ARCO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1958)

Vedi ARCO dell'anno: 1958 - 1994

ARCO

G. Nicolosi
G. Matthiae

Considerato dal punto di vista costruttivo, è una struttura curva con la quale si supera uno spazio, che suole chiamarsi la luce, la corda, la portata e anche la sottotesa dell'a. stesso.

La curva interna è detta d'intradosso, la curva esterna di estradosso. Inoltre nell'a. si distinguono: la freccia, saetta o monta, che è la perpendicolare dal sommo dell'a. (chiave), i piani d'imposta, ossia le superficie di appoggio dell'a. sopra i proprî sostegni o piedritti (detti anche spalle); infine le reni, cioè le parti dell'a. vicine alle imposte. I piani d'imposta possono anche non essere allo stesso livello; lo spessore poi può variare se preso in chiave oppure all'imposta o, qualche volta, alle reni. Il piano orizzontale sull'a. si raggiunge costruendo la muratura detta di rinfianco. Una prima classificazione degli a. può farsi considerando la forma della curva d'intradosso: a. a tutto sesto quando tale curva è una semicirconferenza di cui la luce è il diametro orizzontale passante per le imposte; a sesto ribassato se si tratta invece di un tratto di semicirconferenza (a. scemo o a monta depressa) o anche di una policentrica con il centro del tratto di curva mediano posto al disotto del livello delle imposte; a sesto acuto od ogivale, se la curva d'intradosso si costituisce di due archi di circonferenza formanti un vertice ed aventi i centri, spesso, ai due terzi della luce. Vi sono a. a guisa di ferro di cavallo, a sesto eccedente (cioè superanti il semicerchio) col centro della curva al disopra della linea d'imposta, a. a sesto acuto rialzato, ed altri infine con curve speciose d'intradosso (a. inflesso, carenato) le quali sono spesso anticostruttive perché prive di quel contrasto fra gli elementi dell'a., che è necessario alla sua funzione statica.

Quando l'intradosso divien retto si ha la piattabanda, in cui rimane non la forma, ma la struttura dell'arco.

Rispetto ai materiali con cui l'a. può essere costruito, esso è di pietra da taglio, se fatto con conci lapidei, posti a contrasto mediante il taglio a cuneo; in tale caso il concio centrale, che assume evidentemente speciale importanza poiché obbliga gli altri tutti a stare a contatto, si chiama chiave o, meno comunemente, serraglio (Crusca) dell'a.; peducci si chiamano i due cunei che poggiano sull'imposta. È monolitico se gettato con materiali disgregati tenuti insieme dalla malta. Finalmente è di laterizî (mattoni), disposti radialmente e tenuti in unione fra loro dalla malta o da un legante cementizio. Ma può anche essere di struttura mista, cioè di conci gettati fra mattoni di separazione.

Risulta evidente che fra l'a. e la vòlta a botte la differenza è solo nella lunghezza delle generatrici. L'arco è elemento di una parete discontinua e traforata; la vòlta si estende a ricoprire un ambiente.

Il problema dell'origine dell'a. è questione ancora dibattuta. Certo essa è antichissima e forse si possono trovare esempî di a. presso popoli diversi senza che ciò importi un reale influsso dell'uno sull'altro. Per l'a. semicircolare, l'esempio più antico, citato dal Petrie, sembra essere quello di Denderah in Egitto, che si fa risalire a circa il 3500 a. C., ma sull'uso così antico di a. e vòlte in mattoni crudi nelle abitazioni usuali è lecito qualche dubbio, essendo esso escluso dall'architettura monumentale, tanto da far ritenere che dagli Egizî, così come dai Caldei e dagli Assiri, l'a. non sia stato sfruttato con piena conoscenza della sua funzione.

