ARALDICA

Enciclopedia Italiana (1929)

ARALDICA

Cesare MANARESI

. È la disciplina che tratta degli stemmi, e si divide in due parti: storia degli stemmi, cioè sorgere, fiorire, decadere del loro uso; e regole araldiche che ne disciplinano la forma, le figure e gli ornamenti.

Notizie storiche.

Araldi. - La parola araldica deriva da araldo" (fr. héraut; sp. heraldo; ted. Herold; ingl. herald). Pare ormai che la parola araldo, che comunque significa "messo", derivi da hariowaldus, (germ. *xhariwald, *herialt) che secondo qualcuno sarebbe l'ufficiale dell'armata e secondo altri colui che conosce i simboli di tutti gli dei della stirpe e le famiglie alle quali essi appartengono.

Prima ancora che si parlasse di araldi, sulla fine del sec. XII, apparvero, nelle feste e nei tornei, persone dagli abiti riccamente colorati, le quali disimpegnavano le funzioni più tardi esercitate daglì araldi: essi portavano gl'inviti ai forestieri, eseguivano ambasciate, si occupavano, insieme con gli appositi advocati, dello svolgimento regolare del torneo, e, dopo che questo era ultimato, magnificavano, quali eroi, i vincitori con poesie laudative, non risparmiando beffe ai soccombenti, a meno che questi non avessero provveduto a farli tacere aprendo loro la borsa. Queste persone, non avevano di solito dimora stabile, ma comparivano dovunque si tenesse un torneo. Prendevano il nome di garzoni e di crogierarî. Poi, a poco a poco, cominciarono a prestar servizio nei tornei servi stabili che verso la fine del sec. XIII furono denominati scudieri e verso la metà del secolo seguente presero definitivamente il nome di araldi. Essi si divisero più tardi in tre gradi: re d'armi, araldi e cavalcatori o persevanti. Questi ultimi erano gli aiutanti degli araldi e, poiché aspiravano ad essere promossi al grado di araldo, erano chiamati anche aspiranti. La cerimonia che accompagnava la nomina ad araldo era piena di solennità. L'aspirante si presentava al palazzo del suo signore, il quale gli imponeva un nome che di solito era quello di un feudo. Poscia un araldo, tenendolo con la mano destra, gli versava sul capo una coppa piena d'acqua e di vino, ciò che si diceva "battesimo degli araldi". Al battesimo seguiva la vestizione. L'araldo prendeva in mano la tunica regalata dal signore, la passava al collo dell'aspirante e la poneva in guisa che una delle maniche cadesse sul petto e l'altra sul dorso, con le braccia passate attraverso l'apertura dell'abito. Gli poneva poi lo scudetto del signore sul braccio sinistro. Si compieva la cerimonia facendo infilare all'aspirante le maniche della tunica e appendendo al suo petto lo scudetto del signore; poi l'aspirante era ricevuto fra gli araldi, di solito in occasione di tornei, per l'incoronazione del re, per il matrimonio dei figli del signore, ecc. Gli araldi si sceglievano fra i nobili e, in difetto, potevano essere nobilitati dal re che concedeva ad essi lo stemma. Si preferivano i cavalieri prodi, ma privi di fortuna, ed erano scelti fra i soldati invecchiati nelle guerre.

Gli araldi portavano una divisa costituita da un ampio vestito che arrivava fino al ginocchio ed era ornata davanti e di dietro dello stemma del signore (a, b, c, fig. 1). Il re d'armi si distingueva dai semplici araldi anche per una corona che portava sul capo. In mano gli araldi portavano bastoni bianchi o gialli e più tardi anche bastoni di vario colore, o coi colori della bandiera o delle insegne del territorio. Spesso assumevano nomi speciali, proprî del loro ufficio. Uno dei primi fu in Inghilterra il Garter King of Arms, (d, fig. 1) dato dal re Enrico V in occasione del capitolo di Rouen del 1420. L'araldo dell'impero si chiamava prima del 1521, Romreich, ma con Carlo V, Gaspare Sturm, divenuto araldo del sacro impero, prese il nome di Teutschland.

Gli araldi esaminavano le armi dei partecipanti alla gara per verificare se gli ornamenti dell'elmo e le figure dello scudo erano conformi alle leggi araldiche e proprî della famiglia del cavaliere che le presentava. Essi dovevano perciò conoscere le usanze e le norme sull'uso degli stemmi, e dovevano anche conoscere gli stemmi di moltissime famiglie. Nel disbrigo delle loro mansioni, gli araldi formarono a poco a poco un linguaggio tecnico speciale, diverso da luogo a luogo, il quale rimase fisso per la descrizione degli stemmi presentati al torneo ed era sempre inspirato alle tradizioni e alle regole araldiche. Oltre a ciò, essi, allo scopo di tramandare ai successori le loro conoscenze in fatto di stemmi, avevano formato via via i libri o i rotoli dei tornei, nei quali erano riprodotti a colori le pezze degli stemmi, lo scudo, l'elmo e i cimieri. Questi libri o rotoli, tuttavia, mutarono in seguito d'aspetto. Quando i tornei divennero soltanto una pompa cavalleresca e l'attrattiva principe fu costituita soprattutto dallo sfarzo del costume, quei libri rappresentarono i partecipanti al corteo nei loro ricchi abiti e a cavallo, e riservarono allo stemma un posto sempre più piccolo. D'altra parte, i libri non servivano ormai più per giudicare se una persona era degna o no di partecipare ad un torneo e per verificarne lo stemma.

Gli araldi scompaiono verso il 1550, col cessare dei tornei, ma continuano almeno di nome e come ricordo storico presso talune corti sovrane, e certi ordini cavallereschi. Inoltre, la loro istituzione si mantenne in Inghilterra, dove l'attaccamento alle istituzioni del passato fu sempre molto sentito. Colà esiste anche oggi l'Herald College o College of arms, con proprî ufficiali: 3 re d'armi, 6 araldi ordinarî, 2 araldi straordinarî e 4 persevanti.

Stemmi. - Uno dei capitoli più importanti dell'araldica è quello relativo all'origine degli stemmi. Il vocabolo stemma è di origine greca (στέμμα) ed ha in comune la radice con l'altra parola greca στέϕανος. Significava benda o corona e più specialmente la corona d'alloro o il ramo d'ulivo circondato di lana che portavano i supplicanti. Dal fatto che con corone si solevano adornare le immagini degli antenati, la parola stemma passò poi presso i Romani a significare albero genealogico, tavole degli avi, genealogia, linea dei parenti, stirpe, famiglia, p. es., nel noto epitaffio di Paolo Diacono attribuito ad Ilderico:

Eximio dudum Bardorum stemmate gentis

Viribus atque armis quae tunc opibusque per orbe m

Insignis fuerat, sumpsisti generis ortum.

Per analogia, furono detti stemmi presso i Romani (stemmata familiarum) anche gli scudetti o tessere di forma rotonda, su cui erano segnati i nomi degli avi. Per estensione, nel Medioevo, furono detti stemmi gli scudi portati dagli antenati o dai familiari nei combattimenti o nei tornei; e da ultimo, quando le ornamentazioni dello scudo divennero fisse ed ereditarie, si chiamarono col nome di stemma le insegne gentilizie. La parola è tuttavia di uso esclusivamente italiano, perché i Francesi e i Tedeschi usano rispettivamente le parole armoiries, armes e Wappen (= Waffen), che ci riconducono al concetto di arma, cioè di quelle parti dell'armatura del guerriero e del cavaliere che erano fregiate di stemmi e che corrispondono alla parola arma o arme, che fu pure usata largamente in Italia accanto alla parola stemma. Gl'Inglesi dicono coat of arms e gli Spagnuoli armas.

Sull'origine degli stemmi, le opinioni furono per molto tempo discordi. Fino alla prima metà del sec. XIX si credette che gli stemmi fossero di origine antichissima e che anche i Greci e i Romani ne facessero uso. Una tale opinione si era venuta formando negli scrittori dopo il decadimento dell'araldica e perché effettivamente anche i Greci e i Romani avevano fatto uso di emblemi e d'insegne. Ma nel secolo scorso, quell'opinione venne relegata fra le favole. Fu allora accertato dalle indagini che gli stemmi veri e proprî, nel senso che intendiamo noi, non risalgono oltre il sec. XII. Fu avanzata l'ipotesi che fossero entrati nell'uso, quando, precisamente nel sec. XII, comparvero per la prima volta nei sigilli le figure degli scudi, e che fossero dapprima contrassegni personali liberamente scelti, i quali col tempo divennero contrassegni di famiglie e quindi, a poco a poco, di territorî (v. Ledebur, Grote, O. T. von Hefner, Mayer von Mayerfels, Fürst Hohenlohe, e soprattutto G. A. Seyler). I fautori di quest'ipotesi, come osserva il Gritzner, insieme con la molta zavorra degli antichi scrittori di araldica, avevano fatto getto anche di molte tradizioni buone, come ad esempio di quella che faceva derivare l'araldica dalle bandiere. Secondo altri, che pure ammettevano la derivazione dell'araldica dalle bandiere, avrebbero contribuito ad avvivare e a fornire nuovi motivi all'araldica da una parte i tornei e dall'altra le crociate: i tornei, in quanto vi si sfoggiavano le armi di quelli che si battevano per amore; e le crociate, in quanto i Saraceni e i Mori, essendo giunti notoriamente a un più elevato grado di cultura, possedevano già un proprio sistema di stemmi completo e sviluppato. Si aggiunga poi che i crociati, ritornando in patria, avrebbero portato con sé molte di quelle forme che compaiono negli stemmi dell'Occidente, del che farebbero fede anche certi termini proprî del linguaggio araldico, come "azzurro" (persiano: lazurd) e gueles o gules (persiano: gul "rosa"), che derivano dall'oriente e che sono fra i termini usati in Francia almeno fin dal sec. XIII. Il quale argomento delle crociate è invero di poco momento, perché, più probabilmente, gli stemmi, che a cominciare dal sec. XIII si trovano usati nell'Oriente, sono stati fatti a somiglianza di quelli che i crociati recavano nelle proprie armature.

È oggi opinione concorde dei più recenti scrittori di araldica (Ströhl, von Siegenfeld, Gritzner, Galbreath, De Vevey) che gli stemmi sono derivati dalle bandiere o dai vessilli degli eserciti medievali. Questi scrittori ammettono bensì che le armi dei guerrieri, e specialmente quelle a difesa, che presentavano larghi spazî piani, furono fin dall'antichità ornate di figure o di metallo in rilievo o dipinte a colori vivaci, perché così risulta dalle testimonianze degli scrittori, come pure, per i secc. IX-XI, dalle miniature. Ma queste ornamentazioni delle armi e degli scudi, se sono precorritrici dell'araldica, non ne costituiscono il fondamento principale o il punto di sviluppo. L'araldica non sorge da quelle ornamentazioni, ma dai vessilli militari.

I vessilli sono molto antichi: si trovano sia presso i Greci e i Romani, sia presso i popoli del primo Medioevo. C'era un vessillo principale per tutto l'esercito e diversi vessilli particolari per ognuna delle sue suddivisioni. Questi ultimi si distinguevano per la varia grandezza o per le diverse figure simboliche. Si ricordano tra i varî vessilli degli antichi la civetta di Minerva presso gli Ateniesi, l'aquila presso i Persiani e gli Egiziani e anche presso i Romani, i quali ultimi però ebbero anche le insegne del cinghiale e della lupa; si ricordano tra i vessilli del primo Medioevo, l'aquila del Sacro Romano Impero, e della Lega Lombarda; il drago dei Sassoni e degli Anglo-Normanni, il corvo dei Danesi, il cavallo della Vestfalia. Sono da menzionare anche i vessilli di carattere cristiano, come il ☧ nella forma monogrammatica (labarum) e la croce. Questi vessilli militari, come appare dalle miniature pervenuteci, consistevano in origine in una lunga asta, in cima alla quale era collocato il simbolo in plastica. Sotto questo simbolo, era spesso attaccata una stoffa colorata di forma rettangolare, cioè una bandiera che, alle volte, era di stoffa assai costosa e che poi divenne il simbolo principale. Su quella stoffa si ricamarono le figure che prima erano plasticamente portate in cima alle aste. Tra i primi segni che appaiono nelle bandiere, si trova il monogramma di Cristo, fin dal 300 d. C., e la Croce. Queste bandiere nel corso del sec. XII furono dette generalmente signa o vexilla ed erano il simbolo che riassumeva in sé ogni significato civile, militare e religioso della comunità che se ne fregiava.

In seguito, le figure e i colori dei vessilli passano ad ornare varî pezzi dell'armatura e principalmente lo scudo. Da allora, con la parola arma s'intendono promiscuamente sia le armi nel senso originario, sia le figure rappresentate su di esse, cioè le armi nel senso araldico. I più antichi esempî in cui ricorra la parola arma a indicare la figura rappresentata nelle armi, sono della prima metà del sec. XI. Le figure che adornavano le armi di uno stesso gruppo di guerrieri erano per lo più uguali fra loro, perché esse erano un segno di riconoscimento che serviva a distinguere i compagni dai nemici nei combattimenti a corpo a corpo. Tuttavia, in un esercito si avevano più vessilli: c'era cioè un vexillum o signum commune per tutto l'esercito, e poi tanti vessilli secondarî per ciascuna delle suddivisioni dell'esercito stesso. Il guerriero portava a seconda dei casi o sull'elmo o sul pennone della lancia o sull'armatura esteriore, dipinto o ricamato, il signum commune o uno dei vessilli secondarî e ciò costituiva in certo qual modo la sua divisa. Il più celebre dei vessilli comuni del Medioevo fu la croce, portata dai guerrieri delle crociate. Dapprima essa era per tutti di color rosso; ma in seguito, anteriormente alla terza crociata del 1188, intervenne fra i crociati delle diverse provenienze un accordo, per cui, pur rimanendo la croce il loro comune vessillo, ne furono cambiati i colori a seconda della provenienza dei guerrieri: mentre i Francesi continuarono a fregiarsi della croce di colore rosso, gl'Inglesi portarono una croce di color bianco, le Fiandre una croce di color verde e i Tedeschi una croce di color giallo o di oro. Durante il sec. XII, il signum o vessillo che era riportato sullo scudo, o sulla bandiera o corsetto, passa ad adornare anche l'elmo. Fino allora, gli elmi a bacinetto avevano lasciata libera la faccia; ma quando essi divengono tutti chiusi, in modo da coprire non solo la faccia, ma anche il collo e le spalle, come si vede nelle forme che si chiamano a becco di passero e a cancelli, allora anche sull'elmo vi furono larghi spazî alla vista dell'avversario, che erano assai indicati per ricevere le figure del vessillo. ln un secondo tempo, tra il sec. XIII e il XIV, il vessillo passa ad adornare la vetta o cima dell'elmo e diventa cimiero.

Gli stemmi più antichi sono quindi veri e proprî vessilli di esercito; e poiché questo aveva un ordinamento feudale, essi altro non sono che i vessilli usati dai grandi feudatarî immediati, laici o ecclesiastici, per distinguere le loro schiere. Quegli stemmi non sono però né personali, né tampoco familiari; sono piuttosto i vessilli del territorio soggetto alla giurisdizione del feudatario. In prosieguo di tempo diventano però a poco a poco ereditarî, perché il figlio diventa generalmente signore degli stessi territorî che erano del padre e quindi continua nell'uso delle insegne paterne. Ma qualora egli avesse acquistati nuovi territorî, modificava quelle insegne, il che è quanto dire il proprio stemma, aggiungendo le figure che simboleggiavano i nuovi acquisti. Il quale uso, per le famiglie regnanti, durò fino ai tempi moderni. Dopo i grandi feudatarî, assunsero un proprio stemma anche i signori minori, anch'essi tenuti a fornire un certo numero di armati. Da ultimo, vollero fregiarsi di stemma tutte le famiglie signorili e nobili di qualsiasi grado, e perfino quelle famiglie di liberi che si erano fatte riconoscere in feudo i loro beni allodiali. Tutto ciò serve anche a spiegare perché in genere soltanto le famiglie nobili siano autorizzate a fregiarsi di uno stemma. Se non che, invalso il principio che le famiglie nobili avessero diritto di usare uno stemma, quando a cominciare dal sec. XVI il governo delle città a cagione delle serrate dei consigli cittadini, divenne ereditario in certe famiglie che furono perciò stesso considerate nobili, anche se la loro origine non era punto feudale, dette famiglie come in più luoghi ebbero il titolo di patrizio, così ebbero anch'esse il loro stemma. Ma si tratta di estensioni che avvennero in un tempo che era ormai molto lontano dalle origini degli stemmi e che perciò più non ne rispecchiano lo spirito formativo, come d'altra parte non lo rispecchiano neppure i cosiddetti stemmi di cittadinanza che dal sec. XVI vennero usati da famiglie che non appartenevano né alla nobiltà, né al patriziato.

