Archeologia

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Archeologia

Giorgio Gullini
Melchiorre Masali
Elsa Pacciani
Chiara Cavallo
Rosanna Caramiello
Margherita Micheletti Cremasco
Francesco Burragato

(IV, p. 26; App. II, i, p. 228; III, i, p. 120; V, i, p. 194)

Parte introduttiva

di Giorgio Gullini

La coscienza sempre più diffusa dell'integrazione disciplinare nella ricerca scientifica, come correttivo alla necessaria specializzazione per poter dominare ambiti settoriali sempre più vasti, e il riconoscimento che obiettivo dell'a. è la più completa ricostruzione di presenze umane del passato, in un tempo e in un luogo determinati, caratterizzano oggi, in genere, l'indagine del settore e ci rimandano ai concetti e alle accezioni illustrati nella V Appendice.

Nel contempo, però, la crisi sempre più evidente di alcune impostazioni tradizionali e, soprattutto, il confronto con una domanda sociale via via più esigente e generalizzata impongono riflessioni, non solo su uno stato di fatto, ma, soprattutto, su indirizzi di sviluppo, sia metodologici, sia operativi, che, alle soglie del iii millennio, l'a. deve assumere. Sono gli indirizzi che le debbono consentire di rispondere, in maniera ottimale, alle domande che la società umana in generale, pur nelle molte differenze che la rendono sfaccettata in tante situazioni specifiche, si pone sempre sul suo passato, per ottenere, dalle esperienze concluse di esso, speranze e qualche certezza sulle incognite del futuro.

Per questi motivi riteniamo che l'a. debba assumere, attraverso manifestazioni in tal direzione sempre più esplicite, le prerogative e il carattere di scienza storica, che, attraverso un'amplissima integrazione disciplinare nella individuazione, acquisizione, interpretazione e valutazione di manufatti e di tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, ci conduce a quella integrale ed esauriente ricostruzione della cultura e dell'attività di società umane del passato, delle quali esploriamo gli insediamenti e il territorio, grande deposito della maggior parte di ciò che quelle società ci hanno lasciato. La scienza archeologica - come preferiamo chiamare l'a. nella sua complessa, ampia e indispensabile interdisciplinarità - non soltanto per le culture illetterate, ma anche per quelle di cui possediamo più o meno copiose fonti scritte ed evidenze di manufatti superstiti, è insostituibile per permetterci di acquisire, in maniera esauriente e oggettiva, il tessuto connettivo della cultura e della sua fondamentale organizzazione spaziale. Da esso non può prescindere ogni corretta ricostruzione di avvenimenti e soprattutto del contesto complessivo degli aspetti produttivi e comportamentali di una società.

È la scienza archeologica che può, e sempre meglio potrà, integrare, per ogni periodo storico, i grandi avvenimenti con il quadro delle esigenze materiali e delle risposte a esse date, dalle più semplici alle più complesse, quadro indispensabile per una vera comprensione e comunicazione con un'altra società umana, dall'attuale separata nella dimensione tempo. Ciò significa recuperare di quelle società l'effettiva condizione di tutti i componenti, anche i più umili, non limitandosi a conoscere e indagare solo quei protagonisti che hanno potuto incidere sui mezzi di comunicazione a loro disposizione.

L'impegno e i metodi per raggiungere nella maniera ottimale questo ambizioso obiettivo e di conseguenza contribuire, in maniera decisiva, a soddisfare la domanda di identità che ogni uomo sempre si pone, in forma più o meno chiara ed esplicita, quando ha risolto i problemi elementari di sopravvivenza, si possono articolare in tre grandi ambiti: l'ambito più propriamente ideologico, relativo alla definizione degli obiettivi e dei modi per raggiungerli; quello metodologico-operativo, fondato sulla più ampia integrazione disciplinare organizzata e guidata dalla domanda storica che, ovviamente, a tale interdisciplinarità deve essere adeguata; quello, infine, indirizzato alla messa a disposizione del pubblico dei risultati della ricerca, nel quale si valuta la produttività della scienza archeologica per la società e l'assolvimento del dovere nei riguardi della collettività. Questa produttività e questo assolvimento sono il corrispettivo delle risorse che la società deve assicurare alle esigenze di operatività e di sviluppo della scienza archeologica. Non dimentichiamo, però, che la messa a disposizione del pubblico passa attraverso la complessa, difficile, ma indispensabile fase di tutela. Non sarà mai inutile sottolineare come tutela e valorizzazione siano due obiettivi fondamentali della scienza archeologica, quanto la ricostruzione storica.

Da alcuni decenni l'incontro dell'a. - intesa come studio dei manufatti e ricerca sul terreno - con l'antropologia - disciplina soprattutto indirizzata a cogliere e spiegare il comportamento umano -, incontro che in alcune aree del mondo anglosassone giunge quasi a una identificazione, ha indubbiamente prodotto riflessioni e correzioni di rotta sul piano della stessa definizione degli obiettivi e dei metodi dell'archeologia. L'identificazione e la classificazione, nel tempo e nel luogo, del manufatto, dal più semplice oggetto d'uso alla più alta opera d'arte, non possono considerarsi un traguardo, visto che quei manufatti non possono essere da noi considerati soltanto come oggetti da ammirare, perché sollecitano il nostro gusto, o solo perché sono dai nostri giorni più o meno lontani nel tempo. Occorre che essi diventino i documenti su cui basare la ricostruzione di quelle culture e di quelle presenze umane a cui possono essere con sicurezza ricondotti.

Nel quadro ricostruttivo è necessario, però, non limitarsi semplicemente a ricomporre, attraverso i manufatti rinvenuti e indagati, una situazione oggettiva di conoscenze e di tecnologie relative a una presenza umana così individuata. Esse costituiscono, per così dire, soltanto il telaio del contesto culturale che ci interessa, che va riempito con il recupero di atteggiamenti mentali e comportamentali dei protagonisti della società che stiamo indagando, recupero fondato sull'insieme di tutte le loro realizzazioni e sulle scelte che le hanno guidate, ma soprattutto sull'individuazione del loro rapporto con il territorio su cui insediarsi e da cui trarre le risorse necessarie alla vita. Questa impostazione significa che l'impegno della ricerca non può essere limitato ai risultati dell'interpretazione di un singolo manufatto, da collegare ad altri esclusivamente sul filo di una contemporaneità e comune localizzazione di origine, ma deve essere spinto a indagare tutte le possibili relazioni e interazioni tra i documenti scoperti o già noti, riferibili a quel contesto, nel luogo specifico di esso e in tutti quelli, più o meno prossimi, nei quali il manufatto per la sua dislocazione o diffusione nello spazio può aver agito. L'informatica e, in particolare, i sistemi informativi territoriali (v. oltre), possono permetterci di raggiungere questo obiettivo e di ottenere risultati sempre migliori.

Questo sforzo ha soprattutto il fine di recuperare le prove e i significati delle scelte e dei comportamenti umani nella soddisfazione delle esigenze primarie generali e di quelle più individuali e specifiche, ma, soprattutto, nell'espressione degli atteggiamenti mentali, delle credenze, delle esigenze e aspirazioni sociali e nell'elaborazione di principi e regole, tratti dalle esperienze fatte e acquisite. Lo studio di questi comportamenti ed espressioni conduce all'elaborazione di modelli interpretativi che utilmente ci possono guidare a comprendere altre testimonianze e attività cui l'insufficienza dei dati superstiti può lasciare un insoddisfacente grado di chiarezza e di esplicitazione.

Se è lecito e scientificamente produttivo questo impiego di modelli interpretativi, occorre assolutamente evitare la facile, e purtroppo diffusa, suggestione che nell'indagine su un passato, non esaurientemente illustrato da fonti letterarie o da manufatti, tali modelli possano servire per interpolare dati troppo isolati e diversificati nel tempo, e quindi divenire surrogati di essi per ottenere ricostruzioni storiche che non si possono raggiungere nella maniera corretta costituita dall'interpretazione di manufatti e di tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, sostenuta ed esplicitata dalle coerenti e pertinenti informazioni della tradizione scritta.

La suggestione, letteraria e illusivamente moderna, di certi modelli antropologici applicati alla storia, in circostanze e situazioni specifiche nelle quali acquisiscono un notevole valore di illustrazione e di spiegazione di singoli fatti, diviene assai pericolosa, per non dire scientificamente inaccettabile, quando è trasferita a casi solo superficialmente simili di contesti archeologici che hanno sinora fornito dati insufficienti per essere ben spiegati e inquadrati, in modo da divenire cellule di una scientifica ricostruzione storica.

L'applicazione di tali modelli è fallace, e quindi inaccettabile, quanto quella di modelli formati su ideologie filosofiche e politiche, storicamente rispettabili e che a ciascuno di noi appartengono come bagaglio di personale elaborazione di pensiero e di convinzioni, ma non certo utilizzabili per i dati ancora mancanti in un'indagine scientifica.

