ARMENI

Enciclopedia Italiana (1929)

ARMENI

Giorgio ROSI
Renato BIASUTTI
Ubaldo Faldati
*
Géza DE FRANCOVICH
Leonzio DAYIAN

. Popolazione del ceppo indo-europeo. Le differenze di lingua, di religione, di costumi che distinguono gli Armeni dalle altre popolazioni del paese cui hanno dato il loro nome (v. armenia), appaiono assai meno accentuate quando si consideri l'intima costituzione antropologica del gruppo, quale è indicata dai caratteri fisici.

Le correnti culturali e gli stessi spostamenti di popoli hanno operato su di un fondo raziale in buona parte comune, che è probabilmente quello di una popolazione preesistente anche alla prima penetrazione degl'indo-europei sull'altipiano. Un tipo fondamentale è presente, in proporzioni varie, in quasi tutte le genti di esso. Ma gli Armeni sembrano presentarlo in modo più omogeneo e costante, e ciò viene ad attestare la notevole efficacia protettiva della loro regione storica e il loro, relativo, indigenato.

Le osservazioni antropologiche, fatte in massima parte nell'Armenia russa, dànno i seguenti caratteri medî (per i maschi adulti): statura medio-alta (946 individui: m. 1,671, secondo Ivanowski in Giuffrida-Ruggeri, 1917), testa larga (indice cefalico di 826 individui, secondo Ivanowski: 84,8), faccia lunga (indice facciale totale di 371 individui, secondo Kossowitch: 90,8), naso stretto e prominente, spesso aquilino (indice nasale di 724 individui secondo Ivanowski: 62,5). Per questo ultimo carattere gli Armeni si collocano tra le genti più leptorrine dell'Asia, inferiori di poco ai tipi più fini del Caucaso. La pelle è bianca, i capelli e gli occhi scuri o neri (capelli biondi o anche solo occhi chiari sono rarissimi), la pelosità molto abbondante. La corporatura è piuttosto massiccia, con gambe relativamente corte (indice schelico di 105 individui: 54,1 secondo Twarjanovič), e con una certa tendenza alla pinguedine. Gli Armeni del territorio turco presentano secondo il Luschan (Journ. of the Anthr. Institute, 1911) una brachicefalia ancora più accentuata. Il cranio armeno è corto e alto (brachi-ipsicefalo), con occipite piatto, orbite alte e inclinate in basso verso l'esterno, forti ossa nasali, mandibola robusta a ramo ascendente alto.

Questo tipo, che da F. von Luschan ricevette il nome di armenoide e ha, nella letteratura antropologica, molti sinonimi (hittita o assiroide, per richiamo al tipo umano rappresentato dall'arte di queste aree archeologiche, alarodico, asiatico-occidentale), è ben riconoscibile in molte altre popolazioni dell'Asia anteriore: Turchi, gran parte dei Curdi, Drusi, Maroniti. Esso è senza dubbio un parente prossimo del tipo brachicefalico dinarico dell'Europa, e la sua antichità locale è confermata dall'essere stato rinvenuto nelle tombe preistoriche della Mesopotamia.

Non tutti gli Armeni sono tuttavia degli armenoidi: una certa porzione di essi sembra presentare il tipo bruno mediterraneo, specialmente nella variante a faccia ben profilata (semitica del Luschan, orientale del Fischer). E la stessa brachicefalia prevalente tra essi sembra dovuta in parte a una specie di deformazione artificiale, ma involontaria, del cranio, come conseguenza dell'uso di uno speciale tipo di culla (che è lo stesso dal Caucaso alla Siria), sulla quale il bambino è tenuto solidamente fasciato. Ne segue una certa compressione dell'occipite, che in qualche misura viene ad esagerare il carattere del tipo armenoide. Oltre al componente mediterraneo, non pare che tra gli Armeni altri tipi assumano importanza: caratteristica è l'assenza, o quasi, di elementi biondi, i quali pure figurano in alcuni gruppi curdi e nel Caucaso.

Caratteri conservativi si notano anche nella cultura. Non molto diverse da quelle dei vicini sono però le forme dell'esistenza materiale. La casa di pietra e fango, a terrazza, con i muri che giungono all'altezza di un uomo, talora semisotterranea, molto spesso provvista di un portico anteriore, è tipica di tutta l'Asia Minore interna: nella porzione orientale dell'Armenia sopra le basse costruzioni sono erette piattaforme pensili di legno ove, d'estate, si pernotta all'aperto. In molti villaggi del S. l'unico vano che (con qualche partizione interna) costituisce la casa è costruito a vòlta, onde le basse pareti appaiono, dall'esterno, terminate da un monticolo. Nei centri maggiori si hanno naturalmente molte case di tipo più complesso e meglio costruite.

Il costume nazionale è costituito da vesti assai pesanti: gli uomini portano in generale i larghi pantaloni e le corte giacche comuni nell'Oriente. Le donne sono, o erano, velate o tengono almeno abitualmente coperta la parte inferiore del viso.

Nella costituzione famigliare gli Armeni hanno conservato intatto il tipo della grande famiglia patriarcale. I figli ammogliati rimangono a far parte dell'azienda paterna, sovente nella stessa casa, e l'autorità del vecchio è assoluta e indiscussa. La famiglia conta perciò assai spesso un numero ragguardevole di componenti, anche per la grande prolificità della stirpe. Le donne sono assai rispettate, e la moglie del capo di casa, alla morte di questo, precede il figlio maggiore nell'ereditare il patrimonio.

L'intelligenza e la laboriosità degli Armeni sono ben note, come pure l'indole loro pacifica, che è da porsi in relazione con il loro attaccamento alla terra e al lavoro agricolo. Gli Armeni si distinguono dovunque anche come abili artigiani e commercianti, ed in questa loro ultima qualità si sono soprattutto diffusi in tutto l'Oriente e in Europa, con una forma di intercalazione simbiotica fra le altre genti che ha molte somiglianze con quella degli Ebrei. La dispersione delle colonie armene, avvenuta più volte anche per forzati trapianti imposti dal governo ottomano, e attiva fin dai secoli XIV-XV, copre un vasto spazio. Nel Caucaso esse risiedono, con forti comunità agricole, anche oltre il Kurà; nella Persia sono notevoli gl'insediamenti della conca di Urmia, di Iṣfahān e Ṭeherān. In tutte le città dell'Oriente, sino all'India, gli Armeni formavano un importante nucleo commerciante e culturale, e in molte essi avevano in mano tutto il commercio: a Costantinopoli, sino a tempo recente, erano più di 100.000. Le colonie europee ebbero pure un periodo di grande diffusione (nella Galizia fin dal sec. XIV), che le portò anche a Venezia, Milano, Genova, Livorno, Pisa, Roma, Napoli. La maggior parte di esse sono state poco a poco assorbite.

Attualmente il numero totale degli Armeni (in passato talora calcolato, con probabile esagerazione, sino a 4 milioni) deve superare di poco i 2 milioni. Il nucleo essenziale è dato dalla Transcaucasia (1.400.000) al quale si devono aggiungere i residui della Turchia (100.000?), le colonie della Persia (50.000), i forti gruppi emigrati durante la guerra mondiale nella Siria (200.000?) e nell'‛Irāq (70.000), un numero difficile a precisarsi di residenti in varî paesi d'Europa e dell'Asia (forse 200.000) e la giovane colonia degli Stati Uniti d'America (100.000).

Bibl.: Antropologia: J. K. Twarjanovič, in Arch. für Anthropologie, Brunswick 1899, p. 178; V. Giuffrida-Ruggeri, Contributo all'antropologia fisica delle regioni dinariche e danubiane e dell'Asia anteriore, in Arch. per l'Antrop., 1908; id., Prime linee di un'antropologia sistematica dell'Asia, ibid. 1917 (con bibliografia); N. Kossowitch, in Inst. Internat. d'Anthrop., sessione di Amsterdam, Parigi 1928. Etnografia: L. F. Hoffmann, Moeurs, usages et coutumes des populations du vilayet de Van, in Le Globe, 1891-92; P. Ter-Mowsesjanz, Das armenische Bauernhaus, in Mitt. der anthropol. Gesellschaft, XX, 1892; E. Chantre, Les Arméniens, in Bull. de la Soc. d'Anthropol., 1897; scritti di E. Haigazn, E. Lalayantz e R. Basset, in Revue des traditions populaires, 1895 e 1896; N. Dolens, Ce qu'on voit en Arménie, in Tour du Monde, 1906-1907.