Gli stemmi dei comuni, o per meglio dire dei grandi comuni medievali, hanno origini uguali a quelli dei signori feudali. Difatti il carattere prevalentemente territoriale del vessillo di cui si fregiavano le schiere del signore feudale, fece sì che, dove ad esso si sostituì il vescovo conte e poi, nel sec. XI, dal governo del vescovo si svilupparono gli ordinamenti comunali, con una propria milizia distribuita secondo le varie porte della città, anche il comune e le singole porte di esso ebbero un proprio vessillo. Ciò è dimostrato per Milano dal bassorilievo dell'anno 1171, che una volta adornava la porta Romana, nel quale si vede un milite che porta l'asta sormontata dalla croce, simbolo della città, e recante una bandiera o vessillo in cui è riprodotta la stessa figura della croce (fig. 2).

Se le schiere di armati che erano alle dipendenze di uno stesso signore feudale portavano armi con figure uguali a quelle del loro signore, lo stesso avviene dei signori feudali nei riguardi dell'imperatore, poiché sotto un certo aspetto essi erano degli armati in servizio del loro sovrano. Risulta infatti da antichi sigilli che i grandi feudatarî immediati dell'Impero assunsero come loro stemma, o almeno come una figura del loro stemma, l'aquila imperiale. Con ciò essi esprimevano simbolicamente il triplice rapporto di dipendenza che legava la loro persona a quella dell'imperatore, come funzionarî, come feudatarî e come condottieri di una parte dell'esercito. Più tardi le famiglie ghibelline, inspirandosi ad un analogo criterio di soggezione all'impero che esse favorivano, adornavano il loro stemma del capo dell'impero, cioè dell'aquila nera in campo d'oro. Certamente, neppure nei primi tempi tutti i grandi feudatarî issarono l'aquila nei loro stemmi, ma le eccezioni furono determinate da affermazioni d'indipendenza o di ribellione all'impero; fenomeno che poi nel sec. XIII, con lo scadere dell'autorità imperiale, si diffuse specialmente in Germania, al punto che la maggior parte dei feudatarî, non esclusa la casa di Savoia, abbandonarono l'aquila per assumere altre figure, oppure ne modificarono il tratteggio allo scopo di differenziarla da quella imperiale.

Intanto, verso lo stesso tempo, essendosi assai diffuso l'uso degli stemmi, specialmente sotto l'influenza della Francia e dell'Inghilterra, si vennero formando un'infinità di stemmi nuovi, i quali recavano figure o simboli che di per sé scoprivano il cognome della famiglia e dell'ente che li aveva assunti (stemmi parlanti), oppure erano tratteggiati con le figure e i colori tradizionali di essa famiglia o ente. Alle volte, si adoperavano le figure degli antichi marchi di fabbrica; più spesso, invece, le figure dello stemma erano una riproduzione di quelle dei sigilli, in cui tutti i signori, dal sovrano giù giù sino all'ultimo vassallo, raffiguravano gli attributi peculiari della loro persona. Una delle cause che maggiormente concorse ad aumentare il numero delle persone ritenutesi in diritto di fregiarsi di uno stemma fu lo spezzarsi di quella stretta connessione, che in principio vi era stata, tra territorio e stemma. Difatti, gli stemmi, fino a tutto il sec. XIV, rimasero una cosa strettamente connessa col territorio feudale, al punto che, quando una famiglia si estingueva e il feudo ritornava all'imperatore o al signore della regione, la famiglia che succedeva nel feudo assumeva anche lo stemma della famiglia estinta, senza bisogno di riconoscimenti o concessioni superiori. Ma durante lo stesso sec. XIV quella stretta connessione tra territorio e stemma venne a spezzarsi perché si fecero frequentissime le concessioni di stemmi a persone o famiglie che non erano provviste di feudo. E allora, gli stemmi si ridussero a semplici segni d'onore, che potevano essere concessi a chiunque per grazia, ciò che in qualche luogo portò anche ad un vero mercimonio di stemmi, con l'acquisto dei relativi diplomi mediante denaro. Questo estendersi del diritto di portare lo stemma a troppi ceti di persone che non erano dell'ordine feudale, come quelle che avevano conseguito la capacità di sedere nel consiglio della città e quelle che avevano ottenuto speciali concessioni, conduceva di per sé al decadimento dell'araldica. Si dovettero foggiare un'infinità di stemmi nuovi per distinguere le famiglie le une dalle altre e i varî rami di esse. A soddisfare tante richieste, non furono sufficienti tutti i segni della natura e le più strane combinazioni delle nuove con le più antiche figure. Per di più, queste figure assunsero significati simbolici: il capo stava a rappresentare l'elmo, il palo la lancia, la fascia il cingolo militare. Altrettanto si dica dei metalli e degli smalti: l'oro fu simbolo del sole, l'argento rappresentò la luce e l'aria tra gli elementi, la luna fra gli astri, la perla tra le gemme, e oltre a ciò la concordia, la purità, la clemenza, la gentilezza e la tranquillità d'animo; il rosso rappresentò il fuoco fra gli elementi, il rubino fra le pietre preziose, e fu il simbolo dell'amore di Dio e del prossimo, della verecondia, dello spargimento di sangue in guerra, dell'audacia e del valore; l'azzurro fu introdotto a rappresentare il firmamento e l'oceano ed esprimeva amore e gelosia; il verde indicò la terra verdeggiante fra gli elementi, lo smeraldo fra le gemme, Venere fra i pianeti, e simboleggiò vittoria, onore, allegrezza e abbondanza; il nero fu il segno della notte e delle tenebre e simboleggiò la rivolta, il terrore, la vendetta, la disperazione e la morte. Tuttavia la causa principale del decadimento dell'araldica fu l'invenzione delle armi da fuoco, che fece scomparire le armature di ferro del Medioevo e gli scudi recanti gli stemmi, che come mezzo di difesa non servivano più a niente. Un'altra causa fu l'aumentato sfarzo nelle ornamentazioni dello scudo e dell'elmo, al tempo stesso che i tornei cavallereschi andavano in disuso. Gli stemmi divennero allora soprattutto delle decorazioni che fregiarono le pareti interne ed esterne delle case, i sepolcri e i sigilli.

In quel tempo, poiché l'araldica non era più una cosa viva, soggetta alle trasformazioni e agli adattamenti che le cose vive subiscono, si formarono dai teorici dell'araldica codici di regole per tutta la materia attinente agli stemmi; e si formò anche uno speciale linguaggio araldico con termini rigidi e costanti. Inoltre, le continue concessioni di nobiltà e di stemmi da parte del sovrano ebbero per conseguenza che, senza il permesso delle autorità statali, non si poteva usare dello stemma e che anche le famiglie che ne usavano da secoli dovettero farselo riconoscere. Tutto ciò portò anche alla formazione, da parte dei teorici, di uno speciale diritto nei riguardi degli stemmi, diritto che ha le sue lontane origini nel periodo migliore dell'araldica. In base ad esso, specialmente nel tempo più antico, si riconosceva il principio che il portatore di uno stemma ne poteva disporre a suo gradimento, cioè poteva introdurvi tutte le aggiunte e modificazioni che a lui fossero piaciute, specialmente se giustificate da nuovi acquisti di possedimenti feudali, o da alleanze matrimoniali. Oltre a ciò, i portatori di stemma furono distinti in gruppi secondo la loro varia natura. Tali gruppi sono fondamentalmente accettati anche dai moderni trattatisti d'araldica, perché rispondono a una necessità pratica, nonostante gli ampliamenti ai quali ciascun gruppo andò via via soggetto. Anche oggi si fa distinzione tra stemmi di persone, di territorî e di enti morali.

a) Stemmi di persone, sono quelli dei nobili, dei patrizî, dei grandi dignitarî ecclesiastici, dei cittadini. I nobili di qualsiasi grado, fra gli aventi diritto a portare lo stemma, occupano il primo posto: essi sono in genere i discendenti di quei signori feudali che in guerra o nei tornei fregiavano di uno stemma le proprie armi, o quanto meno le armi dei loro guerrieri. Ogni famiglia nobile, anche se la nobiltà fu concessa recentemente dal sovrano oppure derivi dall'avere appartenuto a qualche ordine nobile, ha il diritto di usare uno stemma e un uguale diritto si riconosce anche alle donne e agli ecclesiastici della famiglia. I patrizî, come già si è visto, hanno diritto allo stemma in quanto furono equiparati, sebbene in epoca tarda, ai nobili, come una conseguenza del diritto acquistato dalle loro famiglie di sedere nel consiglio della città. Essi divennero in certo qual modo compartecipi del dominio feudale che la città esercitava sul territorio circostante e perciò furono simili ai nobili di schiatta. Va però notato che la maggior parte di essi discendevano da antiche famiglie signorili che avevano fissa dimora in città; anzi in alcuni luoghi, come a Milano, a Como e a Pavia, per poter sedere nel consiglio della città, che si chiamava dei decurioni, a cominciare dal sec. XVII, occorreva provare di appartenere per nascita a famiglia nobile. Anche i semplici cittadini hanno in alcuni luoghi il diritto di fregiarsi di uno stemma (stemma di cittadinanza). Essi appartengono per lo più a famiglie che per una ragione o per l'altra, quando avvennero nei secoli XVI e XVII le serrate dei consigli, non facevano parte dell'amministrazione cittadina, e ne rimasero così escluse nonostante che in seguito avessero conseguito i requisiti per farne parte. Per lo più, si tratta di famiglie originarie della città, che dalle circostanze erano state costrette ad abitare lontano da essa, per attendere in campagna alla coltivazione degli aviti fondi o ai commerci all'estero, e che pertanto in un certo momento vennero a trovarsi senza i due principali requisiti per poter prendere parte al governo della città: il possesso di un immobile e la residenza. A queste fmmiglie sul finire del sec. XVIII fu in qualche luogo riconosciuta la cittadinanza originaria e il diritto a uno stemma. In Toscana, per la legge del 31 luglio 1750 del granduca Francesco II, i cittadini costituivano una classe nettamente distinta da quella dei nobili: si riconoscevano per nobili tutti quelli che possedevano o avevano posseduto feudi nobili, quelli che erano stati ammessi agli ordini nobili o avevano ottenuto speciali diplomi di concessione e finalmente quelli che avevano goduto o godevano della più alta carica esistente nella loro città: si ritenevano invece per cittadini tutti quelli che erano atti a coprire qualsivoglia carica della città tranne la più alta; a questi ultimi tuttavia non si riconosceva il diritto a uno stemma. I grandi ecclesiastici portano anche essi uno stemma non solo perché il più delle volte appartenevano alla più alta nobiltà feudale, ma anche perché alla loro carica era annesso l'esercizio di una signoria feudale.

b) Stemmi di territorî sono quelli delle terre, delle città e dei comuni. Una sfilata non comune di siffatti stemmi si ebbe nel 1402 ai funerali di Gian Galeazzo Visconti duca di Milano (cfr. ordo funerum Iohannis Galeaz Vicecomitis ducis Mediolani, Francisci Arisii Cremonensis, in Muratori, Rerum Ital. Script., XVI, col. 1021). Vi intervennero gli ambasciatori di 19 terre e di 27 città soggette al Visconti, i quali erano seguiti da uomini a cavallo che portavano le insegne e i vessilli dei loro rispettivi luoghi: Et ipsi homines equestres compartiti ut supra detulerunt et deferebant singuli, secundum quod compartiti erant, vexilla et insignia illius civitatis vel terrae... Primo homines equestres Vallis Tellinae deferebant insignia et vexilla dictae vallis. Secundo homines equestres Vallis Camonicae... Omnes suprascripti deferentes vexilla ut supra successive in ordine. Si lamenta tuttavia che l'Ordo funerum non ci abbia tramandata la descrizione di quegli stemmi, poiché nella Certosa di Pavia, nel monumento di Gian Galeazzo, che però è posteriore di oltre un secolo, sono raffigurati solo gli stemmi delle 27 città e non quelli delle terre. Le terre che in origine avevano diritto a uno stemma erano solamente quelle delle giurisdizioni feudali dalle quali dovevano essere forniti i contingenti dell'esercito, vale a dire i comitati, i marchesati, i principati e in genere le signorie sia laiche sia ecclesiastiche. Questi stemmi difficilmente si possono distinguere da quelli delle famiglie dominanti e mutarono con l'alternarsi di queste. Varî esempî di tali stemmi, quantunque assai tardi, e perciò non troppo in relazione coi concetti dianzi esposti sulla loro origine, si hanno in quelli che furono usati per la Valtellina (d'argento alla torre di rosso), Val Blenio (palato di rosso e d'argento), di Valsassina (d'argento ai due cantoni del capo di rosso), di Val Taleggio (d'argento a tre bande di rosso) e Valcamonica (d'azzurro al leone rampante di oro). Altri stemmi di terre sono quelli che furono in uso per distinguere le regioni del regno di Napoli, (cfr. Siebmacher's Wappenbuch, I, 11, tavole 54 e 55) e quelli che in Svizzera innalzano i vari cantoni. Sono altresì stemmi di terre quelli delle provincie, che recentemente, con un sistema poco commendevole, sono stati formati riunendo gli stemmi dei comuni capoluoghi di circondario. Ma la serie più importante di stemmi del genere è costituita da quelli usati nelle varie epoche dai varî stati. Le città ai tempi della feudalità non avevano stemmi, ma quando col sec. XI si resero a poco a poco indipendenti, di fatto se non di diritto, dall'autorità del vescovo e dell'imperatore per divenire liberi comuni, assunsero anch'esse uno stemma. Per Milano se ne ha memoria fin dal sec. XI, e nel secolo seguente si hanno anche i vessilli delle singole porte. Conviene qui ricordare che le città che seguivano la parte guelfa ebbero spesso uno stemma di argento alla croce di rosso e quelle che seguivano la parte ghibellina uno stemma di rosso alla croce d'argento. I comuni rurali, non avendo esercitato giurisdizione feudale, ed essendo anzi stati soggetti alla giurisdizione della città o di un feudatario non ebbero in origine un loro stemma. Anche oggi, sono pochi i comuni che posseggono uno stemma; e in tal caso, si tratta di stemmi relativamente recenti, non anteriori al sec. XV. Qualche comune ebbe la concessione dello stemma dal principe: uno degli esempî più antichi per la Lombardia è quello di Carona (Canton Ticino) che ottenne uno stemma dal duca Filippo Maria Visconti con decreto del 13 gennaio 1414 (Santamaria, Stemmi comunali lombardi, in Arch. Stor. Lomb., 1926, p. 104).

c) Stemmi degli enti morali sono quelli dei vescovadi, dei conventi e dei monasteri, delle società, delle corporazioni, ecc. I vescovadi, i conventi e i monasteri si fregiarono pure di stemmi, in quanto esercitavano giurisdizioni feudali che dovevano fornire milizie. Tuttavia, prima della fine del sec. XIII, non si hanno stemmi per questi enti ecclesiastici e nei loro sigilli appare solamente la figura del santo da cui prendevano il nome, oppure lo stemma di famiglia del dignitario ecclesiastico che ne era il titolare. Gli ordini cavallereschi e religiosi ebbero stemmi che erano rispettivamente il segno comune dei cavalieri e delle case dell'ordine. Le corporazioni, specialmente dopo che in alcuni luoghi ebbero ottenuto d'entrare a far parte del governo cittadino, assunsero stemmi in cui spesso erano rappresentati o qualche strumento di lavoro o qualche prodotto.

Composizione dello stemma.

Per stemma o arma, secondo le definizioni migliori che di essa dànno gli araldisti, s'intende il complesso di determinate figure, le quali sono effigiate secondo certi principî e regole, costituiscono i contrassegni stabili di persone o di enti, e vengono portate ed usate per una speciale autorizzazione. Una figura o un segno simbolico non sono di per sé una figurazione araldica, né fanno parte di un'arma se non quando siano racchiuse nella forma di uno scudo con determinati colori, in una figurazinne fissa ed ereditaria. Così le aquile, il fascio littorio e simili, non sono figure araldiche se non rientrano in uno scudo. Ogni arma si compone di due parti principali, cioè dello scudo e dell'elmo, ma fanno parte di essa anche tutte le ornamentazioni che di solito si uniscono allo scudo e all'elmo, cioè i cimieri, gli svolazzi, le corone, ecc. Lo scudo e l'elmo nei sigilli si possono trovare anche separati; tuttavia di solito l'elmo resta in alto sopra lo scudo, perché questa posizione corrisponde a quella effettiva che hanno nel guerriero armato.

