Arbitrato societario 1. La clausola compromissoria statutaria

Diritto on line (2016)

Cesare Cavallini

Abstract

Introdotto nell’ordinamento con gli artt. 34-37 d.lgs. 17.1.2003, n. 5, in attuazione della delega contenuta nell’art. 12, l. 3.10.2001, n. 366, e sopravvissuto all’abrogazione del rito societario per effetto dell’art. 54 l. 18.6.2009, n. 69, l’arbitrato societario (o commerciale) costituisce una forma di arbitrato speciale destinato a definire le controversie relative ai rapporti interni alle società commerciali – controversie afferenti, dunque, al contrasto tra i soci o tra i soci e la società ovvero tra quest’ultima e gli organi sociali, con riferimento a diritti disponibili relativi, per l’appunto, al rapporto sociale – secondo le modalità di formazione della clausola compromissoria statutaria stabilite specificamente e inderogabilmente dalla legge.

Premessa. L’ambito di applicazione dell’arbitrato societario

L’espressione arbitrato societario (o arbitrato commerciale) allude comunemente a quella forma di arbitrato speciale che è governato dagli artt. 34-37 d.lgs. 17.1.2003, n. 5, a margine della disciplina dell’ormai abrogato rito societario (gli artt. 1-33, 41, co. 1, e 42 d.lgs. n. 5/2003 sono stati, infatti, abrogati dall’art. 54, co. 5, l. 18.6.2009, n. 69, a decorrere dal 4.7.2009).

L’eliminazione del rito speciale per le controversie (giudiziali) societarie e la conseguente reviviscenza del rito ordinario per una eterogenea tipologia di giudizi (spesso con pluralità di parti) non hanno inciso sulla disciplina del processo arbitrale societario (rectius: in materia di rapporti interni alla società), della quale il legislatore ha inteso anzi preservare l’originario assetto normativo del 2003; e ciò tanto nella delineazione dell’ambito applicativo della clausola compromissoria, quanto nella definizione della procedura di nomina del collegio arbitrale e di svolgimento del giudizio plurisoggettivo che, di regola, ne consegue. D’altra parte, è la stessa delega parlamentare – contenuta nell’art. 12, co. 3, l. 3.10.2001, n. 366 – ad avere stabilito limiti assai rigorosi (ed, invero, non privi di alcune incongruenze sistematiche) all’operatività della disciplina sull’arbitrato societario, prevedendone, in particolare, un’efficacia circoscritta all’ambito delle sole «clausole compromissorie» contenute negli «statuti» delle «società commerciali», seppure con espressa possibilità di derogare al regime generale applicabile alla clausola compromissoria ex art. 808 (e, per richiamo, ex art. 806) c.p.c.

Nondimeno, la specialità dell’abrogato rito societario si è riflessa – conservandosi intatta ancora oggi – sulla disciplina dell’arbitrato societario, facendo così prevalere le (poche) regole speciali sulla (più vasta) disciplina comune dell’arbitrato codicistico. E se è parso subito indubbio il requisito della piena efficacia derogatoria della lex specialis e della conseguente residualità della lex generalis, destinata principalmente a colmare le lacune lasciate dalla normativa settoriale (e ciò anche alla luce dell’allineamento tra la disciplina speciale e quella generale seguìto alla riforma delle norme codicistiche sull’arbitrato di diritto comune, di cui al d.lgs. 2.2.2006, n. 40), più controverso è risultato il profilo della esclusività della disciplina arbitrale societaria rispetto alle controversie che siano state devolute agli arbitri in violazione dei principi dettati dalla lex specialis ovvero al di fuori del suo specifico ambito applicativo. E poiché è proprio sul profilo dell’accessibilità all’arbitrato comune in materia societaria che si è venuta a concentrare una parte consistente dell’attività ermeneutica in parte qua, sembra opportuno intraprendere l’esame dell’arbitrato societario proprio dall’analisi dei principi generali in tema di determinazione dell’ambito applicativo degli artt. 34 ss. d.lgs. n. 5/2003 e, specialmente, dell’area delle controversie societarie, entro cui si radica naturaliter la competenza arbitrale de qua; principi ai quali, del resto, si è data un’eterogenea applicazione allorché si è cercato di elaborare – soprattutto in sede giurisprudenziale – una regola di concorso tra la normativa (speciale) in materia arbitrale societaria e la normativa (generale) di diritto arbitrale comune.

Orbene, l’ambito di applicazione dell’arbitrato societario, pur essendo delimitato dalla legge sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo, finisce in realtà per tollerare un ampio margine di variabilità, anzitutto, nella selezione delle vicende litigiose che sono devolvibili agli arbitri e, in particolare, allorché viene assegnata all’autonomia negoziale la possibilità di escludere dalla previsione della clausola compromissoria statutaria le liti promosse da (o nei confronti di) «amministratori, liquidatori e sindaci» (art. 34, co. 4); d’altra parte, la stessa materia delle controversie tra soci (o tra soci e società), che costituisce, per dir così, il proprium della tutela arbitrale societaria, viene rimessa, per la sua esatta definizione, alla volontà delle parti che, se non «tutte», soltanto «alcune» di tali controversie può riservare alla competenza arbitrale (art. 34, co. 1).

Rinviando al prosieguo della trattazione l’analisi più approfondita delle variazioni di cui è suscettibile la clausola compromissoria statutaria, giova considerarne, in primo luogo, l’ambito generale di applicazione e rilevare che l’art. 34 assegna all’autonomia statutaria il potere di giovarsi degli «atti costitutivi delle società» per prevedere «clausole compromissorie» che devolvano ad un arbitro o ad un collegio arbitrale la decisione delle «controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società» e coinvolgenti «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» (co. 1). L’analisi degli elementi desumibili da questa prima disposizione consente, dunque, di enucleare – con una certa precisione e nonostante talune incertezze interpretative – i limiti operativi fondamentali dell’arbitrato in materia endosocietaria. Ed infatti, si può cominciare con l’evidenziare che la scelta di derogare alla giurisdizione statale per le controversie societarie tra soci o tra soci e società dev’essere operata in un’opportuna – per quanto non esclusiva – sedes materiae, costituita, per l’appunto, dall’atto costitutivo della società. Tale previsione riflette, a sua volta, l’esigenza di assicurare che la volontà di devolvere agli arbitri le liti societarie sia il risultato non solo di una imprescindibile condivisione da parte dell’intera compagine societaria, ma anche – e soprattutto – di un (altrettanto) imprescindibile coordinamento con l’efficacia vincolante della clausola «per la società e per tutti i soci» (co. 3). D’altra parte, l’applicazione del principio consensualistico in parte qua (unitamente alla regola basilare dell’imputabilità alla persona giuridica degli effetti – anche obbligatori – della volontà formatasi in sede assembleare), se è pienamente soddisfatta soltanto con l’inclusione della clausola nell’atto costitutivo o nello statuto sociale, va tuttavia raffrontata, per un verso, con la previsione di un regime particolarmente rigoroso di soppressione della clausola (o di sua successiva introduzione) e, per altro verso, con la sopravvivenza – in tema di assegnazione delle liti alla competenza arbitrale – dell’autonomia privata dei soci e, si può ipotizzare, della stessa società (anche) in materie extrasocietarie.

