Antropomorfismo

Universo del Corpo (1999)

Antropomorfismo

Sante Di Giorgi
Marco Aime
Marco Bussagli

Il termine antropomorfismo (dal greco ἄνθρωπος, "uomo" e μορϕή, "forma") designa, in senso lato, la tendenza a conferire aspetto umano alla realtà esterna e alla natura. In ambito antropologico, l'antropomorfismo è considerato un tratto caratteristico delle metafisiche arcaiche che ricercano un equilibrio 'simpatetico' fra uomo e natura. In questa accezione antropomorfismo si oppone ad antropocentrismo: infatti è proprio quando non vede più nella natura un universo di spiriti e di esseri dotati di caratteristiche umane e dissolve l'immagine immediatamente antropomorfa del mondo, che l'uomo, conquistando una conoscenza oggettiva della natura, si pone al centro della realtà. In senso più ristretto, per antropomorfismo si intende, invece, la creazione politeistica di un pantheon divino cui si attribuiscono connotazioni umane, ivi compresa la corporeità. L'antropomorfismo è presente in molte religioni antiche; forme di rappresentazione antropomorfa sono presenti anche nella Bibbia, dove si parla di viso, labbra, bocca, occhi, mani di Dio e a Dio si ascrivono sentimenti propri dell'uomo. Al di fuori del campo religioso, il termine indica un'espressione artistica o architettonica che tende a riprodurre la figura umana.

La critica all'antropomorfismo

di Sante Di Giorgi


L'esperienza del sacro e del divino lungo i secoli è stata mediata da linguaggi e simboli strettamente correlati con il contesto storico-culturale dei soggetti di quella esperienza. Il corpo umano, le sue emozioni e i suoi sentimenti vengono assunti, nella mediazione linguistica dell'esperienza religiosa e della relazione dell'uomo con il divino, come risposta elementare a quell'esigenza di determinare la 'forma' del divino che accompagna costantemente il cammino degli uomini lungo la storia. Altrettanto costante appare tuttavia la coscienza dei pericoli di tali mediazioni linguistico-figurali. Già nel 6° secolo a.C. il filosofo greco Senofane di Colofone critica l'antropomorfismo di Omero e di Esiodo, responsabili di aver attribuito agli dei tutto ciò che per gli uomini è obbrobrio e vergogna, e formula una propria teologia per la quale "un solo dio è il più grande tra gli dei e tra gli uomini; egli non è simile ai mortali, né per figura né per spirito" (frammento B. 23). Così Senofane, pur ammettendo una pluralità di dei, apre la via a una concezione più elevata del divino: "Dio rimane sempre nel medesimo posto, senza muoversi. Non gli si addice di andare ora di qua ora di là e di mutare luogo" (frammento 26). Dopo Senofane altri filosofi greci polemizzano con l'antropomorfismo, in particolare le scuole platoniche del 2° secolo a.C., dalle quali l'impossibilità di comprendere e di 'dire' Dio è ritenuta un dogma.

Fra i romani appare significativa l'affermazione di Ovidio, secondo cui l'uomo "è stato formato a immagine degli dei che tutto governano" (Metamorfosi 1, 83).

La spiegazione dei passi biblici in cui sono presenti elementi di rappresentazione antropomorfa di Dio, per i Padri della Chiesa, come per una parte dell'esegesi rabbinica, è che si tratti di metafore rese necessarie dall'incapacità dell'uomo di cogliere l'essenza del divino se non per analogia con l'esperienza umana. In particolare, a proposito dell'antropomorfismo biblico, Clemente Alessandrino scrive: "anche se questo si trova scritto di lui, non ci si deve rappresentare affatto il Padre dell'universo come avente figura, come se potesse spostarsi, stare in piedi o seduto o abitare in un luogo, come se avesse una mano destra e una mano sinistra. La causa prima non si trova in un luogo, è al di sopra del luogo, del tempo, del nome e dell'intelligenza. Dio non può essere insegnato e neanche detto, ma egli (secondo la Bibbia) può essere conosciuto dall'effetto dell'energia che viene da lui" (Stromata 5,11,71-4).

Secoli più tardi, Tommaso d'Aquino precisa che "le immagini grazie alle quali la fede intuisce qualcosa del mistero di Dio non costituiscono l'oggetto della fede, ma ciò grazie al quale la fede tende verso il suo oggetto" (De veritate q.18, a. 8 ad 11 m). In epoca moderna la polemica contro l'antropomorfismo si ritrova in I. Kant, che, nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica, parla di un antropomorfismo 'simbolico', per il quale l'uomo attribuisce alla relazione di Dio con il mondo quelle proprietà con le quali pensa gli oggetti di esperienza; questo antropomorfismo di fatto riguarda solo il linguaggio e non l'oggetto stesso. Ma è soprattutto L.A. Feuerbach a insistere sul tema dell'antropomorfismo, che proverebbe la genesi del tutto umana del fatto religioso: nell'oggetto della religione che l'uomo chiama Dio non si esprime altro che l'essenza dell'uomo stesso, che vi proietta le sue esigenze e le sue aspirazioni di giustizia, pace e salvezza.