L'architettura egiziana ha pochi esempî di archi e di vòlte a botte. Notevoli sono la vòlta nella necropoli di Abido rilevata dall'egittologo francese Manette e da lui assegnata alla sesta dinastia, formata in parte di pietra in parte di mattoni crudi tenuti insieme da una malta embrionale; la vòlta dell'Assassif, a tutto sesto, comprendente nello spessore nove mattoni cotti, nella grande cinta delle mura di Tebe, e che si fa risalire all'epoca saitica. L'altra presso il Ramesseo, con lieve accenno di ogiva, e, nella stessa zona, un'altra con curva parabolica all'intradosso, spessore di quattro mattoni, e infine una vòlta ellittica nella vallata delle Regine a Tebe. Oltre questi veri e proprî a. e vòlte, vanno ricordati altri tipi ottenuti per sovrapposizione, cioè con conci di pietra, a letto orizzontale, non contrastanti fra loro, ossia a. per forma non per sistema statico; la vòlta di un corridoio del tempio di Deir el-Baḥrī ad incastro ricavato dopo la posa di conci a spioventi, l'altra nel tempio di Abido dovuto a Sethos (XIX dinastia), infine quella di una maṣṭabah a Dahshūr a blocchi orizzontali sporgenti successivamente ridotti a centina. Del resto la presenza di veri a. a conci come quello di una tomba a Bēt Khallāf della terza dinastia o quello del recinto di una tomba-tempio di Medīnet Habu, databile fra il 700 e il 65o sono esempî non collegati da una continuità e vastità di applicazione. Perrot e Chipiez opinano che le vòlte per sovrapposizione, in pietra, siano semplicemente imitate dalle vòlte di mattoni, cosicché in Egitto non si può parlare di precedenza della vòlta per sovrapposizione su quella spingente. Constatano poi, pur affermando che gli Egizî conobbero la vòlta fin da epoca antichissima, che essa ha, nell'impiego, un carattere di eccezione e si trova o in parti secondarie e nascoste delle costruzioni monumentali o in costruzioni di minore importanza. Riconoscono inoltre che "questo modo di costruzione, mantenuto in stretti limiti, non ha mai costituito in Egitto un sistema di architettura". Il Manette, che rilevò anche molti monumenti egiziani, scriveva nel 1880 di credere "che in tutti i tempi gli Egizî hanno conosciuto la vòlta. Se essi non l'hanno più impiegata è perché essi sapevano che la vòlta porta in sé il suo germe di morte" ed aggiungeva "che cosa ci resterebbe oggi delle tombe e dei templi dell'Egitto, se l'Egitto avesse adottato di preferenza la vòlta?".

Ma soprattutto nelle costruzioni di mattoni gli Egizî impiegarono a. e vòlte, e perciò Perrot e Chipiez, insistendo nel loro concetto, osservano che queste costruzioni avevano un carattere meno solenne, meno monumentale degli edifici in pietra; si poteva perciò porre in opera una materia di qualità inferiore con procedimento meno sicuro. I monumenti che aspiravano all'eternità erano costruiti non con a. ma con architravi d'indistruttibile pietra. Ora proprio le considerazioni del Manette, ripetute poi dal Le Bon (Les civilisations de l'Inde, Parigi 1887) per gli Indiani, è quelle di Perrot e Chipiez lasciano sorgere il dubbio che gli Egizî non abbiano, in fondo, riconosciuta l'importanza costruttiva dell'arco e compreso il modo del suo comportamento statico. Certamente è sfuggito a questo popolo il fatto che l'a. permette di superare grandi spazî con una snellezza che l'architrave non è mai in grado di raggiungere e con una incomparabile grandiosità di effetti architettonici.

A parte poi che l'aforisma "l'a. non dorme mai" è attribuito agli architetti di parecchi popoli - p. es. degli Arabi - l'affermare che l'a. e la vòlta hanno in sé il germe di morte è evidentemente tratto dall'osservazione dei ruderi dei monumenti romani; ma sono note le devastazioni e le demolizioni quasi sempre sistematiche cui essi furono esposti specialmente in Roma.

Maggiore importanza attribuirono all'a. ed alla vòlta le civiltà mesopotamiche; e sebbene alcuni ritengano quei monumenti derivati dagli Egizî, gli elementi costruttivi comuni furono applicati con una più sottile comprensione delle loro funzioni. Nella Babilonia, più che in Assiria, predomina la costruzione di a. con piccoli elementi, specialmente di materiale laterizio, ma nella bassa Babilonia non mancano esempî di vòlte a botte per sovrapposizione, come quella della necropoli di Mugheir (el-Muqayyar) di mattoni crudi tenuti insieme con fango, sostenuta da due pareti a scarpata. In Khorsābād troviamo esempî magnifici di vòlte a botte con a. a tutto sesto nell'harem, nel canale ad a. ogivale, ed ad a. ellittico. Questi due canali sono costruiti con a. addossati fra loro, o meglio uniti con lieve strato di argilla, e i cui piani non sono verticali ma leggermente inclinati. Degni di menzione sono però soprattutto gli a. a tutto sesto della porta di SE del palazzo di Sargon.