Se vogliamo intendere l'a. come scienza, il primo compito è quello di utilizzare, per tutto il processo di individuazione e interpretazione dei documenti finalizzato alla più esauriente e completa ricostruzione storica, nonché per garantirne la tutela e la godibilità da parte del pubblico, tutte le conoscenze e le capacità dell'attuale sviluppo conoscitivo della nostra civiltà. A tal fine non ci si può limitare alle sole metodologie di indagine proprie delle scienze storiche, ma occorre applicare anche tutte le possibilità di analisi e di approfondimento per l'interpretazione, la tutela e l'illustrazione del manufatto che lo sviluppo delle scienze fisiche, matematiche e naturali ci offrono.

Questa è la motivazione deontologica dell'integrazione disciplinare che è alla base della scienza archeologica, integrazione che non può essere considerata una moda o un'ulteriore 'invasione' di tecnologie, sempre più esplicitamente presenti nella nostra cultura; essa è invece una precisa esigenza della ricerca scientifica. Per questo ci sembrano insufficienti e inadeguate espressioni come 'scienze sussidiarie dell'archeologia' o 'impatto delle scienze sull'archeologia', o più generalmente sulle risorse culturali e ambientali, con cui di solito si allude a questo fenomeno, culturalmente decisivo nella misura in cui rende funzionale l'incontro tra il sapere storico-umanistico e il sapere scientifico.

La prima espressione è concettualmente inaccettabile. La ricerca scientifica non può stabilire gerarchie di apporti quando ogni intervento è indirizzato all'obiettivo di una migliore conoscenza. Essa fa parte di una perdurante valutazione riduttiva degli 'aspetti tecnologici', che inquina l'impostazione di molta parte degli studi storico-umanistici.

La seconda sembra quasi trasferire sul piano di un evento al di fuori della volontà dell'uomo, o di casuale scontro-incontro, un apporto che, invece, indubbiamente nasce, già nella prima metà del 20° secolo, dall'interesse degli scienziati per gli oggetti che costituiscono il patrimonio culturale, ma che non può essere valutato come se fosse estraneo alla volontà di collaborare da parte di cultori delle scienze fisiche, matematiche e naturali, da un lato, e delle scienze storiche, dall'altro.

Oggi, anche se immaginiamo di superare l'estremismo idealistico delle 'scienze sussidiarie' o quello agnostico dell''impatto', l'integrazione disciplinare non opera, però, sempre in maniera ottimale - soprattutto per mancanza della formazione adeguata all'interazione effettiva - e continua tra esponenti della cultura scientifica e di quella storica. L'apporto delle scienze fisiche e naturali guidato dalla domanda storica è ancora, nella prassi, una frase, sovente ripetuta, ma non il punto focale dell'impostazione metodologica operativamente sempre applicata.

La ragione è nel fatto che la domanda storica non è posta in modo corretto, da un lato, né adeguatamente intesa, e quindi opportunamente soddisfatta, dall'altro. La conseguenza è la notevole frequenza di programmi multidisciplinari, ma molto di rado interdisciplinari; quando, invece, solo l'integrazione di apporti diversi, che fanno interagire contributi di diversi saperi per un fine comune, può assicurarci la sistematicità nell'individuazione e l'esaustività nell'interpretazione dei dati, requisiti essenziali per la scienza archeologica di cui abbiamo definito funzioni e obiettivi.

Eppure lo spettro delle discipline che possono concorrere all'individuazione e all'interpretazione, nonché alla tutela e valorizzazione, è oggi assai ampio e investe tutti i campi e i momenti della ricerca archeologica: vale la pena di riconsiderare rapidamente di tale spettro alcune fasi, non tanto per illustrare apporti specifici, quanto per sottolineare le modalità di interazione che costituiscono i cardini di ogni indagine specifica della scienza archeologica.

Anzitutto le metodologie per l'individuazione e l'acquisizione di manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente che debbono avere carattere di sistematicità in contrasto con la casualità della 'scoperta', da sempre, il limite costituzionale dell'a. e forse la ragione per cui è stata, talvolta, considerata quasi 'scienza sussidiaria' della storia. D'altra parte non va dimenticato che proprio questa casualità spinge a cercare surrogati ai dati mancanti attraverso modelli costruiti su impostazioni filosofiche o antropologiche, la cui utilizzazione risulta arbitraria e, dunque, assolutamente inaccettabile, come già in precedenza evidenziato.

Le metodologie dello studio sistematico del territorio (v. archeologia, App. V) - consistenti in una specifica procedura di telerilevamento, orbitale, aereo e da bassa quota, personalizzata ai fini archeologici, con controlli a terra attraverso ricognizioni dirette, prospezioni geofisiche e meccaniche - vanno sempre più arricchendosi di nuove possibilità di base e, quindi, di opportunità di utilizzo, sia nell'ambito delle immagini, sia dell'elaborazione informatica dei risultati e della loro interfaccia con i dati pregressi, attraverso la costruzione di sempre più raffinati sistemi informativi territoriali.

Nell'ambito delle immagini orbitali, il successo dello SPOT 3, specialmente per quanto concerne la nettezza delle riprese, la messa sul mercato delle immagini russe Ressource KFA 1000 e KFA 3000, con risoluzioni rispettivamente di 5 e 2 m, le immagini del nuovo satellite indiano IRSc e del giapponese JERS, in attesa dell'annunciata disponibilità per ricerche civili, da parte americana e forse russa, di immagini a più spinta risoluzione, finora riservate a fini militari, consentiranno di avanzare di molto la metodologia dello studio di presenze e tracce di origine antropica nel territorio ripreso e indagato, con una ulteriormente maggiore garanzia di sistematicità nella loro identificazione. Infatti la risoluzione permetterà di individuare resti di insediamenti e di strutture anche di modeste dimensioni, evitando di passare attraverso l'evidenziazione, per caratteristiche geomorfologiche, idrogeologiche, idrologiche e pedologiche, dei luoghi suscettibili di insediamento umano. Sono quelli in cui si procede oggi a più dettagliate analisi affidando l'identificazione di strutture e insediamenti di non vistose dimensioni alle immagini da aereo, se non addirittura a quelle da bassa quota, che consentono una più spinta risoluzione. La scelta delle immagini aeree e i piani di volo per la bassa quota richiedono, ovviamente, una prima ricognizione e un'accurata georeferenziazione sul terreno.

D'altra parte si diffonde la disponibilità di immagini multispettrali da aereo, mentre opera ormai con successo una piattaforma, tutta italiana, appositamente studiata per riprese termiche e fotogrammetriche interfacciate da quote 300 e 500 m, che consentono risoluzioni fino a pochi centimetri.

Nel contempo cominciano a essere introdotti con buoni risultati nella ricerca archeologica i sistemi informativi territoriali (v. gis, Geographic information system, in questa Appendice). Molti di essi sono oggi poco più che banche dati interattive, ma nuovi programmi già consentono non solo di verificare compatibilità con interventi attuali, quanto soprattutto di affrontare, sul piano conoscitivo, il reciproco rapporto tra dati diversi, con l'obiettivo di poter recuperare, in maniera più completa che attraverso considerazioni relativamente empiriche, l'organizzazione spaziale della cultura.

Il sistema informativo che si costruisce come prodotto finale dell'elaborazione delle immagini, dei controlli a terra e dell'insieme dei dati pregressi, diviene il fondamentale supporto di un'efficace azione di monitoraggio delle risorse naturali e culturali di un territorio, che, nei prossimi anni, potrebbe trovare sistematica attuazione. Sono infatti programmati lanci di costellazioni di piccoli satelliti che dovranno assicurare una copertura della stessa scena ogni dodici ore e con una risoluzione sufficientemente spinta di 3 m. Ciò significa che la sovrapposizione delle informazioni acquisite da tali immagini al sistema informativo costruito per l'area da controllare permetterà immediatamente di rilevare tutte le variazioni, con conseguente sintomatica riduzione di costi e di tempi.

Il progresso nell'applicazione delle metodologie geofisiche alla parte più superficiale della crosta terrestre, cioè ai livelli antropizzati di essa, ha fatto nascere una specifica sezione nell'ambito delle prospezioni, finalizzata a indagare le tracce di presenze umane. Questa, legata a una metodologia sostanzialmente puntuale, si avvale dei risultati del telerilevamento per concorrere in maniera decisiva allo studio sistematico del territorio con un fondamentale contributo ai controlli al suolo.

Se lo studio sistematico del territorio, possibile attraverso la completa integrazione disciplinare che abbiamo illustrato, consente un sostanziale salto qualitativo nell'individuazione dei documenti di passate presenze umane, conservati nel terreno, la stessa integrazione disciplinare permette di allargare l'interpretazione di manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente. L'allargamento riguarda quegli approfondimenti analitici che, opportunamente mirati, sfruttando le diverse metodologie di riconoscimento di elementi caratterizzanti, ci offrono opportunità di individuare caratteristiche delle materie prime, provenienze e antiche tecnologie di lavorazione e di produzione. È un importante contributo delle scienze fisiche e chimiche, che, naturalmente, diviene determinante per gli aspetti di conservazione e di tutela dei documenti recuperati.