Rappresentazioni antropomorfe in culture di interesse etnografico

di Marco Aime


La riproduzione della figura umana è uno dei pochi, se non l'unico tratto che accomuni le numerose forme di antropomorfismo adottate dalle diverse culture, forme che non solo differiscono nella tipologia rappresentativa e nel materiale adottato, ma anche nella scelta dei personaggi raffigurati e nel significato locale che tali figure esprimono. In alcuni casi il soggetto dell'opera è un essere umano, in altri può essere una divinità, uno spirito o un animale che vengono umanizzati dall'artista, ma che quasi mai hanno forme realistiche, assumendo piuttosto espressioni grottesche, estremamente stilizzate e a volte caricaturali.

Troviamo immagini antropomorfe nei cucchiai degli indigeni del Purari (Nuova Guinea), intagliati nella noce di cocco, al cui guscio viene dato l'aspetto di una figura umana, oppure nelle maschere dei mounds della Virginia, ricavate da grosse conchiglie, la cui convessità naturale suggeriva il profilo di un volto di uomo. Molti popoli siberiani raffigurano spiriti e numi tutelari con statuine dalla forma appena accennata, mentre l'intera iconografia religiosa dell'America precolombiana utilizza la cifra antropomorfa. La figura umana è alla base non solo della rappresentazione religiosa, ma anche di quella sociale, come testimoniano i numerosi esempi dei cosiddetti motivi genealogici, dove vengono effigiati gli antenati e i loro discendenti, fornendo una mappa storica della famiglia. Le sculture in ebano dei makonde (Tanzania-Mozambico) sono un esempio tipico di questo genere di figurazione. Le forme umane, sovrapposte e intrecciate, costituiscono una sorta di catena che sta a significare il susseguirsi delle diverse generazioni. In tali sculture l'immagine dell'uomo perde la sua individualità, per trasformarsi in simbolo di una realtà sociale collettiva, la quale nasce da un sistema di pensiero che trascende la singola persona.Il culto degli antenati è forse uno dei massimi ispiratori dell'arte antropomorfa delle culture di interesse etnografico. Le cerimonie dedicate ai defunti infatti vedono spesso come protagoniste sculture che traducono nella materia, umanizzandole, entità non umane (o non più tali) quali antenati, spiriti e divinità varie.

Un esempio particolarmente significativo è costituito dalle moai kavakava dell'Isola di Pasqua: si tratta di statuette lignee dedicate agli antenati, che in genere propongono la figura di un uomo "con la barbetta a pizzo, un corpo scarno e in parte imputridito, le vertebre e le costole fortemente rilevate e uno sterno a uncino come un uccello. Sulla sommità del cranio sono talvolta decorati motivi in rilievo che rappresentano un uccello o un mostro antropomorfo" (Métraux 1941, trad. it., p. 163). Alle statuette maschili venivano affiancate talvolta le moai paepae, riproducenti figure femminili, anch'esse con il pizzo e un corpo scarno in via di disfacimento. Tali effigi traevano ispirazione dall'immagine che gli abitanti dell'isola avevano degli spiriti dei morti; l'evidente deperimento fisico espresso dalle sculture fa supporre che fossero eseguite in occasione della morte di un componente della famiglia. Si tratta di una forma originale di espressione artistica, in contrasto con la maggior parte degli esempi di arte funeraria (come, per es., quelli dei popoli dell'America del Sud), dove il defunto veniva raffigurato nella pienezza della sua vitalità, come a negarne l'inevitabile declino per consegnarlo intatto all'eternità: un'operazione che ignora la connessione tra il corpo e il tempo, causa del deperimento.

Tutte le culture riflettono sul tema del deterioramento degli oggetti e dei corpi, compreso quello umano, una riflessione imposta dalle leggi biologiche, che però pone un problema agli artisti investiti del compito di arrestare con le loro immagini il processo di sparizione: quello della scelta tra cosa riprodurre e cosa invece lasciare agli abissi dell'oblio. Nel momento in cui prendono una risoluzione, le società decidono circa la propria identità, sia sociale sia individuale (Remotti 1993). È curioso come gli abitanti dell'Isola di Pasqua abbiano scelto di memorizzare nelle loro statuette funerarie proprio il momento del massimo deperimento organico del corpo umano prima della morte, una forma di realismo estremo che non concede nulla alla bellezza e alla vitalità che invece tendono a esprimere molte forme d'arte figurativa.

