ARCHIMEDE

Enciclopedia Italiana (1929)

ARCHIMEDE ('Αρχιμήδης, Archimēdes)

Giovanni Vacca
Enrico FERMI

Nacque in Siracusa, probabilmente intorno al 287 a. C. Era, come dice egli stesso, figlio di un astronomo, Fidia. Polibio e Plutarco riferiscono che egli era parente di Gerone, re di Siracusa. Un suo scritto, l'Arenario, è dedicato a Gelone, figlio di Gerone. Diodoro Siculo (V, 37) dice che A. viaggiò in Egitto. Studiò probabilmente in Alessandria, dove strinse amicizia con Conone da Samo (300-240 a. C.), con Dositeo da Pelusio (270-200 a. C.), e con Erastotene da Cirene (276-194 a. C.); su questi astronomi e sulle loro opere si veda G. Schiaparelli, Scritti sulla Storia dell'astronomia antica, Bologna 1926, II, p. 267.

A. scrisse in Siracusa, probabilmente nella seconda metà della sua vita, la maggior parte delle sue opere. Dopo la morte di Gerone, (216 a. C.) Siracusa cadde nel disordine. Dopo un breve regno di Gelone, il figlio Ieronimo fu ucciso, e fu proclamata la repubblica. Siracusa decise di allearsi coi Cartaginesi, guidati da Annibale, contro i Romani. Roma inviò il console Marcello, il quale, dopo aver conquistata Leontini, mise ben presto l'assedio a Siracusa. Dice Tito Livio che la città sarebbe stata subito presa, se non vi fosse stato un sol uomo, A., sopra ogni altro contemplatore del cielo e delle stelle, ma più meraviglioso inventore e costruttore di macchine guerresche e di ordegni, il quale distruggeva in un momento le faticose opere di offesa contro la città. Le mura della città furono da lui fortificate in modo assai vario. Contro le navi più lontane, catapulte lanciavano pesanti pietre, contro le più vicine nugoli di frecce. Opportune feritoie nelle mura permettevano ai difensori di colpire senza essere feriti; uncini di ferro, legati da catene, afferravano le navi che si avvicinavano troppo alle mura, e le sconquassavano. Dalla parte più alta delle mura, enormi massi lanciati rotolavano con violenza lungo il pendio naturale delle colline esterne, contro gli assalitori.

Racconta Plutarco (Marcello, 14, 20) che le macchine costruite da Archimede non costituivano per lui oggetto di profondo studio, ma che egli s'era occupato di fabbricarle e di studiarle a richiesta insistente del re Gerone, il quale lo aveva persuaso della necessità di rivolgere la sua attenzione dalle cose speculative a quelle materiali, per soddisfare ai bisogni più concreti e più sentiti dalle moltitudini. Poiché, dice Plutarco, le arti meccaniche, tanto celebrate e ammirate ai nostri tempi erano sorte con Eudosso ed Archita, il quale aveva immaginato illustrazioni meccaniche per manifestare ai sensi le sottigliezze della geometria. Così, per esempio, Archita aveva risolto, per mezzo d'un meccanismo, il problema d'inserire due medie proporzionali tra due segmenti dati. Ma Platone aveva inveito contro questo indirizzo, come corruttore e distruttore della bellezza della geometria, poiché la distraeva dallo studio delle cose incorporee ed astratte, per farla discendere alle cose sensibili e materiali. Perciò la meccanica era interamente distinta dalla geometria, e per lungo tempo considerata come una delle arti militari. Tuttavia Archimede aveva scritto (in un'opera perduta), che con una forza data era possibile muovere qualsivoglia peso; e orgoglioso, come si racconta, della forza della sua dimostrazione, dichiarò che se avesse avuto dove appoggiarsi, avrebbe spostato la Terra (δός μοι ποῦ στῶ, καὶ κινῶ τὴν γῆν. Forse, secondo Simplicio, Archimede, in dialetto dorico, avrebbe detto: πᾶ βῶ καὶ κινῶ τὰν γᾶν; cfr. Heiberg, Quaest. Arch., p. 37).

