Arcaismi

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

arcaismi

Riccardo Tesi

Gli arcaismi sono forme o parole avvertite come desuete sul piano sincronico della lingua d’uso, ma non, per es., nell’ambito di particolari tradizioni e generi. Il ricorso a parole del passato è un ingrediente tipico della tradizione italiana, specie a confronto con altre esperienze europee. Il caso esemplare della riattivazione di modelli arcaici, in particolare fiorentino-trecenteschi, ha rappresentato, com’è noto, il momento di fondazione della lingua letteraria nel corso del Cinquecento (Tesi 2007: 203-209): emerge su tutti l’opera di ➔ Pietro Bembo, editore del Petrarca aldino (1501) e teorizzatore della lingua di ➔ Petrarca e ➔ Boccaccio nelle Prose della volgar lingua (1525), che impresse un marcato carattere arcaizzante all’italiano letterario precedente all’età illuministica e alla riforma linguistica manzoniana.

Non sempre gli arcaismi si presentano sotto l’aspetto di parole o forme anacronistiche. Nella prospettiva cui si accennava, spicca il mantenimento diacronico di tratti peculiari a un genere particolare: si pensi al caso delle forme poetiche di tradizione siciliana (veglio «vecchio», speme «speranza», pria «prima», reo «malvagio», disio «desiderio», ecc.) tenute vive nell’arco cronologico che si estende da ➔ Dante fino alla seconda metà dell’Ottocento; o, nel medesimo contenitore del linguaggio poetico tradizionale, a tratti morfologici persistenti e in netta opposizione al trend della lingua d’uso quali l’omissione dell’articolo determinativo coi nomi astratti, le forme classicheggianti (imago, polve, turbo «turbine», Apolline «Apollo», ecc.), i pronomi nui e vui, ecc. (Serianni 2009). Legato invece al contesto situazionale si presenta l’impiego motivato degli arcaismi ‘evocativi’, che al contrario dei precedenti si possono reggere su un’infrazione consapevole del codice linguistico: basti ricordare l’episodio di Cacciaguida nella Commedia (Par. XV, 88-148), ove Dante fa parlare il trisavolo «non con questa moderna favella», ma con una lingua metà latineggiante e metà arcaica (per es., Batisteo «battistero», forma con un’unica attestazione dantesca, che, non a caso, trova riscontri nei pre-stilnovisti fiorentini), secondo la percezione idealizzata di quello che avrebbe potuto essere il fiorentino colto di inizio Duecento.

Tranne i casi particolari di continuità all’interno di un genere, solitamente l’arcaismo è percepito come corpo estraneo alla lingua corrente e marginalizzato o stigmatizzato o irriso. Notevoli i casi reperibili a partire dalla critica ai modelli fiorentini trecenteschi dei modernisti del Seicento, alla parodia dello stile di Crusca nella Rinunzia avanti notaio dei fratelli Verri (1764), fino allo smontaggio ironico-dissacratorio del linguaggio poetico tradizionale, vera e propria roccaforte degli arcaismi, ad opera dei crepuscolari (Corazzini, Moretti, ecc.). L’impiego della forma arcaica nell’italiano post-rinascimentale assume sempre più i tratti di un’infrazione nei confronti di un mezzo scritto che stava trasformandosi da medium elitario di tipo quasi solo letterario in strumento comunicativo, cioè di tipo sociale, riguardante una collettività più o meno allargata di scriventi colti e, in seguito, di parlanti.

In epoca moderna la critica alle modalità arcaizzanti investe non solo le scelte lessicali ma anche la sintassi e il testo. Nell’Anticrusca di Paolo Beni (1612), per es., la censura delle forme fuori moda o datate non si limita alla constatazione di vocaboli ormai confinati nei dizionari (fedire «ferire», guerire «guarire», grillanda «ghirlanda», ecc.), ma si estende a particolarità strutturali dove si accentua il solco tra la lingua antica e la lingua moderna: i rilievi più numerosi riguardano infatti la sintassi della frase complessa e la testualità del Decameron (per es., l’uso dell’infinito nelle completive con soggetto proprio [➔ accusativo con l’infinito], l’impiego di che introduttore di una completiva con l’infinito, ecc.), un’opera che non poteva più funzionare come modello per le scritture moderne (Tesi 2005: 16-23).