Un altro caso interessante di antropomorfismo riguarda la costruzione dei villaggi dei dogon (Mali). Gli abitati dogon sono un esempio di antropomorfismo applicato alla struttura urbanistica: visto dall'alto un villaggio rappresenta il corpo umano, scomposto nelle sue varie parti. Si tratta in realtà di un'evocazione simbolica del corpo umano e non di una rappresentazione grafica, ma l'intento dei costruttori è comunque di riprodurre la figura umana. Nella parte settentrionale sorge la piazza della to-guna, la 'casa della parola', dove si tiene il consiglio degli anziani. Questa importante costruzione, nella quale si discute, si elabora e si consolidano la tradizione e il sapere locale, rappresenta la testa dell'uomo-villaggio. Poco più a sud sorgono le diverse 'case di famiglia', che costituiscono il petto della figura umana. Tali strutture, che sono a un tempo abitazione e altare per gli antenati, rimandano a loro volta ad altri simboli antropomorfi: la stanza del capofamiglia rappresenta il maschio della coppia e la porta è il suo sesso, così come la stanza centrale è il simbolo della donna, la porta è il suo sesso e i ripostigli laterali sono le sue braccia (Griaule 1966). Riferimenti antropomorfi si ritrovano in alcune porte dei granai, dove sono scolpiti dei seni, un simbolo che lega il contenuto dei granai stessi alla fecondità e fertilità della donna e della terra.

Procedendo sempre più nel dettaglio, anche le serrature delle porte presentano spesso figure umane scolpite e i dogon adottano una terminologia propria della figura umana per definire le parti che le compongono: la sezione superiore viene chiamata 'testa', quella centrale 'ventre', quella inferiore 'gambe'. Le mani del villaggio sono rappresentate dalle case, rotonde come uteri, che sorgono ai lati dell'abitato, dove vengono isolate le donne durante il periodo delle mestruazioni. Il villaggio-corpo dogon racchiude in sé entrambi i sessi: le pietre dove vengono schiacciati i semi per produrre l'olio rappresentano il sesso femminile, mentre l'altare della fondazione, di forma chiaramente fallica, è il sesso maschile. Infine, a sud, gli altari comuni simboleggiano i piedi dell'uomo.

L'immagine organica della società comporta l'utilizzo del 'corpo' come metafora sociale, mentre l'immagine architettonica implica l'idea della società come un luogo entro cui agiscono e abitano i suoi membri (Remotti 1993). I dogon sembrano aver coniugato le due istanze, riproducendo nello spazio architettonico dei loro abitati il corpo dell'uomo e, allo stesso tempo, i simboli della propria cosmogonia, riproponendo una lettura quotidiana del rapporto tra il pensiero religioso e l'azione degli uomini. G.R. Cardona (1981) menziona un altro curioso esempio di antropomorfismo, che riguarda la scrittura: molti dei segni grafici che compongono le diverse scritture sono il frutto di un processo di semplificazione e stilizzazione estrema di figure concrete (uomini, animali, oggetti). Accade però che si possa dare vita a un processo inverso: una semplice linea curva può essere decifrata come un corpo raccolto su sé stesso. Avviene così un'elaborazione antropomorfica del segno, come nel caso della 'scrittura parlante' diffusasi in Persia nel 12° secolo, formata da un insieme di corpi e teste umane, e dei manoscritti ebraici sefarditi, dove compaiono immagini antropomorfe e zoomorfe al posto delle lettere. Tale ritorno del segno all'immagine umana potrebbe essere interpretato come un'ulteriore conferma del continuo dialogo esistente tra la scrittura e la realtà che essa vuole rappresentare.

Se negli esempi precedenti scrittura e immagine umana sembrano impegnate in un sottile e continuo gioco di specchi, nel mondo islamico rappresentano quasi due poli opposti, che si escludono a vicenda. La ricca tradizione figurativa del Medio Oriente antico, caratterizzata anche da apporti estetici provenienti dal mondo ellenico e da quello iraniano, venne in gran parte epurata con l'avvento dell'epoca islamica.

Forse per operare una netta distinzione con il mondo cristiano, prevalsero infatti le forme di rifiuto che molte popolazioni mediorientali nutrivano per la figurazione umana e degli esseri animati in genere: valori che ritroviamo nel giudaismo e nella iconoclastia bizantina (Rodinson 1979). La proibizione di raffigurare l'essere umano, sebbene meno rigida di quanto a volte si è soliti pensare, spinse gli artisti islamici a sviluppare sempre di più forme di espressione come l'arabesco e la calligrafia, diventate elementi caratteristici della produzione estetica del mondo arabo.