Lingua.

La lingua armena è una lingua indo-europea del gruppo satəm (v. indoeuropei). Essa era parlata sin dal sec. VI prima dell'era volgare, dalle popolazioni stabilite nella zona montuosa che si estende fra la Mesopotamia, le vallate meridionali del Caucaso e la costa sud-orientale del Mar Nero.

Gli Armeni si chiamano nel loro idioma Hay, plurale Haykh, dal nome dell'eroe eponimo della razza, Hayk conquistatore dell'Armenia, ma nelle iscrizioni degli Achemenidi essi sono già chiamati Armina-Arminya, e dagli scrittori greci 'Αρμένιοι, e Armeni è il nome usato generalmente per designarli. Si tratterebbe, probabilmente, del nome (di origine straniera) di una parte della nazione, esteso poi a tutta la nazione.

L'armeno classico (grabar, cioè "lingua scritta" da grel "scrivere") non ha dialetti, e non offre documenti linguistici anteriori al secolo V d. C., epoca nella quale, secondo gli storici armeni, ha inizio la letteratura nazionale con la traduzione della Sacra Scrittura. Prima di quest'epoca non esiste alcun documento che serva a gettar luce sulle origini di questa lingua e sull'influenza che su di essa esercitò l'idioma parlato dalle popolazioni indigene, che abitavano il paese poi occupato dagli Armeni.

Le vicende politiche hanno avuto sull'armeno un'influenza grandissima. Il contatto con le popolazioni soggiogate e poi con quelle dominanti e con le nazioni vicine ha introdotto nella lingua armena (e specialmente nel suo lessico) un'enorme quantità di elementi stranieri. Mentre è logico supporre, come rileva il Meillet, che un gran numero delle parole armene, la cui etimologia non può essere spiegata, rappresenti un materiale linguistico preso a prestito dalle popolazioni indigene, non può recare sorpresa il fatto che nel vocabolario armeno si trovi un così gran numero di parole iraniche. Per più di mille anni (sino al 640 d. C.), l'Armenia fu sottoposta al dominio dei Persiani e dei Parti, e il suo vocabolario si arricchì di parole iraniche a tal segno, che l'armeno venne per qualche tempo ritenuto come un idioma iranico. Ma l'elemento iranico non è entrato a far parte soltanto del vocabolario: per esempio, la desinenza -akan viene talora unita a parole schiettamente armene. Se non che l'influenza, sia pure preponderante, dell'elemento iranico non può bastare, indubbiamente, a risolvere tutte le incognite dell'armeno. Certe analogie tra il sistema fonetico dell'armeno e quello delle lingue caucasiche e il fatto che, come queste, l'armeno non ha distinzione di generi grammaticali (che esso aveva perduto gran tempo prima del sec. V d. C.), hanno determinato una corrente d'ipotesi e d'indagini, dirette a cercare nei rafronti fra queste lingue e l'armeno la soluzione di queste incognite.

Notevole è pure il numero delle parole siriache e greche entrate nel vocabolario armeno, e la cosa è facilmente spiegabile, quando si pensi che la letteratura armena s'inizia con le versioni di testi dal siriaco e dal greco (prima traduzione dal siriaco del Nuovo Testamento, delle opere di sant'Efrem; dal greco, del Χρονικόν di Eusebio, ecc.).

Fra le numerose caratteristiche dell'armeno, ci limitiamo a rilevare: l'uso dei suffissi personali (s, d, n, da es "io", du "tu" na "egli"; sa "questo", da "codesto", na "quello"), che vengono aggiunti ai sostantivi e ai pronomi, assumendo, secondo i casi, valore di pronomi personali, possessivi o dimostrativi (hayr-s "io padre", oppure "mio padre" o "questo padre"; hayr-d "tu padre", oppure "tuo padre" o "codesto padre", ecc.; im "il mio", im-s "questo mio", im-d "codesto mio", ecc.); la ripetizione dell'aggettivo per esprimere il superlativo assoluto (mec "grande", mec-a-mec "grandissimo", nor "nuovo", nor-a-nor "nuovissimo"); l'uso dell'aumento nell'aoristo di alcuni verbi (tesanel "vedere", e-tes "vide"; berel "portare", e-ber "portò"; gtanel "trovare", e-git "trovò").

Come lingua della Chiesa e dei dotti il grabar è rimasto e rimane in uso sino ai dì nostri. Si ricordi che un grande classicista, il padre Bagratuni, mechitarista di Venezia, autore di numerose opere scritte nel più puro e solenne idioma del secolo d'oro, morì nella seconda metà del sec. XIX (1866). Come lingua parlata dal popolo, il grabar era caduto in desuetudine già prima del sec. XI, epoca alla quale risalgono numerosi testi di un dialetto medioarmeno (armeno della Cilicia).

Nell'armeno moderno (ašxarhik o ašxarhabar, da ašxarh "mondo", e perciò: lingua mondana, secolare, cioè volgare), che ha inizio all'incirca nel sec. XV (sebbene elementi e forme di armeno volgare siano rintracciabili anche in autori dell'epoca classica) si distinguono due dialetti principali: armeno orientale (Armenia russa) e armeno occidentale (Asia minore e Costantinopoli; è anche il dialetto parlato prevalentemente dagli Armeni della diaspora nei paesi europei). V'è fra questi dialetti una caratteristica Lautverschiebung, per la quale vengono scambiate, nella pronunzia occidentale, le labiali, gutturali e dentali sorde (p, k, t) con le corrispondenti sonore (b, g, d), e le sonore con le sorde. Così ad esempio, la parola grabar, trascritta assegnando alle lettere armene il valore fonetico corrispondente alla pronunzia dell'armeno classico, viene pronunziata, secondo la pronunzia di Costantinopoli, krapar, mutando la gutturale sonora (g) nella gutturale sorda (k) e la labiale sonora (b) nella corrispondente sorda (p). Del pari Bazmavēp (il titolo della rivista mensile dei mechitaristi di Venezia) viene pronunziato, secondo la pronunzia occidentale, Pazmavēb, e così viene appunto trascritto (fatta eccezione per l'ē che non viene distinita dall'e) dai mechitaristi. Il dialetto orientale si avvicina maggiormente all'armeno classico. È significativo e importante, ad es., il fatto che nel dialetto parlato nella zona del lago di Vān, sia conservato il prefisso z innanzi all'accusativo, come nell'uso classico.

Fra gli studiosi europei di lingua armena, non dimenticheremo lord Byron, che dimorò per qualche tempo a San Lazzaro ed ebhe per maestro il padre Pasquale Avcherian (Yaruthiwn Awgerean), col quale collaborò nella compilazione di una grammatica armeno-inglese. Il grande poeta rimase ammirato della ricchezza di questa lingua e dichiarò che le fatiche spese per impararla sono ampiamente compensate dai risultati.

La lingua e la letteratura armena offrono indubbiamente un vasto campo d'indagini ai filologi, agli studiosi di letterature cristiane orientali e ai teologi. Molte volte le antiche versioni armene, in mancanza, per es., degli originali greci, riescono addirittura preziose, tanto più se si tien conto della loro fedeltà, talora servile. L'adattabilità dell'armeno ai caratteri peculiari e all'indole delle lingue dei testi originali è veramente singolarissima, e quando la versione armena, invece di essere l'umile e pedestre opera di qualche monaco anonimo, è compiuta da un uomo di gusto e di genio, la versione stessa è opera d'arte, non di rado insigne: basti ricordare soltanto le stupende versioni delle Oraisons funèbres del Bossuet e dei Sepolcri del Foscolo, compiute dal padre Arsenio Bagratuni. Sotto questo aspetto, la lingua e la letteratura armena sono davvero una lingua e una letteratura di traduzioni, sebbene non manchino in armeno opere originali, anche mirabili.