Le controversie arbitrabili sotto il profilo soggettivo

Procediamo, dunque, con ordine e consideriamo, in primo luogo, l’estensione soggettiva dell’efficacia vincolante della clausola compromissoria statutaria. La sua determinazione scaturisce dall’applicazione di due principi: da un lato, come detto, il principio consensualistico, coordinato con le regole di formazione della volontà della persona giuridica, che assoggetta all’onere del giudizio arbitrale sia la società sia i componenti della compagine sociale, ivi compresi – come dispone eccezionalmente il co. 3 – «coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia». Si dirà meglio in seguito a proposito dell’esatta individuazione delle controversie devolvibili all’arbitrato de quo, ma fin d’ora si può rilevare che le liti in ordine alla titolarità della qualifica (e dei diritti organizzativi e patrimoniali) del socio coinvolgono certamente «diritti disponibili relativi al rapporto sociale» ed, anzi, per certi versi, investono direttamente la struttura costitutiva del «rapporto sociale», quanto meno nella prospettiva del singolo partecipante al capitale (e alla formazione della volontà) sociale. D’altra parte, però, va sottolineato che l’efficacia vincolante della clausola compromissoria non può non espandersi a coloro che abbiano acquistato la qualifica di socio successivamente al perfezionamento dell’atto costitutivo, aderendo volontariamente all’assetto organizzativo complessivo della società e, quindi, anche alle modalità di soluzione delle liti insorgenti tra soci ovvero tra soci e società; e ciò, vien da dire, quand’anche le stesse non siano specificamente menzionate nell’atto di adesione alla società, poiché esse rappresentano – come giustamente osservato – un tratto qualificante dell’intero assetto societario – necessariamente esplicitato nell’atto costitutivo o nello statuto – e, pertanto, non ignorabile scusabilmente da parte del socio entrante. Va precisato che, qualora l’ingresso di un nuovo socio nella compagine sociale comporti – come accade nelle società di persone – una modificazione del contratto sociale, si deve considerare necessaria – se non è convenuto diversamente nello statuto – una nuova manifestazione di volontà da parte di tutti i soci (anche) in ordine alla scelta di devolvere in arbitrato le liti societarie (v. art. 2252 c.c.); se, infatti, nelle società di capitali il coinvolgimento patrimoniale del socio è limitato alla quota di partecipazione al capitale sociale, nelle società di persone l’acquisto dello status di socio si basa sull’intuitus personae e comporta non solo l’accettazione di un regime di responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ma anche il conseguimento di tutte le funzioni gestorie della società. Di qui, la necessità che, in rapporto alle società di persone, sia l’intera compagine sociale – ivi compreso, quindi, il socio entrante – ad esprimersi nuovamente sulle regole sociali, tra la quali figura – come detto – anche la clausola compromissoria per le liti tra soci e tra soci e società.

Ma la richiamata variabilità dell’ambito applicativo dell’arbitrato societario consente anche che una rilevantissima parte della controversie societarie – quelle promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti (art. 34, co. 4) – non resti sottratta alla competenza arbitrale, pur rifuggendo parzialmente dal novero dei «diritti … relativi al rapporto sociale». Se infatti le iniziative promuovibili dagli organi sociali sono, di regola, la conseguenza di una legittimazione concorrente (e spesso suppletiva) rispetto a quella assembleare (o, talvolta, rispetto a quella del singolo socio o di una minoranza assembleare), come accade, ad esempio, nel caso dell’impugnazione delle delibere assembleari invalide, si dà talvolta il caso che il coinvolgimento dell’organo sociale incida solo parzialmente o indirettamente sul «rapporto sociale», come nel caso dell’azione di responsabilità dell’amministratore oppure dell’impugnazione delle delibere di revoca dell’amministratore o di determinazione del relativo compenso. Si tratta, dunque, di controversie che caratterizzano la vita sociale tanto quanto quelle relative ai rapporti inter socios e che, nondimeno, il legislatore del 2003 ha avvertito l’esigenza di caratterizzare in maniera autonoma, subordinandone la decidibilità per mezzo degli arbitri (non già alla mera previsione nella clausola compromissoria statutaria, bensì anche) alla «accettazione dell’incarico» da parte dell’organo sociale. Ciò che, pertanto, viene presunto dalla legge con riferimento alla soggezione del nuovo socio alla clausola compromissoria – ovverosia l’accettazione dell’arbitrato per il tramite dell’adesione al contratto sociale e, quindi, all’atto costitutivo della società – viene parimenti presunto dalla legge anche per l’organo sociale, il quale, pur senza aderire al contratto di società, accetta l’incarico offerto dall’ente mediante una specifica dichiarazione negoziale che risulta idonea, nonostante la mancata prescrizione legislativa della forma scritta (v. Trib. Milano, 22.8.2012, in Società, 2012, 1244 ss.), a condizionare il perfezionamento della fattispecie attributiva dei poteri e doveri dell’organo sociale. Ecco, dunque, che mentre il socio è assoggettato alla clausola arbitrale per mezzo di un atto di adesione al contratto di società, l’organo sociale – analogamente – soggiace al patto compromissorio per mezzo di un atto di accettazione dell’incarico offertogli (e un tale principio, al di là della lettera dell’art. 34, co. 4, non può non valere anche per gli organi societari assimilabili agli amministratori e ai sindaci come, ad esempio, i componenti dei consigli di gestione e di sorveglianza, il revisore contabile e il direttore generale). E benché si sia dubitato talvolta della costituzionalità di un simile meccanismo sul rilievo che finirebbe per generare una sorta di disparità di trattamento sulla base della tipologia delle liti compromesse, esso riflette invero una gestione delle liti societarie – sia quelle sociali in senso stretto, sia quelle coinvolgenti gli organi societari – effettivamente equilibrata e paritaria: ed infatti, da un lato, va osservato che in entrambe le tipologie di controversie è richiesta la presenza del patto compromissorio negli atti costitutivi della società e, dall’altro lato, va evidenziato che l’attuazione del meccanismo devolutivo esige parimenti un atto unilaterale che dia manifestazione alla volontà di adesione (del socio o dell’organo societario) all’assetto partecipativo o organizzativo della società (cfr. Coll. arb. Milano, 13.2.2011, in Riv. arbitrato, 2012, 657 ss.).