L'antropomorfismo nelle arti figurative

di Marco Bussagli


Non è possibile dare una definizione univoca del termine antropomorfismo nell'ambito della sua applicazione al mondo delle arti figurative, per via della vasta e complessa gamma di possibilità d'impiego della figura umana, o di parti di essa, al di fuori del ristretto contesto che vede la mera riproduzione della sua morfologia. È infatti del tutto evidente che, pur essendo affollata da una gran quantità di figure, un'opera come la Scuola d'Atene di Raffaello non può essere definita antropomorfa, mentre la statua dell'Appennino, scolpita dal Giambologna per la Villa Medicea (poi Demidov) di Pratolino, costituisce un chiaro esempio d'immagine antropomorfa che incarna con le sue fattezze tutta la maestosità di quella catena montuosa, percorsa da fiumi e tormentata da anfratti trasformati per l'occasione in spettacolari giochi d'acqua. Tuttavia, è questo un caso particolare di antropomorfismo, legato alla rappresentazione di un'entità geografica che dal punto di vista teorico è assimilabile alla riproduzione antropomorfa dei fiumi o degli astri, secondo un processo di mitologizzazione che ha portato prima alla rappresentazione in forma umana di divinità fluviali, quali, per es., quelle del Tevere e del Nilo, e successivamente a considerare quella stessa immagine come simbolo, allegoria del fiume. In altri termini, le due statue del Tevere e del Nilo, databili al 2° secolo d.C., provenienti dalle Terme costantiniane del Quirinale e ora esposte sulla piazza del Campidoglio a Roma, pur avendo una forma pressoché simile, assumono un valore ben diverso rispetto alle quattro sculture che ornano la Fontana dei quattro fiumi di G.L. Bernini nel centro di piazza Navona.

Le prime, infatti, nascono per rappresentare divinità a cui si poteva e si voleva sacrificare; le seconde, al contrario, sono soltanto immagini allegoriche, come lo è l'Appennino di Giambologna.

Diverso, nel senso di più complesso, è il percorso iconografico seguito dalle rappresentazioni degli astri, in quanto, come ha spiegato S. Settis (1985), tale itinerario culturale implica il coinvolgimento di tradizioni figurative e testuali differenti e distanti fra loro nello spazio e nel tempo. Senza ripercorrere le tappe salienti del processo di mitologizzazione del cielo, sarà sufficiente ricordare che le tradizioni egizia e mesopotamica, come pure quella greca, confluiscono e si fondono in quella ellenistica che poi trapasserà agli indiani e agli arabi per ritornare nell'Occidente medievale.

J. Seznec (1940) ha sottolineato che, se per le costellazioni si ricorse all'espediente mnemotecnico di attribuire a ognuna di esse una figura mitologica creando dei veri e propri cataloghi, quale per es. quello di Eratostene del 3° secolo a.C., per i pianeti o meglio le 'stelle erranti' (vi sono infatti compresi la luna e il sole) il procedimento fu assai diverso. Ritenute intelligenze celesti, le stelle erranti vennero considerate ognuna sotto la giurisdizione e l'influenza di una divinità; pertanto, ancora all'epoca di Platone (Timeo, 38 d-e), esse erano designate non con il nome della divinità, ma con una perifrasi che ne indicava l'appartenenza: ὁ ἀστὴρ τοῦ Διός, ovverosia "la stella di Giove". Solo successivamente, sulla scorta del pensiero stoico e per via degli influssi caldaici, si passò all'attribuzione diretta alle stelle erranti del nome della divinità (Cumont 1935): identificazione che determinò poi e giustificò l'impiego dell'immagine antropomorfa per indicare il 'pianeta'. Così, per es., le miniature quattrocentesche del De Sphaera conservate nella Biblioteca Estense di Modena, che mostrano le sette divinità planetarie con i loro attributi iconografici derivati dalla mitologia (Marte in armi, Saturno zoppo, Giove con le saette, Mercurio con la borsa di denari e il caduceo), sono il portato di questo complesso processo di antropomorfizzazione.

Esiste tuttavia una fondamentale differenza fra l'immagine antropomorfa del Tevere e quella delle divinità astrali. La prima nasce fin dall'inizio per rappresentare un dio; un dio di cui sappiamo assai poco, ma che raffigurava il fiume divinizzato e che pertanto veniva festeggiato a Roma l'8 dicembre nell'Isola Tiberina; la seconda, quella delle stelle erranti, è invece mutuata dalla religiosità tradizionale grecoromana, a cui il credo astrologico si sovrappone ribaltando addirittura il rapporto cultuale e culturale, giacché "il culto delle stelle conferisce alla religione nelle sue forme 'tradizionali' un contenuto nuovo e più profondo" (Boll-Bezold-Gundel 1966, trad. it., p. 42). Non per caso Settimio Severo, tra il 2° e il 3° secolo d.C., fece costruire il Settizodio dedicato alle sette divinità del giorno, che era forse anche un calendario monumentale; a sua volta il Calendario del 354 conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. lat. 2154) mostra l'immagine delle divinità planetarie (Giove, Saturno, Mercurio ecc.) e accanto l'elenco dei giorni e delle ore, diurne e notturne, governate da quel particolare astro. In ogni modo, l'impiego dell'immagine antropomorfa per rappresentare divinità fluviali o astrali rientra in quel particolare procedimento di natura linguistica, ma che in quanto tale ha un preciso riscontro nelle arti figurative, che va sotto il nome di 'personificazione'. È in questo senso che deve essere inteso il processo di attribuzione della figura umana a entità e concetti che umani non sono.

