ARABI

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

ARABI

A.M. Piemontese

Una trattazione sistematica del contributo degli A. alla civiltà artistica del Medioevo è data sotto le voci specifiche dedicate all'argomento (dinastie e aree geografiche), ove, accanto a quella che possiamo chiamare più propriamente arte araba, vengono trattati i distinti eppur connessi temi della produzione artistica iranica, turca e indiana. Qui si accenneranno solo alcune questioni di principio che toccano più da vicino il popolo arabo e la sua attitudine al Kunstwollen, in parte condivisa ma anche modificata e superata da altri popoli musulmani, nonché l'irradiamento che questa parte 'araba' dell'arte musulmana medievale ha avuto nell'Occidente cristiano.All'alba della storia degli A., come altrove si ricorderà, v'è la fondamentale distinzione fra sedentari e beduini. Agli effetti della attività artistica, entrerebbero nel conto soprattutto i primi, che rappresentano la cultura e religione preislamica dell'Arabia meridionale assai più progredita di quella della fluttuante massa beduina. Qui l'esplorazione archeologica, ben avviata nel nostro secolo ma ancor lontana da risultati completi e definitivi, permette fin d'ora di constatare lo sviluppo in architettura di forme d'arte, in qualche ancor vago rapporto con l'ellenismo, di cui si son potuti recuperare solo scarsi residui. Ancor più vaghi indizi di germi e contatti artistici si hanno per tutto il restante mondo beduino, dall'elementare vita religiosa e sociale, su cui aprono qualche spiraglio la poesia preislamica e la tradizione storico-antiquaria dell'età musulmana. Sappiamo qui di 'palazzi' ammirati dai nomadi negli staterelli semisedentari di Siria (Ghassanidi) e dell'Iraq (Lakhmidi di al-Ḥīra), di leggendari architetti dalla tragica fine; e uno stesso termine (haykal) venne usato da questi antichi poeti a designare solidi edifizi e gagliardi destrieri. Altri termini e immagini dell'antica poesia araba accennano a scritture e decorazioni scrittorie e, nella plastica, a idoli antropomorfici e teriomorfici come quelli del pantheon pagano che il Profeta spazzò via alla Mecca. Architettura e scultura e fors'anche pittura mossero dunque i primi timidi passi già in epoca preislamica per mano di oscuri artigiani, forse in parte stranieri, e le due civiltà artistiche contigue alla penisola araba, la persiana sasanide a Oriente e la ellenistico-bizantina a Occidente, furono appena intraviste dagli A. dei secc. 4°-6° come fari luccicanti di superiore dignità.Su questa povera vita dei nomadi, ma anche su quella dei due piccoli stati sedentari (la Mecca e Medina), sorse, gravida d'avvenire, l'esperienza religiosa di Maometto. Il suo rigido monoteismo fu naturalmente e radicalmente avverso a ogni opera di idolatria, soffocandone quindi quelle primitive manifestazioni, ma per altro verso raccolse e sviluppò (con processi rimasti ignoti nei particolari) elementari e utilitari germi d'arte. Nulla sappiamo di un'architettura civile preislamica, che pur dovette in forme elementari esistere, alla Mecca e a Medina; ma sappiamo, almeno per tradizione storica, di quella, fondamentale per il culto islamico, da Maometto inaugurata subito dopo l'Egira medinese. A Medina nel 622 nacque la prima moschea, sede del culto collettivo islamico destinato a diventare rappresentativo della nuova fede su una così vasta zona del globo. Sull'oratorio che il Profeta eresse, appena arrivato dalla Mecca, alla periferia della sua nuova sede, si hanno notizie solo per via letteraria e così dell'altra moschea sorta attorno alla sua dimora medinese, divenuta la venerata sua tomba.Questa moschea maomettana di Medina, madre di ogni altro edificio consimile, fu ampliata dai primi califfi, e totalmente rifatta agli inizi del sec. 8°, a opera del califfo omayyade al-Walīd. Queste origini islamiche segnano un punto di partenza per la illustre storia dell'architettura sacra musulmana, ma contengono anche il germe di un principio limitativo nello sviluppo artistico di quella civiltà: l'asserito divieto di ogni rappresentazione di figure umane, che gravò in seguito fortemente su tanta parte della produzione artistica in terra d'Islam.Nessun esplicito divieto del genere è nel Corano, il libro sacro di quella fede; ma numerosi sono i ḥadīth (cioè i detti del Profeta, o a lui attribuiti) che condannano come empia presunzione in gara con il Creatore la raffigurazione di esseri animati. Esemplare a riguardo, e con molte varianti, il ḥadīth sugli angeli che non entrano là dove siano 'figure' (in arabo ṣuwar: al tempo di Maometto, con ogni probabilità, ricami ornamentali su cuscini, o fors'anche dipinti murali). Un atteggiamento di diffidenza e ripulsa che riflette l'antico scrupolo semitico verso ogni 'gara d'imitazione' con la divinità creatrice, quasi stimolo e tentazione alla idolatria.Scrupoli teologici dunque, radicati nel semitismo, stanno alla base di questo principio limitativo per lo sviluppo artistico entro l'Islam. Ma tale divieto non fu sempre osservato. Nel più antico e glorioso periodo della storia araba, il secolo omayyade (sec. 7°-8°), esso fu frequentemente eluso, come provano ad abbondanza gli avanzi conservatisi o venuti in luce di quel periodo (pitture di Qusayr 'Amrā, sculture di Qaṣr al-Ḥayr, compresa la raffigurazione a tutto tondo del califfo stesso). L'influsso ellenistico, sempre più visibile nell'arte omayyade (mosaici della Grande moschea di Damasco, di Khirbat al-Mafjar e di altre ville e castelli del deserto), si affermò allora vittorioso in contrasto con ogni scrupolo religioso. Nella nuova fase storica e storico-artistica dell'età abbaside, quella libertà venne meno, e la corrente di aniconicità che accompagna l'arte araba andò via via prevalendo. Talune arti figurative se ne salvano, come la miniatura, mentre più ne soffre la scultura, assente, fuor dei limiti decorativi, in tutta l'arte medievale islamica, e non soltanto araba. Dalla diffidenza teologica alla svalutazione intellettuale e sociale il passo è breve, come provano la quasi totale assenza di una teoresi dell'arte nella filosofia araba e il fenomeno generale dell'anonimato per i tre quarti della produzione artistica araba (altro sarà il caso nell'arte persiana e turca) ove, anche nel fiorire dell'attività figurativa, è quasi ovunque ignoto il nome dei suoi cultori. Il caso del miniaturista Yaḥyā al-Wāsiṭi, il brillante illustratore delle Maqāmāt di al-Ḥarīrī (sec. 13°), e di poche altre personalità di artisti di cui è noto il nome, costituisce un'eccezione. L'arte 'araba' non conosce un Sinan o un Bihzād, vanto l'uno dell'architettura ottomana, l'altro della miniatura safavide di Persia. E i maestri creatori di capolavori come le grandi moschee di Cordova o Kairouan, degli avori andalusi, della Giralda e della Kutubiyya restano avvolti in un pio destino di ombra. Solo ai calligrafi la cultura medievale araba riserba un certo individuale interesse. Anche se la personalità del singolo artista si perde nell'anonimato, l'impetuosa vena della produzione artistica fluisce sempre copiosa per i secoli classici della civiltà arabo-musulmana. L'epoca omayyade si aprì spregiudicatamente all'influsso ellenistico per la via di Bisanzio (emblematica è la notizia degli architetti e mosaicisti inviati dall'imperatore bizantino al califfo al-Walīd); ma già nella tarda età omayyade, e poi in sempre crescente misura sotto gli Abbasidi, all'influsso greco si accompagna e su esso prevale quello iranico, dell'arte sasanide. Alla toreutica iranica si richiama esplicitamente Abu Nuwās, il poeta bacchico, nel descrivere le coppe istoriate del vietato vino. Alla tecnica ceramistica iranica è dedicato uno dei pochi scritti teorici pervenuti. La Persia capta conquistò culturalmente gli A. nei periodi più brillanti della loro civiltà altomedievale: e tale influsso iranico arrivò a farsi sentire anche lontano sulla via dell'Occidente, in Egitto e nel Maghreb. Ma qui l'anonimo genio artistico degli A. seppe più profondamente e durevolmente imporsi, nella nuda e raffinata architettura religiosa d'Africa e di Spagna, ove l'arabismo ha scritto una delle sue pagine più gloriose. L'arte araba si estingue, come forza viva, in Oriente e Occidente, con gli albori del nostro Rinascimento, nella generale decadenza degli A. in seno all'Islam.Questa parte dell'arte musulmana, creata e diffusa dagli A. nel Mediterraneo, ha avuto la sorte, oltre al suo intrinseco valore, di influire in cospicua misura, per tutto il periodo medievale, sull'arte dell'Occidente stesso. Nei due tentacoli protesi dall'arabismo e dall'Islam entro l'Europa, la Sicilia e la penisola iberica, l'arte degli A. ebbe una sua propria storia e insieme interferì e influì sulla evoluzione di quella cristiana con cui venne a contatto. Per la Sicilia, e per buona parte della terraferma italiana, corsa dagli A. anche senza stabile dominio, l'attecchirvi e il filiarvi del legato artistico dell'Islam è un fenomeno ben noto e ancor imperfettamente studiato, ma di gran rilevanza per la civiltà stessa occidentale. Se nell'isola quasi nulla è rimasto dell'epoca del diretto dominio arabo, l'arte arabo-normanna ha scritto, per il geniale sincretismo culturale degli Altavilla, gloriose pagine a tutti note (con qualcun'altra ancora poco nota) nei monumenti di Palermo, Cefalù, Messina, Caronia. E fuor di Sicilia, per tanta parte della Penisola, ove gli A. sembrano esser passati solo da scorridori, il loro mondo artistico si insinuò allora e poi, combinandosi con quello occidentale, romanico-gotico e bizantino, in una feconda e originale simbiosi. Basti qui ricordare il patrimonio artistico di Campania (Salerno, Amalfi, Ravello, Caserta Vecchia, ecc.), di Puglia (Bari, Trani, Canosa), di Abruzzo (Loreto Aprutino, Moscufo). Ma l'influsso arabo non si arresta alle regioni più infestate dagli A. nell'Alto Medioevo e trapassa dal Sud e Centro d'Italia alla Lombardia e a tutta la Valpadana, ove un diretto dominio arabo non fu mai, eppure il patrimonio monumentale ne testimonia in più casi gli influssi.Diverso e maggior discorso è da fare naturalmente per la Spagna, per quasi sette secoli, in una gran parte poi via via ridottasi, terra d'Islam. Anche qui non ci si deve limitare all'insigne e ben noto patrimonio originale superstite, ma lo si deve integrare con i frutti del contatto artistico in area ed età cristiana, attraverso quell'arte mozarabica in cui si esprime la confluenza e imbricazione fra i due mondi. I Mozarabi di Spagna, rimasti cristiani ma linguisticamente e culturalmente assimilati ai musulmani, costituirono per secoli la cerniera e il veicolo di reciproci scambi culturali, tra cui l'elemento artistico ha avuto una notevole parte. Così, nel campo architettonico, tutta una serie di poco noti monumenti provinciali di Spagna (San Miguel de Escalada, Santa Maria de Melque, San Millán de la Cogolla) reca chiara l'impronta dell'influsso strutturale e decorativo arabo. Fuor del campo architettonico, esso si rivela non meno presente in opere cristiane di pittura (miniature del sec. 10°) e nelle arti minori, in cui si riflette la influenza e mediazione mozarabica.Così in entrambe le zone di frontiera dell'Islam arabo passato in Europa (Italia e Spagna), un fiotto di prodotti d'arte, bronzi e in generale metalli, tessuti, legni, cristalli, ceramiche (i 'bacini' di campanili), disperso oggi per musei e tesori di singole chiese, resta parlante documento di questa irradiazione dell'arte arabo-islamica nella 'infedele' Europa. Il fatto artistico, qui come altrove, si è rivelato ancor più fecondo e duraturo di quello politico e religioso.

