ARCHITETTURA E ATTUALITA DEL MODERNO

XXI Secolo (2010)

Architettura e attualità del moderno

Franco Purini

Nel passaggio tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. l’architettura ha subito un’improvvisa accelerazione dei suoi processi vitali. Questa accelerazione, che è stata accompagnata da una crescita esponenziale della già rilevante articolazione dell’architettura contemporanea in una pluralità di orientamenti e di espressioni, ha anche riproposto tutti assieme gli elementi che sono stati alla base della modernità. È come se l’intero secolo – ‘il secolo breve’ di Eric J. Hobsbawm (The age of extremes. The short twentieth century, 1914-1991, 1994; trad. it. 1995) – si fosse riproposto nei vari caratteri fondativi sotto il segno di un’urgenza che ha reso tutto allarmante, sfuggente e metamorfico. Questi caratteri fondativi, molti dei quali in contraddizione tra di loro, si presentano mescolati come scie colorate in quella liquidità di cui ha scritto Zygmunt Bauman (2005) identificandola con l’effetto del rapido scioglimento dei saperi e dei poteri ‘rigidi’, vale a dire fortemente identificabili e durevoli, del Novecento.

Nell’attuale dibattito disciplinare è riemerso, infatti, sciolto dai suoi precedenti vincoli dialettici e dai rigorosi rapporti di consequenzialità, l’intero arco tematico che si è definito a partire dai primi anni del 20° secolo. In particolare ha ripreso vigore l’interrogativo su che cosa sia stata la modernità architettonica, come si sia evoluta e che valore continui eventualmente ad avere oggi; ci si chiede di nuovo quale sia il ruolo dell’architettura al di là delle sue finalità apparenti, erroneamente ritenute da molti le più importanti; ci si domanda in che modo sia possibile ricondurre le particolarità dei singoli contesti a una situazione che è diventata sempre più omologata e totalizzante. Una situazione che si iscrive nella nuova condizione globale, in realtà una condizione rinnovata, più che veramente nuova, dal momento che nella storia dell’architettura si sono verificati altri momenti di riunificazione virtuale delle problematiche architettoniche e delle relative poetiche. L’architettura contemporanea, che negli ultimi anni ha fatto proprie le logiche del mercato e del consumo, ha metabolizzato le tecnologie digitali modificando in profondità le sue tematiche e le sue modalità produttive, identificando inoltre come essenziali i suoi aspetti comunicativi, diventando così uno dei più potenti mass media. Ha abbracciato in tutte le sue implicazioni la teoria della complessità mettendo al contempo al proprio centro la questione cruciale della sostenibilità, effetto della presa di coscienza dell’impossibilità di perseguire uno sviluppo basato su un uso incontrollato di risorse energetiche non rinnovabili come quelle fossili.

Questa condizione – che in architettura ha dato luogo a coppie oppositive quali: unitario e frammentario, ordinato e caotico, reale e virtuale, aperto e chiuso, limitato e illimitato, continuo e discontinuo, uguale e differente, unico e molteplice, solido e fluido, stabile ed effimero, unico e seriale, atopico e localizzato, concentrato e disperso – sarà esplorata allo scopo di delineare un quadro il più possibile esauriente, seppure sintetico, delle forze in campo, delle opinioni più diffuse, delle convinzioni autentiche e di quelle più strumentali. C’è da aggiungere inoltre che la situazio-ne descritta, mutevole e plurale, per molti motivi inafferrabile, tende a risolversi interamente in un presente in cui tutto si omologa e si confonde.

Il tempo

Un aspetto che assume una particolare importanza per definire la condizione attuale dell’architettura è quello dell’idea di tempo nel suo rapporto con quella di progetto. L’idea moderna di tempo, un tempo lineare e prospettico al cui interno era possibile prevedere con apprezzabile esattezza il percorso più breve per raggiungere un punto di arrivo da un punto di partenza, entrambi prevedibili e misurabili, è stata sostituita da qualche anno da un modello molto diverso, se non proprio opposto. Quest’ultimo considera il tempo alla stregua di un’entità idealmente policentrica, che si manifesta come compresenza di alternative evolutive, sovrapposizioni strutturali e formali, e interferenze tematiche e iconiche tra passato, presente e futuro. La linea del tempo si è curvata amplificandosi in una serie di vibrazioni che hanno dato luogo a percorsi paralleli e intrecciati, avvolti a spirale o reticolari, divergenti o ramificati. Anche la storia, conseguentemente, non è più vista come un fronte di accadimenti che avanza secondo una direzione univoca, ma come ‘un andare’ più complesso e variegato che torna anche su sé stesso, che non identifica necessariamente il tragitto più corto come il migliore, che soprattutto considera le varie traiettorie come relativamente equivalenti.

La stessa idea di progetto è stata messa radicalmente in crisi, in quanto è stata identificata come strumento di una totalizzazione esclusiva dell’evoluzione umana sottomessa a un’unica volontà di trasformazione, assoluta e pervasiva; un progetto estremo al quale viene oggi contrapposta una pluralità di direzioni contrastanti, elementi di una trattativa polifonica di ciò che deve essere modificato le cui voci compongono un insieme di presenze diverse fino alla reciproca irriducibilità. Il tempo del frammento, quindi, contro il tempo della certezza e dell’unità. Tale idea molteplice e aleatoria del tempo, e quindi della storia, è anche l’esito del declino delle ideologie: alla nozione di una centralità egemone che subordina ogni altra espressione è succeduta una visione per qualche verso periferica e labirintica che restituisce alla complessità delle vicende reali la sua riconoscibilità contro ogni sorta di schematizzazione, di riduzione o di occultamento. Questa trasformazione del tempo è stata registrata e interrogata da storici quali Manfredo Tafuri, Paolo Portoghesi, Kenneth Framp-ton – autore del diffusissimo volume Modern architecture. A critical history (1980), che si muove su questi paradigmi –, Kurt W. Forster, Wolfgang Pehnt, Anthony Vidler, Mario Manieri Elia e molti altri, ai quali va il merito di avere ampliato considerevolmente la conoscenza di ciò che è veramente accaduto nel Novecento al di là della tradizione propagandistico-celebrativa del Movimento moderno, peraltro in profonda crisi fin dalla fine degli anni Settanta.