Se il desiderio di personificare la divinità e quindi conferirle forma umana è comune alla gran parte delle religioni (dal buddismo, al politeismo polinesiano che vede nell'immagine antropomorfa di Tangaroa la divinità creatrice, fino al cristianesimo), va precisato che questa tendenza a utilizzare la forma umana in termini traslati si estende al di là del pur vastissimo campo religioso. Esistono infatti, già in ambito grecoromano, tutta una serie di entità intermedie (ma non solo), come per es. la Nike, che con l'avvento del cristianesimo cesseranno di essere divinità vere e proprie per diventare personificazioni. Un esempio chiarificatore, in tal senso, può essere costituito dalla differenza di significato ricoperta da due figure iconograficamente pressoché identiche: l'immagine di Urano che tende la volta del cielo immediatamente al di sotto dello scollo della lorica dell'Augusto di Prima Porta (Musei Vaticani, Braccio Nuovo) e la figura barbuta che compie il medesimo gesto offrendo appoggio ai piedi di Cristo nel sarcofago di Giunio Basso (Città del Vaticano, Tesoro di S. Pietro). Nel primo caso si tratta della rappresentazione antropomorfa di una divinità, Urano; nel secondo della personificazione del cielo: per entrambi si può parlare di antropomorfismo (Bussagli 1993). D'altra parte, la stessa arte cristiana farà uso e a volte abuso di simili espedienti, talora riutilizzando modelli classici per concetti cristiani (come per es. l'allegoria della Fortezza scolpita da Nicola Pisano nel 1260 per il pulpito del Battistero di Pisa, che altro non è se non l'adattamento della figura di Ercole), talaltra creando immagini ex novo, come nel caso della figura della Sinagoga nella cattedrale di Salisburgo rappresentata come una figura femminile vestita di una lunga tunica, appoggiata a una bandiera spezzata e con gli occhi bendati. Figure come queste sono tutte concettualmente figlie della Tyche d'Antiochia (Musei Vaticani), l'opera di Eutychides, il cui tipo fu ripetuto fino alla tarda età imperiale nei più disparati generi artistici; tuttavia il loro ruolo e valore nella cultura dell'epoca è diverso, perché sono comunque personificazioni, ovvero immagini umane che, grazie alla presenza di particolari attributi iconografici, rappresentano qualcosa che nulla ha a che vedere con la figura umana in senso stretto. Questo tipo di antropomorfismo è servito per rappresentare in termini visivi facilmente intellegibili concetti altrimenti esprimibili solo a parole.

Si pensi, per es., alla serie dei vizi e delle virtù affrescati da Giotto, a monocromo, nella cappella degli Scrovegni a Padova, dove troviamo raffigurata la Giustizia in trono, la Fortezza con lo scudo, oppure l'Ira nell'atto di strapparsi le vesti: si tratta di concetti astratti antropomorfizzati grazie all'elaborazione di figure allegoriche. L'alternativa, nel linguaggio visivo, potrebbe essere soltanto una scena più elaborata che illustri quel particolare concetto. È ciò che fa, per es., A. Lorenzetti nel grande affresco del Buon Governo realizzato per il Palazzo Pubblico di Siena. Ma anche qui, allorché l'artista senese deve rappresentare la Securitas, ricorre all'impiego di un'unica immagine femminile alata e discinta che reca in mano una forca con il giustiziato appeso per il collo.