La collocazione del patto compromissorio nel contesto dell’atto costitutivo della società non può, d’altra parte, escludere che l’autonomia privata si esprima in un diverso contesto, ma pur sempre allo scopo di destinare alla competenza degli arbitri la decisione di talune tipologie di controversie societarie. Si è così giustamente osservato che la devoluzione al collegio arbitrale delle liti tra soci (o tra soci e società) può scaturire anche da una clausola compromissoria contenuta in un patto parasociale o in un contratto di cessione della partecipazione sociale, con la conseguenza che – ferma restando l’applicazione di quelle regole speciali ex artt. 34 ss. che non solo siano espressamente richiamate inter partes, ma che risultino altresì compatibili con i principi inderogabili dell’arbitrato codicistico – la sua efficacia vincolante resta circoscritta ai soci partecipanti al (e, dunque, sottoscrittori del) patto parasociale o del contratto di cessione per le controversie relative all’interpretazione e applicazione dell’accordo sociale (v. Coll. arb. Bologna, 15.10.2004, in Giur. comm., 2006, II, 499 ss.). Analogamente, non può trascurarsi l’ipotesi di compromessi ad hoc o, più in generale, di patti arbitrali – non solo, quindi, di clausole compromissorie, ma a seguito dell’introduzione dell’art. 808 bis c.p.c. ad opera della riforma del 2006 (d.lgs. n. 40/2006), anche di convenzioni arbitrali in materia non contrattuale – specificamente conclusi dalla società nel corso della propria attività negoziale. Va considerato, infatti, che la possibilità, contemplata dall’art. 34, di inserire una clausola compromissoria per le controversie societarie nell’atto costitutivo (o nello statuto) della società non costituisce un dato normativo assoluto, come si desume – a tacer d’altro – dallo stesso dictum legislativo (i co. 1 e 4 dell’art. 34 usano, infatti, l’espressione: «possono prevedere») e dal fatto che la specialità della normativa arbitrale societaria deve necessariamente valere non solo – com’è ovvio – rispetto alla tutela giurisdizionale statale, ma anche rispetto al potere negoziale privato di optare per la competenza arbitrale in occasione del perfezionamento di atti diversi da quello costitutivo della società. Ciò che la legge sembra imporre inderogabilmente è, dunque, il rispetto delle regole codicistiche imperative in tema di arbitrato comune e, per tale via, la preclusione di qualsiasi margine applicativo per quelle disposizioni della lex specialis che si giustificano esclusivamente con i caratteri propri dell’arbitrato societario (id est dell’arbitrato basato su una clausola compromissoria statutaria avente le caratteristiche dettate dal d.lgs. n. 5/2003). Ecco allora che, in questi casi, se è ipotizzabile, ad esempio, una deroga al meccanismo procedimentale di nomina del collegio arbitrale (poiché la nomina ad opera di un terzo designatore – e non delle parti – è pienamente coerente col dettato normativo codicistico ove consegua all’espressa volontà delle parti), non pare invece riconducibile alla convenzione arbitrale o al lodo l’efficacia erga omnes che caratterizza il rito arbitrale societario; così come non paiono estendibili ad un procedimento basato sulla convenzione arbitrale extrastatutaria le regole sull’intervento dei terzi o sulla potestà cautelare dell’arbitro dettate nella legge speciale.

Che il legislatore abbia inteso consolidare nell’arbitrato societario di fonte statutaria un meccanismo procedimentale inderogabile – sia per quanto concerne la procedura di nomina del collegio arbitrale, sia per quanto riguarda talune regole basilari di svolgimento del relativo giudizio – emerge, d’altra parte, anche dalla previsione che introduce una maggioranza qualificata per l’approvazione della delibera assembleare soppressiva (o introduttiva ex post) della clausola compromissoria, richiedendosi, in particolare, l’approvazione da parte dei soci che rappresentino «almeno i due terzi del capitale sociale» (art. 34, co. 6). La previsione sancisce, da un lato, il tentativo del legislatore di assicurare che la deroga alla giurisdizione statale risulti da una effettiva ponderazione – a livello assembleare – dei benefici e dei costi di un affidamento esclusivo agli arbitri per la risoluzione di talune delle (o tutte le) controversie societarie: una ponderazione che deve necessariamente contemperare il limite degli elevati costi del giudizio arbitrale e della minore efficacia dell’attività istruttoria in sede arbitrale (per lo meno in relazione a talune tipologie di liti) con l’ormai patologica dilatazione dei tempi processuali giudiziali e una più articolata e incisiva attività di istruzione probatoria. Dall’altro lato, l’ampliamento – ben oltre i limiti della maggioranza semplice – della base consensuale assembleare per l’approvazione della delibera de qua (ampliamento che, nel caso delle società di persone, dev’essere interpretato, in assenza di diverse pattuizioni statutarie, come accoglimento all’unanimità della modifica statutaria) risponde anche all’esigenza di salvaguardare la volontà – e, dunque, gli interessi – di una certa parte della minoranza assembleare; è un aspetto, quest’ultimo, che merita di essere sottolineato solo che si consideri il novero di quelle iniziative lato sensu giudiziali – attivabili, cioè, tanto in sede giurisdizionale quanto in sede arbitrale – che possono scaturire anche dall’azione di una minoranza qualificata della base partecipativa del capitale sociale. È quanto accade, ad esempio, per l’impugnativa della delibera assembleare invalida, attivabile – ex artt. 2377-2378 c.c. – anche ad opera di una minoranza assembleare in possesso della soglia azionaria determinata dalla legge (residuando altrimenti una tutela meramente risarcitoria), ovvero per l’azione sociale di responsabilità degli amministratori, promuovibile anch’essa ad iniziativa di una minoranza qualificata ai sensi dell’art. 2393 bis c.c. Ed è così, pertanto, che la scelta di indirizzare la tutela delle posizioni soggettive in materia societaria nell’alveo esclusivo del giudizio arbitrale deve porsi come un’opzione che bilanci adeguatamente gli interessi (per definizione confliggenti) della maggioranza e della minoranza assembleare. Si devono, infatti, necessariamente salvaguardare gli interessi della minoranza non solo nella prospettiva di una soggezione alle decisioni della maggioranza che consegua ad una partecipazione effettiva e critica alla fase deliberativa, ma ora (la maggior parte delle iniziative della minoranza è, infatti, opera della novella del 2003) anche nella prospettiva di evitare che, mediante l’attribuzione agli arbitri della (intera) tutela dei diritti in materia societaria, si finisca per operare una (indiretta) preclusione, o anche solo una (indiretta) limitazione, alle possibili iniziative giudiziali della minoranza. Laddove, infatti, i costi dell’arbitrato – com’è indubbio – tendono a collocarsi su livelli decisamente superiori rispetto a quelli propri della giustizia ordinaria, non si può ignorare che la decisione di devolvere agli arbitri la tutela dei diritti relativi al «rapporto sociale» può finire per dissuadere la minoranza assembleare – talvolta anche numericamente molto esigua e corrispondente a poche persone fisiche – dall’intraprendere quelle iniziative che, pur assicurando il conseguimento di un risultato sostanziale estremamente importante per la vita sociale (come, ad esempio, l’annullamento di una deliberazione invalida o la condanna dell’amministratore responsabile al risarcimento del danno), non sono affatto perseguite in concreto dalla maggioranza assembleare.