La stessa linea classicheggiante della prosa cinquecentesca più ricercata (➔ Castiglione, Baldassarre; ➔ Guicciardini, Francesco; Casa, ecc.), pur continuando a rappresentare un modello fino alla prima metà dell’Ottocento, non sfugge all’accusa di arcaismo mossa dagli scrittori più influenzati dai modelli europei, cioè francesi: lo stile sintattico ricco di nessi subordinativi del Casa, per es., risultava totalmente estraneo all’➔Alfieri, come lui stesso racconta in un passo dell’autobiografia (Tesi 2005: 96).

L’Ottocento rappresenta anche per la tradizione linguistica italiana la fine dell’arcaismo come costituente tradizionale sia della prosa letteraria sia del linguaggio poetico. I frequenti arcaismi ‘inerziali’ (per es., bambolo «bambino», abituro «casuccia», adusto «bruno», antivenire «prevenire», contezza «conoscenza», sembiante «volto», ecc.), ancora presenti nei romanzieri della prima metà del secolo (Guerrazzi, D’Azeglio, Grossi, ➔ Niccolò Tommaseo; Cantù, ecc.), vengono espunti in favore della forma corrente già all’altezza della quarantana dei Promessi sposi (Bricchi 2000: 35-39). Completano l’opera avviata dal Manzoni i dizionari d’impianto sincronico di fine Ottocento ispirati alla teoria dell’uso: emblematica la divisione tipografica tra forme correnti (lato superiore della pagina) e forme arcaiche, poetiche o letterarie (lato inferiore) proposta nell’impaginazione del dizionario di Policarpo Petrocchi (1887-1891), mentre una marca d’uso separa queste ultime dal lessico vivo nell’innovativo Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897), meglio conosciuto come Giorgini-Broglio (➔ lessicografia).

Lo stesso linguaggio poetico, come si accennava, riduce drasticamente sullo scorcio del secolo il proprio arsenale di forme tradizionali troppo slegate dalla lingua d’uso. Ne è una controprova non solo l’abbandono quasi totale di tali anacronismi nei crepuscolari di inizio Novecento, ma il loro regresso sintomatico (perché non generalizzato a tutto il corpus delle poesie) nel Pascoli più vicino al tono medio, che rifiuta consapevolmente di innalzare il registro ‘familiare’ con scelte lessicali avvertite come troppo impegnative. Da questo momento, e in maniera sempre più accentuata nell’italiano di oggi, l’arcaismo ‘sperimentale’ (in specie lessicale) si è ritagliato uno spazio estremamente ridotto (per es., nella narrativa dei vari Bufalino, Consolo, Mari, o nella poesia di Zanzotto), spesso con finalità ironico-dissacratoria o straniante: si pensi alle gag comiche di Ettore Petrolini, o al parlar forbito di Totò, o all’italiano arcaico inventato da Age e Scarpelli nell’Armata Brancaleone (1966) e in Brancaleone alle crociate (1970), dove trovano posto arcaismi fonetici (diece, sanza, longo, meo, ecc.), morfologici (lo mare, lo Santo Sepolcro), o morfosintattici (io verrò a ti pigliare) facilmente comprensibili per un italiano di media cultura e riconducibili a una finalità comica del tutto diversa da quella tipica dell’arcaismo tradizionale (Serianni 2002: 51-52; ➔ cinema e lingua).

Studi

Bricchi, Mariarosa (2000), La roca trombazza. Lessico arcaico e letterario nella prosa narrativa dell’Ottocento italiano, Alessandria, Edizioni dell’Orso.

Serianni, Luca (2002), Italiano antico, italiano anticheggiante, in Id., Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, pp. 38-52.

Serianni, Luca (2009), La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci.

Tesi, Riccardo (2005), Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea, Bologna, Zanichelli.

Tesi, Riccardo (2007), Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento, Bologna, Zanichelli.

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