La nuova storia, fatta di percorsi laterali e di disseminazioni narrative, ha visto, per es., l’affermarsi di un’alternativa regionalista al posto di un’idea internazionalistica del dibattito, così come ha assistito all’emergere di una sorta di geografia ‘inerziale’, fatta di resistenze più o meno motivate alle fondamentali parole d’ordine della modernità.

Un modello da oltrepassare

È ormai da tempo che il modello di pensiero della dialettica, che vede una tesi contrapporsi a un’antitesi al fine di pervenire a un accordo tra i due estremi, è stato quasi del tutto superato da concezioni che non presumono più il primato di una posizione rispetto a un’altra, ma la convivenza delle diversità all’interno di un’idea della conoscenza come mosaico evolutivo di sistemi concettuali aperti e interrotti e di esperienze interagenti. Lo schema dialettico corrispondeva a una visione fondamentalmente ‘bellica’ della cultura, considerata come uno scontro continuo tra posizioni diverse. La sintesi, fase risolutiva dello scontro stesso, sublimava gli elementi dell’una e dell’altra parte, in fondo tradendole entrambe nel tentativo di individuare in esse quelle sotterranee affinità che avrebbero più agevolmente permesso di negoziare tra tesi e antitesi un provvisorio armistizio. C’è da aggiungere che sintesi non è esattamente astrazione. Laddove la sintesi è il frutto di un superamento di posizioni contrapposte tramite una sorta di compenetrazione delle stesse, l’astrazione indica un processo per mezzo del quale si perviene all’essenza di una proposizione teorica, di un oggetto o di un fatto. Se la sintesi è un compromesso, l’astrazione è una sublimazione, un portare al limite il carattere costitutivo di una posizione, di un fenomeno, di una cosa.

Nel quadro appena delineato anche l’avanguardia, forma estrema della dialettica, ha cambiato radicalmente ruolo. Nei primi due decenni del Novecento essa si proponeva, infatti, come messa in crisi radicale delle strutture culturali allora egemoni: oggi, al contrario, si configura come modalità di costruzione e di legittimazione di quel consenso mediatico che è goduto dagli orientamenti più diffusi. In questo senso il fenomeno delle archistar mostra tutta la sua ambiguità. Non più politico-ideologica, l’avanguardia è attualmente lo strumento migliore per esaltare lo status quo, fornendo a esso il prestigio della novità. La diversità, la molteplicità e la rarità sono state le categorie più avversate dal pensiero dialettico, categorie divenute centrali negli ultimi anni. In effetti meticciato, molteplicità, mutazione, rispetto delle minoranze sono concetti e parole attualmente fin troppo condivisi.

Dal pensiero debole in poi questo orizzonte problematico, assieme agli esiti della scienza della complessità, si è articolato in una vasta serie di posizioni e di interpretazioni che dominano il dibattito architettonico globale. Posizioni e interpretazioni che non sembrano essere state adeguatamente recepite dalla cultura architettonica italiana, ancora in gran parte immersa negli ultimi sussulti della concezione ‘militare’ della dialettica. Il modello critico adottato dalla maggior parte degli architetti italiani, per es., è ancora basato sul confronto tra orientamenti diversi, al fine di accertare la superiorità di uno di questi sugli altri, mentre la nuova critica, adatta a decifrare e a interpretare gli eventi contemporanei, dovrebbe avere un altro compito, quello di descrivere ciascuno degli schieramenti cercando di individuare i modi di una loro coesistenza, almeno teoricamente paritaria. L’idea statica di tendenza, ovvero di schieramento che è necessario scegliere in vista di una battaglia, non è stata ancora sostituita da quella dinamica di un percorso interpretativo dell’altro e dell’altrove, ovvero di una ricognizione narrativa delle differenze, non certo per ridurle ma per sottolineare i tratti, da rifondere in sistemi compositivi variegati, plurali e transitori. Dall’occupazione di una postazione teorica al viaggio tra vari orientamenti, in una erranza che può anche non prevedere una meta.

In questo senso la critica dovrebbe farsi sostanzialmente pratica comunicativa, strumento che produce potenziali convivenze tra diversità. L’obiezione che vede in questo atteggiamento una propensione all’agnosticismo non è sostenibile: l’ascolto, l’accoglienza e il dialogo non significano il non distinguere, ma la coscienza di un essere relativo e metamorfico delle cose. All’interno di questa condizione di instabilità strutturale, in cui non occorre più vincere né convincere, ma convivere in una sostanziale equivalenza delle posizioni, assume un particolare significato l’idea già richiamata di frammento. Effetto della rinuncia alla totalità, con la conseguente circoscrizione degli interessi attorno agli argomenti più limitati; risultato di una sensibilità estetica polarizzata su dettagli accuratamente scelti, quasi per una avvenuta saturazione del gusto, ma soprattutto esito di premeditati incidenti analitici, il frammento si configura come il luogo teorico e immaginifico nel quale è possibile mettere in tensione l’unità e la parte, un luogo in cui disgiunzione e discontinuità giocano un ruolo centrale.