La Persia antica ha monumenti grandiosi e solenni dove l'a. e la vòlta sono di uso costante: basta ricordare i palazzi di Firuzabad e di Sarvistan con a. a tutto sesto e cupole ovoidi, i quali monumenti tuttavia appartengono a tempi tardi (forse sec. IV o V d. C.) e s'inseriscono in quell'oscuro e contrastato periodo di passaggio tra la costruzione romana e la bizantina. L'a. viene usato con senso appropriato sia costruttivamente che architettonicamente e non si può trascurare di mentovare fra le grandi costruzioni della rinascita nazionale quella della Taq-i Kisra, eseguita da Cosroe I (531-579) in Ctesifonte, - che il Rivoira (Arch. musulmana, Milano 1914, p. 120) dice creata da artefici mandati da Giustiniano - dove è, fra l'altro, una grande porta ad a. seguita da vòlta a botte, a mo' delle moderne gallerie, alta ben 28 m e larga 22, con rilievi ispirati agli a. trionfali romani. La vòlta è profonda circa 32 metri.

L'architettura indiana più antica a MohenjoDaro presenta numerose vòlte a pseudoarchi, ma nessun esempio di a. vero e proprio; l'architettura del periodo Maurya già presenta costruzioni a vòlte e ad a. del tutto originali, spesso con evidenti derivazioni da modelli lignei. Notevoli le celle voltate scavate nella roccia sui colli di Barabar, nei pressi di Gaya. Un elemento architettonico nuovo sono inoltre le elaborate porte aperte sul recinto dello stupa (v.); infine il chaitya (v.) negli esempî di Bhaja e di Karli costituisce una delle vette nella creazione di strutture ad arco. Da questi esempî indiani alcune teorie fanno derivare l'invenzione e la diffusione del tipo di a. detto "a ferro di cavallo", ma altri adducono l'esempio etrusco della Tomba del Granduca presso Chiusi.

Circa l'origine degli altri tipi di a. per l'a. rialzato su piedritti, tanto usato dall'arte bizantina, si possono ricordare tratti severiani dell'acquedotto Claudio a Roma; per l'origine dell'a. a sesto acuto, si ammette di regola una origine siriaca, fondata sul caso controverso della chiesa giustinianea di Kash ibn Wardan, se ne segue lo sviluppo, sia pure ideale, della progressiva separazione dei due centri, dapprima ad un sesto dell'apertura dell'arco (Hamman as-Serakh), poi ad un quinto (Mshatta) come più tardi nelle chiese gotiche. L'origine dai profili delle coperture nuragiche e dagli pseudoarchi proposta dal Rivoira non è sostenibile per mancanza di continuità e per diversità nel carattere costruttivo. Dell'a. ribassato fa già largo uso l'architettura romana per una lieve flessione della piattabanda, ma ne esistono anche esempî isolati come l'a. di Caligola a Pompei.

Nel mondo antico occidentale troviamo l'a. presso gli Etruschi ed in Acarnania; e in Etruria e a Roma l'a. ebbe uno sviluppo e un'importanza tutt'affatto particolari. Anzi è appunto l'a. che insieme alla vòlta ha conferito all'architettura romana il suo principale carattere di originalità. Così che naturalmente è sorta la questione: da chi e come venne ai Romani l'idea dell'arco. Mentre le architetture dell'architrave vedono nell'aumento di spazio da superare un grave ostacolo materiale ed architettonico, poiché si perde l'armonia dei rapporti fra vuoto e pieno, l'architettura dell'a. si fa sempre più ardita nella conquista degli spazî.

La forma più frequente degli a. romani è quella a tutto sesto; l'a. ribassato è usato nelle tipiche finestre termali e negli a. di scarico; molto usata è anche la piattabanda.

L'origine dell'a. a tutto sesto, qualunque sia stata, non incide sull'originalità e la vastità delle applicazioni. La civiltà preellenica ed ellenica conobbe soltanto il pseudo-a. (Micene, Tirinto) e così la più antica civiltà etrusca, dove però l'a. della Tomba Campana a Veio mostra una struttura a conci progressivamente avanzanti, ma con quello terminale a cuneo, preludio alle più evolute espansioni della porta ad a. di Volterra (sec. IV a. C.), di quella di Giove a Faleri (243 a. C.) e di quella Marzia di Perugia, assai più tarda.