Solo infatti una precisa conoscenza della natura fisica dei materiali impiegati e dei processi e meccanismi di alterazione di essi nel tempo, con le possibili accelerazioni dovute all'inquinamento e ad agenti d'uso, può essere la base degli interventi di protezione e consolidamento. In essi la domanda storica alle scienze fisiche si configura nelle regole fondamentali che debbono guidare ogni operazione di conservazione e di restauro, in primo luogo la reversibilità effettiva dell'intervento.

È questo un problema troppo spesso sottovalutato, nel senso che ci si accontenta, purtroppo, di una reversibilità teorica, in realtà operativamente impossibile senza incidere pesantemente sul supporto fisico dell'oggetto trattato. Di conseguenza, l'obiettivo di soddisfare tale esigenza prioritaria deve divenire oggetto di sempre più specifiche ricerche di base che rinnoveranno un settore di integrazione disciplinare solo in apparenza definitosi con procedure ritenute, erroneamente, abbastanza scontate.

Non possiamo qui analizzare partitamente tutti gli ambiti particolari di interazione disciplinare e le problematiche metodologiche e operative che ne derivano (v. oltre: Bioarcheologia e Geoarcheologia). Ci sembra però importante ricordare in modo esplicito due settori molto significativi per la concezione dell'a. come scienza storica.

Il primo è quello delle determinazioni cronologiche attraverso metodologie fisiche e naturalistiche, intese non soltanto come sussidio, solo apparentemente oggettivo, alla soluzione del punto critico di ogni indagine storica: la definizione del tempo. In questo caso l'integrazione disciplinare deve operare attraverso la compilazione di datazioni incrociate, sia ottenute con procedure naturalistiche o fisiche, sia derivanti dalle tradizionali precisazioni secondo i computi del tempo tramandatici dalla tradizione storiografica, letteraria o epigrafica.

Il secondo ambito che ci sembra opportuno sottolineare è rappresentato dall'integrale ed esauriente interpretazione dei documenti che costituiscono per la nostra ricerca quello che abbiamo denominato archivio biologico. In esso confluiscono le osservazioni relative alle tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, vegetale e animale, e ai resti fisici dell'uomo stesso.

Tematica fondamentale, in una gestione del patrimonio culturale che voglia, in primo luogo, essere attenta a soddisfare la domanda della società, è quella relativa alla presentazione e illustrazione al pubblico delle risorse che costituiscono quel patrimonio. Queste, infatti, debbono diventare, attraverso l'offerta al pubblico, i supporti di una dimostrazione, la più completa e integrata possibile, del modo di essere e delle attività produttive di società umane che hanno preceduto il tempo della nostra. Affinché i componenti dell'attuale società possano acquisire una corretta coscienza di identità, la loro cultura deve crescere attraverso la dimostrazione e la spiegazione di quanto abbiamo ricevuto dai nostri predecessori, vicini o remoti, dalle loro esperienze concluse, da cui oggi possiamo partire, ma la cui completa illustrazione rende meno difficili le scelte da fare e meno buio il futuro.

La messa a disposizione del pubblico di tali risorse, individuate e interpretate dalla ricerca scientifica specifica - o, come la si chiama comunemente, la valorizzazione o la fruizione - è compito e fine della museologia, che riteniamo sempre più una branca della 'scienza archeologica'.

La museologia è, infatti, la disciplina che deve affrontare l'integrale progetto culturale dell'offerta al pubblico delle risorse naturali e culturali in genere, mobili, architettoniche o ambientali. Essa ha il compito di far intendere il manufatto come cellula costitutiva della ricostruzione storica che deve essere raggiunta e offerta nell'integralità di tutti gli aspetti produttivi e comportamentali che hanno caratterizzato la presenza umana cui gli oggetti presentati vanno ricondotti.

Questa concezione, pur così determinante per l'uso appropriato da parte della società attuale delle risorse culturali e naturali accessibili, non è poi altrettanto generalmente applicata, come ci si dovrebbe attendere, in funzione di un essenziale fondamento della qualità della vita, come, appunto, la ricerca di identità.

Oggi, troppo spesso, il 'museo' è ancora concepito come luogo di conservazione - neppure ineccepibilmente efficace - per oggetti, offerti soprattutto all'ammirazione del pubblico. La crescita culturale di quest'ultimo è limitata al sedimentarsi, individuale e occasionale, di emozioni soggettive ricavate da una visita, suggerita, per non dire imposta, dalle sollecitazioni dei media o di un programma turistico, assai raramente ricercata per personale curiosità o interesse.

L'impegno prevalente dell'offerta museale, specialmente negli ultimi decenni, si è concentrato sull'aspetto museografico, cioè sul progetto architettonico della presentazione e soprattutto del contenitore, che ha preso il sopravvento nell'organizzazione e nella proposta al pubblico. L'implicito concetto di 'arredo', che caratterizzava le collezioni principesche fin dall'età del Rinascimento, è, in sostanza, rimasto anche nella museografia più recente, per la quale l'oggetto presentato è componente della spettacolarità dell'invenzione che deve contribuire all'emozione nel pubblico più che al trasferimento di una precisa serie di informazioni e di arricchimenti conoscitivi.

Nello stesso tempo, il problema della presentazione e dell'offerta al pubblico di complessi architettonici o di singoli manufatti costruiti si affaccia in maniera sempre più urgente, specialmente per i casi in cui il manufatto non è più nel suo aspetto originario, sia come situazione d'uso, sia, principalmente, come stato di conservazione. Il caso limite è quello dei siti e dei parchi archeologici, nei quali il gusto romantico del rudere, più che la comprensione dell'edificio originario, sembra essere il tema ispiratore di molti, troppo elementari, per non dire inadeguati, progetti museologici.

Quanto esposto, anche se in forma assai concisa, ci sembra già sufficiente per evidenziare come la museologia vada oggi a inserirsi, accanto alle scienze storiche, quale disciplina di interfaccia che possiede le chiavi per realizzare, con apporti dalle altre scienze, la finalizzazione sociale di quelle. Essa, quindi, si colloca nel momento cruciale dell'effettiva produttività, per l'attuale società, delle ricerche compiute: deve infatti acquisire, selezionare e valutare i risultati delle più diverse indagini su tutte le tematiche attinenti l'oggetto da presentare - o, meglio, il suo contesto -, per trarne le conclusioni che conducono all'integrale recupero di quell'attiva presenza umana alla quale deve ricondursi tutto ciò che viene mostrato.

Il progetto culturale della presentazione e dell'offerta al pubblico deve fondarsi, in primo luogo, sul migliore utilizzo ed esplicitazione delle informazioni che l'oggetto esposto può offrire, in quanto strumento di comunicazione, di una comunicazione immediatamente indirizzata ai contemporanei, ma implicitamente rivolta a tutti i componenti, presenti e futuri, del genere umano, cioè tutti coloro che con il manufatto sono in condizione di entrare, in qualche modo, in contatto.

Il primo requisito del progetto deve essere perciò l'interpretazione più completa del manufatto attraverso tutte le metodologie di acquisizione delle informazioni che esso può fornire, da quelle tradizionali delle scienze storiche - legate soprattutto all'aspetto e all'identificazione del manufatto - a quelle proprie delle scienze fisiche e naturali, che ne investono il supporto fisico e le tecnologie della produzione. Sono queste ultime che permettono di acquisire riferimenti al luogo di origine e al tempo di realizzazione, specialmente attraverso le metodologie di studio sistematico del territorio, in quanto contenitore di tutte le informazioni superstiti, relative a passate presenze umane, e supporto dell'organizzazione spaziale della cultura.

Le conclusioni di questa interpretazione, rivolta a tutti i possibili ambiti di riferimento dell'oggetto presentato, debbono essere offerte, in sintesi, come punto di partenza della ricostruzione del contesto cui l'oggetto si riconduce. Tale contesto è naturalmente costruito e illuminato dagli apporti di altri dati e di informazioni di diversa origine rispetto all'oggetto presentato, apporti richiamati e collegati, proprio per il fine di ricomporre tale contesto, sulla base della corrispondenza dei riferimenti di luogo e di tempo, che definiscono quella che riteniamo opportuno chiamare presenza umana in un sito e in un momento determinati.

Obiettivo di tutto il processo progettuale è, dunque, quello di fare intendere l'oggetto presentato - o il complesso offerto alla visita - nel suo originario significato di elemento componente un contesto culturale, creato e illustrato, al tempo stesso, dal significato di comunicazione, nel senso più lato del termine, dell'oggetto o del complesso costruito.

Potrebbe sembrare che per raggiungere un così pretenzioso obiettivo venga eliminata ogni possibilità di colloquio diretto oggetto-visitatore - tanto caro a una parte dell'attuale concezione museale - sacrificando l'acquisizione individuale a una programmata informazione di massa, con tutti i gravi limiti che questa può avere, soprattutto nei riguardi della fondamentale libertà della personale acquisizione e crescita culturale. Ma la più avanzata elaborazione metodologica della museologia evita questo rischio, permettendo invece di instaurare un dialogo con ogni visitatore, finalizzato alla sua crescita culturale, andando ben al di là dell'occasione di registrare soltanto una serie di emozioni visive.

