemente dalle culture e dalle biologie locali; ma l'antropologia ci avverte che si tratta di un'operazione molto riduttiva, alla quale sfuggono dimensioni consistenti e aspetti significativi.

D'altro lato, avvicinare il corpo alla cultura e addirittura considerare il corpo come un costrutto culturale implica una particolarizzazione che interessa non soltanto l'oggetto, ma anche il sapere che lo indaga, ovvero il riconoscimento di biologie locali. In base a questo riconoscimento, l'antropologia culturale lancia una sfida alle pretese di universalità della biologia, consentendo così di prestare attenzione ad altri modi di intendere il corpo, la mente, i loro rapporti, e in definitiva la stessa distinzione tra natura e cultura.

A ben vedere, è una sfida che l'antropologia culturale lancia pure a sé stessa, nella misura in cui ha preso avvio dalle distinzioni corpo/mente, natura/ cultura, che la considerazione antropologica del corpo ha finito per fare esplodere (Lock 1993, p. 148). In fondo, anche in questo modo l'antropologia ha deciso di privare sé stessa della pretesa di universalità che aveva contraddistinto i suoi inizi, aprendo perciò la strada non solo all'analisi, ma anche al dialogo e al confronto con altre 'antropologie'. E in questa rete dialogica tra varie antropologie - cui pare ridursi l'aspirazione antropologica all'universalità - il corpo, non più marginalizzato da un'antropologia culturale troppo condizionata dalle sue pretese autonomistiche, non più scheletrito dalle impostazioni riduttive di antropologie mediche, fisiche e craniometriche, è inevitabile che assurga alla centralità di posizione che gli compete: la stessa centralità, a ben vedere, della cultura.

Bibliografa

m. douglas, Purity and danger, London, Routledge & Kegan Paul, 1966 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1975).

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m. lock, Cultivating the body. Anthropology and epistemologies of bodily practice and knowledge, "Annual Review of Anthropology", 1993, 21, pp. 133-55.

m. mauss, Les techniques du corps [1936], in id., Sociologie et anthropologie, Paris, Presses Universitaires de France, 1950 (trad. it. Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965).

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