Alfabeto.

Le prime due righe dànno le maiuscole e le minuscole dell'alfabeto armeno; la terza riga la trascrizione qui usata, che sostanzialmente corrisponde a quelle del Hübschmann e del Meillet (sotto, tra parentesi, le principali varianti); la quarta la pronunzia antica, abbastanza fedelmente conservata nei parlari orientali; la quinta la pronunzia occidentale, nei casi in cui differisce dall'orientale.

L'alfabeto armeno fu inventato al principio del sec. V dal beato Maštoc̣ (o Mesrop) che, secondo le fonti indigene, si fondò su un precedente tentativo del vescovo siriaco Daniele e si valse dell'opera di uno scriba greco di nome Rufino. Sul modello da cui deriva sono state avanzate varie ipotesi; ma sia quella di una schietta origine greca sostenuta dal Gardthausen, sia quella di una derivazione dalla scrittura pahlavica avanzata dal Marquart, non sembrano sufficientemente fondate. Recentemente il Junker ha sostenuto che tanto l'alfabeto armeno quanto l'alfabeto georgiano ad esso affine sono stati creati sulla base di un alfabeto iranico settentrionale completato con l'aggiunta di segni tolti dall'alfabeto avestico.

Letteratura.

Di una letteratura armena pre-cristiana non rimangono, oltre il ricordo, se non pochissimi frammenti serbati da Mosè Corenese nella sua Storia d'Armenia. Si tratta di scarse reliquie di canti in onore di dei e di eroi; ad es. il cap. 31 del 1° libro di quest'opera di Mosè Corenese contiene un brevissimo frammento di un canto che celebra l'eroe Vahagn, nato dalla fiamma, dal capo aureolato di capelli di fiamma (cfr. il paragrafo musica).

La letteratura armena che possediamo è, dunque, esclusivamente cristiana. Essa comincia propriamente quando Mesrop dà all'Armenia il suo alfabeto nazionale (secolo V). Le opere letterarie, la cui composizione si vuol far risalire ad un'epoca anteriore a quella dell'invenzione dell'alfabeto armeno, come i Discorsi di san Gregorio l'Illuminatore e la Storia attribuita ad Agatangelo (v.), segretario del re Tiridate (Trdat), vennero compilate, in realtà più tardi.

La Storia di Agatangelo, conservata in armeno e nelle versioni greca ed araba, descrive la conversione di Tiridate e l'introduzione del cristianesimo in Armenia per opera di san Gregorio l'Illuminatore (lusavuorič). La redazione del testo armeno non è, assai verosimilmente, più antica della seconda metà del sec. V.

L'invenzione dell'alfabeto nazionale permise agli Armeni di affrancarsi, anzitutto, dalle condizioni di enorme inferiorità e dipendenza nelle quali si trovavano, ad es., di fronte alla letteratura religiosa greca e a quella siriaca, e di iniziare una letteratura religiosa (traduzioni di testi sacri e opere originali) loro propria. Questa nascente letteratura ebbe il suo maggiore impulso dallo stesso Mesrop e dal katholikos Sahak. Si pensò anzitutto a tradurre nell'idioma nazionale i testi sacri. Incitati da Mesrop e da Sahak, numerosi giovani ecclesiastici si recarono a Edessa, ad Atene, a Costantinopoli, ad Alessandria, a Cesarea, ad Antiochia, allo scopo di studiare profondamente il greco e il siriaco e di acquistare e di tradurre codici redatti in queste lingue. Sorse così la scuola famosa dei "traduttori" o "santi traduttori" (thargmaničkh o surb thargmaničkh), sotto gli auspici di quello stesso re Vṙamšapuh, che aveva intelligentemente incoraggiato e protetto Mesrop e che è ricordato come promotore dell'istruzione pubblica in Armenia. Gli storici nazionali sogliono distinguere in due gruppi gli autori di questa scuola: appartengono al primo, fra gli altri, l'eresiologo Eznik e Koriun, biografo di Mesrop; al secondo il filosofo Davide l'invitto (Anyałth), il panegirista Giovanni Mandacunense, gli storici Eliseo, Mosè Corenese, Lazzaro di Pharp, ecc.

È facile intendere che l'attività di Sahak, di Mesrop e dei traduttori della loro scuola si rivolse in primo luogo alla versione della Bibbia e dei Vangeli. Il testo siriaco della Pešīttā serve di base alla versione più antica del testo biblico in armeno, versione iniziata con la traduzione del libro dei Proverbî e compiuta già, sembra, nella prima decade del sec. V. Oltre alla Bibbia e al Nuovo Testamento (la versione dei Vangeli è considerata come uno dei più insigni modelli di prosa classica) vennero tradotte dal siriaco e dal greco numerose opere di letteratura non soltanto religiosa e teologica, ma anche di filosofia e di storia. Ciò che rimane di queste versioni è spesso prezioso; grazie alle versioni armene è serbato, infatti, all'indagine degli studiosi un notevole tesoro di opere, i cui originali sono andati perduti. Delle versioni dal siriaco ricordiamo quelle della Storia ecclesiastica di Eusebio, delle Omelie di Afraate, delle opere del massimo dottore siro, Efrem. Tra le versioni dal greco ricordiamo: quelle di alcuni scritti di Filone (Libro delle questioni e delle soluzioni [Ζητήματα καὶ λύσεις], commentarî al Genesi e all'Esodo, trattati sulla Provvidenza, ecc.), dei quali sono perduti gli originali; delle Epistole e degli Atti di Ignazio di Antiochia; delle opere del grande eresiologo Ireneo vescovo di Lione (Adversus haereses e Demonstratio apostolicae praedicationis: di quest'ultima, smarrito il testo originale, ci era stato serbato da Eusebio soltanto il titolo e il ricordo; e la versione armena, recentemente scoperta e pubblicata, ne ha rivelato l'importanza storica e dottrinale); dell'Hexaemeron di Basilio di Cesarea, delle omelie di Giovanni Crisostomo. Il filosofo Davide, soprannominato per la sua abilità dialettica "l'invitto", tradusse varie opere di Aristotele e l'Introduzione di Porfirio.

È evidente che la formazione di una liturgia nazionale dovesse apparire come una necessità indiscutibile. Formata su esempî greci, la liturgia nazionale sostituì quella di rito siro, vigente sino agli inizî del sec. V. Sono anche di questo secolo le parti più rilevanti del rituale e del breviario, la cui redazione più completa è opera di età posteriori. Il rituale, ad es., ricevette la sua forma definitiva nel sec. IX per opera del katholikos Maštoc̣. Vennero inoltre tradotte dal greco le liturgie di Basilio e del Crisostomo, e vennero forse redatti originariamente in armeno alcuni formularî eucaristici, di uno dei quali vien fatta risalire la paternità allo stesso katholikos Sahak, se pur non si tratta di una versione da un antico testo greco.

Questo secolo, che registra una così intensa attività nelle traduzioni e nelle compilazioni di carattere religioso, è pure notevole per la produzione di varie opere storiche, alcune delle quali rappresentano veri capolavori di classica eleganza. Gli storici nazionali non esitano a salutarlo come il secolo d'oro (oskedar) delle lettere armene. Ricordiamo Fausto di Bisanzio, autore di una storia dell'Armenia negli anni 344-392, continuata, per il periodo che giunge sino al 485, dall'altro storico Lazzaro di Pharp. L'opera di Fausto, redatta originariamente, sembra, in greco, è ricordata da Procopio che cita qualche frammento del testo greco. Lazzaro di Pharp rende omaggio, nella sua storia, alla buona fede e all'erudizione di Fausto.