Infatti la metodologia, che riteniamo sia propria di quella che ormai ci sembra opportuno chiamare scienza museologica, non punta soltanto a offrire una programmata visita guidata, intesa a illustrare l'oggetto e il contesto, ma ha il fine di porre a disposizione della curiosità e dell'interesse individuale di ciascun visitatore un vero e proprio sistema informativo, in grado di offrire, in primo luogo, l'illustrazione di base, ma anche, soprattutto, di rispondere alle domande che quella illustrazione suscita nel visitatore, instaurando così la possibilità di un dialogo diretto tra oggetto, o complesso presentato, e il visitatore. Ciò significa mettere quest'ultimo in condizione di essere destinatario della comunicazione affidata dall'autore al manufatto che oggi viene nuovamente offerto al pubblico, allo stesso modo di un contemporaneo della società a cui tale autore appartenne.

L'integrazione disciplinare, che rende possibile la sistematica individuazione, la più completa interpretazione e la più sicura conservazione del singolo manufatto-documento, consente oggi di poter realizzare anche il sistema informativo di base e i programmi didattici che rendono attuabile e l'obiettivo metodologico e la finalizzazione operativa del progetto museologico. Elaborazione di immagini e programmi informatici, soprattutto quelli in funzione dei sistemi informativi territoriali, sono i supporti essenziali delle procedure operative che, quasi quotidianamente, si vengono aggiornando con l'applicazione (agli scopi specifici dei programmi di cui sopra) dei progressi e degli sviluppi procedurali dell'informatica e dell'elettronica.

Pensiamo alla creazione di quel 'museo virtuale' che non è semplicemente un'estensione alle risorse culturali della realtà virtuale informatica, cioè il risultato dell'applicazione di un raffinato programma informativo, ma un sistema interattivo. Esso si fonda, in primo luogo, sulla banca dati di tutto quanto il processo più completo di interpretazione dei singoli manufatti è riuscito a ottenere, per gestirlo in funzione della ricostruzione di un contesto storico con tutte le sue interazioni che ci illuminano sull'organizzazione spaziale della cultura, che dal contesto si estende a tutti gli altri con cui esso è entrato in contatto.

Il sistema ci consente di collegare l'interpretazione dei manufatti con le tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, in primo luogo per sfruttarne le risorse che sono necessarie alla sua vita, e, quindi, di risalire dai documenti al comportamento dell'uomo nel contesto della società cui i singoli documenti interpretati ci riconducono.

Il programma richiede un hardware adeguato che deve essere opportunamente previsto nel progetto museografico di allestimento, in modo da poter essere utilizzato con facilità senza disturbare l'apprezzamento di quanto viene proposto. Sembra assai importante l'impiego di un hardware individuale che, adeguatamente studiato e connesso, potrà consentire al singolo visitatore di accedere al predisposto sistema interattivo e trovarvi le risposte alle domande che la visita, guidata dal programma del 'museo virtuale', gli suggerisce.

In tal modo le informazioni, che il singolo oggetto o complesso presentato, esaustivamente interpretato, può fornire al visitatore, divengono stimolo per la sua crescita culturale e instaurano un dialogo 'presentazione museale-visitatore' che non si esaurisce in una singola occasione, ma invita a ripetuti incontri e a ulteriori approfondimenti.

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Bioarcheologia 

di Melchiorre Masali

Questo termine è nato in tempi recenti dall'esigenza di distinguere, nell'ambito delle scienze archeologiche, quegli indirizzi specifici di ricerca che si occupano di reperti di natura vivente. Esso designa quindi un approccio sistematico allo studio dei materiali bionaturalistici, d'interesse storico e archeologico, in linea generale provenienti da scavi, ma che può trovare integrazioni, informazioni e conoscenze anche da situazioni biologiche attuali, quando la 'memoria' biologica storica si mantiene nei geni delle popolazioni viventi.

Essenzialmente rientrano nell'ambito della bioarcheologia tutte quelle informazioni che possono fornire risposte biologiche a domande storiche. Da tali risposte si può infatti comprendere quale effetto abbiano avuto sulle popolazioni umane e sulla loro qualità di vita sia i fattori naturalistici dell'ecosistema sia le dinamiche storiche e sociali. Ricordiamo a questo proposito il clima, la fertilità dei terreni, le malattie e le epidemie dell'uomo, delle specie animali e di quelle vegetali, ma anche l'organizzazione del lavoro, le diversità e i conflitti delle classi, le alleanze e i contrasti politici, gli scambi commerciali e i movimenti di popolazioni.

Con il rinnovamento che si è recentemente attuato nelle scienze d'impianto naturalistico, con l'apporto della biologia sperimentale e di nuove tecnologie di analisi dei dati, si sono estesi i settori di applicazione della bioarcheologia e le sue possibilità d'interazione con l'archeologia. Questa, d'altro canto, si è aperta sempre più alle metodologie sperimentali ad alto contenuto tecnologico (New Archaeology e Science in Archaeology).

Perché si possa costruire un 'ponte' tra il paradigma storico-umanistico, proprio dell'a., e il paradigma bio-naturalistico, occorre che i diversi domini non rimangano di fatto separati e che si sviluppi tra di essi una vera interazione, che richiede tuttavia una reinterpretazione dell'ottica e della mentalità naturalistica.

Per affrontare in modo sistematico lo studio del processo di integrazione storico-biologica è stato coniato il temine biological data base, infelicemente tradotto come 'archivio biologico' che indica i materiali e le informazioni di natura biologica contenuti in contesti storico-archeologici. Lo studio dei materiali biologici d'interesse archeologico non si limita alle ossa; informazioni biologiche di notevole interesse storico possono essere ricavate anche da altri materiali che gli scavi riportano alla luce: per es., i tessuti mummificati rappresentano una ricca fonte di dati antropologici e paleopatologici. Nello studio delle mummie, grazie alla reidratazione dei tessuti e all'applicazione di tecniche istologiche elettive, è stato possibile mettere in evidenza le strutture costitutive del tessuto cartilagineo e di quello muscolare, la presenza di melanina nelle cellule basali dell'epidermide, e, nello strato corneo della pelle del piede, la presenza di cisti che rappresenterebbero stadi larvali di forme parassitarie. Sono stati osservati anche casi di calcificazione nelle arterie e alterazioni patologiche dei globuli rossi del sangue.

Quando nella definizione di 'reperto bioarcheologico' si comprendano, oltre all'oggetto biologico in sé, anche le sue dirette tracce, i confini della bioarcheologia si estendono notevolmente. Talvolta la traccia è diretta se si tratta di calchi, generalmente naturali, o d'impronte digitali o palmari impresse per la manipolazione di materiali plastici, che possono fornire informazioni genetiche oppure, come nel caso delle cretule che sigillavano i documenti degli archivi mesopotamici, consentono di dare un'individualità agli archivisti!

Rovesciando infine l'ottica dell'indagine, ossia partendo dall'informazione archeologica per arrivare all'interpretazione biologica, possiamo provare a cercare nell'opera dell'organismo vivente, o organismo di primo ordine (nel senso di M.W. Feldman e L.L. Cavalli Sforza), in particolare in quella dell'uomo, le informazioni biologiche contenute nella struttura costruita, o organismo di secondo ordine, considerando le reciproche interazioni adattative secondo il modello evoluzionistico-adattivo.

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Archeoantropologia 

di Elsa Pacciani

L'archeoantropologia è la disciplina che studia i resti umani che provengono da siti archeologici; solo in tempi abbastanza recenti è stato riconosciuto il loro valore di testimonianze archeologiche a tutti gli effetti. Nella più recente concezione dell'archeologia come scienza volta a ricostruire la fisionomia delle civiltà antiche nel loro complesso, i resti umani sono portatori di indizi unici e peculiari di determinati aspetti popolazionistici. Tali informazioni sono complementari e integrative rispetto ai dati archeologici in senso stretto e concorrono a una comprensione più ampia del nostro passato.

L'antropologia fisica è una scienza che è stata formalizzata nella seconda metà del 19° sec., ma la sua applicazione metodica alla ricerca archeologica è una conquista recente. Di fatto è legata agli ultimi decenni, in cui il convergere di una crescente attenzione da parte di istituzioni diverse (Università, Ministero per i beni culturali e ambientali, Consiglio nazionale delle ricerche) ha portato a una sistematica opera di tutela, conservazione e studio delle collezioni di reperti umani derivati da contesti archeologici: elementi scheletrici e dentari, mummie, sia naturali sia imbalsamate, capelli, unghie, coproliti, calcoli, tumori calcificati, residui di tessuti molli conservatisi in eccezionali condizioni climatiche e ambientali (aridità, basse temperature, assenza di ossigeno, agenti disidratanti) ecc.

I principali campi di indagine cui si rivolge lo studio antropologico sono quelli di seguito indicati.