A dimostrazione della sua teoria Archimede riuscì a far scendere lentamente in mare una grossa nave a tre alberi, carica, stando seduto a qualche distanza, facendo scorrere per mezzo d'un sistema di pulegge una corda, senza nessuna fatica. Persuaso della potenza di questa sua arte, il re aveva convinto Archimede a preparargli armi di offesa e di difesa da adoperarsi in guerra. Queste armi non erano mai state adoperate fino all'assedio di Marcello. Ai Romani sembrava di lottare non contro uomini, ma contro dèi, tanti erano i danni che subivano da un nemico invisibile, cosicché appena vedevano apparire dalle mura una corda o un'asta di legno, fuggivano, temendo l'apparizione di qualche nuova macchina. Eppure Archimede era dotato di tale profondità di pensiero e di tale sovrumana sagacia, che nulla volle scrivere su queste arti meccaniche, le quali servono soltanto a soddisfare ai bisogni materiali della vita; ma dedicò tutti i suoi sforzi soltanto a quegli studî, la sottigliezza e l'armonia dei quali non dipendono dalla necessità. Questi studî, egli pensava, non possono essere paragonati ad alcun altro; in essi la materia è compenetrata nella dimostrazione; questa le dà grandezza e bellezza, quella precisione e potenza. Nessun problema geometrico è stato mai trattato in forma più semplice e più pura. Questa perfezione sembra dovuta alla sua straordinaria capacità di attenzione e di lavoro. Sembrano quindi credibili quegli aneddoti che si raccontano di lui, che egli spesso dimenticasse di mangiare e trascurasse la sua persona, o conducesse linee col dito intinto nell'olio con cui si ungeva il corpo.

Egli volle che i suoi parenti ed amici scolpissero sulla sua tomba un cilindro circoscritto ad una sfera, con un'iscrizione la quale indicava il rapporto tra i volumi e le superficie dei due solidi, cioè, com'egli scrisse: "In ogni sfera un cilindro che abbia per base un circolo massimo della sfera e l'altezza uguale al diametro della sfera, ha per volume i tre mezzi di quello della sfera, e tutta la sua superficie è i tre mezzi di quella della sfera". Cicerone (Tusc., V, 64) dice ch'egli scoperse la tomba di A., avendo avuto copia di alcuni versi, quosdam senariolos, scritti sul monumento. Secondo Plutarco, l'iscrizione consisteva nell'enunciato precedente.

Durante l'assedio, Marcello, nel giorno d'una festa in onore di Artemide, riuscì a penetrare nella città, la quale fu abbandonata al saccheggio. Un soldato romano, avvicinatosi ad A., il quale stava studiando con gli occhi fissi sopra una figura geometrica, senza essersi accorto dell'invasione dei Romani e della caduta della città, lo uccise perché questi non voleva seguirlo. Altri raccontano che mentre portava a Marcello alcuni dei suoi strumenti matematici, come meridiane, sfere e quadranti, fosse ucciso da alcuni soldati i quali credevano che trasportasse oggetti d'oro. Si dice che Marcello fosse afflitto per questa morte, allontanasse l'uccisore, e facesse ricerca dei parenti di A. rendendo loro onore.

Gli scritti di Archimede non furono tutti ugualmente studiati e commentati. Naturalmente i più difficili furono meno studiati, e quindi quelli di essi che ci pervennero furono poco alterati rispetto alla loro redazione e abbreviamenti, dimodoché è difficile ricostituire il testo genuino. Subito dopo la sua morte continuarono ad essere studiati, specialmente in Alessandria, ma non sembra che tutte le opere siano mai state raccolte in un corpo, di guisa che varie di esse scomparvero fin dai tempi antichi.

Tuttavia, nel sec. III e nel IV d. C. ne esistevano ancora molte, secondo le testimonianze di Erone, Pappo, Teone, le quali perirono forse nella devastazione del Serapeo di Alessandria, nel 391. Eutocio, intorno al 500 d. C., ne commentò alcune, ma non conobbe né la quadratura della parabola né il trattato delle spirali. Nel sec. VI un discepolo di Eutocio pubblicò la sua edizione commentata di Archimede, per uso della scuola creata dall'architetto Isidoro da Mileto, il quale con Antemio da Tralle fu architetto della cattedrale di S. Sofia a Costantinopoli.