E a quest’ultimo riguardo non soddisfa certamente la salvaguardia contenuta nell’inciso finale del co. 6, laddove è previsto che i «soci assenti o dissenzienti» rispetto alla modifica dello statuto soppressiva o introduttiva della clausola compromissoria possano «esercitare il diritto di recesso» entro novanta giorni dall’adozione della delibera (ovvero, argomentando dall’art. 2377, co. 6, c.c., dalla sua iscrizione o dal suo deposito nel registro delle imprese competente). Ed infatti, una tale previsione consente opportunamente al socio minoritario – quale è quello dissenziente o, per altro verso, quello che non ha presenziato all’assemblea (ma non anche, come si può desumere a contrario dall’art. 2437 c.c., il socio astenuto) – di sciogliere unilateralmente il vincolo che lo lega alla società quando non intenda tollerare la rinuncia della maggioranza alla tutela giurisdizionale (o, viceversa, a quella arbitrale) dei diritti relativi al «rapporto sociale» (e, dunque, anche dei diritti di ciascun socio). Tuttavia, la previsione del diritto di recesso nulla può salvaguardare in relazione alle iniziative esperibili dalla sola minoranza, atteso che l’uscita del socio dissenziente o assente dalla società elimina in radice la possibilità che tali iniziative trovino una legittima attuazione. Ed infatti, ai fini della legittimazione ad agire, l’art. 2378, co. 2, c.c. impone che il possesso della soglia azionaria minima sia attestato dal socio «al tempo dell’impugnazione», con la conseguenza che, successivamente all’esercizio del diritto di recesso, si viene a precludere ipso iure ogni legittimazione ad causam per il socio assente o dissenziente (in proposito, si pone semmai un interrogativo – che esorbita, però, i limiti della presente trattazione – in ordine all’ammissibilità del recesso successivamente all’avvio di un’iniziativa a cui sia legittimata la minoranza assembleare, potendosi forse concludere nel senso della definizione in rito del giudizio per carenza di un presupposto processuale ogni qualvolta non residui la partecipazione al processo di una quota sufficiente di capitale sociale).

Sotto un diverso profilo, va invece considerato che il richiamo del co. 6 a quelle modifiche dell’atto costitutivo che abbiano una portata introduttiva o soppressiva della clausola compromissoria non può essere letto nel senso che sia preclusa la possibilità di modificare l’ambito di applicabilità del patto compromissorio, ovverosia il novero delle controversie devolvibili alla competenza arbitrale. Depone in tal senso soprattutto il fatto che il legislatore del 2003, con riferimento alle controversie insorgenti tra soci o tra questi ultimi e la società (ma il richiamo può ritenersi valido anche per le cause promosse da – o nei confronti di – organi sociali), abbia precisato che la devoluzione agli arbitri possa riguardare anche solo «alcune» delle liti societarie sussumibili nella predetta categoria generale, evidenziando così che alla compagine sociale compete un potere selettivo delle controversie devolvibili all’arbitro sin dal momento della costituzione della società (nel senso del riconoscimento al socio assente o dissenziente di recedere dalla società anche in caso di semplice modifica della clausola compromissoria, v. peraltro Coll. arb., 27-28.10.2010, in Giur. it., 2011, 2591 ss.; Trib. Verona, 12.4.2005, in Giur. comm., 2007, II, 633 ss.). Ciò che, infatti, il legislatore ha prescritto è il rispetto delle formalità procedurali di nomina del collegio e di svolgimento del processo arbitrale, la cui applicazione è richiesta a pena di nullità dall’art. 34, co. 2, e imposta come procedura pattiziamente inderogabile dall’art. 35. Ma al di là del rigore procedurale (su cui v. infra, § 3), è indubbio che l’autonomia privata possa determinare una selezione delle controversie societarie da riservare alla competenza arbitrale, potendosi ipotizzare che, accanto alla previsione di liti devolute al giudizio di un collegio arbitrale, l’atto costituivo della società contempli (per lo più implicitamente) la permanenza della competenza giurisdizionale ordinaria per le residuali tipologie di controversie.

Le controversie arbitrabili sotto il profilo oggettivo

Per definire l’ambito applicativo dell’arbitrato societario sul piano oggettivo, resta da considerare l’elemento che maggiormente identifica il giudizio in parola, ovverosia l’area delle controversie devolvibili al collegio arbitrale. Si è detto, in proposito, che l’art. 34 rinvia a due tipologie generali di controversie: i) le controversie insorgenti tra soci o tra soci e società e coinvolgenti diritti disponibili relativi al rapporto sociale (art. 34, co. 1); ii) le controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti (art. 34, co. 4).

