Archeologia

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Archeologia

Daniele Manacorda

sommario: 1. Un'archeologia globale. 2. Un'archeologia mondiale. 3. Processi formativi. 4. Archeologia ambientale. 5. Archeologia del paesaggio. 6. La ricerca sul campo. 7. Archeologia dell'architettura. 8. Archeologia quantitativa e applicazioni informatiche. 9. Scienze nell'archeologia. 10. Etnoarcheologia e archeologia sperimentale. 11. Archeologia e storia. 12. L'archeologia nel mondo contemporaneo. □ Bibliografia.

1. Un'archeologia globale

Alle soglie del 2000 l'archeologia si presenta, nel contesto delle scienze umane, come una disciplina che ha profondamente modificato e ampliato - nel corso degli ultimi decenni del secolo - natura, finalità, orizzonti e metodi. Come è stato efficacemente sintetizzato (v. archeologia, vol. I, pp. 223-224), ‟essa tende a inserirsi appieno nella società in cui vive, della quale interpreta e riflette talune esigenze primarie: l'acquisizione di una conoscenza storica fondata sui monumenti oltreché sui documenti [...], la globalità di tale sapere [...], la razionalità delle conoscenze [...], l'incontro tra umanesimo e scienza [...], la salvaguardia dell'ambiente" e la sua valorizzazione ‟attraverso la fruizione dei beni archeologici offerti a una società che ormai li ritiene parte integrante e insostituibile della sua cultura, e quindi della sua stessa esistenza".

Tale condizione può essere oggi compresa nel termine ‛archeologia globale', con il quale si intende l'insieme delle pratiche di ricerca messe in atto per lo studio complessivo delle testimonianze materiali del passato (v. Mannoni, 1994). La globalità dell'approccio archeologico mira a riconoscere il maggior numero di segni che la presenza umana lascia in un territorio: essa ha pertanto come obiettivo la conoscenza degli aspetti più vari della cultura materiale di ogni singola comunità, come delle diverse manifestazioni artistiche, che possono per questa via ritrovare legami più forti con il contesto di origine. L'archeologia mira dunque a una comprensione tendenzialmente totale delle forme in cui le diverse culture si manifestano nei prodotti del proprio lavoro e nelle trasformazioni indotte dal rapporto dialettico tra uomo e ambiente, così come queste si conservano nel corso del tempo tanto nelle stratificazioni sepolte quanto alla superficie del suolo.

Basata per definizione sullo studio delle fonti materiali, l'archeologia moderna riconosce comunque la necessità di un approccio diretto anche alle fonti scritte, quando disponibili, per un confronto paritario tra sistemi diversi di fonti ma reciprocamente intrecciati, nella consapevolezza che, se le testimonianze scritte sono indubbiamente per più versi parziali, anche la documentazione archeologica è non solo parziale, ma spesso frutto di casualità, sia per le forme in cui si è tramandata sino a noi, sia per i modi con i quali è stata recuperata alla conoscenza. Va tuttavia osservato che la fonte archeologica, quando sia severamente valutato il grado di veridicità dei dati quantitativi e qualitativi che essa produce, può trarre giovamento dalla sua stessa natura di fonte per certi aspetti involontaria, specchio potenzialmente non deformato delle premesse sociali, economiche e culturali che sono alla base della formazione stessa del documento archeologico e della sua potenziale trasformazione in fonte storica.

2. Un'archeologia mondiale

L'archeologia, ponendo al centro del proprio interesse la conoscenza del passato dell'umanità, si definisce pertanto come una disciplina umanistica e storica. In linea generale, tuttavia, i resti materiali di natura archeologica non trasmettono un messaggio diretto; la loro interpretazione richiede anzi un complesso percorso di indagine scandito dalle tappe della individuazione, della raccolta, della descrizione e dell'organizzazione dei dati, che sole possono garantire il raggiungimento di un'interpretazione storicamente valida. Questa consapevolezza si traduce in un approfondimento teorico e applicativo dell'insieme dei metodi che sorreggono l'indagine archeologica nel terreno e sui reperti (v. Schiffer, 1978-1987 e 1989-1992; v. Djindjian, 1991; v. Guidi, 1994). Questi ultimi costituiscono oggi pertanto - insieme con la consapevolezza che la disciplina riconosce nelle testimonianze materiali l'oggetto d'indagine privilegiato - il comune denominatore delle diverse archeologie e la garanzia stessa della loro unità.

Gli ultimi decenni del Novecento hanno visto infatti un generale ampliamento degli orizzonti della disciplina, che - superando ogni limite geografico - copre ormai la superficie intera del pianeta e - superando ogni barriera cronologica - pone al centro del proprio interesse, in un continuum ininterrotto, la storia intera dell'umanità, dagli albori della specie umana sino al più recente passato. Pur in presenza di una quantità sempre più diversificata di archeologie, definite per più o meno grandi ripartizioni spazio-temporali, è pertanto possibile affermare che alla fine del XX secolo la disciplina ha conseguito ormai una dimensione mondiale.