Lo scudo. - Lo scudo, in araldica, è il fondo sul quale sono disegnate le figure e le pezze araldiche. Questo fondo si chiama campo e si chiamano genericamente figure tutti i disegni che sono sopra lo scudo. Osserviamo qui che per intendere il linguaggio araldico relativo alle parti dello scudo e alle posizioni delle figure è assolutamente necessario figurarsi il cavaliere entro la propria armatura e imbracciante lo scudo. Allora s'intenderà facilmente perché in araldica si chiami destra la parte che resta a sinistra di chi guarda e viceversa. S'intenderà anche perché le figure dello scudo siano di preferenza rivolte verso destra (a sinistra di chi guarda), cioè rivolte nella stessa direzione del guerriero che se ne copre, verso l'avversario.

1. Forme e divisioni dello scudo. - Furono di moda, nelle varie epoche, diversissime fogge di scudi. Nel sec. XII e nella prima metà del sec. XIII, furono in uso scudi grandi che coprivano tutta la persona, di forma triangolare, terminanti a punta in basso (scudo normanno). Più tardi, nella seconda metà del sec. XIII e nel secolo XIV, si ebbero scudi che in basso finivano ancora in punta, ma erano più piccoli di quelli del precedente periodo, erano cioè della forma di un triangolo quasi equilatero (scudo gotico antico; a, b fig. 3, fig. 4). Nel sec. XIV e XV, la parte inferiore dello scudo triangolare, di cui sopra, assunse forme più rotondeggianti, quasi di un semicerchio (scudo semirotondo o gotico moderno; c, fig. 3). Specialmente nei tornei, fu usato lo scudo che, negli angoli superiori, aveva una o due punte sporgenti. Questo scudo che, in origine, fu detto in tedesco Tartsche e in italiano targa, è in uso anche oggi presso la nobiltà inglese e perciò è noto anche sotto il nome di scudo inglese (d, e, f, fig. 3 e a, fig. 5). Nel periodo della Rinascenza, cominciarono i segni del decadimento, perché lo scudo, che più non serviva di difesa al cavaliere e al guerriero, divenne un semplice motivo ornamentale. Si ebbero allora scudi di forma ovale, rotonda, a testa di cavallo, ornati ai margini in mille modi. Nell'epoca del barocco, si ebbero scudi sagomati e accartocciati (b-g, fig. 5). Anche le donne ebbero uno scudo, che, a cominciare dal sec. XVI, si trova effigiato in forma di rombo. Lo scudo d'arme normale e tradizionale ammesso in Italia dal Regolamento tecnico araldico è quello appuntato, cioè lo scudo gotico antico o moderno; e, per le donne, quello ovato. Le altre fogge di scudi sono tollerate, con riserva della forma romboidale alle arme femminine. Tra queste forme tollerate, le più comunemente in uso sono quelle dello scudo sannitico (n, fig. 5), dello scudo a testa di cavallo e dello scudo accartocciato.

Lo scudo era in origine di legno leggiero e non di metallo, come spesso si ritiene. La superficie era o dipinta o ricoperta di stoffa o di pelle che poi veniva dipinta. Le figure, se erano in rilievo, vi venivano fissate mediante borchie. Per facilitare il blasonamento dello scudo, gli araldisti hanno pensato di dividere lo scudo in tante parti o punti, ai quali diedero nomi speciali dedotti dalla comparazione dello scudo col corpo umano. Naturalmente non tutti adottarono la stessa divisione. Vi fu chi divise lo scudo in tre, chi in nove, chi in quindici punti. Una delle divisioni maggiormente in uso è quella indicata dalla figura 6.

Lo scudo si suol dividere anche in moduli: la larghezza occupa 7 moduli, l'altezza 9 moduli. Questa suddivisione serve specialmente per le pezze onorevoli, quali la fascia, il palo, la croce, ecc., che solitamente sono della larghezza di due moduli, cioè un po' meno dello scudo. Sempre per facilitare il blasonamento, si è convenuto di chiamare con determinati nomi la direzione delle linee nello scudo. Così la linea che va dall'alto in basso si dice in palo; quella che va da destra a sinistra si dice in fascia; quella che va dal cantone destro del capo al cantone sinistro della punta si dice in banda; quella infine che va dal cantone sinistro del capo al cantone destro della punta si dice in sbarra.

2. Colori dello scudo. - Lo scudo può essere tutto di un colore, oppure avere il campo diviso in due o più colori. Nell'un caso o nell'altro, sopra i singoli colori dello scudo possono sovrapporsi figure d'altro colore. I colori dello scudo sono quattro: rosso, azzurro, verde e nero: essi si chiamano, più propriamente, smalti. Altri due colori, il bianco e il giallo, vengono invece chiamati metalli; il bianco sta a rappresentare l'argento; il giallo, l'oro. Oltre ai quattro smalti suddetti, esiste un altro smalto pochissimo usato in Italia, la porpora. Altrove, specialmente in Inghilterra, si hanno anche l'aranciato, il cannellato, ecc. È regola araldica antichissima di non sovrapporre mai smalto su smalto, né metallo su metallo.

Tuttavia qualche volta il capo e la campagna ed altre pezze e figure sono di metallo su metallo e di smalto su smalto, e allora si dicono cucite, con qualificativo di tolleranza. Per indicare gli smalti e i metalli degli scudi, dove faccia difetto la colorazione, come nei monumenti in pietra o nelle figure tratteggiate a penna, si usarono nei tempi varî sistemi. Dapprima, si usò indicare i colori con la lettera iniziale del rispettivo nome; in seguito, furono adoperati i segni dei pianeti, quello del sole per l'oro, della luna per l'argento, di Marte per il rosso, di Giove per l'azzurro, di Saturno per il nero, di Venere per il verde e di Mercurio per la porpora. A cominciare dal sec. XVII, a questi sistemi fu sostituito quello, in uso anche attualmente, dei tratteggi speciali per ciascun colore. L'inventore di questo sistema pare sia stato Vulson de la Colombière, intorno al 1600; tuttavia la diffusione del sistema nella precisa forma in cui è in uso anche oggi si deve al gesuita Silvestro Pietrasanta che l'adoperò nel suo libro Tesserae gentilitiae ex legibus fecialium descriptae, Roma 1638. Secondo questo sistema, l'oro si contrassegna seminando il campo o la figura di puntini, l'argento lasciando il campo o la figura senza segno alcuno, il rosso con tratteggi verticali, l'azzurro con tratteggi orizzontali, il verde con tratteggi diagonali da destra a sinistra, il nero con tratteggi verticali e orizzontali incrociati, la porpora con tratteggi diagonali da sinistra a destra (o, u, fig. 5). Oltre ai colori, per coprire il campo dello scudo, si usano anche le pelliccie, le quali tuttavia si trovano usate con una certa frequenza negli stemmi del periodo più antico. Le pelliccie usate in Italia sono due: l'ermellino bianco con fiocchi neri, con la testa a trifoglio (v, fig. 5); e il vaio, composto di quattro file di pezze accampate e alternate d'argento e d'azzurro, che, secondo lo Ströhl, sarebbero le pelli azzurre dello scoiattolo norvegese inframmezzate con pelliccie bianche (z, fig. 5).

3. Le figure. - Le figure che si possono mettere negli scudi possono essere araldiche, naturali e ideali. Le figure araldiche si suddividono in partizioni, pezze onorevoli e pezze araldiche. Le figure naturali sono tratte o dalle scienze (antropologia, fauna, avifauna, ittiologia, flora, geologia, astrologia, meteorologia); oppure dalle arti (religiosa, bellica, nautica, venatoria, pescatoria, costruttiva, domestica, agricola, lusoria, arti e mestieri). Le figure ideali, infine, sono derivate dall'agiologia, dalla demonologia, dalla mitologia, dai mostri. Importanti sono soprattutto le figure araldiche, cioè le partizioni, le pezze onorevoli, e le pezze araldiche. Le partizioni sono divisioni dello scudo in direzioni araldiche. Le divisioni più semplici sono quelle fatte con una sola linea che divide lo scudo in due parti uguali. Se la linea scende dall'alto in basso, si ha il partito, o diviso in palo (a, fig. 7); se la linea va da destra a sinistra, si ha il troncato o diviso in fascia (b, fig. 7); se la linea va dal cantone destro del capo al cantone sinistro della punta, si ha il trinciato o diviso in banda (c, fig. 7); se la linea va dal cantone sinistro del capo al cantone destro della punta, si ha il tagliato, o diviso in sbarra (d, fig. 7). Quando lo scudo è diviso da due linee, sarà inquartato o interzato. Nell'inquartato, le due linee si incrociano e dividono il campo in quattro parti; nell'interzato, le due linee non s'intersecano, ma sono o parallele o convergenti, e dividono il campo in tre parti. L'inquartato, senz'altro appellativo, è lo scudo in cui una linea in direzione del palo ne incontra un'altra in direzione della fascia (e, fig. 7). L'inquartato in decusse è invece lo scudo in cui la linea in direzione della banda ne incontra un altra in direzione della sbarra (f, fig. 7). L'inquartato deriva generalmente da alleanze matrimoniali e allora le figure che occupano il 1° quarto sono quelle originarie della famiglia, poiché quello è il posto d'onore. Lo scudo interzato, se è formato da linee parallele può essere, a seconda della direzione di esse linee, in palo, in fascia, in banda, in sbarra (g-l, fig. 7). Se invece è formato da linee convergenti, può essere: in mantello, se le due linee si incontrano nel capo (m, fig. 7); in cappa, se si incontrano nella punta (n, fig. 7); abbracciato, se si incontrano nel fianco destro (o, fig. 7); e in grembo, se si incontrano nel cantone sinistro del capo (p, fig. 7). Vi sono molte altre partizioni dello scudo che sarebbe troppo lungo enumerare. Tra queste, le più in uso sono lo scaccato e i punti equipollenti. Lo scaccato è un campo o pezza, ripiena di scacchi o quadretti che si contano per tiri (tratti verticali) e per file (tratti orizzontali; q, fig. 7). I punti equipollenti sono uno scaccato di nove pezzi, ossia una partizione risultante da un partito di due e da un troncato di due (r, fig. 7).

In tutte le partizioni testé ricordate è considerata come linea di divisione la linea diritta, la quale è anche la più usuale. Tuttavia, le linee di divisione, dette anche di contorno, sono molteplici. Quelle enumerate dal Manno nel Vocabolario araldico (p. 37) sono: merlato (a, fig. 8); doppiomerlato (b, fig. 8); contromerlato (c, fig. 8); merlato a sbarra (d, fig. 8); merlato alla ghibellina (e, fig. 8); innestato ad incastro (f, fig. 8); a tau, ramponato (g, fig. 8); controramponato (h, fig. 8); cuneato (1, fig. 8); dentato (l, fig. 8); a spina di pesce (m, fig. 8); cannellato (n, fig. 8); scanalato (o, fig. 8); ondato (p, fig. 8); innestato (q, fig. 8); innestato nebuloso (r, fig. 8); a punte staccate (s, fig. 8); scalinato (t, fig. 8).

Le pezze onorevoli sono figure semplici che seguono sullo scudo la direzione delle partizioni e occupano, come si è già detto, due dei sette moduli in cui si suol dividere la larghezza dello scudo. Si sogliono chiamare onorevoli, perché sono le più antiche e perché sono diffuse in tutti i paesi. Non vi è accordo fra gli araldisti sul numero di queste pezze onorevoli, poiché mentre taluni ne limitano il numero a nove, altri arrivano fino a diciannove, e non manca chi distingue tra pezze onorevoli di 1° e di 2° ordine. Il Vocabolario araldico ufficiale ne dà nove: il palo, la fascia, la banda, la sbarra, la croce, il decusse, la pergola, lo scaglione, il capo.

Il palo è una striscia verticale (a, fig. 9). Se non è al centro, può essere accostato, addestrato, sinistrato, fiancheggiato, ecc.

La fascia è una striscia orizzontale (b, fig. 9), che può essere spostata in alto o in basso, fascia alzata, o abbassata.

La banda è una striscia che scende dalla destra alla sinistra diagonalmente (c, fig. 9).

La sbarra è una striscia che scende dalla sinistra alla destra diagonalmente (d, fig. 9).

I. a croce è formata dalla sovrapposizione della fascia al palo e allora si dice piena, ma è sottinteso. Gli spazî liberi agli angoli della croce si dicono cantoni (e, fig. 9).

Il decusse, o croce traversa, è formato dalla sovrapposizione della banda e della sbarra (f, fig. 9).

La pergola è formata da una banda, da una sbarra e da un palo che si riuniscono in cuore (g, fig. 9).

Lo scaglione è formato da una sbarra e da una banda che si uniscono ad angolo, verso il capo (h, fig. 9).

Il capo è in testa allo scudo e formato da una linea di partizione che è a due moduli d'altezza della testata (1, fig. 9).

Queste pezze onorevoli, di solito, non dànno luogo nella loro struttura a variazioni degne di rilievo; fatta eccezione per la croce la quale, essendo il simbolo del cristianesimo, fu usata in un numero stragrande di fogge. Così, oltre alla croce piena e alla croce di S. Andrea o in decusse, delle quali si è detto sopra, vi sono molte altre croci di cui le più note sono le seguenti:

aguzza, con le estremità a punta (a, fig. 10);

ancorata, con le estremità ad ancora (b, fig. 10);

anguifera, con due serpi uscenti dalle estremità, addossati e pendenti (c, fig. 10);

di avellana, con avellane, moventi da una palla (d, fig. 10);

bordonata, con le estremità chiuse da una palla o pomo del bordone (e, fig. 20);

di Calvario, alzata, con la traversa posta ai tre quarti dell'altezza e fondata sopra una scalinata o un monte (f, fig. 10);

a chiave, con le braccia finite a foggia di chiave antica: può essere vuotata o pomata. La croce di Pisa è a chiave pomata (g, fig. 10), quella di Tolosa è pure a chiave pomata, ma vuotata (h, fig. 10);

forcuta, con le braccia finite a foggia di forca (1, fig. 10);

gigliata, con quattro gigli nodriti nelle braccia (j, fig. 10);

latina, detta anche croce lunga, con la traversa posta ai tre quarti dell'altezza (k, fig. 10);

di Malta, di otto punte e patente (l, fig. 10);

di otto punte o stefaniana, con le braccia troncate da due denti (m, fig. 10);

patente, con le braccia che vanno allargandosi (n, fig. 10);

patriarcale, a doppia traversa o di Lorena (o, fig. 10);

pomata, con le estremità che finiscono in tondo (p, fig. 10);

ricerchiata, ancorata, ma con le punte ritorte (q, fig. 10);

ricrociata, con una piccola traversa presso ogni estremità (r, fig. 10);

ritrinciata, finita a rombi (s, fig. 10);

scalinata, che finisce, in ogni braccio, con alcuni gradini (t, fig. 10);

scorciata, svizzera, greca, con le quattro braccia uguali e che non toccano i lembi dello scudo (u, fig. 10);

di S. Spirito, a doppia traversa come la patriarcale, ma con le estremità di due punte e patenti come nella croce di Malta (v, fig. 10);

stellata o stella di 4 punte (w, fig. 10);

a tau, ramponata, di Gerusalemme, con le braccia finite da una piccola traversa (x, fig. 10);

trifogliata, di S. Maurizio, con le braccia che finiscono a foggia di trifoglio (z, fig. 10);

Va poi notato che il capo prende diversi nomi a seconda delle figure caricate su di esso. I capi più usitati sono i seguenti:

capo dell'impero, d'oro all'aquila di nero, talora coronata, talora bicipite, con o senza corona o corone (a, fig. 11);

capo d'Angiò, d'azzurro carico di tre gigli d'oro, ordinati in fascia ed alternati dai quattro denti di un rastrello di rosso, cucito (b, fig. 11);

capo di Francia, d'azzurro carico di tre gigli d'oro, talora ordinati in fascia (c, fig. 11);

capo di Malta, di rosso carico di una croce d'argento (d, fig. 11);

capo di S. Stefano, d'argento, carico di croce stefaniana o di otto punte, di rosso (e, fig. 11);

capo di Savoia, uguale a quello di Malta.