La Storia della conversione degli Armeni per opera di san Gregorio l'Illuminatore è attribuita al segretario del re Tiridate, Agatangelo, che sarebbe stato contemporaneo dell'Illuminatore. Si tratta in realtà di una compilazione della fine del sec. V, della quale sono state conservate tre redazioni: in greco, in armeno e in arabo. Quest'ultima è, probabilmente, la più antica, e il testo armeno, tradotto in greco nella seconda metà del sec. VI, è forse posteriore all'opera di Koriun, discepolo e biografo di Mesrop. L'opera di Koriun, traduttore attivissimo, consacrato vescovo dei Georgiani dallo stesso katholikos Sahak, è di singolarissima importanza per la storia letteraria del secolo d'oro.

La storia della provincia di Tarōn del vescovo siriano Zenobio di Glak è assai verisimilmente una tardiva traduzione armena (sec. VI) di una biografia dell'Illuminatore, redatta originariamente in siriaco. Il titolo che recano alcuni manoscritti (Storia di Tarōn tradotta [zor thargmanec] da Zenobio siriano) non prova che l'autore della traduzione sia lo stesso Zenobio di Glak.

Eliseo vardapet ("dottore"; si vuole da taluni che gli fosse stata conferita la dignità episcopale), partecipò insieme con Eznik al concilio di Aštišat (449). Segretario di Vardan, ebbe occasione di assistere alla lotta sostenuta dal celebrato eroe nazionale armeno contro i Sāsānidi in difesa della fede cristiana. Di questa guerra egli scrisse la storia, che è un modello mirabile di vivacità e, nello stesso tempo, di classica dignità di stile; opera tutta pervasa da un senso profondo di fede, ravvivata da descrizioni piene di poetica bellezza. I personaggi e in ispecie la figura del generale Vardan, rivivono in pagine che possono rivaleggiare, talora, coi modelli più insigni della letteratura storica greca. Eliseo è ricordato, inoltre, come autore di un discorso di esortazione ai monaci e di alcuni altri scritti di carattere esclusivamente religioso (commentarî al Genesi, ai libri di Giosuè e dei Giudici, al Padre nostro).

Eznik di Kolp, discepolo e collaboratore di Sahak, ricordato fra i traduttori del primo gruppo, scrisse in questo secolo la classica Distruzione (cioè Confutazione) delle sette (Ełc ałandoc̣), nella quale discute e combatte, in quattro libri, le teorie e le credenze del paganesimo, del mazdaismo, della filosofia greca e del manicheismo. L'opera dell'eresiologo di Kołp ę fra le pił celebrate nella letteratura teologica armena, della quale essa rappresenta, in un certo senso, l'inizio, per l'eleganza della dialettica e per la purezza dello stile. Viene attribuita a Eznik, fra l'altro, una serie di precetti morali, che sono stati pubblicati insieme con la sua opera maggiore.

La Storia degli Armeni di Mosè Corenese narra i fatti della storia nazionale, dalle origini del popolo armeno sino alla fine della prima metà del sec. V (morte di Sahak e di Mesrop). È l'unica fonte in lingua armena per la storia nazionale prima della conversione dell'Armenia al cristianesimo. Mosè Corenese utilizzò, per il periodo più remoto della storia da lui narrata, l'opera del vescovo siro Mār Abhās Kathina (sec. IV), autore di un volume di storia armena. Discepolo di Sahak e di Mesrop, traduttore infaticabile (egli stesso narra che benché vecchio e malaticcio traduceva incessanteruente [anparap]), Mosè Corenese è inoltre ricordato come autore di un trattato di retorica (Pitoyic̣ girkh), scritto per ammaestramento del suo discepolo Teodoro, e compilato precisamente secondo il modello dell'opera di Aftonio (Progymnasmato); di un trattato di geografia e di varie omelie (notevole, fra queste, il panegirico in onore della martire armena santa Ripsime (Hṙiphsimē). La storia del Corenese è stata criticata assai severamente e dichiarata priva d'ogni valore storico. Tale giudizio va notevolmente modificato, se si pensi al valore documentario e letterario che hanno i frammenti di canti popolari, le pagine di antiche opere storiche perdute, le leggende che ha serbate, nella sua storia, il Corenese. Si crede da taluni che la storia del Corenese sia opera assai più recente di quello che afferma la tradizione e che sia stata composta nel sec. VIII o almeno nel VII. Tra gli scrittori del sec. V non dovrà esser dimenticato, infine, Giovanni Mandakuni (patriarca dal 478 al 500), autore di numerose omelie e di alcune preghiere, delle quali qualcuna, mirabile per fervore mistico di fede e per elevatezza di stile, è stata accolta nel breviario della chiesa armena.

Il sec. VI non ha, nella storia letteraria d'Armenia, alcuna importanza. Oltre al katholikos Mosè II di Elivard, alla cui notevole perizia in matematica ed astronomia si deve la riforma del calendario armeno, basterà accennare al vescovo Abramo Mamikonean, autore di una Storia del concilio ecumenico di Efeso (431) e al "grammatico e poeta" (kherthoł) Pietro vescovo di Siunikh, autore di omelie sulla nascita di Gesù Cristo e sulla Vergine. Degli scrittori del sec. VII ricordiamo il katholikos Komitas, autore di un celebre inno in onore della martire Ripsine e delle sue compagne. Di quest'inno, che fa parte dello Šaraknoc̣ (Innario della chiesa armena), venne pubblicata nel 1843, a San Lazzaro, una bella parafrasi in ottava rima del nostro Luigi Carrer. Giovanni Mamikonean continuò, nella sua Storia di Tarōn, l'opera di Zenobio di Glak; Anania di Širak, valente matematico, soprannominato hamaroł (il calcolatore), compose un trattato di astronomia (žamanakagruthiwn) e una monografia sui pesi e sulle misure; Teodoro Khṙthenawor scrisse una confutazione delle eresie di Giovanni Mayragumeci e alcune omelie; Gregorio Aršaruni dettò, in uno stile elegantissimo, un'esposizione della liturgia armena.

Vennero inoltre tradotti, nei secoli VI e VII, o venne, anzi, continuata la traduzione, già iniziata in parte nel sec. V, di numerosi documenti della letteratura apocrifa biblica e cristiana (Atti di Paolo e Tecla, di Tito, Protovangelo di Giacomo, Testamento dei Patriarchi, Vangelo di Nicodemo, Atti di Pilato, Storia di Baruch, ecc.). La storiografia è rappresentata, nel sec. VII, dall'importante opera del vescovo Sebeo (Sepios episkopos), che compose la storia dell'imperatore Eraclio e delle prime conquiste compiute dagli Arabi nell'Asia Minore, narrando in uno stile vivace ed elegante, studiosamente esemplato sui grandi modelli del secolo d'oro, avvenimenti dei quali egli era stato testimone; e da Mosè Kałankatuac̣i, autore di una Storia degli Albani (Ałuankh), popolazione del Caucaso. Verso la metà del sec. X questa storia venne continuata da un cronista rimasto anonimo.

Nel sec. VIII il katholikos Giovanni IV di Odzun, soprannominato il filosofo (imastasēr), scrisse due discorsi contro gli eretici doceti, in sostegno della teoria ortodossa delle due nature di Cristo, e contro i Pauliciani, una esposizione della liturgia armena e alcuni inni, accolti nello Šaraknoc̣. Egli ebbe, inoltre, il merito di coordinare il diritto canonico vigente nella chiesa armena. Lo stile di questo scrittore è assai elegante e la sua eloquenza è di una purezza veramente attica. Stefano arcivescovo di Siunikh, esperto conoscitore delle lingue greca e latina, che aveva imparate durante la sua lunga permanenza a Costantinopoli e a Roma, è ricordato specialmente come traduttore dal greco (Cirillo d'Alessandria, Pseudo-Dionigi l'Areopagita). Famosi i suoi inni sulla risurrezione. Il prete Leonzio (Łewond erēc̣) compose una storia dei tre primi califfi musulmani e degli avvenimenti svoltisi in Armenia sotto il loro governo.