Su questa linea nasce quella particolare disciplina, in voga dalla fine del 16° secolo grazie agli studi e all'impegno di V. Cartari prima e di C. Ripa dopo, che va sotto il nome di 'iconologia'. Si tratta, infatti, di un procedimento traslativo dall''astratto pensato' al 'concreto raffigurato', che riguarda concezioni, idee, sentimenti, attività, istituzioni, corpi celesti, elementi e fenomeni naturali, cui si dia parvenza di persona fisica (Plessi 1982). Ne scaturirono cataloghi illustrati a stampa che divennero il punto di riferimento di pittori, scultori e talvolta architetti che li utilizzarono per rappresentare in maniera efficace e inequivocabile concetti altrimenti destinati a rimanere nel linguaggio verbale. Un esempio è costituito dalla celeberrima statua della Verità del Bernini (Roma, Galleria Borghese): l'immagine di donna nuda che tiene in mano il sole e poggia un piede sul mondo è praticamente tolta di peso dall'edizione illustrata dell'Iconologia di Ripa stampata nel 1603. Senza esaminare partitamente i motivi che spingono alla scelta antropomorfa, è sufficiente sottolineare che questa risulta non solo assai più facilmente intellegibile e memorizzabile, ma anche empaticamente più vicina alla sensibilità del suo fruitore. Tanto è vero che, sebbene in tutt'altro campo - quello dell'angelologia - la scelta antropomorfa sia stata prospettata come un'opzione fra le tante possibili (il fuoco, gli animali, le pietre preziose), secondo quanto espone lo pseudo-Dionigi Areopagita nel De coelesti hierarchia, essa sembra essere indiscutibilmente la più diffusa, sia pure con tutte le varianti possibili (Bussagli 1995).Per quanto complesso e articolato, quello dell'antropomorfismo legato al processo di personificazione è solo uno degli aspetti del problema. Un altro, che pure è connesso al precedente, risiede nell'impiego della figura umana, o di parti di essa, per la realizzazione di oggetti particolarmente elaborati che possono avere scopo rituale o essere semplicemente nobilitati dalla presenza dell'elemento umano. Nell'un caso e nell'altro, però, va subito precisato che non è sufficiente che l'elemento umano abbia una collocazione puramente ornamentale nella struttura dell'oggetto perché questo possa essere definito antropomorfo.

È infatti necessario che la componente antropomorfa abbia funzione attiva nell'economia dell'oggetto e che ne sia parte integrante, rispondendo allo scopo per cui l'oggetto stesso è stato costruito. Un esempio chiarificatore può essere costituito dal confronto fra due dei pezzi più importanti che compongono il cosiddetto Tesoro di Taranto, conservato nel Museo archeologico nazionale della città pugliese. La splendida collana del 6° secolo proveniente da Ruvo, ornata di testine d'oro massiccio alternate a grani baccellati in argento, non può essere considerata un oggetto antropomorfo, mentre lo è in modo del tutto evidente l'originale schiaccianoci le cui canoniche barrette metalliche incernierate a un'estremità sono sostituite da due eleganti braccia femminili in bronzo con bracciali d'oro che s'incardinano all'altezza delle palme delle mani. L'elemento antropomorfo può comparire anche quale componente di un oggetto più complesso, come nel caso delle figurette femminili che fungono da manico negli specchi bronzei delle dame egizie (Il Cairo, Museo Egizio); nello stesso ambito si situano le prese delle ciste bronzee prodotte dagli etruschi fra il 4° e il 3° secolo a.C. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi chiamando in causa anche oggetti comuni quali, per es., le lucerne con il volto di satiro; ma quel che preme qui sottolineare è che l'uso di oggetti antropomorfi è comune pure a civiltà diverse da quella occidentale. Anzi, talvolta si hanno insospettabili consonanze, a dimostrazione che quello dell'antropomorfismo deve a ragione essere considerato un problema transculturale. Gioverà allora rammentare da una parte l'elegante lira da braccio costruita da Giovanni d'Andrea a Venezia nel 1511 (Vienna, Kunsthistorisches Museum), caratterizzata dalla presenza di volti umani grotteschi sul fronte e sul retro della cavigliera, come pure sul dorso della cassa armonica, e dall'altra la suggestiva arpa antropomorfa a cinque corde proveniente dalla cultura africana mangbetu (Roma, Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico L. Pigorini). In questo caso l'antropomorfismo dell'oggetto è ancor più accentuato rispetto alla lira da braccio, in quanto il manico che si allunga e si piega come un collo è sormontato da una piccola testa e compaiono gli arti inferiori che costituiscono il piedistallo e s'innestano nella cassa armonica soprastante, come le gambe di un individuo con il tronco.Il campo che ha visto più spesso l'applicazione dell'antropomorfismo, in epoche e culture diverse, è sicuramente quello relativo alle armi e all'equipaggiamento militare. Spesso si tratta di corredi da parata, come nel caso dell'elmo aureo proveniente dal cimitero reale di Ur (Londra, British Museum), il cui antropomorfismo risiede nella virtuosistica riproduzione di un'acconciatura reale.