Le pezze araldiche che il Crollalanza chiama meno onorevoli, sono le seguenti: biglietti, bisante, bordatura, campagna, cantone, fuso, gherone, orlatura, pianura, pila, quartier franco, rombo, scudetto, stecconata, tortello, lambello, rastrello, anelli, ecc.

Il biglietto è un quadrilungo che si mette in palo (f, fig. 11) e quando si mette in prospettiva, diventa mattone (g, fig. 11).

La bordatura è una lista aderente ai lembi interni dello scudo, del quale segue le sinuosità, larga circa un modulo, cioè un settimo di larghezza dello scudo (h, fig. 11).

La campagna occupa la parte inferiore dello scudo ed è segnata con una secante, in fascia, tracciata a meno di un terzo dell'altezza dello scudo, in guisa da comprendere due moduli (1, fig.11).

il cantone è lo spazio di campo lasciato dalle braccia della croce, ovvero pezza quadrangolare che attraversa uno degli angoli dello scudo (due moduli per due e mezzo; j, fig. 11).

Il fuso è un quadrilatero allungato (k, fig. 11).

Il gherone è una pezza triangolare, prodotta da due linee di partizione intersecantisi nel cuore dello scudo (l, fig. 11).

L'orlatura è una bordatura diminuita e posta con distacco dai lembi dello scudo (m, fig. 11).

La pianura è una campagna ridotta d'altezza (n, fig. 11).

La punta è una figura triangolare che, dal lembo inferiore dello scudo, va verso il capo, senza toccarlo (o, fig. 11). Quando è rovesciata chiamasi pila.

Il quartier franco dicesi una pezza quadrata che carica un angolo del capo (p, fig. 11).

Il rombo è una pezza quadrata posta secondo una diagonale (q, fig. 11).

Lo scudetto è una pezza foggiata a piccolo scudo d'armi (r, fig. 11).

La stecconata è la figura di una fascia attraversante tre pali (s, fig. 11).

Il tortello è un tondino di smalto (t, fig. 11); quando il tondino si ombreggia è chiamato palla; quando il tondino è di metallo è detto bisante.

Il lambello è una figura araldica composta di un listello dal quale pendono delle gocce, normalmente in numero di tre (u, fig. 11).

Il rastrello è simile al lambello, ma in luogo delle gocce, ha dei denti lunghi e quadri (v, fig. 11).

Gli anelli sono cerchi in numero (w, fig. 11), ma si dice anello anche un cerchio solo, quando sia con gioie incastonate, e allora prende il nome di anello incastonato (z, fig. 11).

Quanto alle figure naturali e ideali non è possibile qui trattarne, poiché esse sono in numero stragrande. Per esse, come pure per il linguaggio araldico che ad esse si riferisce, rimandiamo ai manuali d'araldica e soprattutto all'Enciclopedia araldico-cavalleresca di Goffredo di Crollalanza e al Vocabolario araldico di Guelfo Guelfi e al Vocabolario araldico ufficiale di Antonio Manno. Basti qui accennare che le più frequenti figure naturali sono l'aquila, il leone, il cervo, il cavallo, il pesce, il corpo umano o le parti dello stesso; che il più delle volte, dette figure non sono del colore naturale, ma del colore araldico più vicino a quello, come ad esempio il bambino di rosso, anziché di carnagione, ingollato dal biscione visconteo. Talora però le figure assumono anche colori assai lontani dalla realtà, in omaggio alla norma araldica di non mettere smalto Su smalto, né metallo su metallo. Così, se in un campo d'oro o d'argento si deve caricare un leone, questo non potrà essere d'oro, sebbene il giallo dell'oro sia il colore che meglio si avvicina al mantello dell'animale, ma dovrà essere di uno smalto, cioè di rosso, d'azzurro, ecc. Oltre a ciò, si vuol ricordare che le figure assumono forme caratteristiche per effetto della stilizzazione araldica che compare negli scudi fin dal sec. XIII. Per effetto della stilizzazione, le figure assumono un aspetto piatto a contorni rigidi e asciutti.

Gli animali hanno nello scudo attributi diversi a seconda della loro posizione:

rivoltato dicesi l'animale che è rivolto a sinistra anziché a destra (a, fig. 12);

affrontato è quello che ha faccia e dorso ed è posto faccia a faccia con un altro (b, fig. 12);

addossato, è quello che ha faccia e dorso ed è posto dorso a dorso con un altro (c, fig. 12);

fermo è l'animale che posa su tutti i piedi (d, fig. 12);

passante si dice dell'animale in atto di camminare, cioè che tiene alta la gamba anteriore destra (e, fig. 12);

seduto è quello che riposa sul treno posteriore (f, fig. 12);

coricato è quello che è sdraiato a giacere per riposare (g, fig. 12);

rampante è quello che solleva le zampe anteriori (h, fig. 12).

Vi sono per gli animali anche molti altri attributi, ma di uso meno frequente.

Tra le figure ideali sono da ricordarsi:

il drago, rettile alato, con la testa azzurra, con le fauci spalancate e la lingua sporgente foggiata a dardo, con denti radi e grandi, con ali da pipistrello unghiate e dorso scaglioso e spinato, con due soli piedi per metà leonini e per metà aquilini, e finalmente con coda grossa, anellata, spinosa e terminante in dardo come la lingua (1, fig. 12);

il grifo, aquila dal petto in su e sotto, leone, piedi anteriori con lunghi artigli, i posteriori leonini, orecchie aguzze simili a quelle dei cavalli (l, fig. 12);

la sirena, donna che finisce in coda di pesce (m, fig. 12);

il liocorno, simile ad un cavallo, con barba di caprone, coda leonina, zoccoli di bue e un lungo corno acuminato posto in mezzo alla fronte (g, fig. 12).

Scudi composti. - Fin dal sec. XIII, come conseguenza e sviluppo di quel principio che il portatore di uno stemma ne era il proprietario assoluto e poteva modificarlo a suo talento, s'incontrano scudi formati con l'unione di due o più scudi. Detta unione può aver avuto origine o dall'acquisto di nuovi territorî, come nei matrimonî coi quali i beni di una famiglia che si estingueva passavano in quella del marito; oppure dalla convenienza di esprimere nello stemma le relazioni di vassallaggio. L'unione avveniva o mediante l'accostamento dei due scudi, o mediante la sovrapposizione delle figure in un campo, o mediante partizioni dello scudo. Si possono considerare come scudi composti tutti quelli che hanno aggiunto il capo e segnatamente il capo dell'Impero, il quale era al tempo stesso segno di vassallaggio e segno d'onore. Ma gli scudi composti si hanno soprattutto nelle famiglie regnanti; in taluni casi si trovano riuniti perfino 50 stemmi. Questa riunione di molti stemmi in un solo scudo riesce il più delle volte antiestetica; trova tuttavia la sua giustificazione nel fatto che i sovrani desideravano vedere rappresentati nel proprio stemma, come del resto nella loro titolatura ufficiale, tutte le terre sulle quali vantavano diritti o pretese (1-iv, fig. 13). Quando negli scudi composti delle famiglie regnanti è inserito il quarto della famiglia dalla quale si presume di discendere, lo stemma si dice di origine. Anche la Casa di Savoia, che adesso usa semplicemente lo stemma di rosso alla croce d'argento, ha un suo stemma d'origine, nel quale, accanto a molti altri stemmi, si trova anche quello della casa di Sassonia (fasciato d'oro e di nero di otto pezzi con un crancelino, ossia mezza corona posta in banda di verde) dalla quale si crede sia uscita.

L'elmo. - La forma più antica dell'elmo è quella detta a bacinetto, che risale al sec. XI. Essa era un cono che ricopriva il capo, e portava attaccata una maglia che proteggeva l'occipite e il collo, scendendo fin sulle spalle e lasciando scoperto il viso (A, fig. 14). Più tardi, a questo elmo fu aggiunta sul davanti una lista di metallo a protezione del naso; allora, l'elmo prende il nome di bacinetto a nasale (B, fig. 14). Uno sviluppo di questa forma d'elmo è il bacinetto milanese, che, pur conservando nella parte superiore la forma a cono, scende di dietro fino a coprire l'occipite e davanti ha una parte che copre tutta la faccia e che si può alzare ed abbassare (C, fig. 14). Un'altra forma d'elmo molto antica è l'elmo a berretto, che ricorre già in una scultura dell'anno 1218 nella cappella di S. Maurizio nel duomo di Costanza. È un elmo di forma rotonda, che ricopre tutta la testa ed è tutto chiuso, all'infuori di una spaccatura orizzontale all'altezza degli occhi. Esso non giungeva a coprire le spalle e neppure il collo. Se ne conservano pochi esemplari (D, fig. 14). Anche la celata veneziana copriva solamente il capo: essa aveva sul davanti un'apertura a forma di V che copriva il naso, ma lasciava scoperti gli occhi e la bocca (E, fig. 14). Nella prima metà del sec. XIV, cominciarono a usarsi elmi fatti a bigoncia che poggiavano sopra le spalle e coprivano il collo (2, 3, 6, fig. 15). Da questa forma derivarono poi nel sec. XV gli elmi a becco di passero, fatti espressamente per i tornei. Più aggraziati degli elmi a bigoncia, arrivano fino al petto e alla schiena; la parte corrispondente al naso è molto pronunciata e a punta. (F-H, fig. 14 e 1, 4, 5, 7, 8, 9, fig. 15). Sono del sec. XVI gli elmi a cancelli, le celate aperte e chiuse, gli elmi rabescati, usati per parate e tornei e che poi diventano usuali in tutte le concessioni sovrane di nobiltà (I-N, fig. 14).

Le variazioni nelle forme degli elmi sono in correlazione con quelle riscontrate nelle forme degli scudi. Per questo, a un elmo a bigoncia si conviene lo scudo normanno; a un elmo a becco di passero, lo scudo appuntato oppure lo scudo semirotondo e soprattutto lo scudo a targa, ch'era quello tipico dei tornei. L'elmo a cancelli è adatto soltanto con gli scudi semirotondi. Queste norme che servono principalmente all'artista, perché non commetta degli anacronismi, sono tutt'altra cosa delle regole che si cominciarono a fissare nel sec. XVI sull'uso degli elmi. Si ritenne allora che gli elmi a cancelli aperti fossero per i nobili e che quelli chiusi fossero per i semplici cittadini. In seguito, fu stabilita anche una casistica che si sbizzarrì a dare regole sulle forme degli elmi e dei relativi cancelli, a seconda del grado di nobiltà. Ond'è che, anche nel vigente Regolamento tecnico araldico, si legge (art. 8) che gli elmi indicano la dignità a seconda degli smalti che li coprono e secondo la loro posizione, l'inclinazione della ventaglia e della bavaglia e la collana equestre della gorgiera. In quella vece, la superficie brunita o rabescata, le bordature o cordonature messe a oro o ad argento, il numero dei cancelli nella visiera non dànno indizî di dignità. I secentisti sono andati anche più in là: hanno insistito sul numero dei cancelli, fissandone il numero a seconda della titolatura: ma trattasi di arguzie o, se più piace, di pedanterie che non hanno base nei monumenti delle epoche buone. In Italia si possono portare tutte le forme di elmo che sono consuetudinarie nell'araldica. Tuttavia, nelle concessioni, si escludono quelle a becco di passero, a berretto e ogni altra forma arcaica.

Gli elmi sono sempre d'acciaio, dorati per la famiglia reale, argentati per le famiglie nobili, abbrunati per le famiglie di cittadinanza. Quanto alla posizione degli elmi sullo scudo, vuolsi notare che la famiglia reale porta gli scudi di fronte con la ventaglia alzata e la bavaglia calata. Gli elmi delle famiglie nobili si collocano o di pieno profilo o di tre quarti a destra, hanno la gorgeretta fregiata di collana e medaglia, con la ventaglia chiusa e la bavaglia aperta. Quando lo scudo è fregiato dal manto, l'elmo si colloca di fronte. Gli elmi delle famiglie di cittadinanza si collocano di pieno profilo a destra, sono senza collana e con la visiera chiusa. Talora sugli scudi composti, in corrispondenza con i singoli campi dello scudo o degli scudi riuniti in uno solo, vi sono parecchi elmi coi relativi cimieri. L'elmo appartenente al campo principale prende posto al centro, mentre gli elmi laterali saranno affrontati. Tuttavia, sopra uno scudo non si possono mettere più di dieci elmi, il qual numero si trova nello stemma del principato di Sassonia del 1796. Gli stemmi per gli ecclesiastici, per le donne e per gli enti morali non portano il fregio dell'elmo. Tuttavia citasi come un'eccezione il monumento alla duchessa Margherita di Savoia, terza moglie del conte Ulrico di Württemberg.

Il cimiero, il cercine, gli svolazzi, il manto. - Il cimiero. - Gli elmi assumono un carattere araldico quando sono sormontati dal cimiero. In principio, specialmente negli elmi a berretto nella parte davanti, i condottieri di schiere solevano portare dipinte le stesse figure che adornavano lo scudo. Ma, in seguito, quelle figure furono poste plasticamente sull'elmo, anche dai semplici guerrieri, oltre che dai principi. Nelle rappresentazioni figurate dei tornei e delle processioni dei sec. XIII-XV, tutii i guerrieri indistintamente portano il cimiero, che era divenuto un loro ornamento abituale, come si può anche arguire dai sepolcri dei cavalieri e dei nobili, dove, accanto allo scudo, trovasi sempre l'elmo sormontato dal cimiero. I cimieri erano di legno, di cartone, di stoppa, oppure di panno; non erano mai di una materia costosa. Il più delle volte, riproducevano la figura dello scudo; ma non mancano esempî di cimieri del tutto indipendenti da quella. Potevano essere cambiati con facilità specialmente per distinguere un ramo di una famiglia da un altro (fig. 16).

Il cercine. - I cimieri venivano fissati all'elmo per mezzo di viti o legacci. Perché questi non si vedessero, si usavano stoffe rigonfie e attorcigliate degli stessi colori dello scudo in forma di ghirlanda o di ciambella, che in araldica si chiama cercine. Non tutti gli araldisti però convengono nel dare al cercine quest'origine, poiché alcuni dicono ch'esso era destinato a smorzare i colpi che i guerrieri ricevevano sulla testa; altri, che serviva a trattenere sull'elmo gli svolazzi e a nascondere la parte di questi che stava attaccata all'elmo. Questo sembra che abbia una conferma nel fatto che il cercine non si blasona se non quando sia di colore diverso da quello degli svolazzi.

Gli svolazzi. - Sono ornamenti esteriori frastagliati e smaltati che scendono dalla coppa dell'elmo e sono attaccati al cercine. Indipendentemente dal loro effetto artistico, l'origine degli svolazzi è da ricercare nella necessità di difendersi dall'insopportabile calore che si sviluppava sotto l'elmo d'acciaio. Quando cominciano nel sec. XIV, sono fatti di una stoffa tutta unita ed hanno la forma di un fazzoletto. Dopo, a poco a poco, la stoffa si frastaglia e col tempo diventa tanto frastagliata da presentare le più diffuse volute a fogliami e attorniare tutto lo scudo. Toccava alle dame prendersi cura di lavorare quei drappi. Esse li ricamavano, li arricchivano di perle e pietre preziose, li donavano ai cavalieri come speciale favore. Quanto al colore degli svolazzi, in origine esso era scelto a capriccio, oppure era quello stesso del cimiero; ma, dal sec. XV, si fa differenza tra il colore interno e quello esterno. Per l'esterno, si sceglie più spesso il colore del cimiero; e per l'interno un metallo, l'oro o l'argento, e i colori bianco e giallo che li rappresentano. Gli svolazzi di tre colori si trovano soltanto a cominciare da Carlo V, ma di rado, e non incontrarono mai troppo il gusto araldico. Sotto l'impero napoleonico, tutti gli svolazzi erano di colori conformi. Ai principi e grandi dignitarî ne erano fissati sei d'oro; ai conti, quattro d'oro e d'argento; ai baroni, due d'argento (figg. 17, 18).

Il manto. - Accanto agli svolazzi, è da menzionarsi il manto o mantello. È un drappo che muove solitamente dall'elmo, al pari degli svolazzi dai quali deriva (fig. 19); ma può muovere anche dalla corona (fig. 19). È annodato ai lati in alto con cordoni d'oro. Di solito è di color rosso e foderato di ermellino o di vaio. Primitivamente, non figurava che nelle armi delle famiglie reali e principesche; oggi, si considera come distintivo ereditario annesso ai titoli di principe e duca e si riconosce, in date condizioni, anche ad altre famiglie che possano dimostrare di avervi diritto.