Nel sec. IX, il katholikos Zaccaria ebbe una importante corrispondenza con Fozio patriarca di Costantinopoli. Egli è ricordato come autore di varie omelie (sull'incarnazione, sul battesimo di Gesù Cristo, ecc.). Šapuh Bagratuni compose una storia dei fatti del suo tempo. Di quest'opera, ora perduta, venne lodata l'esattezza dal katholikos Giovanni, contemporaneo di Šapuh e autore anch'egli di una Storia nazionale, il quale ne biasimò tuttavia lo stile trascurato e inelegante. Il nome del katholikos Maštoc̣ di Ełiward, vissuto in questo secolo, ę rimasto famoso nella storia letteraria d'Armenia: esso dމ il titolo al rituale armeno, che da questo katholikos venne, come s'ę giމ accennato, riordinato e accresciuto. Tra la fine del sec. IX e la prima metމ del sec. X Tommaso Arcruni scrisse una storia della famiglia degli Arcruni, che giunge sino alla morte del principe Gagik (936).

Il sec. X ę specialmente notevole per l'eccellenza di alcuni scrittori. Divengono celebri in quest'epoca, come centri non solo di pietމ religiosa, ma anche di attivitމ letteraria, alcuni monasteri, celeberrimo, fra questi, quello di Narek. Ricordiamo soltanto i pił noti fra questi scrittori. Anania, abate del monastero di Narek, dettn̄ una refutazione degli eretici Tondracensi (Pauliciani), perduta; Cosroe soprannominato il Grande, padre di Gregorio di Narek, consacrato poi vescovo di Anjew, compose un trattato sul breviario e uno sul sacrifizio eucaristico; Stefano Asołik compiln̄ una pregevole storia del mondo sino all'anno 1004; Mesrop, detto erēc̣ (prete), scrisse una biografia del patriarca Nerses il Grande. Ma la gloria più pura non di questo secolo soltanto, bensì di tutta la letteratura armena, è rappresentata da Gregorio di Narek, dottore mistico, teologo e poeta immaginoso e profondo. Ricordiamo il suo Commento al Cantico dei Cantici, opera composta nella sua prima giovinezza, i varî suoi panegirici (sulla santa Croce, sulla B. Vergine, sugli Apostoli, su S. Giacomo Nisibeno), alcuni inni. È però l'opera sua maggiore, la famosa raccolta di elegie mistiche (Ołberguthiwnkh), comunemente chiamata, dal nome del monastero, Narek o Narek ałōthic̣ (Narek delle preghiere), quella che assicura al suo autore una fama singolare non soltanto nella letteratura nazionale armena, ma nella letteratura mondiale. L'effusione di uno spirito infiammato di fede e d'amore divino è manifestata in queste novantacinque altissime prose mistiche con profondità di sentimento, con precisione di linguaggio teologico, con uno stile poetico personalissimo e con dovizia lessicale veramente incomparabili. Il testo è estremamente arduo, ed è perciò prezioso il commento datone in luce (nel 1827) dal dotto editore delle opere di Gregorio di Narek, il teologo mechitarista padre Gabriele Awetikhean. In questo secolo, inoltre, Uxtanēs, vescovo di Edessa, scrisse, per incarico e incitamento dell'abate del monastero di Narek, Anania, una pregevole storia d'Armenia e della scissione religiosa fra Georgiani e Armeni a partire dalla fine del sec. V. Nel sec. XI il vardapet Giovanni Kozeṙn di Tarōn compose un Trattato sul calendario armeno; Gregorio della nobile famiglia Pahlawuni, soprannominato Magistros, poligrafo versatile e fecondo, acquistò notevole fama non solo come traduttore di Platone (Leggi, Timeo, ecc.), ma anche come autore di lettere storiche e filologiche, di una esposizione della grammatica e di varie opere poetiche (un panegirico della santa Croce, un lungo poema sui fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento, alcune lettere); Aristakēs di Lastivert compose una Storia nazionale, nella quale sono narrate la fine della città di Ani e le invasioni dei Selgiuchidi in uno stile poetico ed elegiaco, che ha valso a questo autore il soprannome di "Geremia dell'Armenia"; il katholikos Gregorio II, figlio del Magistros, soprannominato, per la studiosa devozione da lui prestata al culto dei martiri, Vkayasēr (filomartire), tradusse e fece tradurre dal siriaco e dal greco numerosi atti di martiri, fondando una vera scuola di traduttori (Kirakos, Matteo, ecc.), fra i quali merita uno speciale ricordo Paolo di Tarōn, autore anche di una violenta diatriba contro il teologo greco Theopistos. Fra i numerosi eccellenti scrittori del sec. XII viene ricordato, facile princeps, l'illustre katholikos Nersēs IV Claiense, fratello, collaboratore e successore nella dignità patriarcale dell'innografo Gregorio III Pahlawuni. Delle numerosissime opere di questo versatile poligrafo, poeta, teologo, musicista, panegirista, che i suoi connazionali salutano col soprannome di Šnorhali (il Grazioso), ricordiamo varie lettere pastorali, un panegirico degli angeli, un commento ai primi capitoli del Vangelo di S. Matteo, tre lettere apologetiche "a un insolente (žpirh)", che lo aveva diffamato con un libello anonimo. Fra le sue opere poetiche meritano particolare menzione l'elegia sulla presa di Edessa, un poema sull'Antico e il Nuovo Testamento, intitolato, dalle parole con le quali comincia, Yisus Ordi (Gesù figlio), varî inni sacri di calda ispirazione. Assai nota fra le sue prose migliori, specialmente per le numerose edizioni poliglotte che ne hanno dato i mechitaristi di S. Lazzaro, è la sua preghiera, che comincia con le parole hawatov xostovanim (professo con fede). Il vardapet Ignazio dettò, in questo secolo, un commento del Vangelo di S. Luca; Sergio detto Šnorhali, allievo, come Ignazio, di Stefano abate del celebrato monastero Karmir Vankh (Convento rosso), compose un ampio commento delle Epistole cattoliche; Nersēs di Lampron, l'eloquentissimo vescovo di Tarso, scrisse una esposizione della liturgia, alcuni commenti a libri biblici (Proverbî, Sapienza, Cantico dei Cantici, Profeti minori, ecc.), varie omelie, un'orazione sinodale, rimasta famosa. Nersēs di Lampron è ricordato anche come traduttore dal latino e dal siriaco. Samuele erēc̣ (prete) di Ani, discepolo dello storico Giovanni detto Diacono (Sarkawag), compilò una cronistoria che giunge sino all'anno 1179; Matteo di Edessa scrisse una storia, che comincia a narrare gli avvenimenti svoltisi sotto la dinastia dei Bagratuni a partire dall'anno 952 e che venne poi continuata dal suo scolaro Gregorio erēc̣; Gregorio Tłay, successore di Nersēs Šnorhali nella dignità di katholikos, compose, sull'esempio della citata elegia del Grazioso sulla presa di Edessa, un'elegia sulla cattura di Gerusalemme e, inoltre, varie lettere dogmatiche; Mechitar [Mxithar] Goš acquistò fama, più e meglio che come autore di un libro di favole, di un commento al libro di Geremia e di varî scritti di carattere religioso, come compilatore di un Corpus iuris (Datastanagirkh), nel quale gli elementi del diritto canonico e di quello civile sono ricavati con notevole acume giuridico da varie fonti (ius naturale, consuetudini giuridiche delle nazioni cristiane, norme giuridiche desunte dall'Antico e dal Nuovo Testamento, codici bizantini). Numerosi conventi, oltre a quello, già ricordato, detto Karmir Vankh, si resero noti in questo secolo, come centri di cultura letteraria e religiosa (Drazark presso Sīs, Skewṙa, ecc.).