Un’altra categoria che in questo quadro subisce una sostanziale eclisse è quella di valore: il suo posto è preso dall’idea più relativa e ipotetica di valenza, definibile come qualcosa che contiene e promette un valore potenziale, una virtualità che si può fare realtà solo dopo un certo succedersi di scelte e di operazioni. Tale correzione è importante perché toglie alla nozione di valore quel tanto di assoluto che essa contiene, predisponendola a un confronto più aperto con altre potenzialità. Parallelamente, nonostante i tentativi di filosofi come Massimo Cacciari ed Emanuele Severino e di letterati come Daniele Del Giudice, è sempre più difficile parlare di fondamento. A causa delle sue inevitabili implicazioni metafisiche tale questione non è certo da dimenticare ma sicuramente da sospendere, se non come ricerca delle tracce che il declino del fondamento stesso ha lasciato.

Agli argomenti già accennati va affiancata un’ulteriore considerazione. Il numero dei fatti e delle informazioni, nonché la crescente velocità con cui si susseguono, rendono impossibile elaborare oggi una distanza critica dagli eventi e dalle idee come espressione di una precisa visione del mondo. Ciò che nella modernità, ma anche nella postmodernità, si configurava come un imperativo etico prima che culturale, consistente nella necessità di definire un proprio sistema di riferimenti in qualche modo stabili, pur se soggetti nel tempo a fisiologici adattamenti e a naturali revisioni, oggi non ha più senso. Nella ‘post-postmodernità’ è invece importante una nuova capacità, quella di intercettare istantaneamente, nel flusso delle comunicazioni e degli eventi, il livello nel quale ci si vuole collocare, quasi utilizzando un senso anch’esso nuovo. Farsi trovare là dove occorre essere in un dato momento: è questo ciò che la situazione attuale sembra richiedere all’architetto. In tale strategia della mobilità viene del tutto trascesa la vecchia distanza critica a favore di una simultaneità tra l’interpretazione di una situazione e l’azione su di essa.

Il panorama appena descritto, che trova nell’arte contemporanea e nella sua attuale pervasività la più alta metafora dell’universo attuale delle differenze, è attraversato comunque da una grande contraddizione. Il dominio mediatico dovrebbe favorire la complessità della comunicazione, offrendo spazi sempre più ampi a ciascuno, secondo la nota profezia di Andy Warhol. In realtà esso agisce al contrario, restringendo progressivamente il campo della visibilità a poche figure, che finiscono per rappresentare, ciascuna di esse, un campione darwinianamente selezionato dei protagonisti della vita sociale, culturale e politica. In questo modo non ci sono più scrittori, ma lo Scrittore; non più registi, ma il Regista; non più attori, ma l’Attore; non più gli architetti, ma l’Architetto. Come su un ridotto palcoscenico queste presenze si fanno maschere di una rappresentazione che ha lo scopo di escludere più che di includere.

Il problema della visibilità mediatica è di estrema importanza. Nel momento in cui le più determinanti decisioni vengono prese nella piazza telematica, l’ambito nel quale si dovrebbe materializzare il campione statistico dell’intera società e al contempo il luogo stesso delle scelte, acquisire una presenza nei media significa appropriarsi di spazi di libertà non altrimenti disponibili. Solo l’ingresso nella dimensione della comunicazione può consentire ai progetti di cui sono portatori i singoli soggetti sociali, siano essi individui o gruppi, di costituirsi come espressioni collettive, come bisogni ai quali va data una risposta anch’essa da verificare successivamente a livello mediatico.

Alcune specificità italiane

La situazione fin qui descritta, di per sé piena di zone oscure, di contraddizioni e di ambiguità, si presenta in Italia ancora più accidentata a causa di alcuni fattori specifici. Essi sono, in ordine crescente di importanza: la debolezza strutturale del sistema dell’architettura, di cui è emblema il numero abnorme di più di centotrentamila architetti a fronte di una endemica incapacità da parte del Paese di effettuare una seria politica del settore edilizio; l’incompleta e sovrastrutturale adesione alla rivoluzione digitale, il cui vero senso non è tanto negli aspetti strumentali che riveste, ma nella conquista dei nuovi spazi di libertà nelle relazioni tra individuo e società che essa consente, da cui deriva una maggiore e più accessibile creatività, che rende tutti artisti potenziali; la diffusione dell’opinione secondo la quale la cultura universitaria è per sua natura incapace di confrontarsi con la realtà, identificata questa con il mercato; la rottura della continuità avvenuta in Italia nell’ultimo ventennio operata dalle giovani generazioni, specialmente da Firenze verso il Sud, una rottura traumatica il cui costo è già ora grande e ancor più lo sarà tra breve se non si riuscirà a saldare il presente al passato, da quello più recente a quello più lontano del Paese.

Il problema davanti al quale si trova oggi la ricerca architettonica italiana è molto semplice da riconoscere, anche se arduo da risolvere. Un problema triangolare che vede le prospettive globali confrontarsi e scontrarsi con quelle nazionali, e queste a loro volta trovare ulteriori difficoltà nella pressione delle domande locali. Per più di un motivo sarebbe necessario e urgente che la ricerca si polarizzasse attorno a non troppo numerosi nuclei tematici, condivisi, dopo una contrattazione rigorosa ma anche aperta e composita: per altre ragioni si contrasterebbe così quell’ascolto e quella produzione della molteplicità che si è sostenuto all’inizio essere uno dei caratteri singolari della situazione attuale della cultura. In questo senso, allora, il problema non è tanto nel ricondurre la varietà delle direzioni di ricerca a pochi centri problematici, ma quello di facilitare lo scambio tra questi tre livelli, assumendo comunque il punto di vista che non li considera come soglie scalarmente crescenti di importanza – il locale, il nazionale, il globale – ma che li valuta nella loro intrinseca consistenza.