Le corone. - Le corone da principio erano formate da un semplice cerchio di lamine di metallo che si poneva sull'elmo. Più tardi, furono adornate anche di pietre preziose. Tale è la forma anche della corona ferrea, che si ritiene essere l'antica corona del regno longobardo e che è conservata nel tesoro della cattedrale di Monza. I re cominciarono a portare la corona sull'elmo, come segno della loro dignità, fin dalla prima metà del sec. XIII. Nella seconda metà dello stesso secolo, alla corona fu aggiunto il cimiero: ma molte volte, la corona stessa serviva da cimiero. Nel sec. XIV, la corona diventa un ornamento che si porta esclusivamente sull'elmo, quantunque se ne faccia sempre un uso molto raro. Può essere d'oro, d'argento, d'ermellino, rossa o nera. In seguito, la corona stette a significare negli stemmi soltanto il grado nobiliare. Divenne perciò un segno di dignità che indicava il rango della persona che l'usava. Così si spiega perché essa manchi negli stemmi dei semplici cittadini, che invece hanno il solo cercine. Sotto questo aspetto, le corone sono simili ai cappelli e ai berretti che portano le persone rivestite d'una speciale carica, e in particolar modo gli ecclesiastici. Le corone, i cappelli e i berretti possono sostituire l'elmo, ma essi non dovrebbero mai servire di base allo stesso, come talvolta si suol fare. E difatti è una bruttura araldica e una cosa inconcepibile che copricapi, quali sono le corone, i cappelli e i berretti, siano sotto l'elmo che è destinato a rivestire e difendere il capo del guerriero.

Le fogge delle corone hanno subito molte variazioni, non soltanto a seconda del grado e dignità che indicavano ma anche a seconda dei tempi e dei luoghi. Per la conoscenza di tutte queste varie fogge, si rimanda allo Ströhl, Heraldischer Atlas, tavv. XV e XVI. Qui basti riferire le fogge delle corone della famiglia reale d'Italia, e di quelle ammesse nel regno dal vigente Regolamento tecnico araldico. Le corone della famiglia reale d'Italia sono determinate e descritte negli articoli 43-51 del r. decr. 1° gennaio 1890, che qui si riportano integralmente:

Art. 43. - Le Corone della reale famiglia hanno tutte la stessa base d'un cerchio d'oro coi margini cordonati, fregiato con otto grossi zaffiri (cinque visibili), attorniati ciascuno da dodici gemme cioè: quattro diamanti alternati con altrettanti rubini e altrettanti smeraldi; i zaffiri sono divisi da otto nodi di Savoia (quattro visibili) d'oro a sbalzo. Il cerchio è sormontato da quattro foglie d'acanto d'oro (tre visibili) caricate, in cuore, d'una perla; separate da quattro crocette di Savoia (due visibili) smaltate di rosso e ripiene di bianco, pomate con quattro perle e accostate, ciascuna, da due perle collocate sopra una piccola punta; il tutto movente dal margine superiore del cerchio.

Art. 44. - Il re usa due corone: quella Reale di Savoia e quella Reale d'Italia.

Art. 45. - La Corona Reale di Savoia è chiusa da otto vette d'oro (cinque visibili) moventi dalle foglie e dalle crocette, riunite, con doppia curvatura, sulla sommità, fregiate all'esterno da grosse perle decrescenti dal centro, e sostenenti un globo cerchiato, cimato, come Capo e Generale Gran Maestro dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, da una crocetta d'oro, trifogliata, movente dalla sommità del globo (v. nello stemma di S. M. il Re, 1, fig. 24).

Art. 46. - La corona della regina è uguale a quella del re con la sostituzione, alla crocetta trifogliata, di una crocetta piana d'oro, pomata alle tre estremità superiori con altrettante piccole perle e movente dalla sommità del globo (2, fig. 24).

Art. 47. - La corona del principe reale ereditario è simile a quella della regina, ma con sole quattro vette (tre visibili), moventi dalle foglie (3, fig. 24).

Art. 48. - La corona dei principi reali è chiusa da un semicerchio d'oro, movente dalle foglie laterali, fregiato superiormente con una fila di piccole perle, tutte eguali, e cimato dal globo, cerchiato e crociato, eguale a quello della corona del principe reale ereditario (4 e 5, fig. 24).

Art. 49. - La corona dei principi del sangue non è chiusa.

Art. 50. - Le corone del re, della regina e del principe reale ereditario sono foderate di un tocco di velluto chermisino.

Art. 51. - La Corona Reale d'Italia è quella detta Corona di ferro che si conserva nel Real tesoro della cattedrale di Monza.

Le famiglie nobili usano corone d'oro formate da un cerchio brunito o rabescato, gemmato. cordonato ai margini e sostenente le insegne del titolo o dignità, nella maniera indicata dagli articoli 15-38 del Regolamento tecnico araldico. E cioè: la corona di principe è sormontata da otto foglie d'acanto o fioroni d'oro (cinque visibili), sostenuti da punte e alternati da otto perle (quattro visibili: 1, fig. 21). Sono tollerate le corone di principe che non hanno i fioroni, alternati da perle, o che hanno i fioroni bottonati di una perla, o che hanno le perle sostenute da punte, o che sono chiuse col velluto del manto a guisa di tocco, sormontato da una crocetta d'oro o di un fiocco fatto a pennello (4-5, fig. 21). Le famiglie decorate del titolo di Principe del Sacro Romano Impero possono portare lo speciale berrettone di questa dignità, cioè un cerchio rivoltato d'ermellino scanalato superiormente con tocco scarlatto, chiuso da quattro diademi o archi d'oro arricchiti di perle e sostenente il globo crucifero (6, fig. 21). La corona di duca è formata da otto fioroni d'oro (cinque visibili) sostenuti da punte (7, fig. 21). Sono tollerate le corone di duca con i fioroni bottonati da una perla e chiuse col velluto del manto a guisa di tocco (8, fig. 21). La corona di marchese è cimata da quattro fioroni d'oro (tre visibili), sostenuti da punte e alternati da dodici perle disposte a tre a tre, in quattro gruppi piramidali (due visibili: 9, fig. 21). Sono tollerate le corone di marchese con i gruppi di perle sostenate da punte o con le perle disposte a tre a tre una accanto all'altra e collocate o sul margine della corona o sopra altrettante punte (10, 12, fig. 21). La corona di conte è cimata da sedici perle (nove visibili: 13, fig. 21). Sono tollerate le corone di conte con le perle sostenute da punte o cimate da quattro grosse perle (tre visibili), alternate da dodici piccole perle disposte in quattro gruppi (due visibili) di tre perle, ordinate a piramide o collocate una accanto all'altra e sostenute dal cerchio o da altrettante punte (14, 18, fig. 21). La corona di barone ha il cerchio accollato da un filo di perle con sei giri in banda (tre visibili: 19, fig. 21). Sono tollerate le corone di barone col tortiglio alternato sul margine del cerchio da sei grosse perle (quattro visibili), oppure omesso il tortiglio, con la cimatura di dodici perle (sette visibili) o collocate sul margine del cerchio o sostenute da altrettante punte (10, 22, fig. 21). La corona di nobile è cimata da otto perle (cinque visibili; 23, fig. 21). È tollerata la corona di nobile con le perle sorrette da altrettante punte (24, fig. 21). La corona di cavaliere ereditario è cimata da quattro perle (tre visibili; 25, fig. 21). La corona di visconte è cimata da quattro grosse perle (tre visibili) sostenute da altrettante punte e alternate da quattro piccole perle (due visibili), oppure da due punte d'oro (26, 28, fig. 21). La corona di patrizio è formata dal solo cerchio (29, fig. 21). Tuttavia, per quei patriziati che godettero da tempo assai antico di corone speciali, queste possono caso per caso riconoscersi. Così i patrizî veneti possono far uso di una corona speciale formata da un cerchio d'oro gemmato sostenente otto fioroni (cinque visibili) a foggia di gigli stilizzati ed imperlati e otto punte sostenenti altrettante perle. A Venezia i discendenti dei dogi possono usare la corona dogale veneta, cioè il celebre corno ducale o corona dei dogi di Venezia che è costituita da un tocco o berretta di stoffa d'oro, arricchita di perle e in forma di berretto frigio (figura 20). È un ornamento di origine antichissima che, secondo alcuni, risalirebbe a Paoluccio Anafesto primo doge nel 697; e secondo altri, avrebbe origine dal fatto che re Pipino venuto a Rialto e vedendo non avere il doge alcun segno della propria dignità, staccò una manica della sua veste e gliela pose sul capo a guisa di berretto. Questa corona era portata dal doge sulle armi e in capo, nei giorni di cerimonia. Oggi, sono autorizzati a fregiarsene i discendenti diretti dei dogi, i quali possono metterla come cimiero sul loro elmo. Oltre a ciò possono usare il tocco piumato indicante il loro titolo (30, 31, 33, 34, fig. 21) le famiglie alle quali furono riconosciuti titoli di creazione napoleonica. Le famiglie decorate del cavalierato germanico possono fregiare lo scudo secondo le varie insegne attribuite nei rispettivi diplomi di concessione. Le famiglie insignite della nobiltà germanica possono usare l'elmo cimato dalla coroncina tornearia, cioè di quattro fioroni (tre visibili) alternati da quattro perle (due visibili; 32, fig. 21). Non possono però usare la corona staccata dall'elmo del quale essa è fregio speciale e indivisibile. I capi delle famiglie papali e di quelle che ne hanno ottenuta speciale concessione, possono portare l'ornamentazione araldica della basilica che è il gonfalone della Camera apostolica accollato con le chiavi pontificie, cimandone lo scudo e ponendola in capo.

I titolati nobili e i patrizî collocano la corona sopra l'elmo. Gli ultrogeniti di famiglie titolate usano di due corone, una più grande, relativa al loro titolo personale, appoggiata al lembo superiore dello scudo e un'altra più piccola, relativa al titolo più elevato della famiglia, sostenuta dall'elmo (27, fig. 21).

Gli ecclesiastici portano dei cappelli in corrispondenza alla loro dignità. Essi sono contemplati dall'art. 39 del Regolamento tecnico araldico. Il cardinale porta il cappello con cinque ordini di fiocchi rossi (a, fig. 22). Il cardinale camerlengo cima il cappello di due chiavi in decusse e di un ombrello (b, fig. 22). Il patriarca porta il cappello con cinque ordini di fiocchi verdi (c, figura 22). L'arcivescovo porta il cappello con quattro ordini di fiocchi dello stesso colore, ma accolla lo scudo alla mitra e al pastorale (d, fig. 22). Simili a quelli dell'arcivescovo sono gli ornamenti dello scudo del vescovo; ma esso ha soltanto tre file di fiocchi verdi (e, fig. 22). I prelati domestici portano un cappello di tre ordini di fiocchi pavonazzi (f, fig. 22); i protonotarî partecipanti hanno un cappello simile con fiocchi neri (g, fig. 22) e infine i camerieri d'onore hanno un cappello con soli due ordini di fiocchi neri (h, fig. 22). (Cfr. in proposito anche F. Pasini Frassoni, I cappelli prelatizî, in Rivista del Collegio araldico, settembre 1908, pp. 513-528).

Le donne maritate usano la corona corrispondente al grado del loro consorte. Le donne nubili, a meno di concessioni speciali, portano la sola corona del loro titolo personale. Anche gli enti morali possono fregiare la loro arma od insegna con corone speciali che siano state loro concesse.

Quelle degli enti autarchici, provincia, città e comune, sono fissate dagli articoli 42-44 del Regolamento tecnico araldico. La corona di provincia, è formata da un cerchio d'oro gemmato con le cordonature lisce ai margini, racchiudente due rami uno di alloro e uno di quercia, al naturale, uscenti dalla corona, decussati e ricadenti all'infuori (1, fig. 22). Quella di città è turrita, formata da un cerchio d'oro, aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonate a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili) riunite da cortine di muro, il tutto d'oro e murato di nero (l, fig. 22). Infine il comune ha una corona formata di un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili) con due cordonate a muro nei margini, sostenente una cinta aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, e il tutto d'argento, e murato di nero (m, fig. 22). Queste corone degli enti autarchici non dovrebbero però sostituire quelle tradizionali e feudali. Al qual proposito, il barone Manno (Regolamento tecnico araldico, art. 41, nota) si compiaceva che la città di Genova avesse domandato e ottenuto la corona ducale.

Ornamenti accessorî dello scudo. - Si annoverano tra gli ornamenti accessorî dello scudo i motti e i sostegni o tenenti. I motti, detti anche divise, sono brevi detti che vengono scritti per lo più in lettere maiuscole romane sopra liste bifide e svolazzanti, poste sotto la punta dello scudo. Pare che la loro origine sia da ricercarsi nell'uso di adornare con un detto arguto i vessilli che prima del torneo si solevano esporre alle finestre della casa comunale o degli alberghi dove erano alloggiati i cavalieri.

Negli stemmi, essi si trovano usati fin dal sec. XIV. Erano lasciati alla libera scelta del portatore dello stemma, il quale vi esprimeva un concetto che fosse in relazione alla sua attività o alle sue speranze. Ma presto divennero ereditarî, come tutte le altre parti dello stemma. La maggior parte sono in latino, ma sono assai frequenti anche in altre lingue. Alle volte, sono indicati con le sole lettere iniziali delle parole che li compongono: e allora sono dei veri e proprî indovinelli. Uno dei più noti motti di questo genere sono le cinque vocali del nostro alfabeto A.E.I.O.U., adottate dall'imperatore Federico III (1452-1493) per l'arma del Sacro Romano Impero e che si prestano a diverse letture: Austriae Est Imperare Orbi Universo, oppure Aller Ehren Ist Oesterreich Voll, o Aquila Electa Iuste Omnia Vincit, ecc. Anche il motto Fert di Casa Savoia può considerarsi come un motto indovinello: difatti, sebbene Amedeo VI, il conte Verde, aggiungesse tale parola al collare dell'Annunziata per significare che la devozione dell'ordine era di portare, cioè di sopportare (ferre), ogni cosa per amore ed in onore della Vergine, fu interpretato anche Fortitudo eius Rhodum tenuit, dopo che nel 1555 Giacomo, primogenito del duca di Savoia-Nemours, divenuto duca del Genevese, assunse l'impresa di due lacci d'amore in palo col motto suddetto. (Cfr. C. Padiglione, Il Fert di Casa Savoia, Napoli 1868; T. E. Cestari, Fert, origine e significato di questo motto negli stemmi e negli ordini cavallereschi di Casa Savoia, Venezia 1889).

Dai motti si distinguono i gridi d'armi, i quali furono usati anche in tempi antichissimi. Constano di un piccolo numero di parole, spesso d'una sola parola, e si pronunciavano durante i combattimenti, per incitare i guerrieri e a scopo di riconoscimento. Si portano sopra lo stemma. Si trovano di preferenza negli stemmi francesi ed inglesi. Fra i più celebri gridi d'armi, si citano Montjoye Saint-Denis, dell'antico stemma reale di Francia e Dieu et mon droit dello stemma reale d'Inghilterra. In Italia, per i motti e per i gridi d'armi si rispettano le tradizioni storiche, anche per quanto riguarda i caratteri con cui sono scritti. Nelle concessioni di nuovi motti, sono d'obbligo la lingua italiana o latina e le lettere maiuscole romane. I gridi d'armi non possono formare oggetto di concessione. Fra le molte pubblicazioni che raccolgono i motti, la piu ricca è quella di J. Dielitz, Die Wahl-und Denksprüche, Francoforte sul M. 1884, che dà oltre 14.000 motti. Per l'Italia, la pubblicazione migliore, quella di Umberto Dallari, Motti araldici editi di famiglie italiane, Roma, 1922 (estratto dalla Rivista Araldica), dà 2745 motti con l'indicazione della famiglia che se ne fregia e la descrizione dello stemma. Utile anche il volume di J. Gelli, Divise, motti, imprese di famiglie e personaggi italiani, Milano 1916.