L'archeologia ormai non coincide più con lo studio dell'‛antico'; anzi, la cosiddetta archeologia postclassica rappresenta oggi uno dei settori di maggior sviluppo della disciplina, traendo la sua origine in Europa prevalentemente dall'alveo delle discipline storiche, e negli altri continenti dallo sviluppo degli studi sugli insediamenti coloniali e postcoloniali. Una nuova disciplina, l'archeologia industriale, ha contribuito inoltre a estendere ulteriormente il campo di applicazione delle metodologie archeologiche ai resti materiali della rivoluzione industriale, indagati sia negli insediamenti produttivi che nelle merci da questi prodotte. Non sono mancati inoltre interessanti tentativi di applicazione del metodo archeologico allo studio dei comportamenti propri delle stesse società contemporanee: si pensi, ad esempio, al Garbage Project (Progetto spazzatura), messo in atto a Tucson, in Arizona, che ha comportato la raccolta della spazzatura dai bidoni di un settore della città e un esame ‛archeologico' in laboratorio di tutto ciò che vi era contenuto (v. Rathje, 1974).

Questi nuovi orizzonti, in particolare per quanto riguarda l'archeologia dei nuovi continenti, si sono andati sviluppando in un rapporto di vicinanza con i metodi dell'antropologia, tanto che l'archeologia è stata definita come ‟il passato storico dell'antropologia culturale": come quest'ultima, infatti, anche l'archeologia si propone lo studio dell'umanità e in particolare dei caratteri non biologici dell'uomo, cioè delle forme molteplici nelle quali si manifestano i suoi aspetti culturali. Questo più stretto rapporto con l'antropologia si evince dalle domande che l'archeologo pone ora più frequentemente ai resti che porta alla luce, e che costituiscono l'ossatura di un recente lavoro di sintesi di Colin Renfrew, uno dei massimi archeologi del nostro tempo: che cosa è rimasto? dove? quando? quale era l'ambiente? come erano organizzate le società? che aspetto avevano gli individui? che cosa mangiavano? come costruivano e usavano gli strumenti? che contatti avevano? che cosa pensavano? perché le cose sono cambiate? (v. Renfrew e Bahn, 1991). Si tenga comunque presente che un approccio di carattere antropologico, nel momento stesso in cui contribuisce ad ampliare il ventaglio delle domande, non può a sua volta fare a meno della contestualizzazione storica dell'oggetto indagato e di una riproposizione in sede di interpretazione storica delle risposte ottenute nel corso dell'indagine.

3. Processi formativi

Abbiamo quindi assistito a una vera e propria esplosione dell'insieme delle domande da rivolgere alla fonte archeologica e a un incremento vertiginoso della quantità e complessità dei dati da sottoporre a interpretazione. Ciò ha comportato uno sviluppo dei metodi adeguato alle forme mediante le quali le testimonianze archeologiche giungono all'attenzione del ricercatore. La conservazione delle tracce dell'attività umana dipende infatti da una concomitanza di fattori, che può essere sintetizzata nei concetti di ‛processi culturali di formazione' e ‛processi naturali di formazione'. I primi descrivono le forme mediante le quali gli uomini nel corso del tempo hanno interagito con l'ambiente, trasformando la materia e utilizzando quindi i prodotti del loro lavoro; i secondi le forme mediante le quali la natura ha a sua volta modificato i prodotti dell'uomo e i resti delle sue tracce. Il ricercatore non può intervenire su nessuno di questi processi di formazione; può invece raffinare e ampliare la gamma dei metodi a sua disposizione perché la traccia conservatasi nel sottosuolo o in superficie o nel reperto oggetto del suo esame esplichi al massimo le sue potenzialità informative e possa trasformarsi da fonte storica potenziale in nuovo apporto di conoscenza (v. Schiffer, 1987; v. Leonardi, 1992).

Il dibattito teorico generato nei decenni passati dallo sviluppo della New archaeology ha conosciuto in questi ultimi anni nuovi apporti (v. Binford, 1989), che hanno anche messo in discussione alcune impostazioni di questa importante scuola di pensiero, alla quale si deve un tentativo di ‛scientizzazione' dell'archeologia, mediante l'adozione di procedure di indagine controllabili al fine di produrre dati e osservazioni più oggettive, perseguite talora sottostimando l'analisi storica delle diverse formazioni economiche e sociali (v. Trigger, 1989). Si sono andati quindi sviluppando nuovi indirizzi di ricerca teorica, che hanno contribuito a delineare gli aspetti di una archeologia cosiddetta post-processuale, che non intende presentarsi come una scuola organica, ma si muove piuttosto lungo il filo della riscoperta del valore degli elementi locali, culturali ed etnostorici che consentono di contestualizzare il dato archeologico (sulla nozione di archeologia contestuale, v. Hodder, 1986) o propugnano posizioni di più radicale relativismo, che tendono a negare all'osservatore la possibilità di attingere in termini reali al mondo del passato (v. Shanks e Tilley, Re-constructing..., e Social theory..., 1987), o che affermano la possibilità di una formalizzazione dei ragionamenti archeologici che sia indipendente dalle diverse teorie dell'archeologia e miri alla elaborazione di un quadro metodologico e tecnico generale di carattere comune (v. Djindjian, 1991).