Discende da quanto detto che occorre inventare un nuovo modo di porre la questione della ricerca in quanto ricerca non di valori, ma di valenze relative alla domanda che la società attuale – la società post-postmoderna, la società delle rappresentazioni neotribali pone all’architettura. Tale domanda non è più relativa a come trasformare la quantità in qualità, ovvero il grande numero in bellezza e la ripetizione in unicità – i grandi miti del progetto moderno –, ma riguarda la possibilità di fare della comunicazione, la forma architettonica attuale, uno strumento di produzione estetico-conoscitiva di conflitti semantici.

È su questo piano che va posta una questione successiva, concernente se e come l’architettura si dia come scienza, in quanto tale capace di esprimersi in categorie diverse da quelle facenti capo alla propria autoreferenzialità. Non c’è dubbio che la risposta a questa domanda non può che essere contraddittoria. L’architettura è sicuramente scienza, ma solo nel suo a posteriori, nella restituzione logica della sua imprevedibile fenomenologia, laddove nel suo presente progettuale, nel suo a priori, essa si consegna al dominio ipotetico ed empirico dell’azione costruttiva in quanto azione eminentemente artistica. In questo senso l’architettura si presenta come qualcosa di diviso tra il suo essere un corpo di idee e di modalità operative istituite nel tempo e quindi dotate di una qualche oggettività, e il suo consistere in scelte largamente ipotetiche. È proprio nel governare tale divisione diacronica che la ricerca architettonica trova la sua dimensione più autentica.

Problemi della ricerca architettonica in Italia

Non c’è dubbio che nei prossimi anni la ricerca architettonica italiana dovrà confrontarsi con il problema della competizione, non solo all’interno delle sue varie aree ma soprattutto nei confronti dell’Europa e del contesto globale. Una competizione che riguarderà la novità dei temi di ricerca, le loro connessioni con le trasformazioni reali e la qualità scientifica del loro sviluppo. Affrontare tale competizione è oggi il problema strategico più importante tra quelli che la ricerca italiana si trova davanti: una competizione che può essere vinta solo facendo divenire globale ciò che è locale. Il globale, infatti, di per sé non esiste. L’ultimo momento in cui la ricerca italiana riuscì a godere di un favore mondiale fu quando, negli anni Settanta, tra l’Architettura radicale, la Tendenza, e l’Architettura disegnata essa approfondì i temi della sua identità quasi isolandosi creativamente dal contesto delle altre culture. Ma ciò non è successo solo alla ricerca italiana di trent’anni fa: l’architettura olandese contemporanea, ormai universalmente nota e ammirata, non fa altro che scavare nella propria tradizione, da Johannes Vermeer a Piet Mondrian, ragionando creativamente attorno all’essenza totalmente architettonica del suolo sul quale l’Olanda stessa è costruita. C’è da aggiungere che in questa corsa l’Italia parte da una posizione piuttosto svantaggiata. Basta un solo esempio: nella penisola non esistono ‘metropoli’. Roma, la capitale e la città più grande, non arriva a tre milioni di abitanti. Il mancato raggiungimento di un’adeguata massa critica urbana fa sì che i più avanzati processi evolutivi, che riguardano in Europa e in Occidente i sistemi insediativi con tutto ciò che li accompagnano, siano presenti in Italia in forma approssimativa e incompleta, proponendosi come realtà strutturalmente subalterne rispetto a quelle espresse dai contesti più dinamici.

La globalizzazione significa inoltre poter stabilire la relazione migliore tra passato, presente e futuro. Soltanto i Paesi più avanzati e favoriti, come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Francia, la Germania, l’Inghilterra riescono a vivere il futuro nel futuro, nel senso che possono godere dell’eccitazione mentale prodotta dal vivere in una continua proiezione del tutto compiuta. Altri Paesi, tra i quali l’Italia, ma anche la Spagna e la Grecia, sono immersi nel futuro del presente, soffrendo la sproporzione tra un’attualità attraversata dalla promessa di un cambiamento, di un’accelerazione, dell’annuncio di una felicità imminente e un compimento mancato di queste prospettive salvifiche e fascinose. Esistono infine Paesi, come l’Afghānistān, tanto per fare un esempio, che vivono il futuro nel passato, un passato che diventa mito e nostalgia, una nostalgia intessuta però di frustrazione.

Lo scopo dell’architettura è quello di permettere agli esseri umani di raggiungere la felicità e nella cultura globale questa intenzione si deve realizzare rendendo sempre più futuro il futuro e ciò comporta rendere il futuro stesso assolutamente contemporaneo, del tutto adattativo.

In questo quadro, il compito dell’architettura italiana sembra essere quello di partecipare anch’essa del vivere il futuro nel futuro sotto il segno della riproposizione del paesaggio di cui è espressione, un paesaggio non visto più come simbolo universale di composizione tra forza tellurica originaria e azione umana, ma come progetto plurale di assetti estetico-strutturali variabili, perfetti nella loro ‘scientifica’ bellezza, veloci nel loro decadere in una improvvisa obsolescenza che lasci spazio a successive configurazioni. In conclusione, solo una radicale innovazione imperniata sulla valenza invece che sul valore, sulla seduzione invece che sull’autorità della dimostrazione, sull’indiretto invece che sul diretto può mettere in condizione la scena italiana di appartenere di nuovo al grande circuito delle presenze globali.