Roma conobbe dapprima pseudoarchi con uno svolgimento parallelo a quello etrusco, il che è attestato dalle pseudo-cupole delle cisterne del Palatino e del Tullianum; poi si dedicò a perfezionare, sotto l'incitamento della cultura etrusca, la struttura dell'a. in conci di pietra. Vòlte a botte come serie successive di a. furono impiegate nella Cloaca Massima nel tratto più antico di copertura rinvenuto nel Foro di Nerva, poi nella triplice armilla dello sbocco al Tevere, o nello sbocco dell'acqua Mariana sotto l'Aventino; impiego di a. si ebbe già nella costruzione dell'acquedotto di Appio Claudio (312) e nel ponte Emilio (142 a. C.) nelle bocche per baliste nel recinto delle mura dette Serviane, ecc.

L'incremento dell'a. fu agevolato da due fatti tecnici, e cioè l'adozione del cemento come materia legante dei conci, che in tal modo rende monolitico il complesso escludendo la semplice unione per contrasto, e la progressiva diminuzione dei singoli elementi componenti la struttura fino alla adozione del mattone.

Quando il materiale è la pietra da taglio, la struttura dell'a. è generalmente armonizzata con quella dei muri. A. estradossati troviamo nel teatro di Marcello, nell'anfiteatro di Verona, nel ponte di Augusto sulla Marecchia a Rimini, in quello di Narni sul Nera, anch'esso di Augusto, con arcata che raggiunse arditamente m 34 di luce, forse la maggiore toccata dai Romani.

Con l'a. a conci pentagoni si crea il collegamento con la parete: l'a. però è spesso di materiale più resistente, come nella superba muraglia che cinge il Foro d'Augusto e nella porta del templum sacrae Urbis, motivi questi che ritroveremo nella Rinascenza. Specialmente quando l'a. ha immediatamente al disopra l'orizzontale delle cornici, si preferisce far giungere i conci pentagoni fino a tale linea, per lo meno nel gruppo di centro, anziché costruire prima l'a. e poi una soprastante muratura di conci ridotti a dimensioni meschine: si ha cura però di tagliare i conci dell'a. in modo da dare l'impressione di un a. estradossato, così come è fatto nell'a. di Druso a Roma, nell'a. di Caracalla in Tebessa, e nel Colosseo; criterî similari furon seguiti negli a. di Augusto in Rimini e in quello dello stesso Augusto in Aosta.

Nelle costruzioni con portici (Tabularium, Basilica Giulia, teatro di Marcello, Colosseo), ed anche negli a. trionfali (v. sotto), le arcate s'impostano direttamente sui pilastri, la trabeazione che inquadra l'arcata è sorretta da metà o da tre quarti di colonna, la quale, nelle facciate a paramento piano (Tabularium, Basilica Giulia, a. di trionfo), rappresenta un ricordo dell'arte greca ed è posta a solo scopo ornamentale, ma nelle strutture in curva (teatro di Marcello, Colosseo) è anche un logico allargamento esterno della base del pilastro in perfetta armonia con lo spostamento del centro delle pressioni dovuto alle spinte non complanari degli a., distaccati l'uno dall'altro dalla larghezza del pilastro. In alcuni a. di trionfo e nella porta di Adriano ad Adalia le cornici divengono aggettanti, la colonna è intera e distaccata dal paramento del muro.

L'a. viene anche direttamente impostato sulla colonna: esempî ne abbiamo nella Casa del Meleagro e in quella delle Nozze d'argento a Pompei, nel Foro e nella via porticata a Leptis Magna, e poi nel peristilio della corte d'onore del palazzo di Diocleziano a Spalato dove sette archivolti poggiano direttamente sui capitelli, corinzî, delle colonne. Prelude al tipo adottato nelle basiliche cristiane e nelle chiese bizantine; del resto, nei secoli IV e V, i rilievi dei sarcofaghi cristiani ci dànno spesso esempî di arcate in serie impostate direttamente sulle colonne: bellissimo quello ravennate detto di S. Francesco.

Arcate sostenute dalle colonne con l'intermediario di un architrave troviamo nel portico circolare della chiesa di S. Costanza in Roma.

Il motivo architettonico dell'a. che protegge la piattabanda, molto imitato nel Rinascimento, lo troviamo nel teatro di Orange, in quello di Ferento, nel Foro di Augusto, nella accennata porta del templum sacrae Urbis, nella Porta Aurea di Spalato.

Gli a. di mattoni sono spesso fatti con laterizî bipedali, ma si hanno anche esempî di mattoni cuneiformi usati per adottare strati di malta uniformi e di piccolo spessore. Quando si ha bisogno di grandi resistenze, si suole ricorrere a sovrapposizione di a.: si hanno così anelli doppî e tripli come si vedono nel Pantheon e a Treviri.