Bibl.: G. Marçais, La question des images dans l'art musulman, Byzantion 7, 1932, pp. 161-183; L'Occidente e l'Islam nell'Alto Medioevo, "XII Settimana del CISAM, Spoleto 1964", Spoleto 1965; G. Levi Della Vida, I Mozarabi tra Occidente e Islam, ivi, pp. 667-695; H. Schlunk, Die Auseinandersetzung der christlichen und der islamischen Kunst auf dem Gebiete der iberischen Halbinsel bis zum Jahre 1000, ivi, pp. 903-931; O. K. Werckmeister, Islamische Formen in spanischen Miniaturen des 10. Jahrhunderts und das Problem der mozarabischen Buchmalerei, ivi, pp. 933-967; R. Paret, Die Entstehungszeit des islamischen Bildverbots, Kunst des Orients 11, 1976-1977, pp. 158-181; F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre, 5), Milano 1979 (19852). F. Gabrieli

Storia

La storia dei primi abitanti della penisola arabica, nota solo attraverso alcuni testi assiri o narrazioni di autori classici, rimane tuttora assai oscura. A partire dal sec. 9° a.C. il termine Aribi compare nelle iscrizioni assire e babilonesi per designare gli abitanti del Nord dell'Arabia. Peraltro, i primi testi in arabo antico non risalgono, allo stato attuale delle ricerche, più addietro del sec. 4° d.C. e per lo più consistono solo in brevi iscrizioni di difficile datazione. Il periodo di elaborazione dell'arabo classico si colloca tra i secc. 4° e 6° della nostra era, arrivando, verso la fine del sec. 5°, alla formazione della prima scuola di poeti arabi, il cui rappresentante più famoso fu senza dubbio Imru' al-Qays (m. 550 ca.).Assai presto, a quanto sembra, gli A. cominciarono a espandersi verso il Nord. Allevatori di bestiame, mercanti o agricoltori, arrivarono sino alla parte settentrionale del deserto siriano e ai limiti della c.d. Mezzaluna fertile. Taluni, come i Nabatei, fondarono già nel sec. 4° a.C. un regno situato a S e a E del mar Morto e conobbero una vera e propria prosperità, come testimoniano le spettacolari rovine della loro capitale Petra. Altri piccoli regni arabi sorsero al tempo del declino della monarchia seleucide, in particolare a Emesa (Ḥimṣ) o a Edessa (Ruhā, Urfa). Arabi furono anche alcuni imperatori romani, come Eliogabalo (218-222), in origine gran sacerdote di Emesa, e il suo successore Filippo l'Arabo (244-248). Nel sec. 3° d.C. si ebbero nuove migrazioni di tribù arabe: gli Asad e i Tanūkh, originari dell'Arabia orientale, si diressero gli uni verso il Sud dell'Ḥawrān, gli altri verso la Siria centrale (Ḥimṣ) e settentrionale. Altre tribù, come i Nizār dell'Arabia centrale od occidentale, migrarono verso le regioni dell'Eufrate. Infine, all'inizio del sec. 4°, la dinastia araba dei Lakhmidi (300-600), alleata ai Sasanidi, si installò a Ḥīra in Mesopotamia. Convertiti al cristianesimo nestoriano, i Lakhmidi si opposero ad altri A., i Ghassanidi (502-613), cristiani monofisiti e principale appoggio dei Bizantini nell'antica provincia d'Arabia, nella Siria meridionale e nell'attuale Giordania.Questa espansione degli A., importante fin dal periodo preislamico, raggiunse la massima ampiezza al tempo delle grandi conquiste musulmane dopo la morte del Profeta (632). In meno di un secolo gli A. si impadronirono di un territorio esteso dal Nord della Spagna ai confini dell'Asia centrale. In Iran, dove esistevano colonie di A. dall'epoca preislamica, la maggior parte degli A. provenienti soprattutto dalla Bassa Mesopotamia si stabilì nel Khorasan; in Egitto, i coloni arabi conservarono per più di due secoli il ricordo delle loro tribù d'origine, come attestano le iscrizioni funerarie di Assuan e di Fusṭāṭ. Fieri della loro entità araba, si opposero ai tentativi degli indigeni convertiti che cercavano di essere riconosciuti anch'essi come Arabi. Nell'Africa del Nord governatori, mercanti e uomini di religione accompagnarono o seguirono i combattenti, costituendo la prima ondata delle migrazioni arabe nella regione. La seconda ondata, che ebbe conseguenze più drammatiche per la popolazione, si verificò nel sec. 11° con l'invasione devastante dei Banū Hilāl, seguita nel sec. 12° dall'avanzata dei Banū Sulaym. La Spagna vide infine arrivare al tempo della conquista, dopo il 91 a.E./710, una popolazione di combattenti arabi e berberi, cui si aggiunse, nel 122 a. E./740, una seconda migrazione di A. siriani.Tutti questi territori vennero dunque arabizzati progressivamente, prima attraverso l'insediamento nel cuore delle città, e talvolta anche nelle campagne, di popolazioni arabe, poi attraverso l'adozione più o meno rapida, da parte delle popolazioni indigene, della lingua araba: lingua di uso liturgico per i nuovi convertiti all'Islam, ma anche mezzo generale di espressione e di scambio, usato nei rapporti economici e nei mercati. Il che non escluse in qualche caso, come in Egitto, la resistenza delle lingue regionali alla progressiva diffusione dell'arabo; in Egitto l'amministrazione venne lasciata a lungo in mano ai Copti, i quali continuarono a redigere i testi nella loro lingua. A partire dal sec. 8° i documenti ufficiali furono generalmente stilati nelle due lingue. In seguito l'arabo guadagnò terreno, ma ancora nei secc. 13°-14° vi erano scrivani copti, come Ibn al-῾Assāl, che conoscevano perfettamente il copto, il greco e l'arabo.Con l'espansione dell'Islam e la costituzione di un grande impero, la documentazione sugli A. si arricchisce notevolmente ma nello stesso tempo la loro storia si confonde spesso con quella dell'Islam e pone numerosi quesiti circa la coscienza della propria origine etnica, della propria storia e della propria identità culturale.Essendo le loro origini, come si è visto, molto oscure, gli A. cominciarono assai presto a costituirsi una genealogia che è sempre interessante tenere presente, qualunque sia il suo valore obiettivo. Due capostipiti sarebbero all'origine degli A. e della loro principale divisione. Anzitutto Qaḥṭān (che i genealogisti arabi tendono a far discendere da Noè e Sem), i cui discendenti, gli A. del Sud, vengono considerati i più vicini agli A. veri e propri. Questi comprendevano tribù come gli Imariti (Sabei, Minei, all'origine di stati fiorenti) cui si collegavano anche le tribù di Quḍā῾a come i Banū Kalb e i Banū Tanūkh. Di essi facevano parte anche i Lakhm e i Ghassān che, come si è detto, fondarono dei piccoli stati in Mesopotamia e nella Siria meridionale. Alcune di queste tribù, migrando verso il Nord, si mescolarono alle popolazioni dell'Arabia settentrionale, della Siria o della Mesopotamia. Quanto agli A. del Nord, essi pretendevano di risalire a ῾Adnān, discendente d'Ismā῾īl, figlio di Abramo, che sarebbe stato a sua volta all'origine dei due rami principali dei Muḍar e dei Rabī'a. Dai Muḍar sarebbero derivati i Qays e soprattutto i Quraysh, tribù del Profeta, il che non mancò di ravvivare il prestigio di quelle tribù di A. del Nord che alcuni chiamavano 'arabizzati' (musta῾riba) in contrapposizione con i veri A. del Sud. Questa divisione degli A. in due rami corrispondeva generalmente a due differenti sistemi di vita: ai sedentari del Sud si contrapponevano i nomadi del Centro e del Nord che non conoscevano un vero e proprio Stato costituito. I secondi segnarono profondamente gli inizi della civiltà araba, tanto che nei testi medievali la denominazione di al-῾Arab indicava i beduini. Inoltre, durante i primi secoli dell'Islam, una dura rivalità oppose le tribù del Nord a quelle del Sud, manifestandosi sino ai confini dell'impero islamico come, per es., in Spagna. Sebbene questi tentativi di ricostruzioni genealogiche siano in genere basati su ben pochi dati obiettivi di effettivo valore storico, colpisce tuttavia l'importanza che gli A. davano alla purezza della propria razza; in particolare i beduini, fieri di appartenere a questa o quella tribù, presso i quali le regole relative al matrimonio venivano violate assai di rado. Nella letteratura, l'opera di Hishām Ibn al-Kalbī (m. nel 204 a.E./819) illustra con efficacia questo interesse nei confronti della propria genealogia.Su un piano più strettamente storico fu nell'epoca omayyade (40-132 a.E./661-750) che risultò chiaramente il primato riconosciuto agli A., che dominavano largamente l'esercito e le istituzioni di governo e i cui obblighi fiscali erano molto inferiori a quelli che colpivano i neoconvertiti (mawālī). In seguito, i primi Abbasidi, pur proclamandosi A. appartenenti alla famiglia del Profeta, seppero utilizzare il malcontento crescente delle popolazioni non arabe convertite all'Islam, in particolare iraniche, per imporsi e consolidare il loro potere. Si ebbe così la vittoria degli ῾Ajam sugli A., ormai in posizione di difesa della propria identità originaria. Così, anche se non diretta specificamente contro gli A., la 'rivoluzione abbaside' fece loro perdere gran parte dei privilegi di cui godevano. Gli A. si mescolarono sempre più alle popolazioni locali (iraniche, siriane, copte, berbere, iberiche) nell'ambito di una società ormai alquanto eterogenea, testimoniata anche in quest'epoca dal numero crescente di califfi abbasidi nati da madri non arabe. Pur perdendo i loro privilegi, gli A., e in particolare gli appartenenti alla famiglia del Profeta (abbasidi o alidi), che si fregiavano della qualifica di sharīf ('nobile', 'eminente'), non perdettero il loro prestigio. In una società in cui la purezza del sangue era sempre più difficilmente accertabile, gli A. svilupparono una cultura alla quale parteciparono tutte le etnie e le regioni e che si può definire 'arabo-islamica'.Mezzo di espressione di tale cultura fu subito e soprattutto la lingua araba, lingua del Corano 'inimitabile', quindi intraducibile, e di conseguenza lingua di tutte le scienze religiose. Tenuto conto della islamizzazione progressiva dei territori conquistati dagli A., tale funzione di lingua religiosa e liturgica, acquisita dall'arabo, rappresentò un importantissimo fattore di arabizzazione. Al di là delle scienze religiose, l'arabo si sviluppò anche nel campo letterario. Venne coltivata la poesia, retaggio dell'Arabia preislamica, con la comparsa di nuovi temi, legati ai mutamenti sopravvenuti con l'espansione islamica. La prosa araba vide la luce in epoca omayyade: Ibn al-Muqaffa῾, morto intorno al 139 a.E./756, creò il genere letterario