Moderno, altro moderno e contemporaneo

Proprio all’interno del problema su come ci si possa inserire nella competizione globale diviene importante ridefinire in termini teorico-critici nuovi l’idea di modernità riaprendo una discussione che risale, almeno nelle sue forme esplicite, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Mentre all’interno della ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale si utilizzava infatti la Carta di Atene (1933), che solo in quel periodo vedeva applicati concretamente i suoi principi, veniva sviluppata contemporaneamente una serie di posizioni teorico-critiche che mettevano in discussione le tesi moderniste.

Occorre anche ricordare che è proprio in quel periodo che entrarono veramente in circolo nella cultura internazionale le prime sintesi storiografiche sul Movimento moderno, quelle diverse, e in molti punti opposte, ricostruzioni dovute a Sigfried Giedion, a Nikolaus Pevsner, a Bruno Zevi e a Leonardo Benevolo. Ricostruzioni che se per un verso avevano, come le prime due, istituito il mito della nuova architettura, per l’altro si erano ripromesse di motivarne e di spiegarne la nascita, le problematiche e la diffusione. Si verificò proprio allora un curioso paradosso. La cultura architettonica poteva disporre di un certo numero di ipotesi storiografiche sulla modernità nel momento stesso in cui il Movimento moderno veniva sottoposto a critiche estese e serrate. In effetti, nel dibattito interno ai CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture moderne) si era sviluppato un confronto sulla necessità di procedere a una revisione delle ipotesi ricostruttive dell’architettura moderna. Questa discussione, accesa e prolungata, finì con il portare allo scioglimento degli stessi CIAM, mentre cominciavano ad affermarsi visioni regionaliste che andavano contro il programmatico internazionalismo dell’architettura derivato dalle avanguardie. In Italia si manifestarono allora due contestazioni radicali al Movimento moderno. Una, ispirata dall’opera teorica di Saverio Muratori che, riprendendo alcune categorie interpretative di Gustavo Giovannoni, riportava l’attenzione alla concretezza costruttiva della città, ai modi di evolvere delle sue strutture, modi lontani dalle astrazioni modellistiche con le quali era stata prevalentemente indagata; l’altra, meno esplicita e concettualmente definita, identificata con la figura di Ernesto Nathan Rogers, proponeva, sulla scorta dell’idea delle «preesistenze ambientali», che il progetto urbano e architettonico tornasse a farsi carico delle complesse e stratificate relazioni presenti nei contesti nei quali si interveniva. In altre parole rispetto alla negazione della storia imposta dal Movimento moderno, almeno a livello di dichiarazione di principio, si affermava il recupero sia delle tracce insediative storiche sia del modo con le quali queste erano state trascritte nei processi di espansione urbana che avevano caratterizzato l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Un recupero della storia, quello proposto in particolare da Rogers, che è alla base in Italia del Neoliberty, la cui nascita produrrà una dura polemica tra Reyner Banham e lo stesso direttore di «Casabella». Si deve a questo scontro un conflitto tra la cultura architettonica italiana e quella inglese che da allora a oggi non è stato più ricomposto.

La riaffermazione della centralità della storia che lo stesso Zevi aveva decisamente sostenuto con la sua idea di critica operativa e nel testo La storia come metodologia del fare architettonico, del 1963, intesa non solo come ambito documentario e genericamente culturale ma soprattutto come un luogo creativo, proseguì in forme crescenti trovando la sua espressione massima in quella serie di teorizzazioni nate tra la metà e la fine degli anni Settanta, per opera soprattutto di Charles Jenks, Aldo Rossi e P. Portoghesi, che confluiranno nel postmodernismo. Occorre poi mettere in evidenza in questo contesto che, sempre a metà degli anni Settanta, si era fatta strada un’interpretazione del Movimento moderno che ne proiettava gli assunti teorici e le acquisizioni linguistiche in una sorta di condizione manierista, istituendo un vero e proprio repertorio di forme e di procedure compositive ormai del tutto svincolate dalle loro motivazioni iniziali, pronte a essere utilizzate in modi diversi, liberi fino alla casualità. È il caso, per es., dei Five architects, ma anche di ricerche italiane come quelle di Costantino Dardi, di Vittorio De Feo e, per certi aspetti, del GRAU (Gruppo Romano Architetti Urbanisti). Per altri versi le problematiche aperte dalla Pop Art avevano portato Robert Venturi, nel suo Complex-ity and contradiction in architecture (1966; trad. it. 1980), a elaborare un punto di vista che contestava l’esclusività tendenziosa del Movimento moderno opponendo a essa l’inclusività di elementi e di motivi in grado di cortocircuitare segni, messaggi e simboli secondo le procedure dei mezzi di comunicazione di massa. Non a caso Renato De Fusco aveva scritto in quegli anni un importante saggio dal titolo Architettura come mass medium. Note per una semiologia architettonica (1967), nel quale si identificava l’arte del costruire come una delle discipline della comunicazione.

È con la reazione antistoricista seguita al successo planetario del postmodernismo che si radicalizza attraverso il decostruttivismo, lanciato nel mondo dalla mostra al Museum of Modern Art di New York del 1988, promossa da Philip Johnson e curata dallo stesso architetto assieme a Mark Wigley, la contrapposizione tra la modernità derivata dalle avanguardie e la modernità che non aveva mai interrotto un dialogo con la storia. In questa dualità conflittuale si inserisce proprio in quegli anni la rivoluzione digitale che induce una concezione della temporalità come istantaneità, appiattendola sul solo presente. Il pixel, l’unità grafica della rappresentazione elettronica, abolisce infatti ogni progressione temporale configurandosi come un’entità che vive al di fuori dello spazio e del tempo. C’è da aggiungere che negli ultimi anni anche l’immaginario decostruttivista, basato su un recupero di elementi figurativi tratti dalle avanguardie, è stato soppiantato da un repertorio formale nel quale elementi zoo- e biomorfi si fondono con suggestioni topologiche in una concezione continua della figura che evoca universi in evoluzione, anelli di Möbius, ammassi di alghe in movimento, nebulose e galassie. In qualche modo alla rappresentazione del tempo, e al relativo corredo iconografico, si è sostituito un ‘neonaturalismo astorico’, sospeso tra microcosmo e macrocosmo, nel quale la scienza prende il posto della letteratura trattatistica e della tassonomia relativa ai segni dell’architettura nella storia.