Verso la metà del sec. IX, un geometra Leone fece ricopiare un codice (A) delle opere di Archimede, il quale insieme con un altro codice (B) fu importato in Italia nel sec. XII, e fece parte della biblioteca dei re normanni. Nel sec. X fu ricopiato un terzo codice (C), nel convento del S. Sepolcro a Gerusalemme; poi, portato a Costantinopoli, e adoperato per altro uso, rimase sconosciuto fino al 1906.

Nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, i due codici A e B, insieme con la biblioteca greca raccolta dai re normanni e passata in eredità agli Svevi, furono donati da Carlo d'Angiò a papa Clemente IV, in Viterbo. Viterbo era allora, e fu per qualche decennio, un centro di studî. Un monaco fiammingo, Guglielmo da Morbecca, il quale aveva studiato greco a Corinto, e aveva tradotto, per desiderio di S. Tommaso d'Aquino, le opere di Aristotele, tradusse nel 1269 parecchie opere di Archimede, forse per suggerimento e desiderio di Campano da Novara, cappellano del papa e matematico profondo ed acuto.

Nel 1311 i manoscritti A e B erano ancora nella biblioteca papale. Nel 1450 Lorenzo Valla ebbe il codice A in Roma; nel 1460 Jacopo Cremonese lo copiò in Roma e lo tradusse in latino. Tale traduzione fu poi copiata dal Regiomontano e diede origine all'edizione di Basilea del 1544. Lo stesso codice A fu ricopiato per incarico del cardinal Bessarione in Venezia. Nel 1490 fu ancora ricopiato in Roma, e nel 1492 fu ricopiato in Firenze per desiderio del Poliziano. Nel 1503 Luca Gaurico pubblicò la prima edizione a stampa di alcune opere di Archimede. Quest'edizione fu riprodotta dal Tartaglia nel 1543. Nel 1544 apparve in Basilea la prima edizione a stampa del testo greco, con la traduzione latina a fronte. Da queste copie successive derivano i varî manoscritti che si trovavano a Milano, a Ferrara, a Cremona e a Roma. Molte di queste copie emigrarono poi a Madrid, a Parigi, a Cambridge.

ll desiderio che durante tutto il Rinascimento spingeva gli studiosi a ricercare e a copiare le opere di Archimede, era stimolato dalla grande fama che di A. avevano lasciato gli scrittori greci e latini, i quali parlavano con entusiasmo del genio di lui e delle sue meravigliose scoperte: Tito Livio (XXIV, XXV), Cicerone (Verr. IV, 131; De Finibus, V, 50; Tusc., V, 54), Valerio Massimo (VIII, 7), Plutarco (Marcello), Polibio (VIII, 8-9), Erone, Plinio, Vitruvio, Seneca. Senza lo stimolo della curiosità che gli elogi di questi scrittori facevano sorgere, l'opera di Archimede sarebbe forse scomparsa. Nell'opera di Giorgio Valla, De expetendis et fugiendis rebus (Venezia 1501) furono per la prima volta tradotti varî frammenti delle opere di Archimede. Nel 1558 Federico Comandino pubblicò una nuova traduzione più diligente, la quale permise ai matematici di meglio apprezzare l'opera di A.; Luca Valerio nel 1604, Nepero nel 1614, Keplero nel 1615, Galileo nel 1632, Cavalieri nel 1635 e nel 1647, Torricelli nel 1644, non solo studiarono A., ma riuscirono ad impadronirsi dei suoi metodi e ad applicarli per scoprire nuove verità nel campo della matematica e della meccanica. A questi italiani seguirono Fermat, Pascal, Wallis, Huygens, Barrow, Borelli, ed infine Newton. Gli scritti di questi grandi matematici, fondatori del calcolo infinitesimale, sono la continuazione necessaria degli studî di Archimede.

Una prima edizione critica, fondata sullo studio di molti manoscritti, è quella del veronese Torelli, pubblicata in Oxford nel 1794. Su di essa è condotta la traduzione del francese Peyrard (1807). Infine il danese J. L. Heiberg diede la migliore edizione che oggi possediamo del testo greco, con una nuova traduzione latina, nel 1910-1915.