I sostegni e i tenenti sono figure poste ai lati dello scudo per sostenerlo. Il nome di sostegni si dà più propriamente alle figure di animali, quello di tenenti alle Persone umane. L'uso di simili figure, isolate o accoppiate, è molto antico. Si trovano nei sigilli fin dal 1276 (Ströhl, p. 17). Dapprima ricorrono figure umane, di solito il ritratto dello stesso portatore dello stemma; in seguito, donne, giovani e bambini. Nella seconda metà del sec. XIV, compaiono animali, leoni, orsi, cervi, cani, grifi, ecc.; più tardi ancora si hanno figure di angeli e di santi. Come tutte le altre parti dello scudo, i tenenti e i sostegni, in origine, potevano essere cambiati a capriccio. Diventano ereditarî alla metà del sec. XVII. E se ne ha una prova nello stemma reale inglese che continuò coi varî sovrani a cambiare i sostegni, finché, con Giacomo I, furono fissati.

Legislazione araldica italiana vigente.

Per legislazione araldica s'intende quel complesso di norme che regolano la concessione, il riconoscimento e la registrazione degli stemmi. Impropriamente sotto lo stesso nome si comprendono anche le norme in materia nobiliare, le quali hanno poca attinenza con gli stemmi e quindi con l'araldica e fanno parte di una legislazione che meglio andrebbe chiamata nobiliare. Qui si dànno dei cenni soltanto sulla legislazione araldica italiana propriamente detta.

Le fogge degli scudi d'arme e delle loro ornamentazioni furono fissate nel già citato Regolamento tecnico araldico della Consulta araldica, approvato con r. decr. 13 aprile 1905, opera del barone Antonio Manno, commissario di S. M. il Re presso la Consulta araldica (Roma, 1906). Le diciture alle quali deve attenersi la Consulta araldica, nelle descrizioni degli stemmi, furono fissate in un'altra opera, anch'essa già citata, del barone Antonio Manno, cioè nel Vocabolario araldico ufficiale, approvato con decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 6 febbraio 1906 (Roma, 1907). Il diritto, invece, che in Italia regola gli stemmi, ha il suo fondamento nelle disposizioni contenute nell'Ordinamento dello stato nobiliare italiano approvato con r. decr. 21 gennaio 1929; e nelle massime di legislazione nobiliare approvate dalla consulta araldica pubblicate nel Massimario, Roma, 1915 e nel Bollettino ufficiale della consulta araldica (v. araldica, Consulta). A tenore delle dette disposizioni, gli stemmi sono considerati distinzioni nobiliari al pari dei titoli e dei predicati (Ordinamento art. 36). Perciò possono anche essi formare oggetto di provvedimenti di concessione, di autorizzazione e di riconoscimento (ivi, art. 10 e 11). Quantunque, nei provvedimenti per motu proprio, la Consulta araldica debba semplicemente prendere atto della volontà del sovrano, tuttavia, per non ledere diritti di terzi interessati, nel caso di concessioni di stemmi per motu proprio, è stato stabilito che sia presentito il parere del Commissario del re (ivi, art. 7). Sempre allo scopo di non ledere diritti di terzi o diritti storici, nel caso di concessione di stemmi nuovi, si vuole che questi siano bensì composti secondo i desideri dei chiedenti, ma con qualche pezza, figura, motto od ornamemo, che indichi l'origine o il motivo della concessione (ivi, art. 37). Poiché ogni famiglia nobile deve possedere uno stemma, ad ogni domanda devono essere unite le prove di concessione o di legittimo possesso dello stemma e la sua figura a colori con la descrizione in termini araldici (ivi, art. 111). Le dette prove si fanno o mediante l'atto di concessione, con la prova dell'attacco genealogico in linea e grado successibili, o mediante la dimostrazione di un possesso legale (ivi, art. 115). Per le famiglie già nobili, la prova del possesso pubblico e pacifico dello stemma è sufficiente quando sia estesa a un periodo trentennario (ivi, art. 116). Invece, per le famiglie non nobili, ma di distinta civiltà, occorre la prova di un possesso pubblico e pacifico per un periodo di tempo non inferiore a 150 anni (ivi, art. 38). È tuttavia da notarsi che il semplice atto notorio non basta per dimostrare il diritto agli stemmi gentilizî e di cittadinanza, e non ha che un semplice valore integrativo. Esso deve essere accompagnato da altre prove, quali stemmi su case antiche, armoriali accreditati, libri antichi, tombe, documenti di archivio, documenti nuziali, ecc. (Bollettino, VIII, n. 39, gennaio 1928, p. 68). In Sardegna la concessione di stemmi gentilizî non prova la nobiltà di una famiglia (Massimario, art. 114).

L'ornamentazione araldica della basilica è riconosciuta ai capi delle famiglie papali e di quelle che ne hanno ottenuta speciale concessione (ivi, art. 37). L'uso del cimiero in forma di corno dogale spetta ai patrizî veneti, discendenti per linea retta maschile dai dogi di Venezia; ove la discendenza maschile sia estinta, l'uso di tale cimiero può essere riconosciuto a favore della linea collaterale agnatizia prossimiore (ivi). Le ornamentazioni degli stemmi delle famiglie non nobili sono limitate all'elmo prescritto dall'articolo 13 del Regolamento tecnico araldico, adorno di penne dai colori dello scudo, senza cercine, né svolazzi, né motti (ivi, art. 38). Gli stemmi delle provincie e dei comuni, come pure i rispettivi gonfaloni, non possono essere modificati; gli stemmi hanno la forma cosiddetta sannitica con la corona e le ornamentazioni prescritte dal Regolamento tecnico araldico, senza sostegni o tenenti o motti, salvo antiche e provate concessioni (ivi, art. 39).

Le prove degli stemmi si fanno o mediante l'atto di concessione o mediante dimostrazione di un possesso legale (ivi, art. 115). La semplice prova di possesso non giustifica l'indebito od improprio uso di corone, di manti, di ornamentazioni araldiche, ecc. In questi casi si deve dimostrare, con documenti d'importanza storica, che il possesso è antichissimo (ivi, art. 117). Sono ammessi senz'altra prova gli stemmi che, insieme con la nobiltà generica e con la genealogia, siano stati approvati dai tribunali italiani competenti o da collegi araldici italiani e governativi o da grandi magisteri dell'ordine di S. Giovanni di Gerusalemme (di Malta), o di ordini militari cavallereschi italiani che esigevano le prove di nobiltà (ivi, art. 120).

A differenza di quanto si praticò in Toscana sotto i granduchi, nei Libri araldici dello stato italiano, tenuti dall'Ufficio araldico sotto la direzione del Commissario del re, cioè nel Libro d'oro della nobiltà italiana, nel Iibro dei titolati stranieri, nel Libro araldico degli stemmi di cittadinanza e nel Libro araldico degli enti morali, non si delinea a colori lo stemma delle famiglie e degli enti. Tuttavia, con le altre annotazioni, si prende anche quella relativa allo stemma e ai suoi ornamenti (ivi, articoli 98-101).

Le amministrazioni provinciali e comunali, di opere pie e di enti morali, non possono usare dello stemma dello stato, che deve usarsi solamente nelle intestazioni e nei sigilli delle amministrazioni governative. Esse debbono invece usare intestazioni e sigilli con la sola leggenda indicante l'amministrazione, unendovi lo stemma od emblema proprio, eventualmente (Massimario, art. 19).

Per gli stemmi degli ultrogeniti, a modificazione di una precedente massima che faceva obbligo d'introdurre una spezzatura o una variante nell'ornamentazione esteriore (Massimario, art. 20), fu stabilito doversi riconoscere lo stemma tale e quale fu concesso nei diplomi di originaria concessione, senza alcuna spezzatura, bastando le corone a distinguerli dai primogeniti, a meno che non si tratti di ultrogeniti che ottenendo titoli speciali abbiano a considerarsi come ceppi di nuove linee distinte (Bollettino cit. p. 67).

Il diritto al manto spetta anzitutto alla famiglia reale e quindi figura anche negli stemmi dello stato. Il manto è anche un distintivo ereditario annesso ai titoli di principe e di duca (Regolamento tecnico araldico, art. 53). Inoltre è una distinzione di dignità nel caso dei cavalieri dell'ordine supremo della SS. Annunziata e dei magistrati aventi grado di primo presidente: i primi possono accollare al loro scudo il manto dell'ordine che è di velluto amaranto sparso di rose e di fiamme d'oro, con galloni d'oro caricati di nodi e di rose di Savoia e con la fodera di teletta d'argento (ivi, art. 67; fig. 23); gli altri possono accollare lo scudo con le mazze e con la toga della loro dignità e cimarlo col rispettivo tocco (ivi, art. 69; fig. 23). Quantunque all'infuori di questi titolati e dignitarî non si facciano concessioni nuove, il diritto al manto si riconosce alle famiglie lombarde che hanno il loro stemma delineato nel Codice araldico Teresiano, con l'ornamentazione del manto, limitato l'uso ai maschi primogeniti, quando il rispettivo titolo nobiliare sia trasmissibile in primogenitura, esteso invece a tutti i maschi, quando tale sia la trasmissibilità del titolo (Massimario, art. 39).

Gli stemmi concessi dalla Santa Sede agli alti prelati sono strettamente personali e perciò non possono essere usati dalle loro famiglie (Ordinamento, art. 37). I decorati di ordini equestri italiani o stranieri, debitamente confermati, possono fregiare il loro scudo d'arme con la rispettiva insegna, secondo la tradizione e senza una speciale licenza (Massimario, art. 31).

Stemmi ufficiali italiani.

Stemma del re d'Italia e della real casa. - Lo stemma del Re d'Italia, fissato con regio decr. 1 gennaio 1890, è quello di casa Savoia, che ha lo scudo di rosso alla croce d'argento. Questa figura araldica non è tuttavia la più antica usata dai Savoia. Nei primi tempi, essi usarono l'aquila, come appare dal verso dei sigilli del conte Tommaso (1233), e dei suoi immediati successori. L'aquila era allora portata dai Savoia, come dalla maggior parte dei grandi feudatarî, in segno di devozione verso l'Impero. La croce fa la sua prima apparizione in un sigillo del conte Amedeo IV del 1239. Verso la fine del sec. XIII, diviene di uso normale; mentre, dopo il 1282, l'aquila non s'incontra più. La croce era fin d'allora d'argento in campo rosso. Essa non fu più abbandonata e figura in tutti gli stemmi di casa Savoia, anche in quelli composti e in quello d'origine, e viene indicata come scudo di Savoia (cfr. L. Cibrario, Sigilli dei principi di casa Savoia, Torino 1834).

Giusta il citato regio decreto, il re porta un grande ed un piccolo stemma. Il grande stemma è lo scudo di Savoia (di rosso alla croce d'argento), cimato con elmo reale, coronato della corona di ferro, coi sostegni reali (due leoni d'oro) e con le grandi insegne degli ordini equestri; il tutto posto sotto il padiglione regio, cimato con la corona reale di Savoia, tutto lo stemma accollato al fusto del gonfalone di Savoia, che è cimato con l'aquila sabauda d'oro, ha lo stendardo bifido di rosso, crociato soppannato di tela d'argento e con le cravatte azzurre scritte coi motti e gridi d'arme: Savoye, Sainct Maurice, Bonnes Nouvelles (1, fig. 24). Il piccolo stemma ha il manto in luogo del padiglione, non ha il gonfalone e può essere senza l'elmo, i sostegni e le grandi insegne degli ordini equestri meno il collare dell'ordine supremo.

Lo stemma del principe reale ereditario si distingue da quello del re perché ha lo scudo pieno di Savoia cimato dall'elmo e cimiero, coi sostegni, col manto e con la corona della propria dignità (3, fig. 24). Gli stemmi dei principi reali e del sangue hanno lo scudo di Savoia spezzato, secondo la propria linea, cioè i Savoia Aosta con la bordatura d'oro e d'azzurro (4, fig. 24) e i Savoia Genova con la bordatura d'argento e di rosso (5, fig. 24). Lo stemma della regina ha due scudi, a destra di alleanza, e a sinistra quello di nascita; gli scudi attorniati della cordelliera e coperti dal manto reale cimato con la corona di regina (2, fig. 24).

Stemma dello stato italiano. - Lo stemma dello stato italiano, fissato con r. decr. 11 aprile 1929 non si diversifica da quello che era stato fissato con r. decr. 27 novembre 1890 che per aver sostituito i leoni d'oro che servivano da sostegni con due fasci littorî addossati con l'ascia all'infuori. È ancora perciò molto simile, tranne in questa e in poche altre ornamentazioni esteriori, allo stemma reale. Si fa distinzione tra stemma grande e stemma piccolo dello stato. Quello grande può usarsi solamente nel grande sigillo dello stato, in occasioni solenni e nelle decorazioni monumentali. È formato da uno scudo di Savoia di rosso alla croce d'argento sormontato dall'elmo reale d'oro, completamente aperto, damascato, foderato di rosso e posto in maestà, ornato di un cercine e di svolazzi d'oro e di azzurro, cimato con la corona di ferro, sostenuto da due fasci littorî addossati con l'ascia all'infuori, legati con strisce di cuoio intrecciate e formanti due nodi di Savoia; lo scudo fregiato con la grande collana dell'ordine supremo della SS. Annunziata, con le grandi fasce delle grandi croci degli ordini reali dei Ss. Maurizio e Lazzaro, militare di Savoia e della corona d'Italia e con nastro e croce del merito civile di Savoia; la grande fascia dell'ordine mauriziano annodata da quattro cifre reali d'oro, coronate: sotto il tutto una lista accartocciata d'azzurro foderata d'oro e caricata del motto "Fert", tre volte ripetuto; il tutto posto sotto un padiglione di porpora bordato d'un gallone e frangiato d'oro, soppannato d'ermellino, col colmo di tela d'argento e ricamato a lingue di fuoco d'oro moventi dal lembo superiore e a fiamme d'oro e di rosso nella parte inferiore, con un drappellone intagliato a forma di vai, di velluto azzurro, gallonato e coi fiocchi d'oro; questo padiglione cimato dalla corona reale (v. tav. a colori). Il piccolo stemma usato dalle amministrazioni dello stato è formato di uno scudo di rosso alla croce d'argento, cimato da corona reale, dalla quale escono lateralmente due nastri al nodo di Savoia; il tutto accollato al collare dell'ordine della SS. Annunziata e sostenuto da due fasci littorî, con l'ascia all'esterno, al naturale; il tutto accompagnato in punta da una lista accartocciata al motto "Fert" in oro. ripetuto tre volte (v. tav. a colori). Il grande sigillo dello stato porta impresso il grande stemma con la leggenda in giro: (nome di S. M. il Re) per grazia di Dio e volontà della nazione Re d'Italia. Invece i sigilli delle amministrazioni dello stato rappresentano il piccolo stemma e l'indicazione dell'ufficio in leggenda.

Fonti. - Le fonti dell'araldica sono scritte e figurate. Scritte: la storia politica e culturale e più precisamente gli annali, le cronache e i documenti e soprattutto le poesie medievali. Figurate: i sigilli e le monete, le armi, le pitture e le miniature, le stoffe e i tappeti, le pietre tombali, i camini e i mobili con gli stemmi di famiglia, le non molto frequenti armi medievali con figurazioni araldiche, e finalmente i codici con stemmi. Questi ultimi sono fonti principalissime, sebbene, nella stragrande maggioranza, di formazione posteriore al decadimento dell'araldica, perché in genere raccolgono quanto si trova sparso nelle altre fonti. Converrà qui accennare ai più importanti di questi codici.

1. Codici con stemmi e stemmarî. - I più antichi manoscritti recanti stemmi sono quelli di Matteo da Parigi, un frate benedettino che nel 1217 si trovava nel convento di S. Albano non molto lontano da Londra e vi scrisse importanti opere storiche (Historia Anglorum, Chronica maior ecc.) disegnando qua e là di sua mano, ora a penna, ora a colori, gli stemmi dei personaggi dei quali gli occorreva di parlare (cfr. Wappen aus den Werken des Matthias von Paris von Pusikano, Berlino 1881). Nello Ströhl (tav. XVIII) si pubblicano sedici stemmi che sono fra i più interessanti di quelli disegnati intorno al 1244 in un foglio che oggi si conserva nel British Museum di Londra (a-c, fig. 25).

Non così antico, ma dei primi anni del sec. XIV, è il Canzoniere di Weingarten. Questo manoscritto, che attualmente consta di 158 fogli membranacei (cm. 15,3 × 11,7), era posseduto nel sec. XVI da Marx Schultheiss di Costanza che lo lasciò all'abbazia di Weingarten (donde il suo nome) presso la quale si trovava ancora nel 1613. Dal 1810 si trova in possesso della biblioteca di corte di Stoccarda (Poet. germ. 1). Il prezioso codice contiene, insieme con le canzoni di 31 menestrelli diversi, 25 figure a colori, tra cui 20 sono figure di stemmi. Lo stile degli stemmi è quello degli ultimi anni del sec. XIII. Fu pubblicato da F. Pfeiffer e F. Fellner, Stoccarda 1843. Nello Ströhl (tav. XIX) si pubblicano di questo codice 10 stemmi, riunendovi tuttavia in maniera araldica lo scudo e l'elmo che nell'originale non sono sempre uniti (g, h, fig. 25).