Se si volesse schematizzare il problema con il quale l’architettura si è confrontata nel 20° sec., si potrebbe ritenere che esso abbia riguardato i modi con i quali produrre qualità dell’abitare attraverso il grande numero, ovvero attraverso la quantità. All’inizio del Novecento la questione attorno alla quale concentrare le risorse progettuali consisteva nel realizzare milioni di case, milioni di oggetti, milioni di ambienti, utilizzando la produzione industriale nelle sue autentiche capacità. Questa era intesa non solo in quanto luogo di un’infinita ripetibilità degli oggetti, ma come una presenza significativa sul piano teorico, come una soglia oltrepassata la quale non era più possibile ignorare le modalità interattive e le conseguenti potenzialità formali della riproducibilità tecnica, luogo di una moltiplicazione degli stessi oggetti capace di proporre la suggestione dell’uguale e al contempo del differente in quanto precedente o successivo. In ciò si verifica l’atopicità contro i luoghi, nel senso che gli edifici hanno iniziato da allora fino a oggi a rompere il rapporto organico con il proprio sedime, presentandosi come oggetti semplicemente ‘appoggiati’, per di più quasi precariamente, come è avvenuto con gli edifici sostenuti da fragili pilotis.

In questo contesto problematico, l’istantaneità contro la durata ha registrato lo statuto transitorio degli oggetti prodotti all’interno della rivoluzione industriale. La serialità, già peraltro ricordata, ha contrastato l’unicità in quanto la qualità estetica è stata sottratta all’oggetto pensato singolarmente e riconosciuta invece a quello ripetuto. L’anonimato ha rivendicato, contro la ragione dell’individualità, quella di una paradossale invisibilità degli edifici e degli oggetti d’uso, immersi nel flusso indistinto della metropoli. In realtà non è mai possibile tracciare un solco che divida realmente i temi di ciascuna coppia dialettica. La ‘cosa architettonica’ è appartenuta nel corso del Novecento a tutti e due gli schieramenti, suggerendo loro una dimensione ibrida, una profonda ambivalenza che travolge la dimensione dell’alternativa «questo o quello» per affermare al suo posto, come ha scritto Venturi, il modello del «questo e quello».

Quattro condizioni

I caratteri della modernità architettonica di matrice bauhausiana derivano da quattro condizioni. La prima consiste nella scissione tra il linguaggio e i suoi contenuti. A partire dalle avanguardie storiche, infatti, il linguaggio architettonico può evolvere con logiche autonome, ciò che ha portato all’autoreferenzialità della scrittura, mentre i suoi contenuti si sviluppano anch’essi secondo modalità proprie, fortemente segnate dal controllo sociale. In qualche modo l’architetto è spinto a costruirsi un linguaggio il più possibile personale fino all’ermetismo nel momento stesso in cui, simmetricamente, le prescrizioni normative si fanno sempre più complesse. Tale contraddizione ha attraversato tutto il Novecento conferendo a molte opere un carattere straniato e ‘anticomunicativo’, che ha contribuito in modo considerevole a separare l’architettura dai suoi destinatari. Gli architetti che si sono riconosciuti nella modernità pevsneriana hanno cercato di rendere sempre più esplicita questa contraddizione, a differenza di coloro che si sono identificati in correnti di pensiero diverse, non scaturite dalla rottura epistemologica causata dalle avanguardie, architetti i quali hanno tentato, al contrario, di riunificare il linguaggio e i suoi contenuti.

La seconda condizione è il carattere interrotto della composizione. Le architetture si presentano infatti come sistemi aperti, la cui non conclusione si costituisce come un valore. La scrittura architettonica, divenuta nella modernità largamente paratattica, non si propone più come un’entità che ha un inizio e una fine, ma si presenta piuttosto come una emissione potenzialmente infinita il cui flusso viene quasi casualmente troncato. Si accumula in tal modo indirettamente, una grande energia potenziale, derivante proprio dall’evocazione concettuale di tutto ciò che non è rappresentato nella composizione in quanto separato e reso invisibile dall’atto di cesura.

La terza teoria-condizione è il significato estetico assegnato al processo compositivo, più che al suo risultato. Il modo di determinarsi dell’oggetto è molto più importante dell’aspetto che l’oggetto stesso acquisisce. Più che il risultato formale di una scrittura, ciò che architettonicamente conta è il processo formativo.

La quarta condizione è l’essenza antiurbana dell’architettura. Gli edifici moderni presentano infatti un forte antagonismo nei confronti della città configurandosi, come diceva Zevi, come una realtà dissonante non assimilabile al contesto urbano. Si tratta di una realtà dinamica e molto aggressiva, tesa a contestare e a contraddire la struttura del tracciato e le matrici topologiche del tessuto.