La maggior parte delle opere furono scritte da Archimede dopo la morte del suo amico, e forse maestro, Conone da Samo, avvenuta verso il 240 a. C. I Principî della Meccanica (Στοιχεῖα τῶν μηχανικῶν, 'Επιπέδων ἰσορροπῶν ά) che noi possediamo in forma incompleta e probabilmente assai lontana dall'esposizione di A., sono forse uno dei primi suoi scritti. A questo segue la Quadratura della parabola (Τετραγωνισμὸς παραβολῆς). In essa A. dimostra con varî metodi che "l'area di un segmento di parabola vale quattro terzi del triangolo avente la stessa base". Vengono poi, secondo le induzioni dell'Arendt, i due libri Della sfera e del cilindro (Περὶ σϕαίρας καὶ κυλίνδρου). Il contenuto del primo di questi libri è entrato nel nostro insegnamento elementare; in esso sono dimostrati i teoremi sopra ricordati che dànno l'area ed il volume della sfera.

Nel secondo libro invece sono studiati argomenti più difficili; ivi è risolto il problema (di terzo grado) di "tagliare una sfera in due parti con un piano, in modo che i due segmenti della sfera siano tra loro in un rapporto dato". Archimede risolve il problema per mezzo dell'intersezione d'una iperbole e d'una parabola. Ivi ancora Archimede dimostra che "fra tutti i segmenti di sfera per cui è costante l'area della superficie curva, la mezza sfera è quella che ha volume massimo". È questo un primo passo verso la dimostrazione del teorema intuito dai Greci, che la sfera, fra tutti i solidi di area data, è quello che ha volume massimo.

A. scrisse poi il libro Delle spirali (Περὶ ἑλίκων). È questo uno dei più lunghi e sottili scritti di A.; di particolare importanza è l'introduzione, in cui è definita per la prima volta la generazione meccanica della spirale, la quale è descritta in un piano da un punto che si muove di moto uniforme lungo una retta, mentre la retta ruota di moto circolare uniforme intorno ad un punto. A. dà per la prima volta una definizione chiara di moto rettilineo uniforme, di moto circolare uniforme e della loro composizione. Valendosi del linguaggio adoperato in queste pagine Nepero riuscì a dare una prima definizione dei logaritmi, e Galileo riuscì a descrivere il moto dei gravi. A. dimostra la proprietà della tangente alla spirale, e dà la quadratura di un segmento della spirale stessa. Per ciò egli si serve di una regola la quale dà la somma dei quadrati dei primi n numeri naturali.

Assai profondo è il libro Dei conoidi e degli sferoidi (Περὶ κωνοειδέων καὶ σϕαιροειδέων). In essi è studiata per la prima volta l'area dell'ellissi, il volume dell'ellissoide, il volume del paraboloide di rivoluzione.

Lo scritto sull'Equilibrio dei piani ('Επιπέδων ἰσορρπῶν β′) è probabilmente il frammento di un'opera più completa, perduta, che A. aveva scritto sulla statica, ossia sulla meccanica dell'equilibrio dei corpi solidi.

Il Metodo, o meglio Avviamento ('Εϕόδιον), di A. è uno scritto di cui si conoscevano soltanto alcuni risultati, citati da Erone e riprodotti poi da Piero della Francesca e da Luca Paciolo, relativamente al volume delle vòlte a crociera e delle vòlte a padiglione (cioè il volume compreso tra due cilindri di egual diametro, gli assi dei quali s'intersecano ad angolo retto, ovvero il volume del solido formato dall'insieme dei due cilindri ora considerati). In questo scritto, scoperto nel codice C dal Heiberg nel 1906, A. dà un'idea di un metodo generale col quale si possono scoprire e dimostrare proprietà nuove delle curve, delle superficie, dei volumi. Questo metodo coincide in sostanza coi metodi del calcolo infinitesimale.

Nello stesso codice C Heiberg trovò il testo dei due libri Sui galleggianti (Περὶ ὀχουμένων) di cui si conosceva soltanto la traduzione latina di Guglielmo da Morbecca, pubblicata dal Tartaglia. Questi libri non solo contengono il principio fondamentale dell'idrostatica, il cosiddetto principio di Archimede (v. appresso), ma dànno un primo metodo per il calcolo a priori della stabilità di una nave.

Una delle ultime opere di A., quasi interamente perduta, Sui plinti e sui cilindri (Περὶ πλινϑίδων καὶ κυλίνδρων), conteneva forse una dimostrazione rigorosa dei teoremi relativi al volume del solido determinato dall'incrocio di due vòlte cilindriche aventi lo stesso diametro.