Il sec. XIII segna l'inizio del decadimento delle lettere armene. Ricordiamo Gregorio e Giorgio di Skewṙa, autori il primo di un panegirico sulla Vergine, l'altro di un commento sul Profeta Isaia; il katholikos Costantino I, che fu in corrispondenza con Gregorio IX e con Innocenzo IV; il vardapet Giovanni detto Vanakan (cenobita), storico e commentatore del Libro di Gi0bbe; il vardapet Vardan, detto il Grande, autore di una storia universale che va dalla creazione del mondo sino agli avvenimenti svoltisi pochi anni prima della morte dell'autore (m. 1271), di numerosi commenti a varî libri della Bibbia (Daniele, Salmi, Pentateuco, Cantico dei Cantici), di un elogio di S. Gregorio l'Illuminatore, di un trattatello di grammatica; Kirakos di Gandzag, autore di una storia nazionale (dall'epoca dell'Illuminatore sino ai tempi dell'autore stesso), notevole per numerose notizie sui Mongoli, sui Georgiani e sugli Albani; Malachia Monaco (Abełay), che compose una storia delle guerre e delle incursioni dei Tartari sino al 1272; Mechitar di Ani, che dettò una storia delle antichità armene, persiane, georgiane e arabe, della quale rimangono alcuni frammenti; Giovanni di Erznka, versatile autore di una esposizione della grammatica, di una dissertazione sul moto terrestre, di un panegirico in lode dell'Illuminatore, di un commento al vangelo di S. Matteo, nel quale continua e compie l'opera iniziata, su questo tema, da Nersēs il Grazioso, di varie composizioni poetiche; Vahram detto Rabun (maestro), autore di una cronistoria in versi dei re armeni della Cilicia; Benik, che compose varie preghiere, cercando, non felicemente, di imitare lo stile del grande asceta di Narek. Nel sec. XIV, Stefano Uṙpelean, della casa principesca di Siunikh e arcivescovo di quella regione, compilò una lunga storia della provincia di Siunikh; Hethum, detto lo storico, monaco premostratense, scrisse una storia delle imprese dei Tartari e una breve cronistoria, che comprende il periodo 1076-1307; Mechitar di Ayrivankh compose una cronistoria, che va dalla creazione del mondo sino al 1328, e che termina con una interessante lista di storici armeni, alcuni dei quali sconosciuti (in ultimo l'autore trascrive il suo stesso nome: Io don Mechitar dottore); lo storico Smbat dettò una cronistoria dell'Armenia minore e rielaborò l'opera giuridica di Mechitar Goš; Giovanni di Orotn commentò il Vangelo giovanneo e le Epistole paoline, e compose inoltre alcune omelie; Gregorio di Tathew, suo discepolo, commentò varî libri dell'Antico Testamento e i Vangeli di S. Matteo, S. Luca e S. Giovanni e compose numerosi trattati di teologia, di filosofia, di sacra eloquenza.

Tra gli scrittori del sec. XV ricordiamo Aṙakhel vescovo di Siunikh, autore di un poema su Adamo (Adamgirkh), di biografie poetiche di S. Gregorio l'Illuminatore e di S. Nersete il Grande e di un commento in prosa al Libro delle definizioni (Sahmanac̣ girkh) di Davide l'Invitto; Tommaso Mezopense (Mecophec̣i) autore di una storia di Tamerlano seguita da una narrazione storica che giunge sino all'anno 1447; Kirakos di Erznka, autore di un commento agli scritti di Evagrio e di varî componimenti poetici. Scarso interesse offrono i secoli XVI e XVII; per quello che riguarda il sec. XVI ci limiteremo a ricordare Abgar, che pubblicb a Venezia, nel 1565, il primo libro armeno a stampa, un Salmosaran (Libro dei Salmi); quanto al sec. XVII, accenneremo ad Aṙakhel di Tabrīz (Persia), che scrisse una storia dell'Armenia negli anni 1601-1662, e ad Oskan, che curò un'edizione della Bibbia (Astuacašunč).

Nel sec. XVIII il rifiorire delle lettere armene e degli studî armenologici è vanto dell'opera assidua e intelligente del grande Mechitar, fondatore dell'accademia che da lui prende nome. Mechitar (così chiamato secondo il nome assunto in religione, che vuol dire consolatore [mxithar]: il suo nome di battesimo era Manuk, bambino"), nacque a Sebaste, nell'Armenia Minore, il 17 febbraio 1676. Ordinato sacerdote nel 1696, fondò nel 1701 una congregazione di monaci "Figli adottivi della Vergine, dottori della penitenza" (le iniziali di queste parole, in armeno, O. K. V. A., appaiono nello stemma crociato della congregazione), che ebhe la sua prima sede nella Morea, nella citta di Modone, ove il giovane abate ottenne dal senato veneziano alcune zone di terreno. Sin dai suoi inizî, la nuova congregazione ebbe un carattere, oltre che di rigorosa ortodossia cattolica, anche di intensa attività di studî letterarî, filosofici, teologici. Caduta la Morea sotto il dominio dei Turchi, Mechitar si rifugiò, insieme con i suoi monaci, a Venezia, e anche questa volta la munificenza del senato veneziano (essendo doge Giovanni Cornèr) venne in suo aiuto, concedendo a lui e alla sua congregazione l'incantevole isola di San Lazzaro, ove Mechitar prese dimora l'8 settembre 1717, e dove morì il 27 aprile 1749, dopo trentadue anni di intenso lavoro, dedicato in grandissima parte a studî armenologici di fondamentale importanza. Accenneremo alla nuova, magnifica edizione della Bibbia, compiuta sul testo di Oskan e finita di stampare nel novembre 1735; a un voluminoso commento del Vangelo di Matteo; a una grammatica della lingua armena classica (Venezia, stamperia di Antonio Bartoli, 1730); al grande dizionario della lingua armena, che egli non riuscì però a veder compiuto, perché la morte lo colse quando se ne stavano stampando gli ultimi fogli; a varî scritti di teologia, inni sacri, ecc. Delle importanti traduzioni di testi di teologia e di scritti di edificazione da lui compiute, ricorderemo la versione, inedita, della Summa dell'Aquinate. Ben a ragione spetta al fondatore della congregazione di San Lazzaro il titolo di restauratore della letteratura armena, né soltanto per la multiforme sua personale attività letteraria, sì anche per l'incitamento meraviglioso da lui dato agli studî e alle indagini storico-letterarie sull'Armenia. Invero dal sec. XVIII sino ai giorni nostri l'isola di San Lazzaro, con la preziosa dovizia dei suoi codici, con le risorse della sua eccellente tipografia, con i tesori della sua biblioteca e delle sue edizioni è stata considerata come il centro degli studî armenologici. Dalla tipografia di San Lazzaro, per tacere delle numerosissime opere di teologia, di storia, di archeologia, di erudizione sacra e profana, di lessicografia, sono uscite quelle collezioni di autori classici armeni, che costituiscono il primo e più prezioso materiale per lo studio di questa letteratura.

Giustamente famosa è, del pari, la tipografia dell'accademia mechitarista di Vienna. Una tipografia mechitarista aveva iniziato le sue pubblicazioni a Trieste nel 1776; trasferita poi a Vienna nel 1810, essa continuò e continua tuttora, grazie alla solerzia di filologi di chiara fama, a stampare opere di storia, di varia letteratura, di glottologia. La congregazione dei mechitaristi di San Lazzaro pubblica una rivista mensile, Bazmavēp, di carattere prevalentemente storico-letterario. Accanto ad articoli di pura erudizione, il Bazmavēp pubblica frequentemente versioni, talora assai pregevoli, di autori classici greci e romani e di autori italiani. La rivista mensile della congregazione di Vienna, intitolata Handēs Amsoreay, ha un carattere più rigorosamente, più decisamente scientifico ed erudito.