dell'adab che venne ripreso e sviluppato nel sec. 9° da al-Jāḥiẓ e dai suoi discepoli; si sviluppò inoltre una nuova letteratura geografica e storica, preludio alla ricchissima produzione che si ebbe in questo settore nei secoli successivi.La cultura arabo-islamica venne originariamente unificata dalla lingua, l'arabo, ma anche dai frequenti scambi commerciali tra le differenti regioni del mondo islamico, che interessarono peraltro solo una minoranza della popolazione, i mercanti. L'obbligo del pellegrinaggio alla Mecca, invece, spinse a spostarsi un gran numero di musulmani. In qualche caso poi furono incidenti politici (una rivolta, un cambiamento di dinastia) a provocare uno spostamento di popolazione all'interno del mondo musulmano. Soprattutto viaggiavano gli uomini di religione o di lettere, gli intellettuali in genere, attratti dal fasto di una corte principesca, dalla fama di un asceta o dall'insegnamento di determinati maestri. Città come Cordova, Kairouan, Baghdad erano importanti centri di attrazione nel 10° secolo. Più tardi, con lo sviluppo delle madrase (scuole coraniche) nei secc. 12° e 13°, Baghdad, Gerusalemme, Damasco, Aleppo e il Cairo attirarono una quantità di professori e studenti; opere e idee circolavano così nel cuore del mondo musulmano. Esattamente lo stesso accadeva nel campo delle influenze artistiche e architettoniche: per es. l'influenza andalusa nel Maghreb occidentale, l'influenza di Samarra nella fondazione di Ibn Ṭūlūn al Fusṭāṭ, l'utilizzazione dell'īwān di origine iranica nell'architettura siro-mesopotamica. In questo campo l'Ifriqīya ebbe un ruolo di collegamento molto importante tra Oriente e Occidente. Nel sec. 9° la moschea di Kairouan contribuì a diffondere nella zona estrema del Maghreb un particolare tipo di pianta architettonica, la pianta a T, apparsa qualche anno prima a Samarra, destinata a valorizzare il miḥrāb e la direzione della Mecca mediante l'allargamento della navata assiale e di quella parallela al muro della qibla.Questa cultura arabo-islamica fu inoltre contrassegnata, in molteplici campi letterari, scientifici e artistici, da influssi stranieri o anteriori all'Islam. In età abbaside ebbe un rilievo notevole il retaggio ellenistico e persiano. Il califfo al-Ma'mūn (198-218 a.E./813-833) incoraggiò la traduzione in arabo di opere di filosofia, astronomia, matematica e medicina di ambito ellenistico; la fondazione della Casa della Saggezza (Bayt al-Ḥikma) a Baghdad nel 217 a.E./832, dove si trovavano fianco a fianco studiosi di tutte le confessioni e di numerose province dell'impero, è rivelatrice del suo desiderio di integrare l'apporto di diverse culture alla civiltà arabo-islamica. Uno scrittore come Ibn al-Muqaffa῾, creatore della prosa letteraria araba, fu uno dei primi traduttori in arabo di opere indiane o iraniche, in particolare del libro di Kalīla wa Dimna, versione iranica delle favole indiane di Bidpay. Egli compose inoltre un trattato di consigli al principe, al cortigiano e all'uomo di mondo, ispirato alla letteratura persiana. Un secolo più tardi, Ibn Qutayba (m. 276 a.E./889) inserì nella sua opera tradizioni indo-iraniche alle quali aggiunse, dopo al-Jāḥiẓ (m. 255 a.E./869), richiami ellenistici e influssi giudeo-cristiani. Anche nei famosi racconti delle Mille e una notte (Alf layla wa layla), che presero corpo progressivamente, a partire dal sec. 8° e sino all'inizio del 16°, ritornano numerosi elementi estranei alla civiltà araba, in particolare indiani e persiani. Si aggiunga, infine, che numerosi uomini di studio erano di origine non araba, anche se scrivevano in questa lingua: il matematico al-Khwārizmī (verso il 229 a.E./844), l'astronomo al-Farghānī (m. dopo il 247 a.E./861), il geografo Ibn Khurradādhbih (m. dopo il 272 a.E./885), il moralista Ibn Miskawayh (m. 421 a.E./1030), il filosofo Ibn Sīnā, noto in Occidente con il nome di Avicenna (m. 428 a.E./1037). Molti erano di origine iranica, ma il loro numero non consente di citarli tutti.Per quanto riguarda l'arte e l'architettura, gli A., che non avevano alcuna tradizione specifica in questo campo, adattarono alla nuova società e alle particolari necessità della loro religione tradizioni più antiche, che, a seconda dei luoghi, furono persiane, ellenistiche, romane, bizantine. La struttura di alcune città tradisce influssi irano-mesopotamici (la 'città rotonda' di Baghdad) o ellenistici e romani (la fondazione omayyade di ῾Anjar). Tradizioni locali si perpetuarono talvolta nell'architettura di nuovi monumenti: l'utilizzazione dell'īwān sasanide fin dall'età omayyade nella costruzione di palazzi e più tardi nell'architettura religiosa, l'adozione della pianta centrale a cupola o della pianta a 'navata basilicale', il ricorso alla decorazione in mosaico o alla tarsia marmorea secondo il modello bizantino (Cupola della Roccia a Gerusalemme, Grande moschea degli Omayyadi a Damasco), la persistenza di tecniche di costruzione e di motivi decorativi, costituiscono altrettanti esempi, fra gli altri, che permettono di capire meglio le difficoltà di identificazione che talora insorgono nei confronti dei primi monumenti omayyadi. Nel corso dei primi secoli dell'Egira nacque dunque una cultura nuova. Benché impregnata di tradizioni anteriori, determinò di colpo il costituirsi di caratteristiche nuove, islamiche e arabe al tempo stesso: islamiche grazie alla religione che ormai univa popoli ed etnie molto diversi; arabe perché si svilupparono in un impero originariamente dominato dagli A. e soprattutto perché la lingua araba si era imposta ovunque. L'arte del tempo, che dava notevole spazio alla scrittura araba nella decorazione dei monumenti e degli oggetti, illustra bene questa realtà.In Oriente come in Occidente, il sec. 11° segna una svolta importante nella storia della civiltà araba. Il frazionamento politico dell'impero abbaside era iniziato dalla fine del sec. 9° ed erano già comparse dinastie di origine non araba: Tahiridi, Saffaridi e Samanidi nelle regioni iraniche, Tulunidi, di origine turca, in Egitto, Buridi iraniani nel sec. 10° a Baghdad. Peraltro, il vero e proprio sconvolgimento dell'Oriente non avvenne che alla metà del sec. 11° con l'arrivo dei Turchi selgiuqidi, il cui potere si estese dall'Iran orientale alla Siria e all'Anatolia: quest'ultima fece così il suo ingresso nel mondo islamico. I nuovi venuti formarono una popolazione essenzialmente militare che, almeno all'inizio, si mescolò poco agli altri abitanti, raggruppandosi all'interno delle città in propri quartieri (per es. il quartiere dei Turkmeni nella zona meridionale di Aleppo) e praticando i mestieri e i piccoli commerci necessari all'attività dei combattenti. Il complesso dell'attività amministrativa, religiosa, scientifica e culturale continuava peraltro a essere dominato dagli A. e dai Persiani. Nel sec. 12°, mentre nella parte orientale dell'impero i discendenti dei grandi Selgiuqidi facevano di Isfahan la loro capitale e subivano l'influenza persiana, in Siria, per motivi a un tempo religiosi e politici, i sovrani turchi della dinastia zangide (Zangī e Nūr al-Dīn), poi curdi a partire da Saladino, diedero un nuovo slancio alla vita culturale della loro regione. In prima persona o attraverso membri del loro ambiente fondarono in Siria, in Palestina e quindi in Egitto (dopo la caduta del califfato fatimide del Cairo nel 567 a.E./1171) centri nei quali si insegnavano le scienze e soprattutto numerose madrase, dedicate agli studi giuridici e religiosi e destinate a formare un gruppo emergente sunnita in grado di predicare il Jihād contro i Franchi e di portare avanti la lotta contro gli eretici. L'insediamento di dinastie turche e in seguito curde sconvolse quindi l'equilibrio politico ed etnico di questa regione; ma la cultura arabo-islamica fu incoraggiata, nella stretta osservanza dell'ortodossia sunnita, da sovrani che ebbero la tendenza ad arabizzarsi progressivamente. Nell'Anatolia si ebbe dapprima un lento diffondersi di vari influssi fra loro intrecciati: elementi turchi si installarono accanto a una popolazione autoctona che poco a poco si islamizzò e adottò la lingua turca. L'arabo rimase peraltro la lingua delle discipline religiose e giuridiche, esercitando un sicuro influsso su quella turca, cui fece numerosi prestiti. Infine, soprattutto nel sec. 13°, immigrati persiani si stabilirono in numero via via crescente in Anatolia, contribuendo alla sua organizzazione amministrativa e culturale e legando questo territorio a una civiltà piuttosto irano-turca musulmana che non veramente araba. Quanto all'Iran, la rinascenza del persiano, ormai d'uso per così dire obbligato nella letteratura e nelle scienze profane, fece sì che questa regione sfuggisse sempre più all'influsso arabo.L'invasione dei Mongoli, alla metà del sec. 13°, accelerò in Oriente questo processo di frammentazione delle aree culturali. La sfera iranica si staccò dal mondo arabo per continuare la propria evoluzione sotto la dinastia mongola degli Ilkhanidi nel 14° secolo. La Mesopotamia di lingua araba, a essa legata, dovette per questo subire una dominazione non araba nel corso del sec. 14° per essere poi, nel secolo successivo, contesa fra Turchi e Mongoli. D'altra parte, una delle conseguenze importanti della conquista di Baghdad da parte dei Mongoli nel 656 a.E./1258 fu lo spostamento del califfato abbaside verso il Cairo: anche se l'autorità del califfo sotto i Mamelucchi era solo fittizia, l'Egitto diventava in questo modo il nuovo centro del mondo arabo-islamico. A partire dal 658 a.E./1260, i Mamelucchi portarono il Jihād al tempo stesso contro i Franchi e contro i Mongoli, annettendo così all'Egitto l'intera Siria-Palestina. La particolare originalità della loro organizzazione politica e militare che richiedeva continuamente nuovi apporti di schiavi, i soli a poter accedere al potere, creò sul piano sociale uno stacco rilevante tra la casta militare e il resto della popolazione. La cultura araba continuò a vivere peraltro nel complesso del territorio ove la totalità delle popolazioni continuava a parlare l'arabo. In una terza regione, l'Anatolia, lo stato selgiuqide di Rūm, trasformato all'inizio del sec. 14° in provincia dell'impero