Quasi della stessa epoca (1330-1340) è il canzoniere di Heidelberg, che fu anche chiamato parigino o di Manesse. Il manoscritto, che consta di 246 fogli membranacei (cm. 35,5 × 25), venne asportato da Heidelberg nel 1622 in seguito all'occupazione della città da parte dei Francesi e passò poi alla Biblioteca Nazionale di Parigi, donde, mediante un cambio, nel 1888, fu restituito a Heidelberg. Nella biblioteca di questa città prese la segnatura di Codex Palatinus germ. n. 848. Contiene le canzoni di 140 poeti, 137 figure a colori e uno schizzo a penna. L'ipotesi che autore del codice sia stato Rudiger Manesse di Zurigo è discutibile. Fu pubblicato nel 1887 da F. X. Kraus per incarico del Ministero del granducato del Baden (Die Miniaturen der Manesse'schen Liederhandschrift in Auftrage des Grossh. Badischen Ministeriums nach den Originalen der Pariser Nationalbibliothek in Lichtdruck, herausgegeben von F. X. Kraus, Strasburgo 1887), e poi ancora nel 1892, a colori, da C. Zangemeister (Die Wappen, Helmzierden und Standarten der grossen Heidelberger Liederhandschriften, herausgegeben von Karl Zangemeister, Heidelberg 1892). Nello Ströhl (tav. XIX) sono riprodotte da questo codice 21 stemmi (i, l, fig. 25).

Altro codice dell'epoca è il cosidetto Balduineum, formato tra il 1340 e il 1350 per commissione dell'elettore Balduino di Treviri allo scopo di magnificare le imprese dell'imperatore Enrico VII. Contiene figure storiche con numerosi stemmi e vessilli. Fu pubblicato dalla direzione del r. Archivio di stato di Prussia con testo annotato da G. Irmer mediante gli scritti lasciati da L. v. Eltester (Berlino 1881).

Nei codici summenzionati gli stemmi servono d'illustrazione al testo; ma si hanno dello stesso tempo dei veri e proprî stemmarî, sia sotto forma di rotolo che di codice; venivano portati dagli araldi nei tornei per la verifica degli stemmi presentati dai cavalieri. Fra i rotoli il più antico è quello inglese posseduto dalla Society of Antiquaries di Londra contenente 486 stemmi disposti su 54 colonne di 9 stemmi ciascuna. Gli stemmi sono circa dell'anno 1300, per quanto le diciture siano di epoca posteriore e di diverse mani. Ne furono pubblicati alcuni nel catalogo dell'esposizione araldica di Londra del 1894 a cura di William Henry St. John Hope, donde sono ricavati i dieci stemmi pubblicati dallo Ströhl, nella tav. XVIII (d-f, fig. 25). Per antichità vien subito dopo il rotolo di Zurigo (1335-1345). A dimostrare il valore di esso basterȧ accennare che il principe Federico Carlo di Hohenlohe Waldenburg nella sua Geschichte des Fürstenbergischen Wappens diceva: "Chi non ha appieno studiato questa antichissima raccolta tedesca di stemmi, non può aver nessun concetto dell'araldica medievale". Il rotolo si conserva nella Biblioteca civica di Zurigo alla quale pervenne nel 1733 dopo la fnorte del naturalista e araldista Giovanni Giacomo Scheuchzer che lo possedeva nella prima metà del sec. XVIII, quando esso era noto sotto il nome di membrana heraldica. È lungo cm. 400.5 e largo cm. 12.5 ed è formato di 13 pezzi di pergamena cuciti insieme con refe. Reca stemmi a colori sui due lati della pergamena e in doppia fila. Originariamente era più lungo, ma fortunatamente il pezzo mancante ci è pervenuto in copia. Compresi gli stemmi pervenuti in copia, il rotolo comprende 559 stemmi e 28 vessilli vescovili. Nel 1860 le figure del rotolo furono pubblicate in 25 tavole da H. Runge a cura dell'Antiquarische Gesellschaft di Zurigo (Zurigo 1860). Da questa pubblicazione sono tratti i quarantaquattro stemmi che del rotolo zurighese figurano nelle tavole XX e XXI dello Ströhl (m-q, fig. 25).

Un altro stemmario molto antico, ma in forma di codice, è quello conosciuto sotto il nome di Gelre oppure di Wappenbock dell'araldo Heynen, detto Gelre, formato tra il 1340 e il 1370. Si conserva nella R. Biblioteca di Bruxelles e fu pubblicato dall'araldista francese Victor Bouton in quattro volumi (Parigi, 1881 e segg.). Comprende oltre 1800 stemmi. Dello stesso secolo, importantissimo è lo stemmario Sancti Christophori am Arlperg Bruederschafft Buech oggi conservato negli Archivî di stato a Vienna. Consta di 306 carte membranacee di cm. 24 × 16, dove sono dipinti stemmi di 4 secoli dal XIV al XVIII; cioè gli stemmi di coloro che appartennero alla confraternita nei varî tempi. Esempî tratti da questo stemmario si hanno nelle tavole XXIII-XXVI dello Ströhl.

Conviene poi ricordare anche il codice Seffken o meglio lo stemmario von den Ersten, compilato verso il 1380, che è in possesso della società Herold di Berlino, e fu ivi pubblicato nel 1893 da G. A. Seyler e A. M. Hildebrandt; e la cronaca di Ulrico Richenthal del concilio di Costanza, dell'anno 1420, con gli stemmi di tutti i partecipanti, pervenutaci in due esemplari, di cui uno nell'archivio del conte di Königsegg in Aulendorf, l'altro presso la città di Costanza, pubblicata più volte dal 1483 in poi, da ultimo in una piccola edizione curata da Sevin nel 1880.

Ma oramai col sec. XV le raccolte di stemmi, come i manoscritti con figure di stemmi, si fanno più frequenti; né sarebbe possibile darne qui un elenco. Quelli più noti per la Germania sono il Redinghovensches niederrheinisches Wappenbuch, compilato nel 1440 e conservato nella Biblioteca di corte e stato di Monaco (cfr. Der Deutsche Herold, 1887 p. 41); il Donaueschinges Wappenbuch, compilato tra il 1448 e il 1470 (cfr. Barack, Die Handschriften der fürstlich Fürstenbergischen Hofbibliothek zu Donaueschingen, n. 496); lo Stuttgarter Wappenbuch dell'araldo Hans Ingeram, finito nel 1459 e che qualche anno fa, a quanto riferisce il Gritzner, era conservato presso il barone Cotta di Stoccarda (cfr. Korrespondenzblatt des Gesamtvereins der deutschen Altertums- .... Vereine, 1861, p. 45 e Der Deutsche Herold, Berlino, 1891, n. 4); lo Scheiblersches Wappenbuch, della prima metà del sec. XV, in possesso della famiglia baronale Scheibler-Hülhoven di Aquisgrana (cfr. Ströhl, tav. XXVII); l'Osterreichisches Wappenbuch (detto anche Wappenbuch für österreichische Herzoge, conservato nell'Archivio di stato di Vienna (cfr. Ströhl, tav. XXVIII).

Per la Francia, che potrebbe esser chiamata la terra classica dell'araldica e che diede molti araldi e persevanti che ebbero fama d'essere i migliori conoscitori degli stemmi, si citano il famoso manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi, lo stemmario dell'araldo Berry, che contiene una genealogia dei re di Francia dal tempo del re San Luigi fino a Carlo VII (1403-1461) e l'Armorial d'Auvergne et Forest, d'un araldo del testé menzionato re Carlo VII (cfr. Ströhl, tav. LV).

In Italia, dove l'araldica ricevette un forte impulso dal governo aristocratico delle città più importanti, quali Venezia, Genova e Firenze, e dall'orgoglio dei papi e dei cardinali, gli stemmi raggiunsero un alto grado di perfezione fin dal sec. XIV, molto prima che in Germania, come ne fanno testimonianza molte sculture (figg. 29 e 30). Tuttavia i codici del sec. XV, contenenti stemmi, sono assai rari. Si cita come uno dei più antichi il codice Capodilista, della Biblioteca civica di Padova (Raccolta padovana, segn. B. P. 954), membranaceo, di carte 38, mm. 298 × 215, scritto da Gianfrancesco Capodilista a Basilea nel 1434, intitolato De viris illustribus famihae Capitilistae. Vi si narra succintamente la vita di uomini illustri della famiglia Transelgardi, chiamata poi Forzatè e successivamente Capodilista. È adorno di 31 carte finemente miniate, policrome, tre delle quali dànno le varie insegne della famiglia, le altre riproducono i ritratti dei personaggi della medesima. La parte biografica del testo fu pubblicata nel 1862 da Adelaide Trezza, Cenni storici de' più antichi illustri personaggi della famiglia Transelgardi-Forzatè-Capodilista, tratti dal codice originale membranaceo dell'anno 1434 di Gian Francesco co. Capodilista esistente nella Biblioteca Civica di Padova, Padova 1862. La descrizione esatta del codice con riproduzione degli stemmi Capodilista e di una delle figure a colori si trova invece in Karl Schrauf, Familienbuch der Capodilista in Padua v. J. 1435, Vienna 1881, tav. IV (v. anche Jahrbuch Adler, 1881 e lo Ströhl, tav. LIX; fig. 28).

Gli stemmarî che si sono menzionati fin qui sono importanti soprattutto per la loro antichità. Essi non possono tuttavia gareggiare in perfezione artistica con quelli che in Italia e fuori furono compilati nella seconda metà del sec. XV, cioè nel periodo migliore della miniatura. Gli stemmarî posteriori al sec. XV sono un'infinità. La loro conoscenza è molto utile, ed è augurabile che almeno per quelli d'Italia si faccia presto un elenco. È invece opportuno accennare a quelle che per le singole regioni italiane sono le fonti ufficiali o quasi, alle quali si possono attingere le descrizioni degli stemmi.

Piemonte. - Non esiste uno stemmario ufficiale. Ne fanno le veci i cosiddetti consegnamenti, conservati nell'Archivio di stato di Torino, nei quali sono descritti gli stemmi riconosciuti. I consegnamenti sono del 1580, del 1613 e del 1687, tutti relativi a famiglie degli stati sabaudi. Per il Piemonte, pur non essendo ufficiali, sono degni di essere ricordati gli stemmarî conservati nella Biblioteca di S. M. il Re, per la maggior parte piemontesi, dei quali fu pubblicato l'elenco con un cenno descrittivo da Mario Zucchi (Le raccolte di stemmi inedite della Biblioteca di S. M. il Re in Torino, in Bollettino della Consulta Araldica, vol. VIII, 1915, n. 36, p. 13 e segg.).

Genova e Liguria. - Neppure a Genova esiste uno stemmario ufficiale, perché il governo della repubblica si disinteressava degli stemmi usati dalle famiglie nobili. Esistono tuttavia parecchi manoscritti sulla nobiltà genovese, dai quali si possono ricavare gli stemmi delle singole famiglie. Di quelli conservati nelle biblioteche pubbliche di quella città fu data la citazione e la descrizione da G. De Ferrari (Bibliografia araldica e genealogica concernente la storia nobiliare di Genova, in Giornale Araldico genealogico, Bari 1897, p. 144). Si tratta per lo più di manoscritti che non vanno oltre il sec. XVII. I più noti fra essi sono quello del Ganduzio (Origini delle famiglie nobili di Genova, manoscritto del sec. XVII, voll. 2, con stemmi, di cui esistono in Genova varie copie, tra cui pregevole specialmente quella della Biblioteca urbana); e quello del Musso (Le diversità delle insegne, ms. del sec. XVII conservato nel r. Archivio di stato di Genova). Per Genova, si ha anche la raccolta a stampa del Franzone (Nobiltà di Genova, Genova, G. Calenzano e G. M. Farroni e C., 1636, con 35 tavole di stemmi incise in rame). È una raccolta assai pregevole, anche per l'accurata esecuzione artistica, e serve a controllare l'esattezza degli stemmi dei quali è domandato il riconoscimento. Ne esiste un numero limitato di copie, sia a colori, sia in nero, presso le principali biblioteche e presso privati. Gli stemmi vi sono raggruppati secondo i 28 alberghi nei quali erano ascritte le singole famiglie. A complemento delle notizie sugli stemmi della regione genovese si vuol qui ricordare che a Genova presso l'Archivio di stato esiste una descrizione degli stemmi delle famiglie nobili di Sarzana.

Lombardia. - La regione lombarda possiede più di uno stemmario ufficiale. Il principale è il Codice araldico, istituito da Maria Teresa insieme col Tribunale araldico, mediante dispaccio del 7 gennaio 1768, e conservato nell'Archivio di stato di Milano; comprende gli stemmi delle famiglie della Lombardia austriaca che ottennero la conferma dei loro titoli nobiliari prima del 1796; e, in piccola parte, gli stemmi delle famiglie che ottennero uguale conferma dopo la restaurazione del 1815. Un altro Codice araldico ufficiale è quello tenuto dalla Deputazione araldica di Mantova, la quale fu eretta con editto del 30 marzo 1770, dipendeva in parte dal Tribunale araldico di Milano e durò fino al 18 aprile 1786, quando Giuseppe II d'Austria soppresse il Tribunale passandone le attribuzioni al Consiglio di governo. Oggi questo codice si conserva nell'Archivio di stato di Mantova. Si ha poi un Codice degli stemmi dei cittadini riconosciuti dall'i. r. Consiglio di governo dal 24 marzo 1787 al 1° giugno 1795, e si conserva nell'Archivio di stato in Milano. Qui sono anche i due volumi del Codice degli stemmi personali del Governo italiano, cioè del Regno italico, con gli stemmi dei titolati napoleonici; come pure il Codice degli stemmi delle città, riconosciuti dal 3 aprile 1816 al 2 ottobre 1835. Sebbene non ufficiali, conviene ricordare per la Lombardia varî stemmarî, tra cui il codice 1390 della biblioteca trivulziana, che ha parecchie armi della 2ª metà del sec. XV; il codice Archinto, della 2ª metà del sec. XVI, oggi conservato nella biblioteca di S. M. il Re a Torino (cfr. M. Zucchi, in Boll. della Consulta Araldica, VIII, n. 36, 1915, p. 15, n. 5); il codice Cremosano dell'anno 1673 conservato presso l'Archivio di stato di Milano. Vi sono poi altri stemmarî in quasi tutte le città lombarde; tra questi, merita di essere particolarmente ricordato quello dell'Archivio civico di Milano contenente gli stemmi dei membri del Tribunale di provvisione e quello della Biblioteca civica di Bergamo, dove sono raffigurati gli stemmi delle famiglie che ottennero il riconoscimento della cittadinanza antica e originaria.

Venezia. - La regione veneta non possiede uno stemmario ufficiale. Vi sono invece raccolte di stemmi che si possono dire ufficiose. Tra queste si debbono ricordare le seguenti presso il R. Archivio di stato: a) La raccolta incominciata nel 1816 dalla i. r. Commissione araldica austriaca e contenente gli stemmi delle famiglie alle quali vennero allora confermati i titoli nobiliari. b) Il codice Barbaro arbori dei patrizî veneti. c) Il codice n. 794 del sec. XV, pure delle famiglie patrizie. d) Il codice contenente gli stemmi delle famiglie friulane. e) La raccolta dell'araldista Giovanni De Pellegrini (morto nel 1916), per le famiglie nobili in genere e dei comuni veneti, dell'Istria e della Dalmazia.

Diverse altre raccolte sono poi presso il Museo civico, tra cui: a) I codici Cicogna e Gradenigo per gli stemmi delle famiglie patrizie. b) Il codice Tassini in 5 volumi per gli stemmi dei Veneziani, con alberi e notizie. c) Un codice del sec. XVI con i cimieri degli stemmi patrizî. Per la Venezia, vi sono anche le raccolte a stampa del Coronelli (Armi, blasoni o insegne gentilizie delle famiglie patrizie esistenti nella Repubblica di Venezia), e del Rumor (Il blasone vicentino descritto e storicamente illustrato con 124 stemmi incisi e colorati, Venezia 1899, con tavole).