Fra i discepoli e continuatori di Mechitar e dell'opera sua ci limiteremo a ricordare: lo storico Michele Ciamcian [Ǧamǧeam] (1738-1823), autore di una voluminosa Storia degli Armeni, che va dalla creazione del mondo sino all'anno 1784, nonché di opere varie di devozione, di sacra esegesi, di poesia, e di una grammatica della lingua armena; l'arcivescovo Stefano Akonz Kiuver (Agonc̣ Giuvēr, 1740-1824), terzo abate dei mechitaristi, autore, fra l'altro, di una biografia di Mechitar; l'insigne teologo Gabriele Avedichian [Awetikhean] (1751-1827), autore di un commento alle Epistole di S. Paolo, di un prezioso commento alle preghiere di Gregorio di Narek e anche di dissertazioni teologiche in lingua italiana; il lessicografo Emanuele Ciachciachian (Ǧaxǧaxean), autore di un grande, pregevolissimo lessico armeno-italiano (Venezia 1837); il poeta Elia Thovmagian, traduttore dei poemi omerici; Arsenio Bagratuni (1790-1866), classicista illustre, traduttore mirabile di capolavori delle letterature classiche greca e romana e delle letterature moderne (francese, italiana, inglese), autore di un poema intitolato Hayk l'eroe (Hayk diwc̣azn); il poeta e poligrafo arcivescovo Edoardo Hiurmiuzian (o Hiurmiuz, 1799-1876), autore di un dizionario armeno moderno-armeno classico, di opere di poesia, di devozione, di grammatica e di versioni dalle letterature classiche e dalle letterature moderne, fra le quali non va dimenticata la bella e singolare versione dei Promessi Sposi del Manzoni, nella quale la parte dialogata è in armeno moderno e quella narrativa in armeno classico. Chiudiamo questo sommario elenco di alcuni fra i più eminenti mechitaristi di S. Lazzaro col nome illustre e venerato di Leone Ališan (1820-1901), poeta, patriota, teologo, storico, naturalista, traduttore dello Schiller (Canzone della campana) e di lord Byron, meraviglioso suscitatore delle patrie memorie.

I padri di S. Lazzaro hanno pubblicato inoltre il monumentale Dizionario della lingua armena, vero Thesaurus di questa lingua (1836-1837), preziosissimo per la dovizia dell'immenso materiale raccolto e anche per i frequenti raffronti col greco e col latino.

Fra i filologi della congregazione dei mechitaristi di Vienna, ricorderemo l'abate generale Arsenio Aydinian [AytƏnean], autore di studî di fondamentale importanza sull'armeno moderno (Grammatica critica della lingua armena moderna, in armeno, Vienna 1866).

Degli scrittori armeni contemporanei, oltre ai poeti Petros Durian, Raffaele Patkanian, Giov. Hovhannēsian, Giov. Thumanian, al drammaturgo Scirvanzadē, al romanziere Raffi, agli eruditi filologi Norayr N. Piuzantathsi (Biwzandac̣i), Basilio Sarghisian (dei mechitaristi di Venezia) e J. Dascian (dei mechitaristi di Vienna), autore, fra l'altro, del grande catalogo dei manoscritti della biblioteca dei mechitaristi di Vienna, al critico e poeta Simone Eremian (dei mechitaristi di Venezia), ad Arsenio Ghazikian [Łazikean] (dei mechitaristi di Venezia), dotto bibliografo e autore di lodate versioni di Dante, del Tasso, del Manzoni, ricorderemo, primo fra i primi, Aršiak Ciobanian (Čōpanean). Il Ciobanian, nato a Costantinopoli nel 1872 e vivente a Parigi, è non soltanto un eccellente poeta, ma anche un erudito e un patriota, che ha acquistato le più alte benemerenze verso la sua patria dilaniata. Senza dire degli articoli, delle conferenze, degli studî, delle innumerevoli manifestazioni della sua geniale attività letteraria e del suo appassionato patriottismo, ricorderemo alcune sue opere, che hanno servito a divulgare tra il pubblico europeo la conoscenza delle più belle gemma della letteratura popolare armena: Chants populaires arméniens, Les Trouvères arméniens, La Roseraie d'Arménie.

Per le traduzioni italiane che sono state fatte di alcune sue opere poetiche è noto e gode giusta fama tra noi Hrant Nazariantz (Nazareanc̣), raffinato e immaginoso poeta (nato nel 1880, vivente a Bari), che ne I Sogni Crocefissi, ne Lo Specchio, in Vahakn e nei Tre Poemi rievoca, nostalgicamente, le speranze e le tradizioni della sua terra lontana.

Le prime manifestazioni della stampa periodica armena risalgono agli inizî del sec. XVIII, ma assumono forme regolari alla fine dello stesso secolo, quando vengono pubblicati a Venezia (1799-1802) i fascicoli intitolati Taregruthiwn (Annali), redatti in armeno volgare e contenenti notizie politiche, letterarie, ecc. Questa pubblicazione fu immediatamente seguita da quella del periodico Ełanak Biwzandean (1803-1820), edito a Venezia, ricco di notizie scientifiche, letterarie, politiche e di cronache di storia ecclesiastica. Nel 1843 ha inizio la pubblicazione della rivista dei mechitaristi di Venezia, il Bazmavēp, di cui si è già fatto cenno. La stampa periodica armena è diffusa, del resto, in tutto il mondo. Giornali e riviste vengono pubblicati a Erivān e a Costantinopoli, al Cairo e a Gerusalemme, ad Alessandria d'Egitto e a Salonicco, a Beirut e a Parigi, a Sofia, a Bucarest, a Venezia e a Vienna, a Marsiglia, a Ṭeherān, a Boston e a Lione. Come è facile intendere, la rivoluzione comunista in Russia e quella kemālista in Turchia hanno esercitato una profonda influenza sulla stampa armena. Vecchi giornali sono scomparsi o hanno mutato di nome, di carattere, d'importanza; nuovi ne sono sorti. Citeremo: Xorhrdayin Hayastan (L'Armenia sovietista) quotidiano, Karmir Zinuor (Il soldato rosso) bisettimanale, Azat Ekełec̣i (La libera chiesa), rivista mensile, tutti di Erivān; Azdarar (Il monitore) quotidiano e Hay Kin (La donna armena), rivista bimensile, di Costantinopoli; Libanan trisettimanale di Beirut; Sion rivista mensile del Patriarcato di Gerusalemme; Arew (Il sole), quotidiano del Cairo, e infine Erkir (La terra), settimanale di Bucarest, e il grande quotidiano di Boston Hayrenikh (La patria). Sotto lo stesso nome e dalla stessa casa editrice di Boston viene pubblicata un'importante e ricca rivista mensile. Dell'eccellente rivista di studî filologici Handēs Amsoreay (La rivista mensile), edita a cura dei mechitaristi di Vienna e alla quale collaborano i più autorevoli armenisti, è già stata fatta menzione.

Bibl.: Una ricca bibliografia è contenuta nell'opera del padre Arsenio Ghazikian [Łazikean], dei mechitaristi di S. Lazzaro: Nuova bibliografia armena ed enciclopedia della vita armena, 1512-1905 (Haykakan nor matenagituthiwn ew hanragitaran hay keankhi) (lettere A-N), Venezia 1909-1912. L'A. ne sta preparando una nuova edizione completamente rifatta e aggiornata.

Sull'origine dell'alfabeto armeno, oltre agli studî di G. Marquart (cfr. ad es., in Handēs Amsoreay, 1911, settembre e fascicoli segg.), ricordiamo la recente pubblicazione di F. H. Junker, Das Awestaalphabet und der Ursprung der armenischen und georgischen Schrift, Lipsia 1927.