Queste quattro condizioni sono ovviamente ribaltate dai teorici dell’altra modernità. Per questo viene rifiutata la scissione tra linguaggio e contenuti a vantaggio di una coincidenza organica tra intenzioni generali e risultato finale; la composizione interrotta è respinta a favore di sistemi formali chiusi e definiti; inoltre la forma viene identificata non con il suo processo generativo, ma con sé stessa; all’architettura si chiede infine di iscriversi nell’ambito di relazioni di dipendenza reciproca con la città. Nell’edificio non predomina più il vuoto ma la compattezza volumetrica.

Dopo aver rapidamente analizzato i caratteri della modernità dal punto di vista della scrittura architettonica è ora possibile interrogarsi sulla natura della modernità in architettura e sul rapporto tra le sue varie componenti. Le ipotesi da avanzare sono sostanzialmente tre. Secondo la prima, sostenuta e divulgata dalla storiografia alla quale si deve, da Pevsner a Giedion, da Zevi a Benevolo, la stessa mitologia modernista ma presente anche nelle storie dell’architettura successive come quelle di M. Tafuri e Francesco Dal Co e di K. Frampton, l’idea stessa di Movimento moderno vede nelle avanguardie, e nelle sintesi che di esse ha dato la Bauhaus, la matrice esclusiva non solo dei profondi cambiamenti che hanno coinvolto l’architettura del Novecento, ma anche dei linguaggi che ne hanno caratterizzato l’evoluzione. Ciò che non rientra in questa linea è considerato come l’espressione di visioni arretrate o come il frutto di una sostanziale incomprensione dei grandi mutamenti avvenuti nella società occidentale dal 19° al 20° secolo.

A questa posizione, vincente per decenni, si è successivamente aggiunta una seconda interpretazione, che contrappone alla modernità canonica, quella bauhausiana, la cosiddetta altra modernità, come l’ha definita Luciano Semerani, ovvero una serie di ricerche di importanti architetti, quali, tra molti altri, Auguste Perret, Jožef Plečnik, Erik Gunnar Asplund, Dominikus Böhm, Marcello Piacentini, Heinrich Tessenow, Dimitri Pikionis, Ferdinand Pouillon. Architetti che hanno confermato e aggiornato il lascito della tradizione proiettandolo nelle nuove problematiche emerse nel secolo scorso. Per i fautori di questa linea storico-critica, la modernità si sarebbe confrontata fin dagli esordi con un suo doppio, una modernità antagonista che si è posta sia come un correttivo della modernità di origine avanguardistica sia come un ribaltamento totale degli assunti di questa configurandosi, per più versi, come una vera e propria antimodernità. Tra gli architetti contemporanei che potrebbero rientrare in questa categoria occorre ricordare Maurice Culot e Léon Krier, tenendo presente, però, che modernità, altra modernità o antimodernità si sono alternate, nel corso della loro ricerca, nell’attività di molti architetti. S. Muratori fu un ottimo architetto moderno prima di elaborare una posizione che lo allontanò dal mondo figurativo derivato dalle avanguardie; Giuseppe Terragni fu per un certo tempo diviso tra Novecento e Razionalismo; Christopher Alexander è passato da una visione integralmente moderna a una sorta di sofisticata antimodernità. L’antimodernità non riguarda peraltro solo l’architettura. Anche nell’economia esiste da qualche tempo un’antimodernità che si riconosce, per es., nella teoria della decrescita proposta da Nicholas Georgescu-Roegen e divulgata da Serge Latouche, Maurizio Pallante, Massimo Fini. Nell’altra modernità architettonica si rifiuta il continuo proiettarsi in avanti nella direzione di nuove prospettive di elaborazione linguistica; non si crede all’autografia della scrittura; si vuole evitare la competizione tra diversi linguaggi come strumento per conquistare un’egemonia culturale. Al contempo si ripropone un’idea collettiva del linguaggio stesso, la centralità della topologia, la relazione strutturale tra città e architettura, la subalternità dell’architetto alle esigenze sociali. Nel suo Anti-architecture and deconstruction (2004; trad. it. 2005) Nikos A. Salingaros svolge una dura requisitoria contro il modernismo definendo i contorni di un orientamento culturale che si sospende tra altra modernità e antimodernità. Probabilmente i fautori della decrescita credono in una sostenibilità come arresto calcolato dello sviluppo, nella rivalutazione dei circuiti produttivi locali, nell’uso di tecniche energeticamente compatibili. Alla linea dell’altra modernità partecipano anche le ricerche di protagonisti come Muratori e Gianfranco Caniggia.

Il confronto tra queste due posizioni ha dato luogo a due narrazioni parallele delle vicende architettoniche del Novecento, narrazioni non solo autonome ma, almeno apparentemente, non comunicanti. Questa interpretazione, condivisa da molti teorici, critici e progettisti, tra i quali Claudio D’Amato che ne ha fatto il centro della mostra Città di Pietra da lui curata nell’ambito della 10a Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia (2006), è a sua volta contestata da una terza ipotesi, per la quale non è possibile né pensare a una modernità in opposto a una non modernità, né a una modernità contro il suo rovescio, quell’altra modernità appena evocata, consistente nella riaffermazione dei contenuti per così dire ‘invarianti’ del costruire. All’interno di questa terza ipotesi si pensa invece a un’unica modernità, una modernità dialettica e plurale che si costruisce in una vasta rete di temi e di motivi diversi e paralleli, di intenzioni e di modalità processuali, anche esse compresenti nelle loro varie articolazioni. Si tratta di una concezione lontana da ogni rigido schieramento, per la quale l’innovazione e la tradizione non sono categorie alternative divise da un limite netto e deciso, ma due realtà che si attraversano l’un l’altra ibridandosi in un vero e proprio gioco di compenetrazioni, di traguardi e di corrispondenze. Sostenuta da Portoghesi, questa terza via, maturata nell’ultimo trentennio proprio per merito della generazione alla quale appartiene il maestro romano, dà luogo a letture finalmente capaci di restituire alla ricerca architettonica, come aveva intuito a metà degli anni Sessanta R. Venturi, gran parte della sua intrinseca complessità nonché della sua genetica e vitale contraddittorietà. Complessità e contraddittorietà che trovano un riscontro preciso con ciò che avviene nella realtà. Una realtà non lineare ma, come si è già affermato in un passo precedente di questo saggio, caratterizzata da un percorso accidentato e mutevole, attraversato da diversioni intermittenti e da improvvisi cambi di direzione, animato da ripetute metamorfosi e da inattesi riallineamenti, un percorso reso più articolato da rispecchiamenti e analogie, da affinità e differenze, da contiguità e lontananze.