Ilkhanide di Persia, fu interessato dalla migrazione di bande di Turkmeni, i quali, spostandosi sia sulle orme dei Mongoli, sia perché cacciati da questi dal proprio paese d'origine, formarono progressivamente nel territorio piccoli principati, rafforzando così l'elemento turco in una regione che non avrebbe tardato a subire la dominazione ottomana. L'invasione mongola del sec. 13° aveva quindi veramente portato a termine il processo di 'disarabizzazione' del mondo turco e persiano.Anche in Occidente, a partire dal sec. 11°, si stabilirono importanti dinastie non arabe, di origine berbera. Gli Almoravidi (462 a.E./1070: fondazione di Marrakech) e poi gli Almohadi (a partire dal 540 a.E./1145) si impadronirono in seguito del potere politico ma, privi di tradizioni culturali, subirono l'influenza del mondo arabo e andaluso nel campo delle lettere, delle scienze religiose, dell'arte e dell'architettura. L'unione politica della Spagna musulmana e di una gran parte dell'Africa del Nord ebbe come conseguenza la diffusione dell'arte andalusa sulla sponda opposta dello stretto di Gibilterra, mentre sotto gli Almohadi si era stabilito uno stretto contatto con l'Ifrīqiya che aveva favorito l'arrivo di influssi orientali. La pianta della moschea almohade di Rabat, per es., riflette chiaramente il gioco combinato degli influssi ispanomoreschi (forma quadrata del minareto, lunghe navate che ricordano la moschea di Cordova) e quelli dell'Oriente abbaside (pianta a T, dimensioni imponenti del monumento, aree estese - ziyāda - all'esterno della moschea). Nei secc. 13° e 14°, mentre della Spagna musulmana non era sopravvissuto che il piccolo regno nasride di Granada, l'Africa del Nord veniva suddivisa fra tre dinastie berbere (Merinidi, Abdalwadidi e Hafsidi) che nonostante le loro origini continuarono ad appellarsi all'arabismo. Le opere del famoso storico Ibn Khaldūn (m. 808 a.E./1406) e del grande viaggiatore Ibn Baṭṭūṭa (m. 770 a.E./1369) dimostrano fino a che punto questi autori si riconoscessero ancora nella vasta cultura arabo-islamica. Nella stessa Spagna l'eredità araba sopravvisse, molto tempo dopo la Reconquista, nel campo delle istituzioni urbane, in quello della toponomastica, del vocabolario corrente, delle scienze, della filosofia, dell'arte e dell'architettura (arte mudéjar).Ricapitolando, a livello demografico, nel corso dei secoli, divenne sempre più difficile distinguere gli A. puri dagli A. di sangue misto o anche dai non-arabi (Iberici, Berberi, Turchi, Iranici), a causa dell'afflusso costante di nuovi popoli che adottavano la fede musulmana, imparavano l'arabo per motivi liturgici (continuando peraltro a usare la propria lingua) e si mescolavano, attraverso i matrimoni, con gli A. propriamente detti. A livello culturale, sino alla metà del sec. 13° esistette una cultura arabo-islamica, comune agli A. e ai nonarabi, fondata su una religione, l'Islam, e il cui principale mezzo di espressione rimase l'arabo, malgrado una rinascenza del persiano nelle regioni orientali dell'impero, utilizzato dal sec. 10° a Bukhara nella letteratura profana. All'interno di questa vasta area geografica gli scambi furono sempre intensi e vari, tanto sul piano intellettuale quanto in ambito artistico e architettonico.Nel contesto di questa civiltà definita a un tempo araba e islamica è necessario pertanto rendersi conto della specifica collocazione dei non-musulmani, ebrei e cristiani soprattutto. Occorre chiedersi se essi fossero considerati come A.; per altro verso come venissero visti gli A. dal di fuori e in particolare se l'Occidente cristiano sapesse distinguere gli A. dai musulmani in genere.Da un punto di vista puramente etnico esistevano prima dell'Islam A. convertiti al cristianesimo o al giudaismo. Oltre ai già citati Lakhmidi, cristiani nestoriani della Bassa Mesopotamia, e ai Ghassanidi, monofisiti della Siria meridionale, altri A. si erano stabiliti in Siria e in Alta Mesopotamia e molti di essi si erano convertiti al cristianesimo. Parallelamente, il cristianesimo aveva raggiunto il Sud dell'Arabia, dove esistevano chiese e vescovadi. Anche il giudaismo si era esteso nelle oasi dello Hijaz e nell'ambito di alcune grandi famiglie dell'Arabia del Sud. All'inizio del sec. 6° un principe giudaizzante, Yūsuf Ash῾ar, comunemente noto come Dhū Nuwās, arrivò a impadronirsi del potere nell'Arabia del Sud e perseguitò i cristiani monofisiti.Dopo la conquista musulmana un certo numero di ebrei e di cristiani si convertirono all'Islam, mentre altri conservarono la propria religione. Ma la gran massa dei nonmusulmani era ormai costituita dalle popolazioni non-arabe dei territori conquistati. Coloro che vollero, poterono esercitare liberamente il proprio culto, osservando determinati obblighi, e beneficiarono così dello stato di dhimmī (protetti). Questi cristiani e questi ebrei (e in minor misura gli zoroastriani) non rimasero al margine della società e della civiltà araba, ma si arabizzarono progressivamente imparando la lingua di coloro che li governavano, anche se continuarono a usare la propria (aramaico, siriaco, greco, copto, ebraico, berbero, lingue romanze, ecc.). La cosa permise loro, in qualche caso, di partecipare attivamente allo sviluppo delle lettere e delle scienze arabe; il loro ruolo fu in particolare quello di collegamento tra la civiltà antica e la civiltà musulmana grazie alle loro traduzioni di opere latine o greche. Spesso questi intellettuali aggiungevano un nome arabo al nome proprio della religione d'appartenenza. In Spagna si ricorda per es. l'ebreo Abū Yūsuf Ḥasdāy b. Isḥāq b. Shaprūt (m. verso il 365 a.E./975), medico e uomo di vasta cultura, che tradusse dal latino in arabo (secondo la versione originale greca) il trattato di medicina di Dioscoride. Un cristiano, Rabī῾ b. Zayd, vicino ai regnanti e vescovo d'Elvira, redasse in arabo, con un adattamento latino, il famoso Calendario di Cordova del 350 a.E./961, documento prezioso sulla vita rurale andalusa. In Oriente si conoscono il medico e teologo nestoriano di Baghdad, Ibn Buṭlān (m. 458 a.E./1066), e il coevo Yahyā di Antiochia, medico come lui e storico melchita, autore di una cronaca in arabo che trae ispirazione a un tempo da fonti greche, cristiane locali e musulmane. Un secolo più tardi, Ibn Maymūn (Mosè Maimonide), originario della Spagna e stabilitosi in Egitto dal 561 a.E./1166, teologo e famoso medico ebreo, scrisse la sua opera in ebraico e in arabo. Questi pochi esempi sono sufficienti a dimostrare come cristiani ed ebrei, lungi dal rifiutare la cultura araba, contribuirono spesso ad arricchirla, pur conservando all'interno della società arabo-islamica la propria originalità e i propri connotati specifici di lingua, religione e tradizioni.Su un altro versante, gli A. furono assai presto oggetto di curiosità e di studio. Nel sec. 2° Tolomeo disponeva ad Alessandria di documenti sufficienti a tracciare una carta dell'Arabia. A partire invece dall'espansione islamica, A. e musulmani cominciarono a confondersi nella visione occidentale; di fatto i termini più correnti, nei testi medievali, per definire gli A. o i musulmani erano Ismaeliti o 'figli d'Ismaele' (Banū Ismā῾īl), Agareni (discendenti da Agar e Abramo) e soprattutto Saraceni, termine dall'etimologia piuttosto incerta: discendenti da Sara, moglie di Abramo (in contrapposizione con Agar, che era la sua serva), o dall'arabo Sharqiyyīn ('orientali'). Altrove, il califfo viene chiamato re dei Persiani e i musulmani d'Occidente sono designati con il termine di Mauri. Il nome A. venne usato solo raramente e, quando lo si trova, è inteso soprattutto nel senso classico di A. beduini. Come si vede, i termini sono poco chiari e una grande confusione regnava in proposito in Occidente all'inizio del Medioevo. Mentre è chiaro che nell'età preislamica il termine greco Sarakenói e quello latino Saraceni si riferivano agli A., più tardi, con l'espansione dell'Islam, vennero usati nell'accezione assai più ampia di musulmano arabofono. Gli A. cristiani per es. non vennero mai chiamati Saraceni.Mentre nei primi secoli dell'Islam il nome Saraceni era per gli occidentali soprattutto sinonimo di devastazione o di pirateria, a poco a poco prese forma un'analisi più precisa dell'ideologia di questo popolo, dapprima presso i cristiani della Spagna musulmana, i Mozarabi, e presso i cristiani orientali come Giovanni Damasceno (m. verso il 750). A partire dal sec. 11° il mondo saraceno divenne il principale nemico della cristianità occidentale, il che indusse gli Europei a precisare con più esattezza l'aspetto dei loro avversari. L'irruzione dei Turchi sulla scena politica del Vicino Oriente alla metà del sec. 11° fu bene avvertita da certi storici occidentali delle crociate che seppero discernere, tra i Saraceni, i Turchi e gli Arabi. Significativa è l'ammirazione dell'autore dei Gesta Francorum per il coraggio e l'abilità militare dei Turchi che avevano dominato gli Arabi. Tuttavia, il termine A. veniva spesso a indicare realtà molto diverse. Guglielmo di Tiro, per es., lo applicava soprattutto agli abitanti dell'antica provincia romana Arabia, a E del Giordano. Sino alla fine del sec. 13° le crociate incoraggiarono e svilupparono l'interesse degli occidentali per l'Oriente, ma si può rilevare che in sostanza gli sforzi intrapresi in questo campo si concentrarono in un primo tempo sulla religione musulmana e sulla personalità di Maometto. Era soprattutto l'immagine dell'Islam che veniva elaborandosi, piuttosto che non quella degli Arabi. Sicuramente, gli occidentali scoprirono contemporaneamente anche alcune opere filosofiche e scientifiche degli A. grazie allo sviluppo delle traduzioni dall'arabo in latino, a partire dall'11° secolo. Nel 1312, questo interesse per gli A. si tradusse nella creazione, presso numerose grandi università europee, di cattedre di insegnamento della lingua araba. Tuttavia, a partire dalla fine del sec. 14°, quando si affermò la potenza ottomana, nella coscienza occidentale i Turchi acquistarono il sopravvento sugli A. e il termine 'turchi' sostituì quello di 'saraceni' (che in un modo o nell'altro implicava il concetto di 'arabo') nella terminologia usata di norma per indicare i musulmani.