La variabilità popolazionistica, risultante dall'analisi dei tratti biologici delle popolazioni. Tali studi si basano sul rilevamento di una serie di misure e di caratteri, cosiddetti non-metrici, e rappresentano il campo più tradizionale dell'antropologia. I caratteri antropometrici vengono rilevati secondo tecniche standardizzate e con appositi strumenti di precisione, e sono utili per descrivere quantitativamente le dimensioni e la forma delle varie parti. I caratteri non-metrici sono caratteristiche morfologiche non misurabili, e sono di solito registrate come presenza-assenza, oppure secondo una suddivisione in gradi d'espressione. Ne sono state individuate diverse decine, specie sul cranio; sono costituiti, per es., da forami, tubercoli, suture interossee, ossicini soprannumerari, particolari forme dei denti ecc. Sono considerati caratteri in forte misura ereditari e la loro frequenza può variare quindi da una popolazione all'altra.

La paleodemografia, che ha come obiettivo quello di ricostruire la struttura e la dinamica demografica delle popolazioni antiche. Condizione indispensabile per questo tipo d'analisi è che il campione sia abbastanza ampio, possibilmente esaustivo, nel caso, per es. di una necropoli, e che soprattutto rifletta il più fedelmente possibile la composizione per età alla morte e per sesso della popolazione d'origine; a tal fine occorre verificare che non vi sia stato un seppellimento selettivo.

Il primo passo dell'analisi è quello di formulare la diagnosi dell'età e del sesso di ciascun soggetto, sulla base di un insieme di criteri morfologici o metrici. Il passo successivo è quello di suddividere il campione per sesso e per classi d'età alla morte. Ne derivano le cosiddette tavole di mortalità, che rappresentano la struttura demografica della necropoli.

Gli indicatori di stress, che rappresentano la risposta delle ossa a sollecitazioni intense e prolungate. Lo scheletro è influenzato da molti fattori esterni, ai quali risponde modificandosi nella forma e nella struttura. Si parla di stress funzionali, legati alla professione, ad attività fisiche ripetute, alla postura abituale ecc.; di stress alimentari, dovuti a carenze e squilibri nutrizionali, di stress ambientali, dovuti a fattori come il clima, l'altitudine ecc. La corretta lettura di tali segni può fornire un quadro incisivo del tipo di vita del soggetto. Per es., l'appiattimento della tibia in senso antero-posteriore, associato a un evidente sviluppo del solco del muscolo tibiale posteriore, è indizio di deambulazione prolungata su terreno in forte pendenza; l'eburneazione (osso consunto e dall'aspetto lucente come l'avorio) a livello dell'articolazione radio-ulnare del polso indica un movimento ripetuto di rotazione sotto sforzo, come per maneggiare l'ascia.

La paleonutrizione, che si propone di ricostruire il regime alimentare di una determinata popolazione, attraverso l'esame di una molteplicità di indicatori. Si può riuscire, per es., a stabilire se la dieta era adeguata o povera di alcuni principi nutritivi fondamentali (si ricorda in proposito la deformazione ossea da rachitismo sia nei bambini sia negli adulti, oppure la riduzione d'altezza della base cranica o l'assottigliamento della corticale delle ossa lunghe, provocate da stress alimentari), o addirittura sbilanciata per eccesso di qualche componente (si pensi alla carie provocata dagli zuccheri, oppure all'intossicazione da piombo degli antichi romani, diagnosticata attraverso l'analisi chimica dell'osso). Tra gli indicatori troviamo quindi, accanto ai segni morfologici di patologia o di stress, i cosiddetti elementi chimici in tracce, che possono fornire informazioni sul regime alimentare. Altre fonti d'informazione sono i coproliti, vale a dire i residui fecali che talvolta si rinvengono nelle sepolture, o il tartaro dentario, la cui struttura e composizione chimica varia secondo l'alimentazione.

Uno dei campi essenziali nello studio dei resti umani è la paleopatologia (v. App. V), che ha per oggetto le manifestazioni morbose di età preistorica e antica.

L'analisi del DNA recuperato da resti antichi è un recente campo d'indagine che apre la strada alla possibilità di una ricostruzione della struttura genetica delle popolazioni del passato; essa può inoltre contribuire a risolvere alcuni problemi archeologici specifici, come la diagnosi del sesso, oppure il riconoscimento di rapporti di parentela fra determinati individui; infine trova applicazione nel campo della paleopatologia, per la diagnosi o la verifica di alcune malattie.

La cronologia radiometrica e chimica delle ossa, che può essere talvolta l'unico elemento di datazione di una sepoltura o dell'intero sito archeologico. I metodi radiometrici sono metodi assoluti, in quanto si fondano sul presupposto che il decadimento radioattivo non dipenda dalle caratteristiche dell'ambiente ma solo dal tempo trascorso dalla morte del soggetto. Il metodo maggiormente utilizzato è quello del radiocarbonio (¹⁴C), basato sul decadimento della frazione di questo elemento chimico presente nel collagene osseo (v. archeologia: Tecniche di analisi chimico-fisica, App. V).

Un discorso a parte meritano i resti ossei incinerati, testimonianze di una pratica funeraria che, comparsa nel Neolitico, si è protratta fino all'età storica. I resti incinerati si presentano frammentari e deformati; tuttavia possono ancora fornire informazioni sul numero minimo di individui presenti, il sesso, l'età alla morte, alcune caratteristiche morfologiche e patologiche, la temperatura raggiunta durante l'esposizione al fuoco e talvolta addirittura la posizione del cadavere sulla pira.

Lo studio della biologia delle popolazioni umane del passato si è avvalso, nei tempi più recenti, di nuove tecnologie d'indagine, che vanno da sofisticati esami radiologici e densitometrici a osservazioni ultramicroscopiche e a complesse analisi chimiche. L'applicazione integrata di questa molteplicità di metodi e tecniche permette di approfondire la 'lettura' di quel vero e proprio archivio di dati biologici che è costituito dallo scheletro umano.

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Archeozoologia 

di Chiara Cavallo

È lo studio dei resti faunistici (ossa, denti, palchi, conchiglie) rinvenuti in scavi archeologici, finalizzato alla ricostruzione dell'ambiente e delle relazioni tra l'uomo e l'animale. Esso fornisce informazioni sia sui modelli di comportamento umano sia sugli animali stessi. Gli interessi principali dei primi studi, risalenti alla seconda metà dell'Ottocento, erano di carattere prettamente naturalistico. Solo negli ultimi trent'anni l'archeozoologia ha iniziato ad assumere la fisionomia di una disciplina scientifica a sé stante, anche se si avvale del contributo dell'anatomia comparata e della zootecnia. Inoltre si avverte sempre più l'interesse di integrare l'archeozoologia con l'a., l'antropologia fisica e l'etnografia.

Una delle prime applicazioni degli studi faunistici è stata quella della ricostruzione ambientale, basata sul principio della correlazione di una specie animale con il suo ambito naturale (biotopo).

Molluschi, uccelli, pesci e soprattutto i micromammiferi (insettivori, roditori) sono le categorie animali più idonee alla ricostruzione ambientale in quanto più sensibili alle oscillazioni climatiche e in grado di adattarsi più rapidamente a nuove condizioni dell'ambiente. La ricostruzione ambientale all'interno di un contesto storico/archeologico è anche il riflesso, in base al tipo di specie rappresentate, del modo di sfruttamento e manipolazione da parte dell'uomo sull'ambiente che lo circondava.

Lo studio dei resti faunistici fornisce principalmente informazioni su dieta, abitudini alimentari ed economia delle comunità umane del passato, nonché sull'uso e sulla funzione degli animali. La maggior parte delle ossa animali rinvenute rappresentano resti di macellazione, di cucina o di pasto, ma possono anche essere residui di attività artigianali o il risultato di azioni rituali. Lo studio delle frequenze delle parti anatomiche scartate e delle tracce di macellazione fornisce indicazioni sul tipo di attività rappresentata. L'indagine archeozoologica ha dimostrato che la presenza di ossa segate, in particolare delle estremità degli arti, in contesti romani e tardoantichi, è da mettere in relazione ad atelier di lavorazione dell'osso per la produzione di spilloni, aghi, dadi e altri oggetti e che, come attestato a Vercelli, Cartagine, Pergamo e Sagalassos, la stessa tecnica di lavorazione era diffusa nelle diverse parti dell'Impero Romano. Il contesto archeologico da cui i resti provengono costituisce un requisito importante per la ricostruzione e per l'interpretazione. I resti possono provenire da unità insediative, artigianali, cultuali, o anche da aree non direttamente collegate con attività umane. In questo senso una cooperazione costante con l'a. è fondamentale.