D'altra parte, anche in ambito grecoromano saranno in uso, molto più tardi, elmi chiusi anteriormente da una visiera metallica che riproduce le fattezze del volto umano, come quello del 1° secolo d.C. proveniente da Rapolano e conservato al British Museum di Londra. Questa soluzione aveva un intento difensivo oltre che ornamentale, dal momento che la maschera antropomorfa offriva il vantaggio di proteggere interamente e nel modo più adeguato il volto. Sicché troviamo l'elmo a visiera antropomorfa non soltanto in ambito medievale e rinascimentale, ma anche nell'armamento giapponese dove, però, si trattava più propriamente di una maschera di ferro o di cuoio (hoate) che poteva coprire interamente il volto (menbo) o lasciarlo scoperto parzialmente (hanbo). In entrambi i casi, la maschera era a sé stante rispetto all'elmo, generalmente di forma allungata sia anteriormente sia posteriormente (zunari no kabuto). Lo mostrano, per es., le armature del 18° e 19° secolo conservate presso il Museo Orientale di Venezia Ca' Pesaro o nel Museo Stibbert a Firenze. Qui, però, risulta evidente che la funzione della maschera era pure quella d'incutere terrore al nemico, viste l'esasperazione dei tratti del volto e l'espressione minacciosa che simili manufatti comunicano.

L'impiego di elementi antropomorfi compare anche nelle armi vere e proprie: sempre in ambito giapponese, l'elegante tsuba (ossia la guardia della spada, la katana) del 18° secolo, conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, altro non è se non una testa umana vista di profilo. In particolare l'impugnatura delle armi ha spesso suggerito il ricorso a immagini antropomorfe, come nel caso di quella in avorio di un kris balinese conservato a Leida (Rijksmuseum voor Volkenkunde), che rappresenta il mitico eroe Bhima, uno dei protagonisti del Mahabharata, poema epico fra i più importanti della letteratura indiana. Anche nell'area occidentale la struttura delle impugnature delle armi bianche si è avvalsa della figura umana per motivi di carattere ornamentale, e non soltanto per scimitarre e spade da caccia ma pure per coltelli di uso culinario, come gli elaborati esemplari disegnati nel Cinquecento da F. Salviati, dei quali sono rimaste le incisioni dovute a C. Alberti. Un esemplare molto simile ai progetti è tuttora conservato presso il Museo Nazionale del Bargello di Firenze: il suo manico d'avorio è costituito infatti da un grifone che sormonta due cariatidi che si danno le spalle. Va da sé che questo tipo di decorazione con le cariatidi è stato tolto da Salviati dal vocabolario architettonico, dove le cariatidi o canefore (sostegni a forma di figura femminile) e gli atlanti o telamoni (sostegni a forma di figura maschile) rappresentano l'applicazione dell'antropomorfismo in architettura.

Ciò induce a riflettere sul fatto che talvolta esiste una sorta di scambio fra la funzione dell'oggetto e la sua possibile dimensione monumentale esaltata e sottolineata proprio dall'utilizzazione della figura umana. Certo, qui si esula dal campo dell'antropomorfismo in senso stretto, ma è pur vero che solo sulla base di questo concetto si può capire per quale motivo la Saliera di Francesco I, opera di B. Cellini, possa esser considerata a ragione un 'monumento da tavola' e la Fontana del Nettuno di Giambologna esser veduta come il 'soprammobile' di Piazza Maggiore a Bologna.Vi è poi una forma che più di ogni altra è stata assimilata al corpo umano, tanto da conferirle in epoche e in civiltà diverse la medesima impostazione antropomorfa: il vaso, inteso come contenitore in senso lato che, nel corso dei secoli, ha assolto le funzioni più diverse. Uno dei primi esempi è sicuramente da individuare nel vaso egizio in alabastro nero conservato presso l'Ashmolean Museum of Art and Archaeology di Oxford. Databile a circa 6000 anni or sono, il manufatto sovrappone perfettamente la forma del vaso a quella della figura femminile evidenziandone i seni nella zona corrispondente al collo del recipiente, sicché il corpo dell'oggetto allude all'abbondanza dei fianchi che si rastremano negli arti inferiori. Considerati l'epoca e l'ambito culturale, però, non si tratta di un'allegoria e neppure di un espediente formale, ma della materializzazione di un concetto di sacralità per cui effettivamente il corpo della Madre "si è fatto vaso" (Stacul 1963, p. 36), rendendo chiara e intelligibile l'idea di fertilità. La sovrapposizione fra vaso e figura umana è stata spesso favorita dalla funzione funeraria del vaso che accoglieva le ceneri o i visceri (nel caso della civiltà egizia) del defunto. Così, oggetti come il canopo etrusco a testa umana (6° sec. a.C.), conservato al Museo Archeologico di Firenze, denunciavano con il proprio antropomorfismo il fatto che contenente e contenuto finivano per coincidere, dando così il secondo ragione della forma del primo, quasi si trattasse di una metonimia. È sulla base di questa identità che si giustifica poi l'impiego, per così dire profano, dell'antropomorfismo dei vasi, come nel caso delle oinochòe (vasi da vino) conservate presso il Museo Archeologico di Vibo Valentia, dove il vaso è praticamente costituito da una testa e da un collo femminili.