Lo scritto Misura del circolo (Κύκλου μέτρησις) contiene la famosa determinazione del rapporto della circonferenza al diametro che noi indichiamo con π.

Archimede dimostra, calcolando i perimetri di un poligono regolare inscritto e di uno circoscritto di 96 lati, che

Questo scritto è probabilmente un frammento assai rimaneggiato di un più ampio studio di Archimede su questo soggetto. Da un passo di Erone (Metric., I, 26) sembra che A. abbia dato la limitazione più esatta:

la quale corrisponde, in decimali, alla limitazione:

Infine il frammento di uno scritto intitolato Stomachion (Στομάχιον, che i Latini tradussero loculus) è forse l'origine di numerosi giochi di decomposizione e ricomposizione di un quadrato in varie parti, di forma diversa, per mezzo delle quali si possono formare innumerevoli figure. Questo gioco si diffuse, ed è ancora diffuso oggi, in Europa e fuori: ma nel Medioevo è giunto fino in Cina.

L'Arenario (Ψαμμίτης) è un breve scritto dedicato al re Gelone, prezioso per la storia dell'astronomia, perché Archimede si propone di contare il numero dei grani di sabbia che riempirebbero una sfera tanto grande quanto la sfera che ha per centro il Sole e per superficie la sfera delle stelle fisse. A. parla delle grandezze del Sole, della Luna, della Terra, e delle loro distanze. "Io pongo - egli dice - che il diametro del Sole sia trenta volte maggiore di quello della Luna e non più, sebbene tra gli astronomi che ci hanno preceduto, Eudosso lo abbia detto nove volte maggiore, Fidia mio padre dodici volte maggiore, e Aristarco abbia tentato di dimostrare che il diametro del Sole era compreso tra diciotto e venti volte il diametro della Luna".

Dopo aver cercato di valutare la distanza della sfera delle stelle fisse, dimostra che il numero dei granelli di sabbia ricercato è un numero che, scritto col sistema decimale, non ha più di cinquantaquattro cifre. (Con lo stesso metodo si potrebbe dimostrare che il numero di tutti gli atomi che formano l'universo che noi vediamo, in esso comprese le stelle fisse più lontane, non è maggiore di un numero che, scritto in cifre decimali, abbia più di un centinaio di cifre).

Questo scritto ci ricorda un'altra opera perduta di Archimede, in cui egli si occupava dei fondamenti dell'aritmetica. Un epigramma greco ci ha conservato in versi un problema, in cui si domanda di determinare per mezzo di otto condizioni il numero dei buoi di vario colore che formano le mandre custodite dal dio Apollo. L'originalità del problema sta in questo, che la determinazione di questo numero conduce alla considerazione di numeri enormi, aventi milioni di milioni di cifre. Questo ci fa supporre che Archimede avesse spinto innanzi non solo lo studio dell'aritmetica, ma anche lo studio della più astratta teoria dei numeri.

Uno scritto perduto di Archimede riguardava la costruzione dell'eptagono regolare inscritto in un circolo. Tale costruzione non si può fare con la riga e col compasso, perché conduce a un'equazione irriducibile del terzo grado, la quale però si può risolvere, ed Archimede lo sapeva fare, per mezzo dell'intersezione di un circolo e di una parabola.

Al-Bīrūnī ci ha conservato alcune proprietà geometriche delle corde dell'eptagono regolare che permettono di ricostruire i ragionamenti di Archimede (v. C. Schoy, Die trigonometrischen Lehren des Persischen Astronomen al-Biruni, dargestellt nach al-Qanun al-Masudi, Hannover 1927).

Del Liber assumptorum (Λήμματα), compilazione di un'opera più estesa di Archimede, ci è stata conservata soltanto una versione araba; tradotto in latino da J. Gravio (Londra 1651), poi nuovamente tradotto da Abramo Echellense, e commentato dal Borelli (Firenze 1661), contiene quindici proposizioni assai interessanti di geometria elementare.

ln un'altra opera perduta (Κατοπτρικά), assai voluminosa secondo la testimonianza di Apuleio, Archimede studiò le leggi della catottrica, cioè la formazione delle immagini negli specchi concavi e convessi (gli specchi piani erano già stati studiati da Euclide). La fama di quest'opera diede forse origine alla leggenda, priva di fondamento storico perché è riferita soltanto dal bizantino Tzetze più di mille anni dopo la morte di Archimede, relativa alla flotta di Marcello, la quale sarebbe stata incendiata da Archimede per mezzo di specchi concavi. La sola vaga conoscenza dei problemi studiati in quest'opera, permise ai matematici del Rinascimento di trovare i più eleganti risultati relativi al fuoco degli specchi ellittici, ecc.