4. Archeologia ambientale

Un settore nel quale recentemente si è sperimentata la fecondità di un approccio che integri i diversi metodi a disposizione dell'archeologo per applicarli a orizzonti che possono trascendere i limiti spazio-temporali delle singole archeologie, è quello dell'‛archeologia ambientale'. Se l'uomo ha progressivamente manifestato nei millenni la sua capacità di trasformazione della natura, è indubbio tuttavia che l'ambiente ha svolto e svolge tuttora un ruolo determinante nell'organizzazione delle diverse comunità, condizionando la scelta e la forma stessa degli insediamenti: l'archeologo si pone pertanto oggi l'obiettivo di analizzare le condizioni ambientali del passato per individuare i fattori che possano aver influenzato i meccanismi di funzionamento di un determinato sistema culturale.

L'archeologia ambientale ha dunque per oggetto lo studio delle relazioni, che - a seconda del diverso grado di complessità sociale - ogni comunità istituisce con l'ambiente circostante, innanzitutto per garantire la propria sussistenza. Ciò comporta l'individuazione sia delle pratiche messe in atto per lo sfruttamento della flora e della fauna, sia delle risposte date alle diverse variabili ambientali mediante opere di adattamento alle condizioni naturali (quali il clima) o di trasformazione della natura stessa (bonifiche, disboscamenti, ecc.). Queste si manifestano sotto forma di tracce che possono spaziare dalle dimensioni microscopiche dei pollini, che consentono un'analisi ecologica dell'area indagata, alle dimensioni macroscopiche delle trasformazioni apportate dall'uomo alla stessa conformazione geomorfologica dell'ambiente in cui agisce. L'archeologia ambientale partecipa quindi al sistema più complessivo delle discipline storiche e non può prescindere da una conoscenza delle formazioni economiche e sociali inserite nel quadro ambientale. L'ambiente, infatti, è il prodotto dell'interazione tra l'uomo e la natura: in sede archeologica il suo studio non può quindi essere appannaggio delle sole scienze naturali, se non nel caso di comunità umane particolarmente elementari.

Un esempio significativo di archeologia ambientale praticata negli ultimi anni è offerto dalle ricerche condotte nel villaggio di ceramisti di Sallèles d'Aude, nella Francia meridionale, attivo per circa tre secoli a partire dall'età di Augusto: l'analisi sistematica dei frammenti di legni carbonizzati nei forni ha permesso di dimostrare che i cambiamenti verificatisi nell'approvvigionamento del combustibile riflettono le trasformazioni ambientali provocate nella regione dallo stesso sviluppo dell'attività degli impianti (v. Laubenheimer, 1994).

5. Archeologia del paesaggio

Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche, sia al suolo che da telerilevamento, e l'impiego di tecniche di campionamento sempre più raffinate hanno consentito un ampliamento dell'orizzonte della ricerca dal singolo sito, indagato con metodologie intensive e in ultima istanza con lo scavo, a intere regioni o comprensori, cui possono essere applicati i metodi della ricognizione topografica e dell'archeologia ambientale per la ricostruzione degli ecosistemi e delle loro trasformazioni (particolarmente innovative a questo proposito sono state, ad esempio, le ricerche condotte nell'arcipelago delle Cicladi: v. Renfrew e Wagstaff, 1982; v. Cherry e altri, 1991). Si parla quindi ormai di una vera e propria ‛archeologia del paesaggio' (v. Bernardi, 1992; v. Cambi e Terrenato, 1994), che indaga nel contesto territoriale pluristratificato il portato delle trasformazioni storiche e del rapporto uomo/ambiente. Questa indagine tendenzialmente onnicomprensiva sulla realtà stratificata alla superficie e nel sottosuolo rappresenta oggi una sfida, ma appare anche come la premessa culturale per una gestione della tutela dei beni archeologici (cioè storici, artistici e paesaggistici, là dove anche questi ultimi vengano considerati prodotti di culture storicamente determinate) che tenga conto delle necessità di una pianificazione territoriale dell'uso dei suoli.

L'archeologia del paesaggio nasce e si sviluppa nell'ambito dell'archeologia delle campagne, ma esiste anche ormai una archeologia del paesaggio delle città, uno dei settori più affascinanti della nuova ‛archeologia urbana', che ha conosciuto notevoli sviluppi nel corso di quest'ultima generazione grazie alla concomitanza di diversi fattori. Tra questi possiamo ricordare evidentemente la maturazione teorica e pratica dell'indagine stratigrafica, ma anche lo sviluppo di una concezione più diacronica della ricerca nei siti pluristratificati, favorita dal consolidamento delle archeologie cosiddette post-classiche. Questa maturazione disciplinare - che comporta anche particolari attitudini tecniche e professionali nel corso di interventi complessi e fortemente condizionati da fattori esterni - si è incontrata con la crescita della consapevolezza dei problemi posti dalla tutela dei centri storici sottoposti a trasformazioni spesso radicali dettate dalle necessità della vita moderna. Si comprende come gli interventi di archeologia urbana abbiano richiesto in particolare un affinamento dei metodi della valutazione della stratificazione (v. Carver, 1983), con la quale devono misurarsi attualmente i grandi e piccoli progetti di intervento archeologico nel contesto urbano (per un lavoro di sintesi sul caso inglese, v. Carver, 1987).