Come si vede, la relazione fra la forma umana e gli oggetti interessa campi diversissimi l'uno dall'altro (da quello militare a quello funerario; né si dimentichino in proposito i sarcofagi egizi o i reliquiari medievali) che tuttavia non esauriscono il problema dell'antropomorfismo. Un'ulteriore applicazione bizzarra del tema in questione è costituita dagli scherzi o dai capricci antropomorfi, che trovano il loro caso più celebre e artisticamente rilevante nelle opere di G. Arcimboldi. Tra queste, il famoso Ortolano conservato al Museo Civico di Cremona, che visto a dritto appare come una scodella colma di ortaggi e a rovescio si rivela essere un volto umano con il copricapo. Inventore del genere (che pure affonda le radici nella cultura artistica tardoclassica e medievale), Arcimboldi lanciò una moda che ebbe particolare fortuna a cominciare dalla fine del 16° secolo. Lo testimonia il gran numero d'incisioni che riproducono paesaggi antropomorfi come quelli di M. Merian, H. Meyer o G.B. Bracelli. Spesso si tratta di giochi ottici (anamorfosi) dove la forma umana è celata per parcellizzazione e dislocazione dei vari elementi (Baltrušaitis 1969). Sopravvissuta fino a tutto il 19° secolo, questa tecnica ebbe una nuova stagione d'impiego con la poetica surrealista, in particolare nell'opera di S. Dalí che ne fece il mezzo privilegiato per esprimere le inquietudini dell'inconscio, come nel caso del Mercato degli schiavi con l'apparizione del busto invisibile di Voltaire (Cleveland, OH, A. Reynold-Morse Foundation).

Anche molti degli esponenti del surrealismo fecero ricorso alla suggestione che deriva dalle analogie formali fra il corpo umano e oggetti o elementi a esso estranei. Così, con pochi accorgimenti M. Ray riuscì a trasformare il dorso di una donna in un violino, che a sua volta rimandava alla Bagnante di Valpinçon di J.-A.-D. Ingres: il Violon d'Ingres. Altri, invece, sfruttarono le analogie formali fra il volto e l'area toracoaddominale di una figura femminile, come R. Magritte nello Stupro, dove una gran massa di capelli fluenti incorniciano non già il viso di una donna, ma il suo busto nudo. In questo modo, il pube finisce per alludere alla bocca, l'ombelico, per la sua posizione centrale, al naso e i seni agli occhi.In altri casi, l'antropomorfismo coincide con un processo di umanizzazione che, unico fra quelli esaminati, ha validi riscontri anche in letteratura. Ci si riferisce alle favole di Esopo, di Fedro, alla Batracomiomachia attribuita a Omero, e ancora alle favole di J. de La Fontaine e di L. Tolstoi, alla Fattoria degli animali di G. Orwell, al Gatto e alla Volpe di Pinocchio.

Il corrispettivo di simili esempi letterari, nell'ambito della rappresentazione figurata, si ha soprattutto nel campo della comicità e della caricatura, intendendo per tale non l'esasperazione dei tratti umani di un individuo, ma la sostituzione della figura umana con quella animale (umanizzata) o con un altro elemento, pure umanizzato, che ne rappresenti i difetti o che comunque sottolinei la comicità della situazione. Un esempio illuminante può essere costituito, nell'Ottocento, dalla caricatura del volto di Luigi Filippo che C. Philipon trasforma via via in una pera per sottolinearne l'assenza di acume politico. Lo sviluppo più recente di questo genere di antropomorfismo lo si può riscontrare nel fumetto, dove personaggi quali Mickey Mouse (Topolino) o Donald Duck (Paperino) rappresentano tipi caratteristici della società americana, ma anche l'evoluzione dei personaggi della commedia dell'arte, in quanto la loro natura animale ben si sposa con gli aspetti caratteriali che li distinguono. Così Mickey Mouse è giustamente un topo attento e furbo, previdente e indagatore, Donald Duck un'anatra strillona e sventata, Goofy (Pippo) un cane fedele ma tonto, e così via, attualizzando i processi letterari che erano già stati di Fedro ed Esopo.Esiste, infine, un genere di antropomorfismo che, pur non essendo connesso strettamente con le arti figurative, è tuttavia alla base stessa del concetto, giacché è legato alla capacità dell'uomo di ricondurre certe forme naturali alla morfologia umana e quindi di proiettare su di esse una forma appunto corporea. È sufficiente richiamare due esempi: il profilo del Monte Circeo sul litorale laziale nel quale si è voluto vedere quello della maga Circe addormentata, che ha matrici letterarie nell'Odissea di Omero, e la radice di mandragora considerata per il suo aspetto e per il suo effetto allucinogeno fra le erbe del diavolo (Di Nola 1987). Senza questa capacità proiettiva, infatti, non potrebbe esistere né svilupparsi, nelle sue varie articolazioni, il concetto stesso di antropomorfismo.

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