Sembra che Archimede abbia pure scritto un libro (Περὶ σϕαιροποιίας) in cui descriveva la costruzione di un planetario, cioè di uno strumento meccanico, il quale girando, forse con un sistema d'ingranaggi, riproduceva il moto della Terra intorno al Sole, della Luna intorno alla Terra e degli altri pianeti intorno al Sole. Uno strumento simile fu studiato da Keplero (Opera, I, p 88, ed. 1860), poi costruito da Huygens (Descriptio Automatis planetarii, in Op. post., 1713, pp. 431-460).

Tra le macchine inventate da Archimede, una assai notevole per elevar l'acqua, da lui costruita e adoperata d'allora in poi in Egitto per l'irrigazione dei campi, è chiamata vite o cochlea (κοχλίας). Descritta da Diodoro (V, 37) e da Vitruvio (De Arch., X, 6), è stata studiata da L. Jacono in un dipinto pompeiano scoperto recentemente, che rappresenta uno schiavo pigmeo al lavoro della cochlea (cfr. Notizie degli scavi, Roma 1927, pp. 84-89 e tav. IX).

Non esiste alcun ritratto che riproduca i lineamenti di Archimede.

Edizioni: Ecco alcune delle più importanti: Tetragonismus id est circuli quadratura, ecc., Venezia 1503; N. Tartaglia, Opera Archimedis, ecc., Venezia 1543; Archimedis Opera (1ª ed. del testo greco) Basilea 1544; Archimedis Opera a F. Commandino Urbinate etc. illustrata, Venezia 1558; J. Barrow, Archimedis Opera, nova methodo ill., Londra 1675; I. A. Borelli, Archimedis Opera nova et breviori methodo demonstrata, Roma 1679, I. Torelli, Archimedis quae supersunt omnia, Oxford 1794; Oeuvres d'Archimède, traduzione di F. Peyrard, Parigi 1807; J. I. Heiberg, Archimedis Opera omnia, Lipsia 1910-1915, voll. 3 (è questa la migliore edizione del testo greco con una nuova versione latina a fronte),T. L. Heath, The Works of Archimedes in modern notation, Cambridge 1897; Les Oeuvres complètes d'Archimède, trad. di P. Ver Eecke, Bruges 1921.

Non esiste ancora una versione italiana completa delle opere di Archimede; tra le versioni parziali più recenti sono le seguenti: V. Sassoli, Trattato delle spirali di A., Bologna 1886; Il De arenae numero, vers. di A. Mancini, in Il Pitagora, 1899, V, 1, 2; E. Gradara, Il "Metodo" di Archimede, Velletri 1924; E. Rufini, Il "Metodo" di Archimede, ecc., Roma 1926.

Bibl.: G. M. Mazzuchelli, Notizie intorno alla vita di Archimede, ecc., Brescia 1737; J. C. Heiberg, Quaestiones Archimedeae, Copenaghen 1879; id., Le rôle d'Archimède dans le développement des sciences exactes, in Scientia, XX (1916), pag. 81; A. Favaro, Archimede, Genova 1912; G. Loria, Archimede, Milano 1928.

Principio di Archimede. - È un principio che permette di calcolare la spinta idrostatica esperimentata da un corpo immerso in un fluido, cioè la forza che il fluido esercita sopra il corpo per spingerlo verso l'alto. Esso afferma che "un corpo immerso in un liquido (o gas) riceve dal basso verso l'alto una spinta uguale al peso del liquido spostato".

Siccome il corpo oltre che alla spinta idrostatica è soggetto al proprio peso, che è invece diretto verso il basso, la risultante delle forze che agiscono sul corpo sarà diretta verso il basso o verso l'alto secondo che il peso del corpo è maggiore o minore del peso del liquido spostato, cioè secondo che la densità del corpo è maggiore o minore della densità del fluido; è questa la ragione per cui i corpi più densi del fluido vanno a fondo, e quelli meno densi galleggiano.

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