Il legislatore rimanda, quindi, soltanto a categorie generali di controversie che spetta poi all’interprete di individuare nel contesto delle molteplici iniziative giudiziali in materia societaria. Ed infatti, è l’individuazione dell’elemento comune ad entrambe queste categorie di controversie che consente di enucleare con maggior precisione il novero delle liti societarie a cui il legislatore ha inteso fare riferimento nelle disposizioni in esame. Un elemento – quello comune ad entrambe le ipotesi sopra descritte – che viene ad identificarsi, al contempo, nella disponibilità del diritto controverso e nella sua incidenza sul rapporto societario, ovverosia in un duplice requisito la cui sintesi consente di indicare come devolvibili agli arbitri quelle controversie che hanno ad oggetto situazioni giuridiche soggettive non solo stabilmente rilevanti in ambito societario, ma anche suscettibili di un trasferimento di titolarità o di un mutamento del contenuto ad opera dell’autonomia privata. La previsione ha così anticipato in parte qua quanto stabilito nel 2006 dal riformatore del codice per l’arbitrato in generale, allorché si è disposto che le controversie compromettibili non siano più – come in passato – le liti su diritti (solo) transigibili, ma quelle che – per l’appunto – «non abbiano per oggetto diritti indisponibili» (v. art. 806, co. 1, c.p.c.). Il carattere disponibile (o, se si vuole, non indisponibile) del diritto rinvia, dunque, a quelle liti in cui si controverta in merito a situazioni sostanziali che, da un lato, riflettono e tutelano interessi esclusivi del loro titolare e che, dall’altro lato, tollerano, per tale ragione, un certo grado di compressione – ma non di annullamento – del potere dispositivo ad opera della legge. Ma non sono questi gli unici parametri in base ai quali individuare l’area delle controversie societarie su diritti disponibili; se, infatti, in ossequio al citato art. 34, co. 1, ciò che rileva è principalmente l’emersione dell’interesse individuale del singolo (e, per quanto qui rileva, del singolo socio o di gruppi di essi), il successivo co. 5 della medesima previsione esclude comunque la devolvibilità agli arbitri delle controversie – pur se inerenti, in ipotesi, a diritti disponibili – nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero. Se non è certo questa la sede per addentrarsi nel complesso dibattito dottrinale sull’esatta portata applicativa di quest’ultima disposizione, non può tuttavia trascurarsi che il legislatore è portato a contemplare l’eventualità di una partecipazione del pubblico ministero – tanto più se resa obbligatoria – alla tutela in iure di un diritto (artt. 69-70 c.p.c.) come strumento per (e, dunque, al fine di) salvaguardare interessi a rilevanza (anche) sovraindividuale e, quindi, tendenzialmente sottratti al potere dispositivo delle parti. Ed invero, la salvaguardia dell’interesse sovraindividuale (id est: della collettività dei soci, della società o addirittura del mercato) non esaurisce, di per sé, l’area della indisponibilità del (relativo) diritto soggettivo, con la conseguenza che anche la tutela di taluni interessi sovraindividuali – ove non ricorra una prescrizione inderogabile di legge (come quella dell’art. 34, co. 5) – può essere devoluta all’attività decisoria del collegio arbitrale, in quanto la reazione dell’ordinamento alla violazione di un tale interesse presuppone pur sempre la (rectius: non può mai prescindere dalla) iniziativa di parte, con esclusione di qualsiasi possibilità di rilievo officioso della violazione o di legittimazione generalizzata alla sua deduzione in giudizio. È quanto accade, ad esempio, nel caso di violazione dei principi di chiarezza o veridicità e correttezza del bilancio (v., sul punto, Cass., 23.2.2005, n. 3772, in Società, 2006, 637 ss.; per l’esclusione della deferibilità agli arbitri della «decisione circa la radicale nullità per illiceità dell’oggetto di una delibera di approvazione del bilancio», in ragione del «carattere altamente controverso dei limiti di disponibilità del diritto», v. Trib. Nola, 6.6.2013, in www.ilcaso.it) ovvero nel caso di controversie relative alla nullità della società o al suo scioglimento (in senso contrario alla compromettibilità dell’accertamento dell’intervenuto scioglimento della società v. Trib. Salerno, 12.4.2007, in Giur. it., 2008, 2000 ss.; Trib. Ravenna, 3.2.2006, in Giur. it., 2006, 1875 ss.; Trib. Mantova, 12.5.2004, in Società, 2004, 1270 ss.).

Vi è da chiedersi, allora, che significato abbia finito per assumere la delega di cui all’art. 12, co. 3, l. n. 366/2001, secondo cui il legislatore delegato avrebbe potuto prevedere l’inserimento negli statuti societari di clausole compromissorie «anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile» (vale a dire, per l’appunto, in deroga al presupposto della disponibilità del diritto controverso), tenuto conto che una tale previsione – nonostante il bilanciamento imposto da una decisione necessariamente assunta secondo diritto e da un regime di impugnabilità del lodo esteso anche alla denuncia della violazione di legge – non ha trovato poi alcun seguito nella normativa delegata di cui agli artt. 34-37 d.lgs. n. 5/2003. Ebbene, alla base di un tale atteggiamento del legislatore delegato sembra rintracciabile la volontà di prevenire possibili ragioni di conflitto con il dettato costituzionale – quanto meno in punto di ragionevolezza della normativa – per la contraddittorietà insita nel fatto di riservare un procedimento contraddistinto dall’elemento volontaristico a tipologie di controversie in relazione alle quali l’incidenza della volontà delle parti è, invece, estremamente limitata o addirittura assente. Se ciò è vero, non va però trascurato che il mancato esercizio della delega legislativa in parte qua ha finito col produrre anche un effetto positivo sul piano della salvaguardia dell’efficienza delle posizioni assembleari di minoranza (o, per altro verso, dei soci con minori disponibilità economiche), atteso che la scelta legislativa di sottrarre le controversie su diritti indisponibili alla competenza arbitrale (rectius di non avvalersi della possibilità di devolvere anch’esse alla competenza arbitrale) ha lasciato piena operatività a quelle iniziative giudiziarie della minoranza assembleare che avrebbero trovato difficilmente attuazione in sede arbitrale a causa dei costi, talora molto significativi, del procedimento. Iniziative, queste ultime, che, restando invece nell’alveo della giurisdizione ordinaria, assicurano un maggiore livello di efficienza – almeno sul piano dei costi (se non anche su quello della durata del giudizio) – in rapporto a quelle situazioni che, coinvolgendo diritti indisponibili, si presentano come le più gravi e rilevanti nella vita della società e dei suoi componenti.