Bibl.: F. Gabrieli, Gli Arabi, Firenze 1956; id., s.v. ῾Adjam, in Enc. Islam2, I, 1960, p. 212; G. Renz, s.v. Djazīrat al-'Arab, ivi, pp. 550-574; id., s.v. ῾Arabiyya, ivi, pp. 579-622; C.S. Coon, s.v. Badw, ivi, pp. 896-899; B. Lewis, The Arabs in History, London 19643; N. Daniel, The Arabs and Mediaeval Europe, London 1975; D. Sourdel, Histoire des Arabes, Paris 1976; M. Rodinson, Les Arabes, Paris 1979; R. Dagorn, La geste d'Ismaël d'après l'onomastique et la tradition arabe, Paris-Genève 1981.A.M. Eddé

Monetazione

Gli A. della Mecca e di Medina, uniche città-stato nella penisola arabica prima dell'apparire dell'Islam, agli inizi del sec. 7° non possedevano una monetazione propria. Risultano tuttavia, fin dalle origini della documentazione scritta della lingua araba, tre denominazioni generiche di monete: dīnār (pl. danānīr) per le monete d'oro, dirham (pl. darāhim) per quelle d'argento, fals (pl. fulūs) per quelle di rame o di bronzo. Da un punto di vista linguistico, si tratta di tre prestiti, probabilmente dal lat. denarius e dal gr. dramma e follis per il tramite di altre lingue in uso nel Vicino Oriente. I passaggi non sono noti, anche se esistono indizi che possono far supporre un loro ingresso nella lingua in epoca molto antica. Dīnār e dirham si trovano già nel testo coranico come termini per indicare semplicemente monete e non è specificato se siano d'oro o d'argento. Bisogna aspettare la c.d. riforma del califfo omayyade ῾Abd al-Malik, dopo il 75 a.E./694, per trovare i termini regolarmente iscritti: dīnār sulle monete d'oro, dirham su quelle d'argento. Fals non esiste nel testo coranico: compare sulle monete, almeno secondo la documentazione nota, solo dall'87 a.E./705.Nella tradizione della monetazione occidentale l'immagine ha sempre avuto una posizione di privilegio rispetto alle parole. Nelle monete emesse da stati islamici si pose invece maggior enfasi sulle parole; i messaggi che comunicavano erano più lunghi e più espliciti. Una moneta coniata da un sovrano musulmano ne riportava, di solito, il nome e la titolatura, recava affermazioni di fede religiosa e portava l'indicazione della zecca e la data della coniazione. Di queste tre parti del messaggio, quella che in genere non mancava mai è la seconda, anche se la scelta del testo varia nel tempo secondo le circostanze storiche. Per i musulmani l'importanza del messaggio esplicito diffuso dalle monete era tale che l'inserimento del nome di un monarca sulla moneta, come persona che ne aveva ordinato la coniazione, rappresentava, insieme all'invocazione della benedizione divina sul sovrano fatta durante la khuṭba (l'omelia che precede la preghiera collettiva del venerdì a mezzogiorno), la manifestazione esteriore di affermazione della sovranità e dell'indipendenza. La continua riaffermazione dei princìpi di fede costituisce inoltre l'elemento costante che si ritrova in tutte le monete coniate da dinastie islamiche dall'Asia centrale all'India e dalla Turchia al Marocco. Questa constatazione ha indotto un certo numero di studiosi a denominare le monete coniate da dinastie islamiche genericamente monete 'islamiche'. Un secondo criterio di denominazione generica è quello basato sulla scrittura delle leggende con caratteri arabi. Si parla così di monete 'arabe'. Una particolare specificazione è quella di monete 'cufiche', che si intende riferita alle leggende scritte con caratteri arabi particolari noti come cufici. Infine, qualche studioso ricorre a tutti e due i criteri e la denominazione generica diventa composita: monete 'arabo-islamiche'. Dal punto di vista metrologico le monete in questione presentano valori ponderali costanti: il dīnār rappresentava gr. 4,25 di oro fino, mentre il dirham aveva un peso variabile tra gr. 2,75 e gr. 3 di argento. Le monete di rame non avevano un peso standard: di solito erano coniate per uso locale dalle autorità provinciali.Le date erano espresse secondo la cronologia egiriana.Dal punto di vista storico nella produzione monetale araba si possono distinguere tre periodi: il primo, detto dei califfi 'ben guidati', fino al 40 a.E./661, totalmente irrilevante ai fini dello studio della monetazione degli A.; il secondo con l'avvento della dinastia degli Omayyadi, che regnò fino al 132 a.E./750; il terzo legato al dominio degli Abbasidi (132-656 a.E./750-1258). Con l'affermazione di questi ultimi, l'impero arabo cominciò a disgregarsi in Occidente e nacquero dinastie dapprima autonome e poi indipendenti in Spagna, nel Maghreb, in Egitto. In epoca omayyade, durante la conquista dell'Iran sasanide dal 636 al 651 e anche dopo, gli A. mantennero in attività la maggior parte delle zecche iraniche facendo loro produrre monete dello stesso tipo imperiale - un dramma d'argento che rappresentava da un lato l'imperatore sasanide e dall'altro un altare zoroastriano con il fuoco servito da due assistenti - con l'aggiunta di piccole scritte in arabo. In Egitto, conquistato nel 641, gli A. mantennero la zecca bizantina di Alessandria coniando monete di rame a imitazione di prototipi bizantini che raffiguravano l'imperatore, delle croci, le lettere distintive IB (che significano in cifre 12) e il nome della zecca sempre scritto in caratteri greci: AΛEΞ per Alessandria e MACP per il Cairo, nome dato alla capitale dell'Egitto e poi esteso all'intero paese. In Siria, la prima moneta d'oro sicuramente prodotta dagli A. fu un adattamento di un prototipo bizantino con tre figure in piedi da un lato e, dall'altro, la professione di fede islamica inserita in una leggenda circolare periferica, mentre al centro s'erge il simbolo, tipicamente bizantino, di una croce su scalini. Nell'emissione immediatamente seguente, le tre figure in piedi furono sostituite da quella del califfo munito di spada. Furono coniate anche monete d'argento e di rame di questo tipo. Le date variano dal 74 a.E./694 al 77 a.E./697. La prima emissione d'argento del 72 a.E./692 ricalca il modello sasanide: con il nome dell'imperatore Khusraw (Cosroe) appaiono, in caratteri arabi, la data e la zecca. Nel 75 a.E./694-695, sulle monete di tipo sasanide, invece dell'altare zoroastriano venne rappresentato il califfo in piedi con la spada. Successivamente anche il califfo fu sostituito da un arco che probabilmente rappresenta un miḥrāb con al centro la lancia del Profeta che indica la direzione della preghiera nella moschea di Medina. Nello stesso anno, il governatore di Kūfa, Bishr b.Marwān, coniò una nuova serie di monete d'argento di tipo sasanide nelle quali l'altare era sostituito da una figura in piedi con le braccia alzate nell'atteggiamento tipico dell'orante nell'area semita; alcuni numismatici hanno quindi chiamato questo tipo del 'califfo orante'.Questi esperimenti di iconografia monetale del nuovo impero califfale non durarono a lungo. Benché immagini e simboli di carattere arabo-islamico avessero sostituito i simboli imperiali sasanidi e bizantini, il concetto ispiratore dell'immagine sulla moneta rimase lo stesso e sembra ben lontano dagli ideali della nuova religione che esalta solo il Dio Uno e non la persona di un suo eventuale vicario in terra. Per i musulmani il califfo non era una figura analoga a quella degli imperatori del vecchio ordine. L'Islam, d'altra parte, proibisce l'uso delle immagini, per evitare che possano diventare