La parte dell'archeozoologia che si occupa di ricostruire i processi di trasformazione dell'osso dal momento della morte dell'animale a quello del ritrovamento è chiamata tafonomia. Questa analizza le tracce di azioni di frammentazione e alterazione dovute a intervento umano - quali macellazione, lavorazione artigianale per la produzione di manufatti, cottura o esposizione al fuoco - e quelle derivanti da azioni di frammentazione e di dispersione da parte di carnivori e di roditori, con lo scopo di capire se gli animali rappresentati nel sito vi siano arrivati naturalmente o a seguito di attività umane o animali. È stato dimostrato che accumulazioni e fratturazioni ossee in grotte sono dovute all'attività di carnivori, quali iene o leopardi, piuttosto che all'intervento dell'uomo, come nel caso di quelle delle grotte del Transvaal in Africa meridionale e di Grotta Guattari al Circeo, in un primo tempo associate rispettivamente ai primi ominidi e all'uomo di Neanderthal. In terreni acidi le ossa tendono a conservarsi meno facilmente, mentre in suoli basici le ossa hanno maggiori possibilità di sopravvivenza. In entrambi i tipi di suolo i denti si conservano meglio delle ossa. Le tecniche di recupero durante lo scavo sono tra i fattori che influenzano la rappresentatività del campione e, soprattutto, delle categorie animali: solo la setacciatura, per es., consente il recupero delle ossa più piccole, come le falangi di capra e pecora, di denti isolati, di ossa di pesci, roditori e piccoli carnivori.

Per dare risposta alle problematiche sopra esposte, l'indagine archeozoologica si avvale di diversi metodi di analisi. L'identificazione dell'elemento scheletrico e della specie di appartenenza è la prima fase dello studio del campione faunistico. Le ossa si presentano per lo più in stato frammentario. Il rinvenimento di scheletri completi o parziali in connessione anatomica avviene solo in particolari circostanze, come sepolture rituali o morte naturale dell'animale. L'identificazione del frammento osseo è spesso possibile con l'ausilio di una collezione di confronto di scheletri animali recenti, di cui siano noti età e sesso, o attraverso l'utilizzazione di manuali. Per comprendere il ruolo specifico svolto da ciascuna specie animale è necessario quantificare i resti in base all'elemento anatomico disponibile e alla specie di appartenenza.

La quantificazione dei resti faunistici si esegue secondo diversi metodi: la determinazione del numero dei frammenti, che è quello maggiormente applicato; la valutazione del numero minimo di individui presenti, che si basa sul calcolo dell'elemento scheletrico più rappresentato, tenendo conto del sesso e dell'età; il peso dei resti ossei, che fornisce una valutazione più diretta della quantità di carne fornita dalle diverse specie animali.

Per comprendere la funzione e l'uso degli animali da parte dell'uomo nel passato è necessario stabilire l'età in cui l'animale è stato abbattuto. A tale scopo si osservano lo stato d'eruzione e d'usura dei denti e lo stato di fusione delle estremità (epifisi), prossimali e distali, con la parte centrale (diafisi) delle ossa lunghe. Con i dati sulle età di morte degli animali si costruiscono curve di sopravvivenza e profili o classi di età, che forniscono informazioni sul tipo di sfruttamento delle diverse specie, in particolare di quelle domestiche. Gli animali sono infatti abbattuti a età diverse a seconda del tipo di utilizzo cui sono destinati, per il consumo della carne o per i loro prodotti secondari, quali latte e lana, o ancora come forza-lavoro per trazione o trasporto. I metodi più obiettivi per la determinazione delle età di morte si basano sulla misurazione dell'altezza della corona del dente, che si riduce col crescere dell'usura e sul calcolo degli anelli di accrescimento annuale del cemento (deposito mineralizzato) attorno alla radice dei denti. Con tale metodo è possibile stabilire la stagione in cui un animale è stato abbattuto e, indirettamente, sapere quando sono stati frequentati siti a occupazione temporanea, quali quelli di cacciatori preistorici o quelli legati alla pastorizia transumante.

Il rilevamento dei dati osteometrici, o misurazione delle ossa, costituisce una parte basilare dell'analisi archeozoologica per ottenere informazioni sulla taglia degli animali. Attraverso i dati osteometrici è possibile ricavare informazioni sulle variazioni delle dimensioni delle specie animali nel corso della storia. Queste possono dipendere sia da fattori ambientali sia da modificazioni dovute all'uomo.

La riduzione della taglia degli animali domestici rispetto ai loro progenitori selvatici costituisce la modificazione più importante dovuta all'attività dell'uomo in seguito a un processo di domesticazione. Tale processo di riduzione delle dimensioni degli animali domestici si protrae fino al periodo romano, in cui si assiste a una selezione verso razze più grandi. L'economia agricola dell'Europa medievale è caratterizzata nuovamente dalla presenza di razze più piccole, particolarmente nel caso dei bovini, che ritornano ad assumere maggiori dimensioni solo dal 15° sec. in poi, in seguito alla diffusione dell'allevamento del bovino per la carne e non più principalmente come animale da lavoro. Questo dimostra come l'archeozoologia consenta di documentare, attraverso l'evidenza ossea, la realizzazione e la diffusione di processi di natura economica, sociale e politica e in questo senso si integri pienamente nella ricerca storica delle società del passato.

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Archeobotanica 

di Rosanna Caramiello

In questi ultimi anni si è dato sempre maggior peso alle tracce biologiche che evidenziano le variazioni delle caratteristiche ambientali, sia naturali sia indotte dalle attività umane, e quindi gettano luce sul rapporto uomo-ambiente e sulle modificazioni prodottesi nell'ambito delle risorse disponibili per l'uomo. L'analisi dei resti vegetali conservatisi nei siti archeologici, con il loro significato bioclimatico, ecologico ed economico, si affianca, integrandoli efficacemente, agli studi sui resti umani e animali. Le principali tipologie di reperti cui si indirizza l'archeobotanica sono le seguenti.

Immagini di piante come fossili

Decisamente rare e reperibili solo in tufo o in rocce sedimentarie nelle quali colate di acqua calcarea abbiano inglobato parti di vegetali in livelli archeologicamente databili. Un esempio è quello di Lascaux in Dordogna, con nocciole, carboni e foglie insieme, datati con il metodo del radiocarbonio. Talvolta si conservano resti in muri di capanne di terra e paglia impastate; anche mattoni o ceramiche, poste umide ad asciugare su paglia, possono recare impronte: pur costituendo testimonianze molto precise, hanno il difetto della casualità e non si prestano a lavori di ricerca sistematica.

Legni

Possono essere grezzi o lavorati, carbonizzati o meno, ma la loro importanza è comunque rilevante in quanto il riconoscimento delle specie, che si esegue con osservazioni di sezioni al microscopio ottico o con il microscopio elettronico a scansione, contribuisce a evidenziare le vie di scambio e commercio e fornisce, in caso di manufatti di una certa complessità, delle buone indicazioni sul livello delle conoscenze tecnologiche.

Sono degni di menzione i reperti lignei provenienti da Ercolano e Pompei, attualmente conservati all'aperto senza particolari precauzioni. Le analisi condotte sugli oggetti in legno da Ercolano, particolarmente numerosi (mobili interi, infissi, grate e oggetti d'uso corrente), hanno consentito di stabilire le specie vegetali impiegate, il loro stato di conservazione e il livello tecnico di lavorazione, molto raffinato in alcune tipologie di manufatti. I frammenti riportati alla luce a Pompei, per es. nella Casa di Polibio, sono oggetto di indagini volte all'identificazione della specie e all'analisi dello stato di alterazione. Le modificazioni che vi si riconoscono consentono di fare ipotesi sui principali agenti del degrado e di proporre soluzioni per la conservazione dei reperti giunti fino a noi in avanzato stato di modificazione strutturale, dovuto certamente all'evento vulcanico, ma anche al tipo di immagazzinamento.

Macroresti e microresti non pollinici

Fra i macroresti, frutti e semi sono i principali oggetti di indagine della paleocarpologia, disciplina che studia anche l'origine delle piante coltivate, la loro domesticazione, e le vie da esse percorse al seguito delle migrazioni di popolazioni, le pratiche agronomiche e di selezione. Significativi risultati sono stati ottenuti nell'ambito della localizzazione dei principali centri d'origine geografica e genetica di generi di rilevanza economica quali, per es., Triticum (grano) che presenta entità diploidi, tetraploidi ed esaploidi: la diversa ploidia (corredo cromosomico moltiplicato due, quattro o sei volte) che è stata spesso effetto di intervento umano, condiziona le esigenze edafiche e climatiche delle specie e ciò si ripercuote sulla resa delle colture e quindi sulla scelta da parte dell'agricoltore.

Le evidenze paletnobotaniche consentono di percorrere le vie di migrazione dal diploide selvatico (Triticum beoticum), che nell'8° millennio a.C. si ritiene fosse raccolto ma non coltivato, fino ai grani diploidi (T. monococcum o piccolo spelta) ai tetraploidi (T. dicoccum) ed esaploidi (T. compactum, T. spelta, T. aestivum), la cui coltivazione si è diffusa, a partire dal 7000 a.C., dalla Mesopotamia al Mediterraneo centrale e occidentale (5000 a.C.) e, infine, in Europa centrale e occidentale (4000 a.C.). Anche Hordeum (orzo), Secale (segale) e Panicum (miglio) hanno avuto un ruolo rilevante nell'alimentazione umana. Molte sono le conoscenze acquisite anche su altre entità: Triticum, Hordeum, Pisum, Linum, Vicia e poche altre costituiscono parte determinante del gruppo di vegetali la cui domesticazione ha dato l'avvio alla cosiddetta rivoluzione agricola nel Vecchio Mondo, collocata tra il 7° e il 6° sec. a.C. Ogni coltura ha portato con sé specie infestanti, delle quali rimane traccia sia pollinica sia carpologica. Il reperimento dei macroresti si effettua sottoponendo il terreno prelevato negli scavi a operazioni di flottazione e di separazione su setacci a maglie di diverso diametro per raccogliere il massimo numero di resti.

