Appello

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Diritto processuale penale

Mezzo di impugnazione non previsto in Costituzione, ma introdotto con legge ordinaria, attraverso cui le parti che vi abbiano interesse e considerino viziata, per motivi di fatto o di diritto, la sentenza di primo grado, possono sottoporre uno o più capi del provvedimento all’esame del giudice di secondo grado denominato giudice d’appello. A norma dell’art. 596 c.p.p., sull’a. proposto contro le sentenze pronunciate dal tribunale decide la Corte d’a.; sull’a. proposto contro le sentenze della Corte d’assise decide la Corte d’assise d’a.; e, salvo quanto previsto dall’art. 428 c.p.p., rispetto all’a. contro le sentenze pronunciate dal giudice per le indagini preliminari decidono rispettivamente la Corte d’a. e la Corte d’assise d’a., a seconda che si tratti di reato di competenza del tribunale o della Corte d’assise. Per l’a. avverso le sentenze del giudice penale è competente il tribunale (art. 39 d. legisl. 274/2000).

Per l’effetto devolutivo il giudice d’a. può decidere soltanto sulla base dei capi e dei punti su cui si fondano i motivi dell’impugnazione e, nel caso di a. del solo imputato, non può aggravare la situazione dell’accusato irrogando una pena più grave per specie o quantità, applicando una misura di sicurezza nuova o più grave, o prosciogliendo l’imputato per una causa meno favorevole di quella annunciata nella sentenza appellata, né revocando benefici. Tuttavia il giudice, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado, può dare al fatto una definizione giuridica più grave. L’art. 593 c.p.p., modificato dalla l. 46/2006, stabilisce che il pubblico ministero e l’imputato (a eccezione dei casi espressamente previsti negli art. 443, co. 3, 448, co. 2, 579 e 680) possono proporre a. soltanto contro le sentenze di condanna; possono altresì appellare le sentenza di proscioglimento quando sulla base di prove nuove e decisive, sopravvenute dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Sono invece inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda.

Diritto processuale civile

Nel diritto processuale civile l’a. è il mezzo di impugnazione ordinario delle sentenze pronunciate in primo grado, a eccezione di quelle dichiarate inappellabili tanto dalla legge quanto in virtù dell’accordo delle parti (art. 339 c.p.c.), che abbiano deciso di ricorrere immediatamente in cassazione. L’a. si indirizza o alla corte di a. o al tribunale, a seconda che sia rispettivamente proposto contro una sentenza del tribunale o del giudice di pace (art. 341). Si tratterà dell’ufficio giudiziario superiore (Corte di a. o tribunale) nel cui ambito territoriale si trova l’ufficio giudiziario di prima istanza (tribunale o giudice di pace) al quale appartiene il giudice che abbia adottato la sentenza da appellare. Con l’a. si può far valere ogni tipo di vizio della sentenza, giacché se è vero che la legge esige che l’appellante indichi nell’atto introduttivo i motivi specifici della impugnazione (art. 342), al contempo lo lascia assolutamente libero di conformarli nel contenuto. La regola enunciata subisce una deroga nel caso di a. contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità (➔), ai sensi dell’art. 113, le quali sono appellabili esclusivamente per taluni vizi (art. 339, co. 3). Il giudice d’a. viene reinvestito del potere di decidere sullo stesso oggetto litigioso sul quale ha già deciso il giudice di primo grado, subordinatamente peraltro all’iniziativa delle parti. I limiti della devoluzione del materiale di causa, dal primo al secondo grado di giudizio, sono così segnati sia dall’iniziativa dell’appellante, attraverso la esposizione dei motivi specifici della impugnazione (art. 342), sia dalle scelte dell’appellato, che in caso di soccombenza reciproca può a sua volta impugnare la sentenza con a. incidentale (art. 343). Resta fermo, infine, che le eccezioni e le domande non accolte, se non siano espressamente riproposte in a., si intendono rinunciate (art. 346).

Problema inverso è quello relativo alla possibilità di introdurre in a. questioni che non sono state dedotte in primo grado. Non vi possono essere proposte domande nuove (se non da terzi che intervengano per la prima volta in a., ex art. 344) né eccezioni nuove, salvo che non siano rilevabili anche d’ufficio. Restano nondimeno proponibili quelle domande le quali costituiscono uno svolgimento logico o cronologico di domande già proposte. In tema di nuove prove vigono analoghe restrizioni: al divieto di proporle sfuggono unicamente il giuramento decisorio nonché le prove ritenute indispensabili ai fini della decisione e quelle che la parte interessata dimostri non aver potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa a essa non imputabile (art. 345). La proposizione dell’a. non comporta di per sé la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, che può invece essere richiesta al giudice di a. con apposita istanza insieme con la impugnazione principale o con quella incidentale (art. 283 e 351).