Con la pluralità dei metodi che la sostengono e dei fini che la giustificano, l'archeologia urbana si presenta oggi come l'archeologia ‛della' città, tesa dunque alla comprensione delle diverse fasi storiche di un insediamento cittadino sia ‛nella' città - poiché deve adeguare i suoi metodi di intervento ai condizionamenti posti dall'organismo vivente di una città moderna - sia ‛per' la città, dal momento che si pone il tema del reinserimento dei settori da essa indagati nella vita di un contesto urbano. L'archeologia ha così cominciato a essere ammessa tra quelle discipline che - pur indagando il passato - concorrono a rendere migliore la città del presente e a pensare la città del futuro (v. Manacorda, 1988).

6. La ricerca sul campo

All'ampliamento dell'intensità di indagine cui è possibile sottoporre le superfici ha fatto riscontro la maturazione e la sempre più generale applicazione del metodo stratigrafico, in particolare nei contesti di età storica. Alla base dello sviluppo dell'indagine nel sottosuolo sta la formulazione, negli anni settanta, e la diffusione, in questi ultimi due decenni, di una teoria della stratificazione archeologica (v. Harris, 1979), che ha suscitato un intenso dibattito (v. Francovich e Manacorda, 1990; v. Carandini, 1991; v. Harris, 1992), e ha contribuito in modo decisivo a riportare a unità i concetti fondamentali di riferimento che guidano l'opera dell'archeologo. Tra gli aspetti più stimolanti della discussione in corso va ricordata la riflessione sulle finalità stesse dell'indagine sul campo che - di fronte al rischio di una utopica completezza ed esaustività della documentazione - è stata richiamata al suo obiettivo fondamentale di fornire risposte precise a precisi interrogativi storiografici, mettendo in atto di volta in volta le procedure mirate alla produzione dei dati richiesti (v. Carver, 1990). Al ricercatore è dunque ancora riservato un ampio spazio discrezionale circa la scelta delle pratiche operative, che hanno tratto particolare giovamento dalla diffusione - dopo le prime sperimentazioni degli anni cinquanta in area britannica - degli scavi su grandi aree (v. Barker, 19933). Pur agendo lungo i binari di una rigorosa metodologia stratigrafica, e quindi lungo la diacronia della sequenza insediativa, questa difficile strategia di intervento consente di sottoporre a indagine lo sviluppo orizzontale di un sito nello spazio, con evidenti vantaggi sia per la descrizione topografica dell'insediamento che per la comprensione dei suoi aspetti funzionali. La sua applicazione si è ampiamente diffusa negli ultimi quindici anni in contesto sia urbano che rurale (eccezionale, ad esempio, la dimensione delle aree indagate simultaneamente negli scavi del Louvre a Parigi nel corso degli anni ottanta).

Solo lo sviluppo concomitante dei metodi della ricognizione topografica e della stratigrafia applicata a grandi aree ha consentito che maturasse una metodologia di intervento sul terreno in grado di sostenere la cosiddetta archeologia di emergenza. Questa pratica operativa, dotata degli strumenti concettuali propri dei grandi progetti di ricerca, opera nel campo della tutela contribuendo a ridurre sensibilmente, attraverso prospezioni e scavi, la perdita di informazioni storico-archeologiche indotta dallo sviluppo impetuoso e spesso indiscriminato degli insediamenti abitativi e produttivi e delle grandi infrastrutture (per alcuni esempi, v. Ferdière, 1990; v. Guidi, 1992). L'archeologia di emergenza appare dunque come la risposta possibile a trasformazioni talmente radicali della superficie e del sottosuolo di molte regioni del pianeta da provocare la perdita di una quantità incalcolabile di testimonianze, una situazione per certi versi paradossale che non trova riscontro in alcun'altra epoca storica, come è stato efficacemente sottolineato: ‟Abbiamo visto infatti distruggere negli ultimi trent'anni una quantità di vestigia assai maggiore che in tutti i millenni che ci hanno preceduto, mentre la nostra conoscenza dello spazio archeologico non è mai stata allo stesso tempo altrettanto profonda" (v. Schnapp, 1980, p. 15).

Un settore di intervento che si è particolarmente giovato dei notevoli sviluppi della tecnica di indagine è stato quello della ‛archeologia subacquea', già da tempo impegnata nello studio di ampi contesti topografici sommersi. L'ausilio di tecniche di rilevazione sofisticate ha fatto progredire in particolare le indagini sui relitti che, restituendo porzioni significative dei carichi naufragati, sono in grado di apportare dati di prima mano allo studio dei commerci e della produzione. Grazie anche all'affinamento dei metodi di recupero, che consentono una lettura stratigrafica del carico e una approssimativa ricostruzione delle rotte, lo studio dei contesti chiusi restituiti dai relitti favorisce lo sviluppo di analisi anche di carattere quantitativo, tanto più originali qualora si consideri come la carenza di questo genere di dati, scarsamente conservati dalle fonti scritte e difficilmente recuperabili dai contesti archeologici terrestri, rappresenti uno degli aspetti più problematici per la ricostruzione dell'economia delle società più antiche.