Riprendendo un argomento esposto all’inizio di queste riflessioni, c’è da aggiungere che all’interno di questa terza interpretazione della modernità è importante una nuova idea di tempo anch’essa non lineare, vale a dire non più basata su un principio di antecedenze e di successioni. Un tempo avvolgente, in cui passato e futuro hanno più punti di contatto, un tempo a spirale, come è stato definito da chi scrive, che non prevede un prima e un dopo ma una simultaneità scambievole di momenti nel quale il presente si configura semplicemente come la segmentazione, intrinsecamente effimera, di una sostanziale circolarità. Questa visione aperta e molteplice, che implica una nozione di tempo come intreccio di potenzialità compresenti e alternative, non comporta in alcun modo che le singole posizioni siano da ritenere equivalenti. Il problema del valore dei diversi percorsi architettonici e delle altrettante diverse scritture che ne derivano continua a porsi, ma non tanto in una logica degli schieramenti rigidi, quanto in quella della scrittura. Solo il modo con il quale le motivazioni di un’architettura confluiscono in una determinata soluzione stilistica dotata di una struttura precisa e di una premeditata intenzionalità estetica conta davvero, segnando il discrimine tra ciò che è veramente significativo e ciò che si rivela incidentale e poco rilevante, pur se correttamente istruito.

Più in particolare, il problema del valore si iscrive in quello del nuovo. Occorre infatti dare all’idea di nuovo un significato capace di sottrarlo all’endemico storicismo dal quale era nato per riportarlo al suo significato originario di espressione di ciò che contiene un’innovazione, non necessariamente legata all’abrogazione definitiva e traumatica di qualcosa di precedente, come per una irreversibile modificazione epistemologica, ma alla creazione di un contenuto migliorativo rispetto a quelli già noti. Un contenuto che non deve necessariamente comportare una trasformazione genetica di ciò che viene interessato dall’incremento di potenzialità funzionali ed estetiche prodotto dall’architettura. Il nuovo, infatti, presuppone il confronto con qualcosa che diviene, ‘darwinianamente’, obsoleto. L’innovazione, al contrario, ha a che fare con ciò che l’abitare umano richiede per continuare a essere tale in circostanze produttive e culturali modificate, senza che ciò interrompa traumaticamente la continuità con la configurazione che l’abitare stesso aveva assunto nel corso del tempo.

Una prospettiva

Il quadro che è stato tracciato nei paragrafi precedenti fa comprendere con una certa completezza le difficoltà che oggi interessano l’architettura. Tale difficoltà ha origine dalla stessa complessità dei fenomeni con i quali ci si confronta. La connessione tra di essi e l’interdipendenza che ne discende, proprio per il loro carattere strutturale e la loro intensità, rischiano di diminuire la responsabilità del singolo architetto, che si sente escluso dal controllo di questi fenomeni, in quanto troppo estesi e profondi. La deriva mediatica appare inarrestabile, con il risultato di compromettere la sostanza reale dell’architettura, che non può certo essere contestata, essendo la comunicazione uno degli obiettivi strutturali dell’architettura. La sostenibilità si configura come un’esigenza primaria, ma la sua totalizzante presenza, che l’ha trasformata in una nuova ideologia, rischia di provocare la sua incomprensione e il suo rifiuto. La svalutazione di ciò che è locale a favore di una globalizzazione ormai acriticamente subita, favorisce una concezione astratta e interscambiabile del costruire. La tecnologia è sempre più dominante, essendosi ormai del tutto impadronita della rappresentazione del futuro, con il risultato che ogni altra dimensione dell’architettura viene considerata come superata. Le sfere dell’arte e della moda si confondono ormai con quella dell’architettura, con una grave perdita della specificità di questa, mentre è pressoché scomparso quel sentimento dell’inattuale che, secondo il filosofo Giorgio Agamben (Che cos’è il contemporaneo?, 2008), identifica ciò che è davvero contemporaneo.

A fronte di questa situazione, incerta e fluttuante, appare sempre più necessaria una presa di coscienza radicale, un vero e proprio atto rifondativo che non può non partire dalla risposta a una domanda essenziale, riguardante il ruolo dell’architettura. Considerando l’abitare il fine primo dell’architettura, occorrerà rinominare l’intera estensione della stessa architettura nei termini di un neoumanesimo critico, capace di ricondurre la teoria e la pratica del costruire alla reale capacità operativa di un architetto sollevato da responsabilità apparenti e gratificanti, come, per es., quel pensare geopolitico che oggi offusca molti protagonisti del dibattito disciplinare, e restituito a un mestiere in qualche modo immutabile. Un architetto di nuovo in grado di dare vita a una sintesi poetica di ragione, emozione e mistero. Il tutto in quella parallela alterità che oggi rende il mondo e chi ne è immerso reciprocamente straniati e divisi.

Bibliografia

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