Palinomorfi

Lo studio palinologico è in assoluto quello utilizzato da maggior tempo e dalla maggior parte dei ricercatori, per la notevole completezza di dati che fornisce e per il più elevato grado di generalità di campionamento. Tale studio si serve dei 'palinomorfi', termine che designa principalmente polline e spore, caratterizzate da produzione elevata e facilità di diffusione e di sedimentazione nell'ambiente. L'analisi pollinica nei siti archeologici è relativamente recente, poiché si riteneva che i granuli in profili aerati subissero, soprattutto per attività microbica, alterazioni tali da non offrire un quadro interpretabile della vegetazione. La pedopalinologia presenta diversi problemi che vanno ad aggiungersi a quelli delle analisi tradizionali e che sono legati all'interpretazione della composizione della pioggia pollinica, dall'entità della produzione di polline da parte delle specie dominanti al trasporto o all'abbattimento dei granuli, influenzato da fattori meteorologici e geografici.

Nel suolo il contenuto pollinico presenta variazioni quantitative lungo il profilo e la FPA (frequenza pollinica assoluta, ossia numero di granuli/g di suolo secco) può variare a causa della composizione della matrice e soprattutto del pH nei vari livelli. In suoli con pH acido la concentrazione è in genere buona, mentre a pH 6 e>6 si verifica una riduzione progressiva fino alla sterilità. La scarsità di palinomorfi è una caratteristica pressoché costante dei terreni archeologici, alla quale si può in parte ovviare con trattamenti di arricchimento, che consentono un conteggio dei reperti sufficiente per la realizzazione degli spettri pollinici. Lo studio di un singolo livello in un profilo di scavo fornisce il quadro della situazione floristico-vegetazionale del periodo corrispondente al 'momento' della sedimentazione del livello: è un'immagine statica definita 'spettro'. Eseguendo analisi sui vari livelli del profilo, i dati dei singoli spettri forniscono l'ordinamento cronologico degli assemblaggi pollinici determinando il diagramma, immagine dinamica delle vicende della vegetazione nel tempo. Esso fornisce notizie vegetazionali, climatiche e ambientali affidabili, specialmente se comparate con altre informazioni, come quelle sedimentologiche e pedologiche. L'età dei livelli rappresentati nel diagramma si può determinare inquadrandoli nelle vicende paleovegetazionali ricostruite mediante raffronto con altre sequenze coeve studiate in sedimenti torbo-lacustri, sui quali siano state effettuate datazioni numeriche o utilizzando materiali vari databili con buona approssimazione, come reperti ceramici o carboni.

I risultati di queste analisi consentono di interpretare le modificazioni del paesaggio in funzione delle variazioni climatiche (foresta = fase calda; paesaggio deforestato = fase fredda) o anche di riconoscere tipo e intensità dell'influenza umana. Vari aggruppamenti pollinici consentono di evidenziare formazioni vegetazionali tipiche di aree geografiche o di situazioni climatiche: per es. l'andamento del querceto misto è definito dalla somma dei granuli di Carpinus, Fraxinus, Ostrya, Quercus, Tilia, Ulmus e Corylus; vegetazioni ripariali sono evidenziate da Alnus e Salix; serie di idro- e igrofite sono collegabili all'evoluzione di bacini idrici.

I diagrammi relativi a siti archeologici rappresentano sempre dati importanti perché conservano la testimonianza di luoghi sigillati, frequentati in condizioni culturali e socioeconomiche diverse, che hanno determinato la presenza di differenti specie antropogeniche, nonché l'evoluzione per selezione di quelle di maggiore interesse economico. Valutando con cautela spettri e diagrammi, collegandone ed integrandone i dati con quelli delle scienze vicine (geologia, pedologia, zoologia e antropologia), si può tentare una ricostruzione realistica e coerente dell'ambiente proprio delle diverse civiltà.

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Metodologie e prospettive 

di Margherita Micheletti Cremasco

Nel processo d'evoluzione dell'archeologia verso le scienze e le tecnologie, sempre più spazio hanno via via occupato quelle stesse metodologie oggi in espansione nell'ambito delle scienze biologiche. Se, infatti, è cresciuta l'attenzione per il reperto di natura biologica nell'ottica di un'integrazione tra discipline interagenti, è anche aumentato l'interesse per un'indagine 'completa' del reperto stesso applicando tutte le metodologie di ricerca in uso sul vivente, sia esso uomo, animale o vegetale. Le nuove tecnologie di indagine vanno da sofisticati esami radiologici e densitometrici a osservazioni ultramicroscopiche e a complesse analisi chimiche, con strumenti come il microscopio elettronico a scansione e a trasmissione, ad analisi chimiche del tessuto osseo, tra cui la spettrometria ad assorbimento atomico, utilizzata per la già citata determinazione degli elementi in tracce, la paleoserologia per lo studio dei gruppi sanguigni oppure l'analisi del DNA. Nell'ambito della biologia molecolare, per es., si riescono a isolare e studiare porzioni di acidi nucleici contenuti in semi rinvenuti in corredi funebri di antiche sepolture. Le tecniche istologiche permettono di osservare tessuti epiteliali, muscolari e di organi interni prelevati da reperti mummificati. Analoghe metodiche applicate a tessuti duri, quali ossa e denti, di reperti umani e animali divengono utile mezzo di stima dell'età di morte.

Attualmente l'indagine paleopatologica utilizza i mezzi delle analisi cliniche: indagini radiografiche, immunoistochimiche, analisi al microscopio elettronico, TAC (tomografia assiale computerizzata). La medicina odierna, sia umana sia veterinaria, trova nello studio dei reperti paleopatologici una testimonianza storica dell'origine e della diffusione delle malattie oltre che, in certi casi, l'unica documentazione disponibile sulle fasi terminali di patologie oggi curabili. È il caso di ricordare il reperto di una mummia femminile egizia predinastica, nel Museo di antropologia di Torino, che presenta il più antico e forse unico caso documentato di estroversione uterina post partum certamente mortale a quei tempi. E ancora nell'analisi di reperti antichi si arrivano a determinare i gruppi sanguigni e studiare sequenze geniche allo scopo di identificare gruppi familiari o relazioni genetiche tra gruppi umani. L'uso di apparecchiature sempre più sofisticate permette l'osservazione, per es., nel tartaro dentario e nei coproliti, di forme calcificate di batteri, di residui alimentari, di tracce di tessuto, di elementi del sangue e di fitoliti, nonché l'identificazione di specie vegetali a partire da residui pollinici. L'analisi microscopica delle superfici dei reperti permette anche studi tafonomici, spesso indispensabili per l'interpretazione di un sito archeologico, e studi di microusura dentaria applicati sia all'animale sia all'uomo per risalire ad abitudini alimentari, movimenti masticatori e uso paramasticatorio della dentatura. La patologia, e in particolare quella dentaria, offre inoltre la possibilità di seguire l'evoluzione di eventi che l'attuale arte medica è in grado di curare e che le condizioni igieniche di oggi sono in grado di prevenire.

Un contributo significativo è quello oggi fornito dalle scienze informatiche, che consentono approfonditi studi e confronti tra reperti, elaborazione e analisi d'immagine per la quantificazione e l'interpretazione dei dati. Per es. è possibile la ricostruzione tridimensionale con applicazioni della fotogrammetria e di metodiche di geometric reasoning che permettono di estrarre gli elementi essenziali della forma di strutture anatomiche, elaborazioni CAD (Computer Aided Design) fino alla ricostruzione di volti umani a partire da resti di teste mummificate.

Di particolare attualità è infine la possibilità di studiare il DNA a partire da resti biologici rinvenuti in scavi archeologici: a tale argomento in questi ultimi anni si sono dedicati molti ricercatori, con risultati non sempre proporzionati all'impegno profuso, in quanto le metodiche di estrazione e sequenziamento richiedono alti costi e notevoli attenzioni tecniche. Nonostante le suddette difficoltà, si ritiene che questo possa essere uno dei settori che nel futuro daranno grandi risultati alla ricerca scientifica sia sui viventi sia su materiale biologico antico. Al momento non vi è ancora stata un'applicazione sistematica in studi archeoantropologici di ampio respiro e i dati presentati sono spesso esempi sporadici e vanno in certi casi valutati con estrema attenzione. Buoni risultati provengono dallo studio di sequenze geniche ottenute in studi archeobotanici: da semi rinvenuti in contesti archeologici è possibile identificare le specie coltivate e seguire non solo i cambiamenti genetici naturali, ma anche quelli delle specie coltivate per intervento selettivo dell'uomo (Rollo 1992; 1996). È stato altresì possibile isolare e studiare tratti di genoma batterico rinvenuti nell'apparato digerente in corpi conservati in ambiente glaciale, come quello della 'mummia' del Similaun, identificando le specie di batteri presenti.