I progressi delle tecnologie applicate all'archeologia subacquea hanno consentito in questi ultimi anni l'avvio di spettacolari indagini anche a grandi profondità, che aprono orizzonti del tutto nuovi per il recupero di contesti da naufragio meno sottoposti agli sconvolgimenti post-deposizionali propri dei giacimenti subacquei delle acque poco profonde (per le ultime esperienze, v. Long, 1995).

7. Archeologia dell'architettura

La ricostruzione delle vicende storiche di un insediamento urbano trae particolare giovamento dall'analisi delle strutture edilizie, che rendono percepibili gli spazi abitativi e l'organizzazione funzionale dello spazio cittadino e testimoniano dei livelli tecnologici della comunità che le produce e usa. Questa analisi dello ‛scheletro' della città (che non può prescindere dalla conoscenza del suo corpo, ovvero degli accumuli di terra che si riversano sul sedime urbano e delle cicatrici lasciate dal trascorrere del tempo) ha fatto sviluppare in anni recenti lo studio stratigrafico delle murature, per il quale sono stati messi a punto metodi specifici di indagine. Questi ultimi hanno a loro volta prodotto un'importante ricaduta sull'analisi tipologica delle tecniche edilizie, che tende ormai ad affermarsi nei più diversi ambiti cronologici, e con particolare fecondità in quelli medievali (v. Francovich e Parenti, 1988; v. Brogiolo, 1988).

L'analisi stratigrafica degli elevati ha costituito quindi un delicato punto di incontro tra la conoscenza archeologica e l'intervento di restauro architettonico. Le esperienze in tal campo non sono ancora numerose quanto sarebbe auspicabile, né è semplice la collaborazione tra discipline che si sono sin qui preferibilmente ignorate (v. Francovich e Parenti, 1988; v. Tagliabue, 1994). Ci si confronta con problemi di scala dell'intervento - e quindi anche di profondità dell'approccio analitico - e di equilibrio tra i momenti della conoscenza, della conservazione e della distruzione. La delicatezza della posizione disciplinare di queste ricerche, tra archeologia e architettura, e il numero crescente, ma ancora ristretto, di esperienze spiegano le condizioni ancora fluide nelle quali il metodo ha trovato concreta applicazione, tanto che sembra possibile affermare che il momento sperimentale non si sia ancora esaurito. Si dovrà forse convenire che - come l'archeologo deve ormai porre nel percorso della sua formazione l'acquisizione delle competenze necessarie per la comprensione globale dei manufatti architettonici - così occorrerà prevedere nella formazione degli architetti che l'intervento di restauro architettonico, in quanto momento specifico di conoscenza applicato a una testimonianza materiale, è innanzitutto un'operazione di carattere archeologico, tanto che è lecito ormai parlare di una vera e propria ‛archeologia dell'architettura' (v. Mannoni, 1994). La consapevolezza del carattere sostanzialmente archeologico dell'intervento di restauro (v. Melucco Vaccaro, 1989) comincia peraltro a maturare anche nel campo della conservazione degli stessi manufatti, non solo archeologici ma anche storico-artistici.

8. Archeologia quantitativa e applicazioni informatiche

Nei progetti di archeologia urbana si è manifestato in maniera significativa il problema della gestione di masse assai rilevanti di dati, che è una delle conseguenze più vistose dell'approccio globale alle testimonianze archeologiche; tale approccio, implicando un'ampia diversificazione qualitativa delle tracce che l'archeologo è in grado di individuare, comporta anche la raccolta di quantità spesso enormi di reperti (manufatti ed ecofatti). Questi risultati hanno stimolato nuove riflessioni teoriche (v. Klejn, 1982; v. Pucci, 1983; v. Adams e Adams, 1991) e nuove sistemazioni tipologiche delle diverse categorie di reperti, che hanno tratto giovamento dall'applicazione di metodi matematico-statistici sempre più raffinati. Ha preso così corpo una ‛archeologia quantitativa' che, specie nell'analisi dei reperti contestualizzati, consente di trarre dai grandi numeri quelle informazioni e quei dati che le tradizionali tecniche di analisi archeologica non consentono di ottenere (v. Shennan, 1988; v. Fletcher e Lock, 1991).

Tali applicazioni hanno trovato d'altronde possibilità di sviluppo e di successo nelle tecnologie informatiche, entrate ormai a pieno titolo nel bagaglio professionale dell'archeologo: i calcolatori elettronici offrono infatti a una disciplina in piena evoluzione il supporto tecnico di nuove procedure di indagine (v. Moscati, 1987; v. Djindjian, 1991; v. Ross e altri, 1991). L'informatica trova pertanto applicazione nella costruzione e gestione di banche-dati anche imponenti e consultabili a distanza, vuoi nell'ambito della ricerca collegata ad analisi territoriali o sui manufatti, vuoi nell'ambito della gestione di musei e collezioni o nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio archeologico.