Emilia. - Molti sono gli stemmarî sparsi nelle varie città dell'Emilia, che nella maggior parte ebbero un proprio patriziato nobile; ma non si hanno in genere stemmarî ufficiali neppure in quelle città che furono sede di governo. Così non si ebbe uno stemmario ufficiale a Pamia, dove si ha tuttavia, nell'Archivio di stato, un Blasone Parmense in sei volumi, di compilazione recente, contenente gli stemmi riconosciuti delle famiglie nobili parmensi; e, nell'archivio dell'Ordine costantiniano di S. Giorgio, presso la chiesa della Steccata, un blasonario dei nobili insigniti dell'Ordine. Neppure a Modena si tenne uno stemmario ufficiale delle famiglie nobili dei dominî estensi. Tra i varî stemmarî non ufficiali, si ricorda l'Armoriale del Fontana, del sec. XVII, conservato nella Biblioteca estense e dal titolo Insegne di tutte quelle famiglie di Modena patricie e plebeie, antiche e nuove; come pure stemmi di famiglia, in numero di oltre trecento, si trovano delineati a colori anche nella cronaca dello Spaccini, conservata nell'Archivio storico comunale. Per gli stemmarî della città di Ferrara, si rimanda alla Bibliografia storico-genealogico-araldica ferrarese, pubblicata da F. Pasini Frassoni nel Giornale Araldico, anno 23° (1895), p. 236 e segg. Vi si citano il Blasonario Ferrarese, manoscritto del 1715, conservato nella Biblioteca comunale, e il Blasone e miscellanea d'armi ferraresi, manoscritto del sec. XIX con stemmi, conservato nell'Archivio comunale. Per Ferrara, si devono però citare anche due opere a stampa di A. Maresti, Chronologia et historia dei Capi e Giudici dei Savi della città di Ferrara, Ferrara 1683, in fol., con stemmi incisi in legno, e Raccolta delle arme antiche e moderne dei nobili Ferraresi, coll'origine loro finora trovata, Ferrara 1689, in fol., con stemmi incisi in legno. Pregevoli stemmarî ha poi la città di Bologna, sia manoscritti, sia a stampa. Tra i manoscritti, si citano quelli del sec. XVIII di C. Salaroli, Arme e divise delle famiglie della città di Bologna, nobili, antiche e moderne ecc., e Famiglie della città di Bologna, loro origine, arme, case e sepolture, dignità ecc., custoditi entrambi presso la Biblioteca comunale; e quello di G. M. Moretti, Armi gentilizie de' nobili e cittadini bolognesi ecc., conservato nella stessa biblioteca. Tra quelli a stampa, si ricorda l'opera pregevolissima di G. N. Pasquali Alidosi, Li riformatori dello stato di libertà della città di Bologna dall'anno 1465 che furono in vita fino al 1614, descritti sotto le loro famiglie, con i tempi de' loro possessi e morti e con l'arme e imprese, Bologna 1614, con stemmi incisi in legno; nonché l'opera di S. P. Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna con le loro insegne e nel fine i cimieri, Bologna 1670, e da ultimo l'opera di F. A. Dal Fiore, Blasone bolognese, cioè arme gentilizie di famiglie bolognesi, nobili, cittadinesche e aggregate, con annotazioni e prefazione generale, Bologna 1791-95, voll. 5. Con ciò, non si sono indicati tutti gli stemmarî dell'Emilia, dove spesso anche piccole città possiedono libri d'oro con i relativi stemmi, per esempio, il libro d'oro di Modigliana del 1755, il quale contiene 75 stemmi di famiglie modiglianesi (v. Mini, Il libro d'oro di Modigliana del 1755, Brisighella 1896).

Toscana. - Lo stemmario ufficiale della regione toscana è costituito dalla serie dei libri d'oro, cioè da quei 46 registri o volumi di grande formato, che contengono gli alberi genealogici e gli stemmi finemente miniati di tutte le famiglie patrizie e nobili della città e del granducato, e che furono istituiti con la legge emanata il 31 luglio 1750 dal granduca Francesco II. Una copia autentica di detti registri, in cui le iscrizioni furono continuate fino al 1849, fu consegnata alle rispettive città.

Non si ha conoscenza di stemmarî né ufficiali, né non ufficiali di qualche importanza, per Roma e per l'Italia meridionale e insulare. Tuttavia per la Sicilia è degna di nota la pubblicazione di V. Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Catania 1871-75.

2. Raccolte di stemmi a stampa. - Vicino alle raccolte manoscritte si menzionano le principali raccolte a stampa di carattere generale.

Germania. - Il Siebmachers grosses und allgemeines Wappenbuch, edito da Bauer e Raspe, Norimberga, 1856-1928, a cura prima di O. T. v. Hefner e poi di Hildebrandt, Gritzner ed altri, uscì la prima volta nel 1596 col titolo Wappenbuchlein Johann Sibmacher fecit, Friedrich Durer excudit, Norimberga, con 18 tavole. Nel 1605, apparve una seconda edizione con il disegno di 3320 stemmi, nel 1609 ne fu pubblicata una 2ª parte con altri 2400 stemmi, sempre sotto la cura del Siebmacher (morto nel 1611). Dopo d'allora, la raccolta del Siebmacher ebbe, sempre in Norimberga, numerose edizioni, sempre più ricche, ad opera di Fürst (1655-1667), degli eredi di Fürst (1696), di Helmers (1700), di Weigel (1734), di Raspe (1772). L'ultima edizione, cominciata da O. T. v. Hefner, costituisce per i Tedeschi la più importante raccolta di stemmi. È ordinata in 7 volumi suddivisi in varie parti, oltre ai due volumi destinati alla prefazione. Il vol. I comprende gli stemmi delle famiglie regnanti, quelli della più alta nobiltà tedesca e quelli di città. Il vol. II e il III dànno gli stemmi della nobiltà germanica, il vol. IV quelli della nobiltà austriaca, il vol. V delle famiglie patrizie della Germania e della Svizzera, il vol. VI delle famiglie estinte della Baviera e del Tirolo, il vol. VII contiene aggiunte agli stemmi della nobiltà della Baviera.

Francia. - J. B. Rietstap, Armorial général, 2ª ediz., Gouda 1884 e 1887, 2 volumi. È un elenco alfabetico delle famiglie provviste di stemmi, con la descrizione di questi; T. comte de Renesse, Dictionnaire des figures héraldiques, 7 volumi, Bruxelles 1894-1903. È un supplemento all'opera del Rietstap e tratta delle figure araldiche e delle famiglie che le portano.

Italia. - G. di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-90, voll. 3 ed appendici, con tavole di stemmi; G. Pietramellara, Blasonario generale italiano, ossai descrizione degli stemmi delle famiglie nobili e titolate d'Italia, Tivoli 1898-1902. Quantunque inedita, per l'Italia la raccolta principale di stemmi è quella che esiste presso le singole Commissioni araldiche regionali. Essa fu formata, tra il 1904 e 1905, per deliberazione della Consulta araldica. Doveva comprendere gli stemmi di tutta la nobiltà italiana e avrebbe dovuto pubblicarsi sotto l'alto patronato di S. M. il Re. È da augurarsi che il materiale già pronto e documentato, con la descrizione dei singoli stemmi vista e corretta di mano del harone Antonio Manno, possa in un non lontano avvenire vedere la luce.

Intanto a colmare almeno in parte la lacuna servono, insieme con le pubblicazioni testé indicate, gli Annuarî della nobiltà italiana del Crollalanza (1879-1905) che hanno una continuazione nel Libro d'oro della nobiltà italiana edito dal Collegio Araldico (dal 1910) e servirà anche maggiormente, quando sarà condotta a compimento, la recentissima iniziativa dell'Enciclopedia storico-nobiliare italiana, promossa e diretta dal marchese Vittorio Spreti, della quale sono usciti i primi due volumi.

3. Trattati. - Alla conoscenza dell'araldica e delle regole che la governano giovano, oltre che le raccolte degli stemmi, in modo speciale i trattati, i quali cominciarono a fiorire appena l'araldica cominciò a non essere più una cosa viva. Il più antico libro di regole araldiche è il trattato del francese Clemens Prinsault dell'anno 1416. Ma l'opera che prima tratta l'araldica come una scienza è di un italiano, Bartolo di Sassoferrato (1313-1355), il quale scrisse un Tractatus de insignis et armis. Ad esso tenne dietro il tedesco G. Rothe che scrisse la sua opera Ritterspiegel, verso il 1380-1400. Il trattato di Bartolo servì di modello ai molti che nei secoli seguenti scrissero d'araldica, e che non meritano di esser ricordati. Si fa eccezione soltanto per alcuni: F. G. Spener (morto nel 1705) con la sua opera Insignium theoria seu opus heraldici, pars specialis (1680) e pars generalis (1690); G. P. De Crescenzi, che scrisse i due lavori intitolati Corona della Nobiltà d'Italia, ovvero Compendio dell'istorie delle famiglie illustri, Bologna 1642 in 4°, e Il nobile romano ossia Trattato di nobiltà, libri due, ampliato con molte aggiunte dal conte Guardamiglio, Bologna 1693; Marc'Antonio Ginanni, autore di un'opera che è utilissima per ritrovare, dato lo stemma, il nome della famiglia cui appartiene e che s'intitola L'arte del blasone dichiarata per alfabeto, ecc., Venezia 1756, con tavole di stemmi; J. G. Gatterer (morto nel 1799) che scrisse un Abriss der Heraldik, Gotha-Gottinga 1773; C. S. Th. Bernd, al quale si deve l'opera intitolata Allgemeine Schriftenkunde der gesamten Wappenwissenschaft, 4 parti, Bonn 1830-1841. Tra queste opere, quella del Ginanni è, per noi Italiani, il miglior trattato di araldica anteriore al sec. XIX, sebbene il suo autore venga accusato di essere stato un plagiario dei Francesi.

Bibl.: Manca in Italia quella ricchezza di pubblicazioni sistematiche, trattati e atlanti, che altrove, p. es. in Germania, hanno elevata ad alta dignità gli studî di araldica. Anzi, per molto tempo, questi studî giacquero da noi in profondo oblio; e solo negli ultimi decennî del secolo scorso furono curati con amore e intelligenza da pochi appassionati cultori, quali Giambattista di Crollalanza, suo figlio Goffredo e il barone Antonio Manno. Né l'opera di questi pur dottissimi uomini, può dirsi scientifica; in quanto che essi, più che a indagare le origini delle istituzioni araldiche e a mostrarne poi in una ordinata trattazione gli sviluppi, mirarono alla compilazione di pubblicazioni, per altro utilissime, dove fosse possibile rintracciare prontamente notizie di indole araldica sulle famiglie. Conviene tuttavia ricordare che una trattazione concisa, ma precisa, è quella offerta pochi anni fa da Giovanni Vittani nelle sue lezioni di metrologia, numismatica e araldica, dettate presso la Scuola di paleografia diplomatica e archivistica, annessa al R. Archivio di stato in Milano.

G. B. Di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-90, voll. 3 ed appendice, in 4°, con tavole di stemmi; A. Manno, Il patriziato subalpino. Notizie di fatto, storiche, feudali ed araldiche desunte da documenti, I, Firenze 1895; II, Dizionario genealogico: A-B, Firenze 1906; G. Di Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca. Prontuario nobiliare, Pisa 1876-77, con figg.; G. Guelfi, Vocabolario araldico ad uso degli Italiani, Milano 1897; F. Tribolati, Grammatica araldica, Milano 1904; A. Manno, Vocabolario araldico ufficiale approvato con decreto ministeriale 6 febbraio 1906, Roma 1907 e Regolamento tecnico araldico, approvato con r. decr. n. 234 del 13 aprile 1905, Roma 1906; L. di Tettoni e F. Saladini, Teatro araldico, ovvero raccolta generale delle armi ed insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta Italia, Lodi e Milano 1841-48, voll. 8, con stemmi in cromolitografia (nel primo volume si dànno dei cenni intorno all'araldica con tavole d'insegne, cimieri e corone); G. Vittani, Nozioni di metrologia, numismatica e araldica, (Lezioni dettate presso la scuola di paleografia ecc. annessa al R. Archivio di Stato di Milano, anno scolastico 1913-1914); V. Spreti, Elementi di araldica, in Enciclopedia storico-nobiliare italiana, I, Milano 1928, pp. 13-68.

In Germania, invece, si ebbero fin dalla metà del secolo scorso delle buone trattazioni che illustrarono la storia, il diritto e l'arte dell'araldica. Accennerò alle principali: G. A. Seyler, Geschichte der Heraldik, Norimberga 1885-1889 (come vol. I, parte 1ª del Siebmacher, Grosses und allgemeines Wappenbuch, in sostituzione dei Grundsätze der Wappenkunst für die Leser seines Wappenwerkes besonders geschrieben von Otto Titan von Hefner, Norimberga 1855); F. Hauptmann, Das Wappenrecht, Historische und dogmatische Dasrtellung der im Wappenwesen geltenden Rechtssätze. Ein Beitrag zum deutschen Privatrecht, Bonn 1896; P. Ganz, Geschichte der heraldischen Kunst in der Schweiz in 12. und 13. Jh., Frauenfeld 1899; F. Warnecke, Heraldisches Handbuch, Görlitz 1880, 8ª ed., Francoforte sul M. 1893; H. G. Ströhl, Heraldischer Atlas, Stoccarda 1899; E. Frhr. v. Sacken, Katechismus der Heraldik, Lipsia, 1862; 7ª edizione, Lipsia 1905; A. M. Hildebrandt, Wappenfibel, 7ª ed., Francoforte sul M. 1909; A. v. Keller, Leitfaden der Heraldik, Berlino 1892; 2ª ed., 1908; E. Gritzner, Heraldik, in Sphragistik, Heraldik, Deutsche Münzgeschichte von D. T. Ilgen, D. E. Gritzner, D. F. Friedensburg, 2ª ed., Lipsia 1912, come vol. I, parte 4ª del Grundriss der Geschichtswissenschaft, edito da Aloys Meister. Accanto a queste trattazioni generali merita di essere menzionato anche lo studio di A. Ritter v. Siegenfeld, Das Landeswappen der Steiermark, vol. III delle Forschungen zur Verfassungs- und Verwaltungsgeschichte der Steiermark, Graz 1900, poiché vi si tratta con acume e con profondità la complessa questione dell'origine degli stemmi. - Per la Svizzera merita di essere segnalato D. L. Galbreath e H. De Vevey, Manuel d'Héraldique, Losanna 1922.

Se in Italia non fu molto sentito il bisogno di una sistematica trattazione della materia, si ebbero tuttavia delle serie riviste in cui furono date utili notizie storiche sulla nobiltà e furono illustrate molte questioni attinenti all'araldica. Queste riviste possono ben gareggiare con le più celebrate dell'estero, comprese le tedesche Deutscher Herold e Jahrbuch der k. k. herald. Gesellschaft "Adler", compresa pure l'ottima rivista svizzera Archives héraldiques suisses (Schweizer, Archiv für Heraldik), che si pubblica a Losanna. Le principali sono: il Giornale Araldico, fondato nel 1873 da Giambattista di Crollalanza e poi continuato da suo figlio Goffredo fino al 1903, e la Rivista del Collegio Araldico, fondata nel 1903, la quale continua tuttora. Accanto a queste si possono menzionare alcune ora cessate le quali ebbero un carattere regionale, come Il Blasone, pubblicazione delle provincie meridionali d'Italia, Araldica e genealogia giuridica, che si pubblicò a Napoli a cominciare dal 1889, l'Archivio storico gentilizio del Napoletano, rivista mensile che apparve nel 1894, il Bollettino araldico storico genealogico del Veneto pubblicato dallo studio araldico G. De Pellegrini di Venezia, che fu iniziato nel 1901; come pure si può menzionare una rivista che, almeno in principio, 1898, si occupò di un particolare gruppo nobiliare, Il Patriziato cattolico, e dal 1901, intitolandosi Il Patriziato, si occupò anche di araldica e genealogia in generale. Né si può omettere di accennare al Bollettino Ufficiale della Consulta Araldica, iniziato nel 1891 e giunto al vol. VIII, fasc. 3° (1928), il quale, pur occupandosi prevalentemente di legislazione nobiliare, non manca di buoni studî attinenti alla nobiltà e all'araldica.

Chi desidera più ampie notizie bibliografiche sull'araldica italiana può consultare G. Colaneri, Bibliografia araldica e genealogica d'Italia, Roma 1904. È un'opera utilissima che dà un'elencazione pei suoi tempi pressoché completa delle pubblicazioni uscite in Italia in materia di araldica e di genealogia.

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