Talvolta, in analogia a quanto fu accennato per la costruzione dei muri, si distingueva l'opera di paramento in vista da quella interna: nel paramento esterno si ha un vero a. di mattoni, in quello interno un getto di calcestruzzo intramezzato da mattoni bipedali o sesquipedali in modo da ottenere a. di conci monolitici separati da mattoni che stanno lì quasi a guida delle pressioni interne (G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani, Roma, s. d.) e ad evitare il prevalere della sollecitazione di flessione. Altre volte, la pietra da taglio si alterna con i conci di getto. Nelle costruzioni edilizie romane troviamo adottato costantemente l'a. di scarico: nelle case di Ostia si notano piattabande o gruppi di piattabande protette da a. di scarico annegati nella muratura; e così nella basilica di Massenzio. E gli a. di scarico sono anche usati per concentrare azioni in punti determinati; ne abbiamo un esempio notevole nel muro circolare del Pantheon e nella citata basilica di Massenzio. Non è infrequente poi che là dove si trovano architravi alla greca sia mascherata o nascosta la piattabanda, come avviene nel Tabularium, nella Porta Maggiore, nel Foro di Traiano o che le trabeazioni, come nel Pantheon, siano protette da sovrastanti piattabande nascoste nel fregio. Arcate sostenute da mensole troviamo nei balconi delle case di Ostia; arcatelle a tutto sesto, contigue, a serie, sorrette da colonnne poggianti su mensole nel palazzo di Diocleziano in Spalato, sopra la Porta Aurea.

Caduto l'Impero, la costruzione dell'a. comincia a segnare un regresso: nei ponti costruiti dal sec. V all'XI si adotta spesso l'arcata ogivale, ma non a struttura spingente, sibbene con le zone di conci inferiori, e anche con quelle intermedie, per sovrapposizione: ritornano in sostanza le sagome ad ogiva delle thòloi.

A. furono pure impiegati nell'interno delle strutture con funzione di alleggerimento ed il primo esempio finora noto è quello, del tempio di Tiberio, in un tratto del recinto dei Castra Praetoria, e più tardi sovrapposti a piattabande o inseriti nelle strutture principali (Pantheon) per far convergere il peso su piedritti, o annegati nelle strutture delle vòlte per frazionare anche con ricorsi orizzontali il getto del calcestruzzo dando origine al sistema dei cassettoni. Forse neanche l'a. rampante fu ignorato dai costruttori romani come sembra sia riuscito a stabilire il Giovannoni (terme di Diocleziano, basilica massenziana). Del resto esso, logicamente, non è altro che la riduzione alla sagoma esterna di un contrafforte inclinato, un alleggerimento per mezzo di un vuoto.

Particolare fortuna ebbe il motivo dell'a. che spezza la continuità dell'architrave, cui fu attribuito nella tarda antichità un particolare significato simbolico nell'architettura rappresentativa. Esso ci è noto non solo per documenti come il fodero della spada nel Tiberio di Magonza o il dipinto del Museo Nazionale di Napoli da Ercolano, ma anche per testimonianze dirette, come il tempio di Termesso in Pisidia, la porta del mercato a Mileto, ecc. Fu forma pure abbastanza diffusa in Asia Minore, che attraverso l'esempio del palazzo di Diocleziano a Spalato diede origine alle architetture simboliche raffigurate sul Missorium di Teodosio e nelle argenterie orientali del sec. V-VI d. C.

Bibl.: A. Choisy, L'art de bâtir chez les Romains, Parigi 1873; id., Histoire de l'Architecture, Parigi 1899; G. Gelati, Nozioni pratiche ed artistiche di Architettura, Torino 1899; C. Guidi, Lezioni di scienza delle costruzioni, II e IV, Torino 1924; O. Marucchi, Eléments d'archéologie chrétienne, III, Parigi 1909; O. Marucchi, Man. d'archeologia cristiana, Roma 1923; J. Durm, Die Baukunst der Römer, in Handb. der Archit., II, parte 2a; Perrot - Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, Parigi 1882-1903; A. Layard, The Monuments of Niniveh, Londra 1849, II; M. H. Breasted, A History of Egypt, Oxford 1905, passim; J. Durm, Die Baukunst der Etrusker, Stoccarda 1905; F. Benoit, L'architecture. Antiquité, Parigi 1911, p. 423 e ss.; G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani, Roma, s. d.; S. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921.

(G. Nicolosi - G. Matthiae)

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