Come si è detto, il requisito della disponibilità del diritto esercitato in sede arbitrale si deve combinare con quello della sua afferenza ad un «rapporto sociale», inteso non solo come appartenenza del suo titolare alla compagine societaria per il tramite della partecipazione al capitale sociale, ma anche come propensione del diritto ad incidere sullo svolgimento della vita sociale e sulla struttura dell’organizzazione societaria. Si tratta, dunque, di un criterio selettivo alquanto generico che consente di ricondurre alle forme del giudizio arbitrale societario ogni controversia che – come è stato puntualmente segnalato – abbia ad oggetto direttamente il rapporto sociale ovvero una situazione giuridica soggettiva che dipenda da tale rapporto. L’accennata genericità di un tale criterio selettivo non costituisce, tuttavia, un limite della normativa in tema di arbitrato societario, posto che, al di là di talune difficoltà interpretative, la scarsa selettività del parametro appare comunque giustificata dalla regola generale tracciata nell’art. 808 quater c.p.c. – introdotto con il d.lgs. n. 40/2006 – secondo cui la competenza arbitrale si estende comunque sempre a «tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione [di arbitrato] si riferisce», di talché – come si è giustamente rilevato – in caso d’incertezza circa la devolvibilità agli arbitri di una determinata controversa deve necessariamente prevalere una soluzione inclusiva che favorisca l’applicazione massima della clausola compromissoria. E ciò, senza considerare che la devoluzione all’arbitro di una controversia che non afferisce al rapporto sociale (ma che riguarda comunque un diritto disponibile) si riflette sul regime impugnatorio del lodo senza precludere uno svolgimento del processo arbitrale che potrebbe anche concludersi con una decisione (viziata, ma) sanata, atteso che, ai sensi dell’art. 817, co. 3, c.p.c., l’eventuale eccedenza delle conclusioni avversarie rispetto ai limiti della convenzione arbitrale (e, quindi, per quanto qui rileva, alla materia afferente al rapporto sociale) consente la denuncia del vizio in sede di impugnazione ogni qualvolta l’eccedenza sia stata regolarmente eccepita dalla parte nel corso dell’arbitrato.

Va rilevata, del resto, l’assenza in parte qua di uno specifico catalogo normativo delle controversie inerenti ad un rapporto sociale, atteso che l’elencazione contenuta nell’art. 3, co. 2, d.lgs. 27.6.2003, n. 168 – così come modificato dal d.l. 24.1.2012, n. 1 – e concernente i giudizi (ordinari) devoluti alla competenza esclusiva delle cd. «sezioni specializzate in materia di impresa» (catalogo, questo, che riprende e amplia quello contenuto nell’abrogato art. 1, co. 1, d.lgs. n. 5/2003 in tema di rito societario) può fungere solo parzialmente come dato ricostruttivo per il settore dell’arbitrato societario. Ed invero, l’elenco delle cause riservate alla cognizione delle sezioni specializzate di tribunale non solo prescinde totalmente dal profilo della disponibilità del diritto, ma offre altresì un supporto interpretativo soltanto parziale per l’individuazione delle controversie coinvolgenti il «rapporto sociale» (e ciò alla luce anche del rinvio operato dall’art. 12, co. 3, l. n. 366/2001 – ovverosia, come detto, la legge delega per l’introduzione dell’arbitrato societario – «a tutte o alcune tra le controversie societarie di cui al comma 1»: quelle in tema di «diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali», nonché quelle nelle materie disciplinate dal d.lgs. 24.2.1998, n. 58 e dal d.lgs. 1.9.1993, n. 385). In questa prospettiva, può allora ritenersi che anche le controversie promosse da (o nei confronti di) amministratori, liquidatori e sindaci rientrino nel novero delle liti compromettibili, in quanto controversie che incidono sul (o, comunque, afferiscono al) modo di essere del rapporto sociale; né l’inclusione di tali controversie può prescindere, d’altra parte, dal giudizio di disponibilità del diritto fatto valere, atteso che, sebbene l’art. 34, co. 4, non ne faccia espressamente menzione, un tale giudizio si rivela imprescindibile – tanto più dopo l’innovazione dell’art. 806, co. 1, c.p.c. – per l’assegnazione all’arbitro del potere di delibare e decidere una domanda con tali caratteristiche.

Paiono, insomma, rientrare nel novero delle controversie ex art. 34, co. 1, tutte le liti che possono insorgere nel contesto di società di persone (per l’esclusione delle società semplici e dei consorzi, poiché, in conformità a quanto previsto dall’art. 12 l. n. 366/2001, l’art. 34 riguarda soltanto le «società commerciali», v. Trib. Roma, 4.7.2007, in Riv. not., 2008, 928 ss.) ovvero di società di capitali, purché estranee – in quest’ultimo caso – al novero di «quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325 bis c.c.» (per l’applicazione di tale limite anche alle società cooperative costituite ex art. 2519 c.c. nelle forme della società per azioni o della società a responsabilità limitata, v. Trib. Verona, 27.9.2004, in Giur. mer., 2005, 91 ss.). A quest’ultimo riguardo, va rilevato che la scelta di disapplicare la disciplina dell’arbitrato de quo per le società quotate, se rinviene una sua giustificazione nel fatto che l’accreditamento di tali società presso il mercato esige peculiari forme di tutela dei rapporti endosocietari (in favore soprattutto degli azionisti-investitori) che possono anche non essere garantite dalla disciplina dell’arbitrato societario, è andata tutt’altro che esente da una serie di critiche dottrinali inclini a segnalare, di volta in volta, un rischio di violazione dei limiti della delega o di disparità di trattamento rispetto alle società non quotate e, finanche, un certo anacronismo normativo al cospetto di un’ormai acclarata compromettibilità delle liti tra risparmiatore e intermediario finanziario ex artt. 5-6 d.lgs. 8.10.2007, n. 179 (in attuazione della delega di cui all’art. 27, co. 1, l. 28.12.2005, n. 262). Ebbene, in tale contesto, ogni qualvolta assuma rilevanza – come detto – una posizione giuridica soggettiva dotata del carattere della disponibilità, sono state ritenute devolvibili all’arbitrato de quo non solo le controversie che incidono sull’esistenza o sulla qualificazione del rapporto sociale a seguito, ad esempio, della cessione della partecipazione nel capitale sociale o dell’esercizio di un diritto riconosciuto al socio nello statuto o in un patto di prelazione, ma anche quelle controversie che hanno ad oggetto situazioni dipendenti dal rapporto sociale come, ad esempio, il diritto del socio ad essere informato sulla gestione della società ovvero il diritto alla percezione degli utili (per l’arbitrabilità delle controversie in tema di determinazione della quota sociale in caso di recesso del socio, v. Trib. Modena, 11.11.2005, inedita). Si è invece esclusa la devoluzione all’arbitrato societario delle liti che solo indirettamente investono il rapporto tra il socio e la società in ragione della accessorietà della situazione sostanziale rispetto all’assetto societario: è ciò che accade, ad esempio, nel caso delle liti insorte sull’esecuzione di patti parasociali (per l’esclusione della assoggettabilità all’arbitrato societario di tali liti v. Trib. Prato, 15.6.2010, in Società, 2010, 1504 ss.; Trib. Pescara, 19.10.2009, in Notariato, 2010, 392 ss.) ovvero sull’esecuzione di un contratto di prestazione d’opera o di lavoro o, ancora, di prestazione di servizi in favore dell’ente (sulla responsabilità dell’amministratore che sia anche dipendente della società, v. l’art. 144 ter disp. att. c.p.c.).