possibile oggetto di devozione o di culto. Non si sa nulla del travaglio interno che portò improvvisamente alla sparizione completa di immagini e segni e all'adozione di sole iscrizioni di carattere religioso, della data di coniazione e della zecca, senza alcuna menzione del nome del sovrano. Questo avvenne durante il califfato di ῾Abd al-Malik. Le prime monete con sole iscrizioni sono d'oro e portano la data del 77 a.E./698. Le iscrizioni sono sintomatiche: esprimono il credo fondamentale di una comunità legata in primo luogo dalla religione e non affermano l'autorità di un individuo. Al centro del dritto delle nuove monete è riportata l'affermazione più recisa del monoteismo: "Non vi è altra divinità all'infuori di Dio, (ed) Egli non la condivide con nessuno". Nella leggenda circolare periferica è iscritto un versetto del Corano (IX, 33) che ribadisce una delle principali distinzioni dalle altre religioni rivelate: la missione profetica di Maometto. Sul rovescio, l'iscrizione centrale è ancora una affermazione di intransigente unicità, compresa nei quattro brevi versetti della sura CXII del Corano: "Egli, Dio, è uno, - Dio, l'Eterno. - Non generò né fu generato - e nessuno Gli è pari". Queste iscrizioni non furono più cambiate fino alla fine del califfato omayyade. Gli Abbasidi, che si sostituirono nel 750 agli Omayyadi, introdussero un solo cambiamento nelle emissioni ufficiali; il lungo versetto affermante la missione profetica di Maometto fu sostituito con la dicitura più breve: "Maometto è l'inviato di Dio".La tradizione dell'anonimato per le monete d'oro e d'argento fu interrotta nel 762, quando l'erede al trono del califfato fece incidere il suo nome sul dirham coniato per sua autorità, introducendo una formula che suona: "Questo è quanto ha ordinato al-Mahdī Muḥammad, figlio del Principe dei credenti". Da allora divenne comune incidere sulle monete il nome del califfo, dell'erede designato, del vizir, di governatori locali o ancora di funzionari della zecca. Intorno all'815 furono introdotti nelle monete cambiamenti che portarono all'adozione di un tipo standard per dīnār e dirham. Finché i califfi conservarono il potere politico, cioè fin verso il 945, le monete furono coniate sotto la loro autorità diretta e portarono solo il loro nome e quello dell'eventuale erede designato. Soltanto i governatori assurti a un alto grado di autonomia, come i Tulunidi in Egitto e in Siria dal 254 a.E./868 al 292 a.E./905 e i Samanidi nel Khorasan e in Transoxiana dal 204 a.E./819 al 395 a.E./1005, ebbero il permesso o si arrogarono il diritto di battere moneta aggiungendovi il proprio nome. Un altro elemento di cambiamento fu l'introduzione di una seconda leggenda marginale tratta dal Corano (XXX, 4-5): "A Dio appartiene il Comando, e nel passato e nel futuro; e in quel giorno si rallegreranno i credenti - del soccorso di Dio", che venne a completare l'indicazione della data e della zecca. Queste soluzioni rimasero praticamente senza cambiamento per le emissioni auree e argentee e vennero adottate anche da quelle dinastie autonome che riconoscevano nel califfo di Baghdad la supremazia nominale.

Bibl.:

Repertori bibliografici. - L.A. Mayer, Bibliography of Moslem Numismatics, India excepted, London 1939; Numismatic Literature, 1947 ss.

Manuali e opere generali. - O. Codrington, A Manual of Musalman Numismatic, London 1904; R. Plant, Arabic Coins and How to Read Them, London 1973 (rec.: G. Oman, AnnION 41, 1981, 5, suppl. 28, pp. 515-516); S. Album, Marsden's Numismata Orientalia Illustrata, New York 1977; M.B. Mitchiner, Oriental Coins and their Values. The World of Islam, London 1977; M. Broome, A Handbook of Islamic Coins, London 1985.

Opere specifiche. - W. de Tiesenhausen, Moneti vostochnavo Khalifata [Monete dei Califfi orientali], St. Pétersburg 1873; R. Campani, Calendario arabo. Tabelle comparative delle Ere Araba e Cristiano-Gregoriana mese per mese (Eg. 1-1318) e giorno per giorno (E.V. 1900-2000), Modena 1914; J. Walker, A Catalogue of the Muhammadan Coins in the British Museum, I, Arab-Sassanian Coins; II, Arab Byzantine and Post-Reform Umaiyad Coins, London 1941-1956; G. Oman, A proposito della traslitterazione e della traduzione di leggende monetali arabe di Sicilia, Bollettino di Numismatica 4, 1986, pp. 7-10.G. Oman

Italia

Per monetazione araba in Italia si intendono le emissioni coniate dagli A. in Sicilia e quelle di imitazione coniate dai Normanni nella stessa regione e dalle zecche dell'Italia meridionale. La prima moneta coniata dagli A. in Sicilia risale all'829 ed è un dirham d'argento battuto, all'assedio di Enna, da una zecca probabilmente organizzata con personale venuto dalla Tunisia. Dopo la conquista di Palermo nell'835 furono coniati, probabilmente nella zecca aperta nella stessa città, mezzi darāhim. La moneta caratteristica degli A. in Sicilia fu però il tarì d'oro o rubā'ī, pari a un quarto di dīnār, del peso approssimativo di gr. 1. Il tarì, come tutte le monete arabe, non aveva tipi figurati ma esclusivamente epigrafici con leggende che presentano la professione di fede musulmana, il nome e il titolo del sovrano, l'anno e il luogo di coniazione. La loro emissione iniziò nell'875: i primi tarì non recano il nome della zecca, ma furono probabilmente battuti nella zecca di Palermo, che aveva già coniato la moneta d'argento. I tarì furono coniati fino alla conquista normanna; con il califfo al-Manṣūr (945-952) vi fu un cambiamento nella disposizione delle leggende: fu sempre indicato il nome della zecca e il disegno della moneta divenne più elegante.Con la conquista di Palermo da parte dei Normanni, nel gennaio 1072, cessò la monetazione araba e iniziò quella normanna: nello stesso anno venne emesso, sempre nella zecca di Palermo, un tarì a nome di Roberto il Guiscardo. La nuova moneta presenta ancora le leggende arabe con il nome e i titoli del sovrano, il nome della zecca Ṣiqilliyya (Sicilia), la data dell'Egira e la professione di fede musulmana. La moneta costituisce un fatto economico, ma rappresenta anche una manifestazione politica, che vuole indicare il programma degli Altavilla, cioè l'unione sotto un unico sovrano dei vari gruppi etnici presenti in Sicilia. Sotto Ruggero I le leggende arabe furono conservate ma al dritto dei tarì apparve una grande T, di incerta interpretazione e che secondo alcuni studiosi vuole forse rappresentare una croce. Dopo l'incoronazione di Ruggero II nel 1130 le leggende arabe rimasero, ma la professione di fede musulmana scomparve e la T divenne più ornata. Comparve per la prima volta dopo il 1130 la leggenda IC XC NI KA nei quarti di una croce greca, un tipo caratteristico della monetazione d'oro normanna di Sicilia e di quella sveva di Federico II. L'uso dell'arabo sulla moneta d'oro continuò fino alla fine del regno normanno.Monete d'oro di imitazione araba furono coniate nell'Italia meridionale nelle zecche di Amalfi e di Salerno, ma non è sempre facile un'attribuzione perché spesso manca il nome della zecca e la data; i còni furono lavorati da incisori che non conoscevano l'arabo e quindi le leggende sono deformate. Per quanto si può dedurre dai casi in cui figura un'indicazione del re, le monete furono battute a nome degli ultimi principi longobardi e dai re normanni, da Roberto il Guiscardo fino a Tancredi.