Le metodologie messe a punto e le conoscenze attuali vanno altresì applicate per verificare le condizioni di conservazione dei materiali biologici provenienti da scavo in modo che queste importanti testimonianze del passato siano conservate nelle condizioni di rinvenimento e rimangano inalterate per permettere ulteriori indagini.

bibliografia

F. Rollo, Gli acidi nucleici nei semi antichi, in Le scienze, 1992, 283, pp. 52-62; S. Borgognini Tarli, E. Pacciani, I resti umani nello scavo archeologico. Metodiche di recupero e studio, Roma 1993; F. Rollo, Microbi dalla preistoria: realtà o fantasia?, in Le scienze, 1996, 340, pp. 56-63.

Geoarcheologia 

di Francesco Burragato

Come archeometria e bioarcheologia, il termine geoarcheologia puntualizza il rapporto interdisciplinare tra le scienze umanistiche e quelle fisiche e naturali, in grado di fornire una risposta alla domanda storica. Già in passato l'a. ha utilizzato (e ancora utilizza) la stratigrafia, metodo di indagine proprio della geologia, per stabilire una sequenza storica; oggi il rapporto di interdisciplinarità crea una interfaccia, muovendo dalla quale le due discipline cooperano alla ricostruzione delle origini e della storia, ognuna con studi, ricerche e metodi d'indagine propri, attraverso testimonianze più o meno evidenti. La geoarcheologia, utilizzata nelle sue applicazioni (mineralogia, geomorfologia, pedologia, idrologia e tutti i metodi di prospezione), rende possibile la lettura sistematica dell'ambiente e la sua ricostruzione in tutti gli aspetti che hanno favorito l'insediamento umano e l'utilizzo, in senso lato, del territorio da parte dell'uomo. Solo in questo modo la scoperta archeologica può uscire dalla casualità e divenire il risultato di una ricerca sistematica nell'ambito del rapporto uomo-ambiente.

La superficie terrestre si presenta sotto tre aspetti definiti: ambiente naturale, paesaggio e territorio. L'ambiente naturale prende origine dall'azione di eventi non antropici come, per es., l'estinzione e/o la comparsa di specie animali e vegetali (teoria del catastrofismo), i movimenti della crosta terrestre, l'attività sismica e vulcanologica, l'ingressione e la regressione marina che sono causa delle variazioni delle linee di costa, l'erosione marina e fluviale, i mutamenti climatici con successivi dissesti idrogeologici dovuti all'alternarsi di periodi di glaciazione. Attualmente i più comuni eventi naturali che contribuiscono a modificare la superficie terrestre sono: frane; esondazioni di fiumi in piena con alluvioni e conseguenti inondazioni di aree soggette a depositi alluvionali, anche periodici, di notevole spessore, composti da ghiaie, limi, materiali detritici di vario genere e diversa origine; cicli di scarsa piovosità, che sono causa di desertificazione di vaste regioni.

Il paesaggio prende origine da un'azione antropica che avviene in tempi lunghi e che, essendo strettamente correlata ad alcuni eventi naturali, non drastici e quindi non improvvisi, può apportare una lenta modifica sulla superficie terrestre. Le evidenze di queste modifiche non sempre restano individuabili, soprattutto se non sono più protette dall'attività umana; in ogni caso non si ha più l'aspetto originario naturale. Per es., nel caso in cui sia stata praticata da parte dell'uomo un'eccessiva deforestazione o nel caso in cui la conduzione agricola sia stata errata a causa di un indiscriminato sfruttamento del suolo, che comporta una modificazione dell'ambiente naturale.

Il territorio, infine, prende origine da modifiche molto più profonde, durature e rapide apportate dall'intervento dell'uomo sulla superficie terrestre, riconducibili a interessi politici, amministrativi e commerciali. In questo caso si ha un maggiore utilizzo delle risorse naturali, rinnovabili e non, sotto il controllo diretto e indiretto delle amministrazioni e dei poteri locali; si riscontra inoltre un intensificarsi di traffici e scambi commerciali di materie prime sia allo stato naturale sia trasformate, quando siano disponibili in situ, oppure di scambio con quelle non reperibili in loco.

La trasformazione più evidente che subisce un territorio per opera dell'uomo consiste nel trasporto e nell'utilizzo di materiali rari e di diversa provenienza per la costruzione di strutture permanenti. Allorquando il territorio venga abbandonato per la scomparsa di risorse rinnovabili (dovuta a un loro sfruttamento errato o eccessivo), cause belliche (deportazioni e genocidio) o epidemie, la superficie terrestre torna a essere sottoposta alla sola azione degli eventi naturali. Questi ultimi, in un ambiente artificiale non più protetto dall'azione umana, producono un rimodellamento e un'evoluzione della superficie terrestre dell'area, dove si conserva solo parzialmente traccia dell'attività dell'uomo e dove le modificazioni precedenti vengono cancellate solo in parte, trovandosi infatti inglobate in strati di sedimenti oppure obliterate da formazioni geologiche recenti. Le tecniche di indagine utilizzate dalle scienze della Terra sono in grado di riconoscere il tipo di intervento dell'uomo sul territorio come, per es., la costruzione di porti, zone abitative, argini, canalizzazioni, zone di discariche. L'abbandono di un territorio è spesso dovuto a eventi naturali improvvisi, drastici, geologicamente significativi, che non possono essere previsti dall'uomo e quindi non sono in alcun modo modificabili (per es., eruzioni vulcaniche).

Quasi sempre le indagini geoarcheologiche sono propedeutiche alla ricerca archeologica sul campo, in quanto forniscono una grande quantità di dati relativi alla natura del territorio, alle sue risorse (idriche, minerarie ecc.) che costituiscono le condizioni necessarie all'utilizzo da parte dell'uomo e quindi all'insediamento, oggetto di scavo da parte dell'archeologo.

Per indagare le componenti del sottosuolo, al telerilevamento e all'aereofotogeologia, già da tempo utilizzati in a., si sono aggiunti altri metodi di ricerca, come le misurazioni di gravità e di magnetismo terrestre e la digitalizzazione di immagini dirette o indirette rilevate su bande spettrali a bassissima quota (aerei) e ad altissima quota (satelliti), con lunghezza d'onda selezionata rispettivamente nel visibile e nel non visibile. La loro elaborazione, eseguita tramite algoritmi utilizzando appropriati programmi di calcolo, permette una navigazione virtuale nell'area indagata, con possibilità di soluzioni di gran lunga superiori ad altre strumentazioni di rilevamento.

Gli interventi effettuati dall'uomo sul territorio nell'ambito del suo utilizzo, come abbiamo già ricordato, possono essere evidenziati nella loro morfologia e nella loro immagine, anche se nascosti sotto formazioni geologiche recenti, da studi complementari all'indagine archeologica. Tali studi, di natura strettamente geologica, propri delle discipline delle scienze della Terra (geografia fisica, geomorfologia, geofisica, idrogeologia, sedimentologia, vulcanologia), permettono anche una prima individuazione delle cause di abbandono per eventi naturali. Inoltre le nuove metodologie di ricerca consentono l'individuazione nel territorio della disponibilità di materie prime (risorse idriche; cave e miniere, anche di metalli preziosi, sia pure ormai esaurite o abbandonate). Possiamo risalire non solo all'utilizzo e alla forma dell'oggetto ricavato, ma anche alla sua composizione, alle tecniche di prelievo e trasformazione; inoltre, l'utilizzo di materiali di diversa provenienza nella produzione del medesimo orizzonte culturale-geografico consente considerazioni sull'economia del reperimento di altro materiale per soddisfare esigenze di tipo sociale, che prevedono spostamenti più o meno impegnativi. Tutto ciò comporta per l'archeologo l'acquisizione di elementi volti a definire meglio il contesto socioeconomico della popolazione insediata sul territorio.

Analisi appropriate (geochimica, mineralogia, petrografia applicata ecc.), eseguite sui manufatti della cultura materiale, possono apportare dati utili per la sua caratterizzazione in un determinato periodo storico, pur non essendo i soli metodi di ricostruzione. Risulta dunque evidente come, in assenza di fonti scritte, la geoarcheologia sia fondamentale per fornire risposta alla domanda storica.

bibliografia

G. Hard, Die "Landschaft" der Sprache und die "Landschaft" der Geographie; semantische und forschungslogische Studien zu einigen zentralen Denkfiguren in der deutschen geographischen Literatur, Bonn 1970.

G. Devoto, Geologia applicata all'archeologia, Roma 1985.

Cave. Piano e progetto, a cura di E. Marforio, L. Folco Zambelli, Milano 1986.

P. Reilly, Toward a virtual archaeology, in K. Lockyear, S. Rahtz, Computer application and quantitative methods in archaeology, Oxford 1991.

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