Normalmente il giudizio di a. si conclude con una pronunzia che è destinata a sostituirsi a quella assunta in primo grado nella regolamentazione della situazione controversa. Soltanto in alcuni casi di speciale gravità esso si conclude con una pronuncia che si limita a eliminare la sentenza impugnata e a rimettere la causa al giudice di primo grado (art. 353 e 354). Nel procedimento di a. si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale (art. 359). Se sia impugnata una sentenza del giudice di pace, e sia quindi competente per l’a. il tribunale, la trattazione e decisione della causa è monocratica. Viceversa la trattazione dell’a. è integralmente collegiale davanti alla corte di a., in ipotesi di impugnazione della sentenza del tribunale (art. 350).

La l. 143/2012, che ha convertito in legge il d.l. 83/2012, ha introdotto un c.d. "filtro" di ammissibilità dell'a.: ai sensi dell'art. 348 bis c.p.c., infatti, «l'impugnazione è dichiarata inammissibile ... quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta».

Diritto amministrativo

Nel generalizzare il principio del doppio grado di giurisdizione, la l. 1034/1971 ha disciplinato, come mezzo ordinario di impugnazione delle sentenze emesse dai Tribunali amministrativi regionali (TAR), l’appello al Consiglio di Stato (o, relativamente alla Sicilia, al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana), quale mezzo di riesame integrale della controversia decisa in prime cure.

Con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), la disciplina dell’appello ha trovato una collocazione agli artt. 100 e ss. del Codice, nell’ambito del Titolo III relativo ai mezzi di impugnazione delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali.

L’appello è un rimedio, a critica libera, che la parte soccombente può esperire per far valere, oltre agli errori e ai vizi, anche l’ingiustizia della sentenza impugnata. Tradizionalmente si classifica l’appello nell’ambito dei rimedi rinnovatori o sostitutivi, caratterizzato dall’effetto devolutivo, cioè dalla possibilità di riproporre l’intera controversia dinanzi al giudice di secondo grado, che ha i medesimi poteri di cognizione e di decisione del primo giudice, e dal divieto dello ius novorum, essendo inammissibili censure nuove rispetto ai motivi di ricorso già dedotti dinanzi al TAR.

Allo stesso modo, l’ammissibilità di nuove prove (su cui Prova. Diritto amministrativo) è legata alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirle nel giudizio di primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità (art. 104, comma 2, c.p.a.).

Il termine per proporre l’appello è di 60 giorni, a decorrere dalla notificazione della sentenza del TAR; in difetto di notificazione della sentenza, il termine per proporre appello è di 6 mesi (art. 92 c.p.a.). Nelle materie di cui all’art. 119 del Codice (perlopiù coincidenti con le materie di cui all’art. 23 bis della l. 1034/1971, come modificato dalla l. 205/2000) il termine per proporre l’appello è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza.

La legittimazione attiva è riconosciuta a ciascuna delle parti del giudizio di primo grado che sia portatrice di un interesse, inteso come possibilità di conseguire un vantaggio di carattere sostanziale a seguito della proposizione dell’appello, pena, in mancanza di tale interesse, la dichiarazione di improcedibilità. Il ricorso in appello va notificato a tutti i soggetti che hanno partecipato, in qualità di parte, al precedente giudizio. Insieme al ricorso va depositata, a pena di decadenza, la decisione impugnata. Le controparti, cui è stato notificato l’appello, possono a loro volta proporre appello incidentale. Nel giudizio di appello possono intervenire tutti i soggetti legittimati a intervenire nel giudizio di primo grado.

Con riferimento agli atti impugnabili, occorre distinguere in ragione della tipologia della sentenza del TAR: ovviamente, possono essere oggetto di appello le sentenze definitive, con qualsivoglia contenuto, anche se solo processuali. Quanto, invece, alle sentenze non definitive, la parte può scegliere se adire direttamente il giudice di seconda istanza o farlo attendendo la soluzione complessiva del giudizio, formulando, in questo secondo caso, un’esplicita riserva di appello (art. 103 c.p.a.).

Come detto, l’appello è proposto, salvo il caso della Regione Sicilia, ad una delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. In talune ipotesi, tuttavia, l’esame del ricorso può essere deferito all’Adunanza Plenaria, che rappresenta una composizione allargata particolarmente autorevole del Consiglio di Stato. Ciò può accadere, come previsto dall’art. 99 del codice del processo, in diverse ipotesi: a) quando la sezione cui è affidato il ricorso rilevi che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali; b) inoltre, prima della decisione, il Presidente del Consiglio di Stato può deferire all’Adunanza Plenaria qualunque ricorso affinché siano risolte questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali; c) infine, la rimessione può essere disposta quando la sezione ritiene di non condividere un principio di diritto precedentemente enunciato dall’adunanza plenaria.

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