Bibl.: P. Balog, La monetazione della Sicilia araba e le sue imitazioni nell'Italia meridionale, in F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre, 5), Milano 1979 (19852), pp. 611-628; J. Johns, I titoli arabi dei sovrani normanni in Sicilia, Bollettino di Numismatica 4, 1986, pp. 11-54; L. Travaini, Il ripostiglio di Montecassino e la monetazione aurea dei Normanni in Sicilia, ivi, pp. 167-198.F. Panvini Rosati

Spagna

Gli A. cominciarono a coniare monete nella penisola iberica nell'anno stesso in cui vi arrivarono (93 a.E/711), emettendo danānīr d'oro e probabilmente anche fulūs di rame. Di questi ultimi è difficile fornire notizie precise, in quanto mancano per lo più di indicazioni relative alla data e alla zecca; in molti di essi sono rappresentate figure simboliche (pesci, spighe, stelle) o anche immagini umane, chiaramente derivate o ispirate da coniazioni di età classica eseguite in officine dell'Africa settentrionale o del Sud della penisola. Le emissioni auree seguono fedelmente gli schemi tipologici delle monete arabe nordafricane, che a loro volta riprendono e sviluppano i modelli della zecca bizantina di Cartagine. Queste prime emissioni presentano quindi su entrambe le facce leggende latine, da un lato con iscrizioni di carattere religioso e generalmente al centro una stella, dall'altro con i dati di coniazione e al centro il computo bizantino dell'indizione. Sono noti danānīr spagnoli con indizioni X, XI e XII, corrispondenti agli anni 93-95 a.E./711-714. Esistono anche monete da mezzo dīnār, recanti al posto dell'indizione una colonna su gradini con un globo alla sommità, e pezzi da un terzo di dīnār con una colonna analoga sovrastata da un tratto orizzontale. Entrambi i simboli servono come indicazione di valore e sono adattamenti della croce su gradini visibile in molte monete bizantine. Nel 98 a.E./716-717 vennero introdotti in Spagna i danānīr con iscrizioni bilingui, latina su una faccia e araba sull'altra: in quest'ultima si nota per la prima volta il nome di al-Andalus con cui gli A. designavano la Spagna.La prima moneta iscritta soltanto in arabo e conforme agli schemi tipologici stabiliti in Oriente dal califfo ῾Abd al-Malik tra il 77 e il 79 a.E./696-699 è un dīnār del 102 a.E./721; poco dopo fecero la loro comparsa i darāhim d'argento, mentre si coniavano fulūs di rame, generalmente senza datazione. Le monete divennero quindi esclusivamente epigrafiche, con scritte in arabo, prive di simboli o figure, a parte alcuni ornamenti floreali o punti sempre marginali. Le iscrizioni sono di carattere religioso, salvo quelle indicanti il valore della moneta, la data e il luogo di coniazione; presto però comparirono anche i nomi dei responsabili dell'emissione.Tra il 127 e il 316 a.E./744-929 non furono coniate monete d'oro nella Spagna araba; nel 316 a.E./929 la coniazione fu ripresa da ῾Abd al Raḥmān III, dopo che questi si proclamò califfo di Cordova, indipendente da Damasco. Durante il califfato (929-1009) si ebbero coniazioni in oro, argento e rame, sempre epigrafiche, ma più ricche di piccoli ornamenti; in esse il califfo cordovano è presentato come 'emiro dei credenti'. Tutte le monete prodotte nella penisola recano come indicazione di zecca il nome generico di al-Andalus, tranne che nel periodo tra il 336 e il 365 a.E./948-976, in cui la zecca fu trasferita nella nuova residenza califfale di Madīnat al-Zahrā'.I regni detti di Ṭā'ifa, sorti in seguito alla caduta del califfato di Cordova, ebbero quasi tutti monete proprie con i nomi dei rispettivi sovrani e delle varie zecche. In questo periodo l'oro scarseggiava e si coniarono solo frazioni di dīnār di bassa lega; anche i darāhim non erano più d'argento, ma di biglione o di rame.L'avvento degli Almoravidi (1090) portò all'introduzione del loro sistema monetario, fondato sul marabottino (arabo murābiṭī; spagnolo morabatín) d'oro (gr. 3,88) e sul qīrāṭ d'argento (gr. 0,97). I marabottini recano sul dritto iscrizioni di carattere religioso, con il nome del sovrano su quattro righe, e sul rovescio un'iscrizione analoga al centro e i dati di coniazione in margine; i qīrāṭ d'argento, anch'essi epigrafici, presentano schemi tipologici più variati. Tra le numerose zecche d'origine di tali monete vanno ricordate quelle di Siviglia, Granada, Cordova, Valenza, Denia e Murcia. Nella fase di transizione, nota come periodo dei Ṭā᾽ifa almoravidi (1161-1171), la monetazione seguì sostanzialmente gli schemi precedenti.A loro volta gli Almohadi introdussero un loro sistema monetario fondato sulla masmudina d'oro (gr. 2,33), sul suo doppio (dobla, gr. 4,66) e sul dirham (gr. 1,55). Le prime due monete si presentano in varie forme, caratterizzate da un quadrato inscritto nel campo e occupato da iscrizioni religiose (anche i quattro segmenti di cerchio residui recano iscrizioni), mentre i darāhim sono di forma quadrata anziché circolare. Molte monete almohadi non hanno indicazioni di data né di zecca, altre sono anonime e quindi la loro attribuzione non è sempre facile. Le monete dei Nasridi di Granada (ultimo territorio arabo conquistato dalla Castiglia nel 1492) seguono sostanzialmente i caratteri delle precedenti coniazioni almohadi.Le monete auree degli ultimi tempi del califfato, vale a dire dei califfi hammuditi, furono imitate nel sec. 11° dai conti di Barcellona in pezzi denominati mancusos. Tra il 1172 e il 1218 Alfonso VIII di Castiglia e suo figlio coniarono a Toledo maravedis d'oro ispirati ai tipi almoravidi, con iscrizioni in arabo, ma di contenuto religioso cristiano.

Bibl.: F. Codera y Zaidin, Tratado de numismática arábigo-española, Madrid 1879 (rist. anast. 1977); H. Lavoix, Catalogue des monnaies musulmanes de la Bibliothèque Nationale, Espagne et Afrique, 3 voll., Paris 1887-1891 (rist. anast. 1977); J. de Dios Rada y Delgado, Catálogo de las monedas arábigo-españolas que se conservan en el Museo Arqueológico Nacional, Madrid 1892; A. Vives y Escudero, Monedas de las dinastías arábigo-españolas, Madrid 1893; A. Prieto y Vives, La reforma numismática de los almohades, in Miscelanea de Estudios y Textos Arabes, Madrid 1915, pp. 11-113; id., Los Reyes de Taifas, Madrid 1926; C.M. del Rivero, La moneda arábigo-española, Madrid 1933; G.C. Miles, The Coinage of the Umayyads of Spain, 2 voll., New York 1950; id., Coins of the Spanish Muluk al-Tawa᾽if, New York 1954; A.M. Balaguer Prunés, Las emisiones transicionales árabe-musulmanas de Hispania, Barcelona 1976; J.J. Rodriguez Lorente, Numismatica Nasri, Madrid 1983.A.M. Balaguer