Più complessa, invece, la riconducibilità nell’alveo dell’art. 34, co. 1, dei giudizi di impugnazione delle delibere assembleari (o consiliari) invalide ex artt. 2377-2378 (o 2388) c.c. Ed infatti, accanto ad un orientamento interpretativo incline a sostenere che la previsione dell’art. 35, co. 5, (e dell’art. 36, co. 1) consente di superare l’ostacolo della devolvibilità all’arbitrato de quo delle sole controversie – riconducibili all’ambito delle impugnazioni di delibere assembleari o consiliari – aventi ad oggetto diritti disponibili inerenti al rapporto sociale (in questo senso v. Trib. Napoli, 8.3.2010, in Società, 2010, 1510 ss.; Trib. Como, 29.9.2006, ivi, 2007, 1277 ss.), si è venuto formando un indirizzo ermeneutico più restrittivo – consolidato soprattutto nella giurisprudenza di merito – secondo cui la natura dispositiva (e, dunque, arbitrabile) dei diritti fatti valere in parte qua dovrebbe assumere una rilevanza preminente, al punto da imporre un coordinamento dell’art. 35, co. 5 (e dell’art. 36, co. 1) con la previsione dell’art. 34, co. 1, nella parte in cui – come detto – è stabilito che la devoluzione di una controversia all’arbitrato societario presuppone che l’oggetto della lite verta su un diritto (non solo afferente al rapporto societario, ma altresì) disponibile (v., ex multis, Trib. Torino, 23.11.2012, in Giur.it., 2013, 625 ss.; Trib. Milano, 10.12.2010, in Società, 2011, 715 ss.; Trib. Belluno, 8.5.2008, in Giur. mer., 2008, 2252 ss.; cfr. anche Trib. Lucca, 27.11.2008, in Riv. arbitrato, 2008, 397 ss.; Trib. Pescara, 10.3.2008, in Giur. mer., 2008, 2251 ss.; nel senso che «l’impugnazione delle delibere assembleari di approvazione del bilancio di s.p.a. è deferibile ad arbitri anche se si discuta della violazione delle regole di chiarezza, veridicità e correttezza e di impiego delle riserve», v. Trib. Napoli, 9.6.2010, in Giur. comm., 2012, II, 220 ss.; per la devolvibilità agli arbitri dell’impugnativa della delibera di nomina del c.d.a. di una s.r.l. – sul rilievo che vi si discute della «legittimità dell’esercizio del diritto di voto e quindi di un diritto disponibile del singolo socio» – v. Coll. arb. Mantova, 23.9.2009, in www.ilcaso.it). Non sembrano, però, sussistere ragioni sistematiche per comprimere la portata precettiva degli artt. 35, co. 5, e 36, co. 1, limitando l’area delle impugnative assembleari (e consiliari) alle sole delibere concernenti diritti disponibili; e ciò neppure in ossequio ad una presunta valenza generale dell’art. 34, co. 1 (id est della disponibilità del diritto dedotto come presupposto per la devoluzione in arbitrato della relativa controversia) in rapporto anche alle impugnative assembleari e consiliari, poiché parrebbe altrimenti priva di giustificazione la conservazione di un sistema di guarentigie come quello imposto dai menzionati artt. 35 e 36 per la decisione arbitrale delle impugnazioni di delibere assembleari e consiliari invalide. Se, infatti, una tale limitazione all’attività decisoria del collegio arbitrale (e al suo controllo in sede impugnatoria) appare opportuna e giustificata in ordine alle forme più gravi di invalidità deliberativa (id est: nullità e – forse – inesistenza) in cui, per l’appunto, si assiste alla lesione di diritti indisponibili, parrebbe invece anacronistica in rapporto alle forme meno gravi di invalidità (id est: annullabilità), allorché emerge la lesione di interessi individuali disponibili del singolo componente della compagine sociale. Pare corretto, allora, enfatizzare il dettato normativo nella parte in cui le «controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari» (art. 35, co. 5) sono ritenute devolvibili in arbitrato senza alcuna limitazione espressa in ordine alla indisponibilità della materia oggetto della deliberazione (e, quindi, dell’impugnazione), ma prevedendo che l’appartenenza della materia all’area della indisponibilità sia bilanciata con la duplice garanzia della decisione «secondo diritto» e della impugnabilità del lodo anche per violazione di legge ex art. 829, co. 2, c.p.c. (art. 36, co. 1). Tanto più che – come opportunamente segnalato – il carattere della disponibilità sembra rivestire sempre meno la qualifica di presupposto essenziale e irrinunciabile dell’arbitrato societario; ciò che appare evidente ove si consideri che il legislatore del 2003, da un lato, ha ricondotto a un regime marcatamente dispositivo – rappresentato, in particolare, dall’imposizione di un termine decadenziale per l’avvio dell’azione dichiarativa – anche il procedimento per la denuncia dei vizi di nullità delle delibere assembleari (v. artt. 2379 e 2479 ter c.c.) e, dall’altro lato, ha inasprito il carattere imperativo di molte attività del procedimento in esame (dal meccanismo di nomina del collegio arbitrale al penetrante sistema pubblicitario della domanda di arbitrato, dal potere cautelare degli arbitri all’ordine di intervento in causa del terzo: aspetti, questi, su cui v. Arbitrato societario 2. Il procedimento e Arbitrato societario 3. La tutela cautelare).