Va da sé che l'informatica non si limita al campo della gestione di dati relativi a determinati insiemi, ma offre anche le opportunità del calcolo - e in particolare del calcolo statistico - che comporta un ingresso a pieno titolo della matematica tra le discipline con le quali l'archeologia è chiamata a dialogare; e in ultima istanza garantisce quel rigore nelle procedure, nelle definizioni dei concetti, nella normalizzazione degli standard, nella formalizzazione delle singole operazioni, cui tende necessariamente una disciplina di matrice umanistica come l'archeologia, nel momento in cui si pone l'obiettivo di aprirsi ai metodi delle scienze esatte.

9. Scienze nell'archeologia

Quest'ultimo è, d'altra parte, uno degli aspetti più innovativi e affascinanti che caratterizzano l'archeologia della fine del XX secolo: ‟Il segreto dell'archeologia - è stato infatti osservato - non è tanto nella disciplina quanto nelle relazioni ch'essa intrattiene con altri saperi simili o solo apparentemente lontani" (v. Carandini, 1991, p. 223). L'archeologia occupa dunque una posizione di frontiera, o meglio di cerniera, fra le scienze umane e le scienze esatte e naturali e ciò richiede che nella raccolta dei dati materiali, nella formulazione delle ipotesi, nella loro verifica sperimentale, nella costruzione dei modelli l'archeologo assuma in qualche misura le vesti o l'atteggiamento dello scienziato.

Là dove i metodi tradizionali propri dell'archeologia non possono proporre soluzioni (ma possono pur tuttavia indicare il problema e i possibili approcci) i metodi scientifici d'analisi e le tecniche più disparate allargano a dismisura le opportunità interpretative in sede storico-archeologica: dopo aver conseguito risultati brillanti nel campo della preistoria, l'applicazione delle scienze dimostra ormai le sue potenzialità anche nel campo dell'archeologia delle più recenti età storiche (v. Molinari e Mannoni, 1990; v. Mannoni, 1994). Nel momento in cui l'archeologia si contamina dunque di saperi a essa apparentemente non vicini, anche le scienze esatte ricevono da questo contatto motivo di riflessione: l'archeometria - si sostiene ormai - non si identifica pertanto più né con la fisica, né con la chimica, né con altre scienze naturali o esatte: ‟è l'archeologia che parla il linguaggio delle scienze e che manipola i loro ragionamenti, utilizzando i risultati di queste diverse discipline, pur affermando con forza la sua partecipazione alle scienze umane" (v. Berthoud, 1980, p. 137). Contributi assai rilevanti sono stati così arrecati in almeno quattro settori di applicazione delle scienze all'archeologia, che riguardano la definizione delle datazioni assolute delle testimonianze archeologiche, la determinazione d'origine dei manufatti, la descrizione delle tecnologie produttive, la messa a punto delle strategie per la conservazione dei beni archeologici, anche attraverso una più sistematica applicazione delle tecnologie di indagine non distruttive.

Non sfugge evidentemente l'importanza fondamentale dell'individuazione della cronologia assoluta dei siti e dei reperti (il metodo stratigrafico, proprio dell'archeologia, opera in prima istanza nel campo della cronologia relativa) e la ricaduta che quelle acquisizioni cronologiche possono a loro volta provocare, ad esempio, nella costruzione delle serie tipologiche.

Ma grandi passi avanti sono stati effettuati anche di recente, in particolare nel campo della determinazione d'origine: le diverse possibilità di analisi oggi a disposizione rivelano, con le caratteristiche distintive di molti materiali, anche le fonti di approvvigionamento delle materie prime, consentendo di individuare l'area di produzione di alcune serie di manufatti diffusi in ambiti geografici anche molto distanti. Le carte di distribuzione dei materiali così redatte (integrate ai dati tipologici) rappresentano forse uno degli aspetti più evidenti della ricaduta delle applicazioni scientifiche agli studi storici, e in particolare alla storia economica della produzione e del commercio, come dimostra ad esempio il recente sviluppo delle tecnologie di caratterizzazione di alcuni marmi e metalli sulla base della loro composizione isotopica (v. Renfrew e Bahn, 1991; tr. it., pp. 322-325). La particolare accelerazione degli studi di ‛archeologia dell'industria estrattiva' (v. Francovich, 1993) avvenuta in questi ultimi anni consente in questa prospettiva una potenziale ricostruzione dell'intero sistema di produzione e scambio, che in sede storica trae naturalmente un giovamento particolare anche dall'analisi delle fonti scritte; in quest'ultimo ambito tale ricostruzione è rivolta recentemente, infatti, con grande intensità, a quella che è stata definita l'‛epigrafia della produzione e della distribuzione' (v. Harris, 1993; v. AA.VV., 1994). Mentre l'archeologia della produzione si è ormai affermata come luogo privilegiato d'incontro delle discipline che concorrono alla definizione di quegli aspetti della cultura materiale che sono base delle forme in cui una società si riproduce trasmettendo i propri saperi (v. Mannoni e Giannichedda, 1996).

Le applicazioni scientifiche riguardano inoltre con sempre maggiore frequenza il campo dei materiali organici e biologici che è possibile recuperare nei contesti archeologici. La ‛bioarcheologia' - che assomma in sé le competenze proprie dell'archeozoologia, della archeobotanica e della stessa antropologia fisica - è il campo di applicazione che ha consentito di rivolgere maggiore attenzione all'inquadramento ecologico delle testimonianze, con particolare riferimento ai sistemi di sfruttamento delle risorse naturali (flora e fauna), allo sviluppo delle tecniche della coltivazione e dell'allevamento, e in generale alle capacità di adattamento all'ambiente e di trasformazione della natura manifestate dalle singole comunità.