Scrittura

"Ora, la prima cosa che Dio creò, fu il calamo. Tutto ciò che volle creare, Egli disse al calamo di scriverlo. Quindi, messosi il calamo a scrivere: creò Dio i cieli, le terre, il sole, la luna, gli astri. Allora cominciò la sfera celeste a girare" (Cronaca persiana di Ṭabarī, 838-921; De la Création à David, trad. franc. di H. Zotenberg, Paris 1984, p. 33). Intesero poi i Giudei sottoporre a esame la profetica ispirazione di Muḥammad (610): posero, estratte dal Pentateuco, ventotto domande di cosmologia (quante sono le lettere dell'alfabeto arabo-islamico che assommano a ventinove con il nesso-monogramma lām-alif/lā), cui fu data risposta grazie a versetti coranici rivelati da Allāh tramite Gabriele (ivi, pp. 27-31). Fondamento cosmico causativo, da cultura scribale arcaica e arcana, che sembra analogico presso Ugo di San Vittore (m. nel 1141), De tribus diebus: "Universus enim mundus iste sensibilis quasi quidem liber est scriptus digito Dei". Però, oltre la mirabile scrittura lapidaria sabea di ventinove lettere yemenite e il sistema abbecedario abjad, inventato da sei re eponimi di Madyan o dal capostipite degli A. del Nord, secondo autori classici arabi, anticamente in Arabia si dava anche la scrittura digitale (dattilonomia): computo per ῾aqd (pl. ῾uqūd); 'patto' in giurisprudenza musulmana, prima actus 'nodo', 'annodatura' e 'cifra' in ordinamento gerarchico dei numerali, per le arti gestuale, mercantile, scrittoria, in estetica generale 'arabesco'. Gli A. stabilivano il patto con scarificazione di palmo di mano e intervento di brano di mantello (Erodoto, III, 8); con atto, tocco di mani coperte da velo, secondo preciso codice aritmetico-mercantesco: "un sistema che non richiede alcun supporto, praticabile dall'uomo senz'altro mezzo che un membro del suo corpo: più idoneo ad assicurare il segreto, più conforme alla dignità di un capo" (al-Ṣūlī, Adab al-kuttāb, La regola dei cancellieri; in Pellat, 1971, p. 483). Secondo al-Tawḥīdī, "la scrittura è la lingua della mano" (al-khaṭṭ lisān al-yad); o lo stilo: khaṭṭ, termine principale per scrittura era valido per lituo, asta e verga, nelle arti geomantica, profetica, militare. In arte tessile, sinonimo di scrittura (rāqim 'ricamatore', 'calligrafo') è raqam, da cui l'it. 'ricamo': 'cifra', 'carattere', 'iscrizione', emblema araldico-grafico per nodi preziosi, i cui prodotti (ṭirāz, dibāj), connessi ad arti seriche quali la sabea, la copta e la persiana, furono indossati, imitati, e inoltre raffigurati nelle arti europee medievali, nella pittura e nella scultura italiane fino al Rinascimento. Stilo per eccellenza, ideale prolungamento tecnologico del dito, era il qalam (canna-calamo), in natura pianta d'Egitto e, più rinomate, dei due Iraq (arabo e persiano): Vāsit, Fars, regione del Golfo. La tecnica di taglio del becco (jilfa) del calamo fa la scrittura ''è metà dell'opera'', il segreto della perfezione calligrafica, di marca iracheno-persiana. Il fondamento dell'arte scribale codificante le Scritture può essere riassunto dalla nozione di arabo ῾ahd 'patto' e testamentum, quale il dittico antico e nuovo della Bibbia, rispetto a cui il Corano sta per il novissimo e sigillare. Come volume (muṣḥaf), esso sembra rinvii a un modello di libro sacro abissino, come scrittura (jazm) al siriaco, se non (musnad) anche all'arte scrittoria himyarita, sabea. Alla Mecca, fiorente città mercantile e sede del celebre santuario dotato di lapis niger, dovevano darsi esperienze scrittorie interregionali di ampio raggio. Il Corano fu vulgato in prima recensione ufficiale, curata da Zayd, sotto il califfo ῾Uthmān, nel 650 (scrittura higiazena: meccana, medinese). La riforma ortografico-editoriale terminò con la recensione iracheno-abbaside, curata da Abū Bakr Ibn Mujāhid (m. 936). Scribi e calligrafi furono in prevalenza schiavi, clienti, convertiti: greci e siriaci nel centro califfale omayyade, Damasco (Quṭba è relato maestro sanzionatore di quattro stili); iranici in quello abbaside (Baghdad), dal 750 in poi. Gli atti scrittorî comportavano un'estrema minuzia ripartitiva, gerarchica, in funzione del genere di documento e manufatto, quindi tecnica esecutiva, sia artistica sia fattuale (esoterica e magica; talismani indossati, ingeriti), con un enorme sviluppo delle arti cancelleresche e calligrafiche, con una spiccata specializzazione funzionale delle varie specie di scrittura. In cancelleria tunisina, 1352: "Il mio ufficio, era di scrivere in caratteri cubitali la formula ''Lode e grazie a Dio'' su messaggi e decreti del sultano, tra la basmala e il corpo del testo", eseguito da altro addetto (autobiografia d'Ibn Khaldoun; Le Voyage d'Occident et d'Orient, trad. franc. di A. Cheddadi, Paris 1980, p. 73). Una scrittura kūfī ieratica e rigida lista l'arcata ottagonale della Cupola della Roccia (Gerusalemme), con una fascia che si sviluppa per m. 240, in assetto tardo-classicheggiante: caratteri a cubi di mosaico oro in campo blu. È la prima manifestazione (691) della scrittura imperiale monumentale omayyade conservata; ascritta al nome del califfo edificatore del tempio, ῾Abd al-Malik (685-705), che impose l'uso della lingua araba sul conio delle monete e nell'amministrazione dello Stato.Le riforme scrittorie dei primi tempi provocarono la sostituzione di vari tipi di scrittura, per cui si hanno problemi paleografici d'attestazione e identificazione. Il carattere diplomatico jalīl 'augusto', con il suo modulo massimo, sarebbe il 'padre' di tutte le scritture. Più certa, la 'madre' parimenti di tutte: la ṭūmār, tipizzata sultaniale egiziana, sarebbe indotta dalla dībāj protocollare e tessile. Se ne genera una canonica serie di sei sorelle cancelleresche e librarie, quindi monumentali e oggettuali, di speciale occorrenza iracheno-iranica, poi turco-anatolica e ottomana, 'i sei calami' (arabo-persiano aqlām-i sitta): muḥaqqaq, rayhān, thulth, tawqī, riqā῾, naskh, questa tipizzata libraria per eccellenza (nassākh 'copista'); se ne attribuisce la sanzionatura al calligrafo-cancelliere e ministro abbaside Ibn Muqla (Baghdad, 885-940). La scrittura ghubār ('polvere') rappresenta molto: il modulo minimo, la minuscolissima corsiva, una delle sei canoniche egiziane (con ṭūmār grande e piccola, thulth, tawqī῾, riqā῾, secondo il cancelliere egiziano mamelucco e trattatista al-Qalqashandī, 1355-1418), la preferita per rotoli talismanico-figurali e corani portatili, la recondita messaggera tramite colomba viaggiatrice (qalam al-janāh 'scrittura d'ala'), l'abacus. Questo è connesso all'introduzione del sistema delle cifre indiane (per noi 'arabe') in Baghdad (ca. 772), dove si aveva il coevo impianto dell'industria della carta, via iranico-soghdiana e cinese.Ibn Muqla è relato anche inventore d'al-khaṭṭ al-manṣūb ('la scrittura proporzionata') per princìpi di ragione geometrica e indiano-decimale: sistema di calcolo e tracciato modulare delle lettere (in sé marcate da puntuazione diacritica), strutturate per punti entro il cerchio. Trattatisti, quali al-Ṣūlī (m.946) e al-Tawḥīdī (m. nel 1009 ca.), condensarono il sapere teorico-pratico di quella 'geometria difficile' o - detto attribuito a Euclide - 'geometria spirituale' che è l'arte della scrittura. Questa fu perfezionata da Ibn al-Bawwāb (m. a Baghdad nel 1022 ca.), cartolaio, miniatore, legatore, giurista, bibliotecario del principe buwaihide Bahā' al-Dawla a Shiraz (Persia), maestro della naskh. Con naskh e thulth, la muḥaqqaq, tipica irachena dei cartolai, si trova esaltata da Yāqūt al Musta῾ṣimī (m. nel 1298) 'Giacinto', nome di schiavo dell'ultimo califfo abbaside al-Must῾ṣim: terzo e massimo caposcuola della lettera baghdadense, perciò insignito dell'epiteto qiblat al-kuttāb 'bussola degli scrivani'. Le applicazioni monumentali, le combinazioni oggettuali, le variazioni artistiche di queste principali scritture, specialmente la virtuosa per eccellenza kūfī, risultano di complesso computo e compito epigrafico: la lettera s'intralcia con gli elementi decorativi classici, vegetale e geometrico, e si sviluppa a morfi di varia natura, umana e animale. Non si hanno nomi di riconosciuti canonizzatori per la lettera 'maghrebina', corrente nell'emisfero occidentale del mondo arabo-islamico; nella sua forma standard varietà di naskh con tratti d'ascendenza cufica o altra, eseguita con norme e tecniche autonome, a partire da tipo e taglio di calamo. Kairouan (Tunisia), Fez (Marocco), poi Timbuctu (Sudan) per l'Africa, Cordova per l'Andalusia sembrano centri di tipizzazioni provinciali rispettive, su un territorio grosso modo coperto dalla scuola giuridico-teologica malikita, una delle quattro canoniche, sunnite. Quanto all'emisfero orientale, decisivi furono gli apporti e sviluppi persiani e turchi. Uno storico selgiuqide e trattatista persiano, abile in settanta tipi di scrittura, testimonia (1202) l'irradiazione dell'opera di una dinastia di calligrafi-artigiani, suoi zii, da Kashan: "fu così che in Iraq, dovunque si veda una bella scrittura, si dice: è scrittura di quelli di Kashan (khaṭṭ-i kāshiyān), o: è stata appresa da quelli di Kashan" (M. al-Rāvandī, Rāḥat alsudūr, a cura di M. Iqbāl, London 1921, p. 51).

Bibl.:

Fonti. - Ibn Khaldūn, The Muqaddimah. An Introduction to History, a cura di F. Rosenthal, London 1958, II, pp. 377-406; The Fihrist of al-Nadīm. A Tenth-Century Survey of Muslim Culture, a cura di B. Dodge, New York-London 1970, I, pp. 6-39; al-Tawḥīdī, in F. Rosenthal, Four Essays on Art and Literature in Islam, Leiden 1971, pp. 20-49.

Letteratura critica. - J.T. Reinaud, Monumen[t]s arabes, persans et turcs du cabinet de M. le Duc de Blacas, Paris 1828, II; L. Caetani, Annali dell'Islam, 10 voll., Milano-Roma 1905-1926: II, 1, pp. 692-715; VII, pp. 388-418; E. Doutté, Magie et religion dans l'Afrique du Nord, Alger 1908; M. Guidi, s.v. Arabi-Scrittura, in EI, III, 1929, pp. 866-870; J. Sourdel-Thomine, Les origines de l'écriture arabe: à propos d'une hypothèse récente, REI 34, 1966, pp. 151-157; A. Grohmann, Arabische Paläographie, 2 voll., Wien 1967-1971; C. Pellat, s.v. Ḥisāb al- ῾Aḳd, in Enc. Islam2, III, 1971, pp. 482-484; M. Souissi, s.v. Ḥisāb al-Ghubār (abacus, abjad), ivi, p. 485; Y.H. Safadi, Islamic Calligraphy, London 1978; U. Scerrato, Arte islamica in Italia, in F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre, 5), Milano 1979 (19852), pp. 275-305; J. Sourdel-Thomine, Aspects de l'écriture arabe et de son développement, REI 48, 1980, pp. 9-23; H. Massoudy, I. Nitzler, Calligraphie arabe vivante, Paris 1981; A.M. Piemontese, Aspetti magici e valori funzionali della scrittura araba, La Ricerca Folklorica 5, 1982, pp. 26-55; id., Motti tradizionali di copisti persiani, Scrittura e Civiltà 9, 1985, pp. 217-237; S. Barakat Ahmad, Introduction to Cur'anic Script, London 1985.A.M. Piemontese

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