E sono proprio questi aspetti della disciplina in esame che contribuiscono a rafforzare l’idea – da ultimo avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità – che l’arbitrato societario sia non solo un procedimento speciale destinato a derogare alla normativa generale sull’arbitrato di diritto comune, ma sia altresì un procedimento esclusivo, ovverosia un procedimento la cui applicazione deve escludere la possibilità di un ricorso alternativo all’arbitrato comune ogni qualvolta sia identificabile una clausola compromissoria statutaria. Ed infatti, da un lato, va ribadito che l’autonomia negoziale delle parti (e, per l’effetto, l’applicazione della normativa codicistica) deve certamente prevalere sulla normativa speciale – con l’unica eccezione delle regole ex artt. 34 ss. che risultino compatibili con i principi inderogabili dell’arbitrato di diritto comune – in tutte quelle situazioni, già sopra esaminate, in cui il patto compromissorio (su diritti inerenti il rapporto sociale) si sia formato nell’ambito di (o in relazione a) un negozio giuridico diverso dall’atto costitutivo o dallo statuto della società. Dall’altro lato, però, va evidenziato che ogni qualvolta la fonte dell’arbitrato su diritti inerenti il rapporto sociale sia costituita da una clausola compromissoria statutaria non vi è possibilità di disattendere il regime speciale degli artt. 34 ss., posto che, anzitutto, non può essere trascurato in parte qua il tenore letterale di tali ultime disposizioni, le quali si riferiscono inequivocabilmente ad un arbitrato che sia retto da «clausole compromissorie statutarie» (come recita non solo la rubrica dell’art. 34, ma anche, in più punti, il testo di tale disposizione e, in parte, di quella del successivo art. 35, nonché il testo dell’art. 12, co. 3, l. n. 366/2001, ove sono richiamati «gli statuti delle società commerciali conten[enti] clausole compromissorie»). A ciò si aggiunga, poi, che la scelta di rimettere ad una clausola compromissoria statutaria la devoluzione delle liti inerenti il rapporto sociale ad un arbitrato di diritto comune implicherebbe non solo la negazione di ogni carattere imperativo e inderogabile alla disciplina speciale, ma anche (e soprattutto) l’insorgere di gravi incongruenze sistematiche – fors’anche di rilevanza costituzionale – e di disparità di trattamento in rapporto alla inapplicabilità delle rigorose modalità di introduzione (o soppressione) del patto compromissorio (di cui all’art. 34, co. 6) ad una clausola compromissoria statutaria che – in ipotesi – rimandi all’applicazione delle regole dell’arbitrato codicistico; un’ulteriore incongruenza sistematica sarebbe data, inoltre, dalla differente posizione dei terzi nel giudizio arbitrale, posto che la medesima posizione del socio (o di altro soggetto) interessato ad intervenire (o, più spesso, ad essere chiamato) nel giudizio arbitrale è trattata in maniera significativamente differente a seconda che assuma rilevanza la disciplina codicistica ovvero quella speciale in materia societaria (v. Arbitrato societario 2. Il procedimento). Le conseguenze di tale impostazione si misurano, anzitutto, sul piano sostanziale, laddove è predicabile la nullità (o, comunque, l’inefficacia) delle clausole compromissorie statutarie difformi ai precetti dettati dagli artt. 34 ss. (ovvero – come talvolta si è suggerito – la sostituzione o la conversione ex lege di tali clausole in previsioni compatibili con la normativa speciale inderogabile); e ciò, principalmente, nei casi in cui – come frequentemente è accaduto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma – si assista al mancato adeguamento spontaneo delle clausole compromissorie presenti negli atti costitutivi (o negli statuti) di società già costituite; ma le conseguenze della nullità (o inefficacia) della clausola compromissoria illegittima si misurano anche sul piano processuale, solo che si consideri la sopravvenienza della giurisdizione ordinaria come sede esclusiva nella quale dedurre la controversia sui diritti (disponibili) inerenti al rapporto sociale (con particolare riguardo all’adozione del meccanismo di nomina del collegio arbitrale ad opera di un terzo estraneo alla società, v., ex multis, App. Milano, 13.2.2013, in www.ilcaso.it; Trib. Modena, 15.2.2010, in Giur. it., 2010, 2392 ss.; Trib. Milano, 7.1.2010, ivi, 2010, 2366 ss.; Trib. Roma, 19.5.2009, in Foro it., 2010, I, 3567 ss.; in senso contrario v., invece, App. Torino, 23.10.2009, in Giur. it., 2010, 2096 ss.; Trib. Bologna, 17.6.2008, in Giur. comm., 2009, II, 1004 ss.). Da ultimo, come detto, è intervenuto anche l’avallo della Suprema Corte che con riferimento – per lo meno – all’arbitrato societario rituale non ha esitato a riconoscere il carattere esclusivo e inderogabile della disciplina in esame, negando al contempo la validità di clausole compromissorie statutarie nelle quali – a seguito di un mancato adeguamento ovvero di un indebito inserimento ab origine – sia previsto un affidamento diretto ai soci (in luogo del terzo estraneo alla società) del potere di nomina dei componenti del collegio arbitrale. E ciò, sulla scorta sia di argomentazioni letterali (il conferimento del potere di nomina al terzo estraneo è sancito – dall’art. 34, co. 5 – «in ogni caso, a pena di nullità» della clausola compromissoria), sia soprattutto di argomentazioni sistematiche volte ad enfatizzare la centralità del meccanismo de quo nella prospettiva della tutela dell’imparzialità del collegio arbitrale e, conseguentemente, della sua decisione (v. Cass., 9.12.2010, n. 24867, in Società, 2011, 450 ss.; Cass., 11.3.2011, n. 5913, in Riv. arbitrato, 2011, 255 ss.; Cass., 20.7.2011, n. 15892, in Riv. dir. proc., 2012, 765 ss.; Cass., 13.10.2011, n. 21202, in Società, 2012, 211 ss.; per l’ammissibilità del concorso tra arbitrato societario irrituale e arbitrato comune in materia societaria, v. invece Cass., 4.6.2010, n. 13664, in Giur. comm., 2011, II, 1080 ss.).

Fonti normative

Artt. 806 ss. c.p.c.; art. 12 l. 3.10.2001, n. 366; artt. 34, 35, 36, 37 d.lgs. 17.1.2003, n. 5; art. 3 d.lgs. 27.6.2003, n. 168; artt. 5-6 d.lgs. 8.10.2007, n. 179.

Bibliografia essenziale

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