Gli studi biologici hanno arricchito in particolare il ventaglio delle domande che è possibile porre all'antropologia fisica, attraverso la quale - in presenza di procedure di raccolta dei dati che tengano conto delle metodologie archeologiche - è possibile ricondurre nell'alveo degli studi archeologici l'interesse per le persone stesse che produssero il documento archeologico. Grazie in particolare allo sviluppo delle conoscenze sul DNA e sui meccanismi della sua trasmissione è possibile ricostruire, con quella che è stata chiamata una ‛archeologia del corpo vivente' (v. Renfrew e Bahn, 1991; tr. it., pp. 409-411), la storia genetica delle popolazioni attuali, con evidenti riflessi sulla storia del popolamento del pianeta e sulle forme in cui esso si produsse (v. Ammerman e Cavalli-Sforza, 1984). Questo settore di avanguardia si affianca a più tradizionali campi di indagine, anch'essi in grande sviluppo, quali quello della paleopatologia o quello della ricostruzione dei regimi alimentari, che indagano in ultima istanza lo stato di salute delle comunità antiche, inteso come fattore non trascurabile delle loro stesse vicende storiche.

10. Etnoarcheologia e archeologia sperimentale

Per quanto riguarda le indagini sulle tecnologie produttive, cioè su alcuni dei saperi fondamentali che presiedono alla riproduzione delle società antiche (v. Mannoni, 1994), allo sviluppo delle analisi di laboratorio si affiancano le osservazioni etnoarcheologiche e le esperienze dell'archeologia sperimentale. ‟L'etnoarcheologia - osserva in proposito Renfrew - si sta dimostrando estremamente preziosa. L'osservazione del lavoro degli artigiani all'interno di comunità viventi da parte di archeologi che sanno quale tipo di informazione trarre è forse arrivata giusto in tempo, prima che le ultime vestigia di molti dei procedimenti e delle tradizioni produttive antiche scompaiano per sempre" (v. Renfrew e Bahn, 1991; tr. it., p. 310). Da un'indagine etnoarcheologica trae spunti a volte decisivi la stessa interpretazione dei contesti archeologici, mediante la ricostruzione di processi di formazione connessi al livello di sviluppo della cultura materiale delle società del passato (per una recente ricerca italiana, v. Vidale, 1992).

L'‛archeologia sperimentale', che ‟non pretende di dimostrare alcunché, ma fornisce uno strumento attraverso il quale è possibile valutare nel loro sviluppo e significato alcune delle attività economiche fondamentali dell'uomo antico, quelle che riguardano in primo luogo la sussistenza e la tecnologia" (v. Coles, 1973; tr. it., p. 12), consente a sua volta di sottoporre a ulteriore verifica ipotesi e modelli, tanto nel campo della tecnologia produttiva che in quello dei processi formativi, anche di natura post-deposizionale.

11. Archeologia e storia

Di fronte a uno spalancamento dei propri orizzonti che acquista dimensioni vertiginose è legittimo domandarsi se l'archeologia possa o debba conservare la sua unità disciplinare. La domanda è tanto più pressante e quasi drammatica per la più antica delle archeologie, l'archeologia classica, le cui matrici si riconoscono nell'antiquaria e nella storia dell'arte. Su questo terreno il dibattito culturale più recente può trovare un punto di equilibrio nel riconoscimento - nei termini cui si è sopra accennato - della dimensione storica della ricerca archeologica, e quindi anche della ricerca sulla produzione artistica: ‟L'autonomia innegabile della storia dell'arte in quanto scienza - è stato osservato in proposito - non implica una autonomia reale dell'arte nei confronti della società" (v. Coarelli, 1994, p. 302).

D'altro canto, non sono mancate - ancora in questi ultimi anni - autorevoli prese di posizione contrarie al riconoscimento di una effettiva capacità storiografica della ricerca archeologica, di cui si è fatto portavoce uno dei massimi storici dell'antichità recentemente scomparso, Moses I. Finley. La visione ‛caricaturale' dell'archeologia manifestata da Finley, che reintroduce di fatto una concezione ancillare della disciplina nei confronti della storia di carattere tradizionale, è stata convincentemente confutata (v. Carandini, 1988; v. Coarelli, 1994). Le esemplificazioni delle potenzialità di conoscenza storica offerte dall'archeologia sono d'altra parte innumerevoli e possono spaziare, a solo titolo di esempio, dall'analisi dei rapporti gerarchici esistenti fra diversi siti, allo studio dei diversi modelli di insediamento urbano e rurale - che offrono informazioni dirette sull'organizzazione sociale, politica ed economica di una comunità - alla definizione tipologica delle residenze come delle sepolture, che individuano - anche attraverso arredi e corredi - l'articolazione degli status sociali. ‟È un vero piacere poter scrivere - è stato affermato - che le prospettive di collaborazione futura tra storici del mondo antico e archeologi diventano ogni anno più propizie e che ciò sta dando nuova vitalità all'una e all'altra disciplina" (v. Snodgrass, 1983; tr. it., p. 150). In Italia molto è stato fatto in questo campo, in particolare nell'ambito del gruppo di studio di antichistica dell'Istituto Gramsci nel corso degli anni ottanta, che ha portato alla edizione di un complesso di ricerche che costituiscono una pietra miliare e un punto di riferimento per gli studi di Storia archeologica e culturale del mondo romano (v. Giardina, 1986; v. Giardina e Schiavone, 1981).

Nell'archeologia di questi ultimi anni ha ritrovato dunque un ruolo centrale il concetto di ‛contesto archeologico' (v. Carandini, 1991, pp. 221 ss.). Questo recupero in chiave moderna di una feconda intuizione ottocentesca appare oggi come la condizione necessaria per superare la frammentazione disciplinare in nome della complessa, ma concreta, unità dell'oggetto dell'indagine: è questo un problema particolarmente sentito nell'archeologia delle età storiche, dove decisivi sono gli apporti, quando disponibili, delle fonti letterarie, epigrafiche, numismatiche, archivistiche, e via dicendo. L'approccio interdisciplinare appare quindi come una componente irrinunciabile del percorso della ricerca, con l'avvertenza, da più parti sentita (v. Torelli, 1987, p. 10), che ‟in realtà l'unica forma di interdisciplinarità corretta è quella che confronta i risultati nell'ambito di una correlazione di sistemi epistemologici diversi" (v. Carandini, 19792, p. 36).

12. L'archeologia nel mondo contemporaneo

Questa maturazione di metodi e prospettive ha fatto emergere nell'ambito della comunità archeologica internazionale la consapevolezza dell'urgenza di una riflessione sulle finalità e sulle forme della ‛comunicazione archeologica', sulla edizione delle ricerche, sulla valorizzazione dei risultati, e in ultima istanza sulla capacità da parte della disciplina di trovare e sperimentare i linguaggi necessari a un confronto paritario e fecondo con le altre scienze che si occupano del passato dell'uomo. Il dibattito in materia è aperto e non si limita a pur necessari interventi di carattere tecnico o organizzativo (v., ad esempio, AA.VV., 1986 e 1990-1991; v. Francovich e Manacorda, 1990; v. Darcque e altri, 1994). Esso si innesta, semmai, in una riflessione a più vasto raggio sul ruolo dell'archeologia nella cultura contemporanea, che trae ispirazione dalla profondità millenaria del campo di indagine per definizione riservato all'archeologo: più di altre scienze, infatti, l'archeologia è in grado di richiamare la coscienza collettiva al fatto che ‟nos gestes et nos paroles, nos gîtes et notre espace sont le résultat d'habitudes et d'acquisitions bien antérieures à notre existence singulière" (v. Schnapp, 1980, p. 13). D'altra parte l'archeologo è posto quotidianamente a confronto con le problematiche della società contemporanea dalla sua stessa attività sul campo (nelle ricognizioni di superficie e negli scavi, specialmente se in città), dagli interventi di conservazione e restauro, dalla tutela e dalla valorizzazione del patrimonio collettivo che è affidato alla sua competenza specifica.

L'archeologia si trova dunque a vivere in pieno le contraddizioni drammatiche del tempo in cui operiamo: un pubblico sempre più vasto chiede notizie e compra informazioni di carattere archeologico in un mercato ormai, non più solo potenzialmente, planetario; e al tempo stesso tornano a ripetersi episodi che dimostrano che ancora oggi - come nell'Ottocento, al momento della competizione mondiale tra i grandi Stati nazionali, o nella prima metà del Novecento, nell'ora più cupa dei totalitarismi e dei nazionalismi - l'archeologia può prestarsi a essere strumentalizzata per affermare supremazie etniche e giustificare sopraffazioni e violenze.

La stessa decisione di proteggere alcune testimonianze archeologiche e di distruggerne altre, l'attenzione, e quindi la disponibilità di risorse, per alcune epoche storiche e il disinteresse per altre, la disponibilità e la stessa possibilità di accesso ad alcuni contesti o depositi archeologici e non ad altri costituiscono talora pesanti condizionamenti della ricerca dettati da motivazioni che non trovano spesso alcuna giustificazione culturale.

Eppure l'archeologia è stata definita uno dei ‟saperi meno violenti e più comprensivi [...], che indaga il mondo ordinatamente nel tempo e nella disposizione contestuale degli oggetti, curiosa di qualsiasi cosa incontri" (v. Carandini, 1991, p. 223): spetta dunque agli archeologi la responsabilità di operare sulle testimonianze del passato mantenendo sempre vigile l'attenzione sulla complessità della realtà del proprio tempo, che è il prodotto di una stratificazione storica di cui proprio l'archeologia è in grado di indagare e ricostruire le radici più o meno profonde. Una delle più alte acquisizioni del pensiero moderno, lo spirito di tolleranza, nasce d'altronde da quella reciproca conoscenza fra individui e culture che coincide, in ultima analisi, con l'essenza stessa del sapere archeologico.

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