Citiamo a semplice titolo di curiosità storica la Grammatica armena di Francesco Rivola, Milano 1624, quella del P. Clemente Galano, Roma 1645, il Thesaurus linguae Armenicae, antiquae et hodiernae di J. J. Schroeder. Amsterdam 1711, e inoltre la Grammaire de la langue Arménienne, di J. Ch. Cirbied, Parigi 1823. Fondamentali per lo studio dell'armeno classico l'Armenische Grammatik di H. Hübschmann, Strasburgo 1897, e l'Esquisse d'une grammaire comparée de l'arménien classique, di A. Meillet (Vienna 1903). Fra le grammatiche elementari dell'armeno classico ricordiamo inoltre quelle di M. Lauer (Vienna 1869), tradotta in francese da A. Carrière (Parigi 1883); di J. H. Petermann (Brevis linguae armeniacae grammatica, in Porta linguarum orientalium, 2ª ed., VI, Berlino 1872); del Kainz (nella collezione Die Kunst der Polyglottie, Vienna e Lipsia [1891]; molto sommaria, è divisa in due parti, una dedicata all'armeno classico, una dedicata all'armeno moderno); del p. A. Tiroyan (Grammatica armena della lingua classica e della moderna ad uso degli Italiani, Venezia 1902. Il titolo promette più di quello che è dato nella grammatica stessa, piuttosto farraginosa, la quale riguarda soltanto la lingua classica). Dello stesso p. A. Tiroyan è stata pubblicata, postuma (Venezia 1927), una breve, ma utile Grammatica della lingua armena moderna. Per le nuove teorie del Marr si possono consultare la sua: Grammatica dell'antico armeno (in russo: Grammatika drevnearmianskago jazyka) e il suo studio: Due suffissi giafetici nella grammatica dell'antico armeno (in russo: Dva jafetičeskikh suffiksa v grammatikje drevnearmianskago jazyka, 1910). Delle grammatiche della lingua classica, redatte in armeno, ricordiamo, oltre a quella di Mechitar, quelle del padre Gabriele Avedichian (Venezia 1815); del padre Arsenio Bagratuni (Venezia 1852); del Cialykhian (Čalexean), rielaborata dall'illustre filologo P. Aidynian (Vienna 1885); del Malkhasianths (Malxaseanc̣), (pubblicate a Tiflis, 1891 e 1892) e del P. Thovmagian (Il primo passo nella lingua classica, Venezia 1921). Per l'armeno della Cilicia: J. Karst, Historische Grammatik des Kilikisch-Armenischen (Strasburgo 1901). Sull'armeno moderno, specialmente la fondamentale Grammatica critica dell'armeno moderno (in armeno) del p. Aidynian (Vienna 1866) e gli Studi sulla dialettologia armena (in russo) dello Mserianths (Mosca 1897 e 1901). Una grammatica elementare dell'armeno moderno è stata pubblicata da K. Gulian (Elementary Modern Armenian Grammar, Heidelberg 1902). Fra i lessici ricordiamo, oltre al Dictionarium armeno-latinum del Rivola (Parigi 1633) e al Dictionarium novum latino-armenicum del Villotte (Roma 1714), il già citato, fondamentale dizionario in due volumi in-folio pubblicato dai mechitaristi di Venezia (Venezia 1836-1837), il Dizionario armeno-italiano del padre Emanuele Ciakhciakh (Venezia 1837); il Dizionario armeno moderno-armeno classico di mons. Edoardo Hiurmiuzian (Venezia 1879); il New Dictionary Armenian-English del P. M. Bedrossian [Petrosean], Venezia 1875-1879); il Manuale lexicon armeno-latinum (1887) e latino-armenum (1893) di D. Johannes Miskgian (Roma); il Dictionnaire arménien-français di G. A. Nar Bey de Lusignan (nome letterario di Ambroise Calfa [A. Galfayean], Parigi 1893); il Dictionnaire portaif arménien moderne-français di Lusignan e Basmagian (Costantinopoli 1915), e il Dizionario armeno-francese (Baṙaran Hay-Franserën), recentemente pubblicato dalla tipografia di S. Lazzaro, senza nome d'autore, ma con la semplice sigla P. H. G.

Per la storia letteraria: Sukias Somalian, Quadro delle opere tradotte anticamente in armeno (Venezia 1825); id., Quadro della storia letteraria di Armenia (Venezia 1829); C. Fr. Neumann, Versuch einer Geschichte der armenischen Literatur nach den Werken der Mechitaristen (Lipsia 1836; è un rifacimento della Storia letteraria del Somalian); P. G. Zarbhanelian, Haykakan hin dpruthean patmuthiwn (Storia dell'antica letteraratura armena, secoli IV-XIII, 3ª edizione, Venezia 1897) e, dello stesso, il volume sulla letteratura moderna (Nor matenagruthiwn, Venezia 1905) e Matenadaran haykakan thargmanutheanc̣ naxneac̣ (Biblioteca delle antiche traduzioni armene, Venezia 1889); Fr. N. Finck, Die armenische Literatur (in Kultur der Gegenwart, pp. 282-298); id., Geschichte der armenischen Litteratur (Die Litteraturen des Ostens, Lipsia 1907). Un buon sunto di storia letteraria è dato dal Baumstark (Die christlichen Literaturen des Orients, in Sammlung Göschen, voll. 527-528; II, pp. 62-99).

Riviste di studî armeni: Oltre alle già citate Bazmavēp dei mechitaristi di Venezia e Handēs Amsoreay dei mechitaristi di Vienna, ricordiamo la Zeitschrift für armenische Philologie (Marburg 1901 e segg.); la Revue des Études arméniennes (Parigi); Armeniaca, Zeitschrift für die Erforschung der Sprache und der Kultur Armeniens, diretta da K. Roth e pubblicata a Lipsia.

Arte.

L'Architettura. - La compagine politica oltreché etnica che l'Armenia rappresentò nel primo millennio dell'era volgare non poteva non esprimersi in un proprio linguaggio costruttivo, cioè non dar luogo a uno stile architettonico. Ciò che era mancato nell'epoca pagana si realizzò col cristianesimo. La posizione geografica del paese lo esponeva alle influenze orientali, meridionali e occidentali: il periodo della sua prosperità, che coincide col diffondersi del cristianesimo, seguiva la fioritura artistica della Persia ellenistica, della Siria romanizzata ed era contemporaneo a quella di Bisanzio: tre manifestazioni della grande irradiazione architettonica di Roma. I maggiori rapporti stilistici sono evidentemente quelli con l'architettura bizantina, negli schemi planimetrici e nel tipo costruttivo; ma i monumenti armeni differiscono sostanzialmente da quelli di Costantinopoli, di Salonicco, di Atene, del Monte Athos, per un carattere massivo direttamente legato col sistema di costruzione in concio di pietra. Inoltre, mentre presso i Bizantini la cupola rialzata termina a culatta, presso gli Armeni essa è coperta da un cono. Ma la regione montagnosa e il terreno scabro impedirono allo stile armeno di far prova di esperimenti imprevisti, eccezionali e rivoluzionarî: ond'è che il carattere di questa architettura si mantenne, nello spirito e nelle forme, quasi invariato per gli otto secoli di sua vita. Le devastazioni continue dall'invasione mongola (sec. XIII) in poi e l'isolamento in cui è restata l'Armenia sino ad oggi han fatto sì che i monumenti della regione sono in massima parte ridotti in rovina, di difficile ricognizione e sperduti nella più squallida solitudine. Appunto a una tale vastata solitudo, oltre che al confronto con le casupole e le capanne dei villaggi, gli edifici monumentali debbono l'effetto di grandiosità che le modestissime dimensioni loro non consentirebbero. Nessuna delle chiese, anche delle più grandi, ha dimensioni di pianta o d'alzato che arrivino a toccare i 40 metri. Va riconosciuto quindi che l'acuto senso delle proporzioni nella distribuzione delle masse ha fatto dell'armena una delle architetture stilisticamente meglio definite, specialmente perché essa s'è attenuta a una semplicità di schemi che talora sembra persino povertà.

Quasi esclusivamente religiosi sono i monumenti superstiti in terra armena: poiché, come del resto anche nell'alto Medioevo occidentale, l'architettura religiosa ebbe sempre una netta e completa predominanza sulla civile, già strettamente connessa con la militare. I palazzi reali o patriarcali di Zuarthnoc̣, Cikhedarbasi, Bagaran, Larin, Mren, Thališ ecc., le cinte fortificate di Tigris, Maghasbert, Aštišat sono ormai ruderi, talora imponenti ma tal altra riconoscibili soltanto in pianta. Anche l'ultima capitale, sede del katholikos d'Armenia Ani (v.), pur conservando mura, torri, terrazze, chiese e sepolcreto, è oggi una vasta distesa di rovine. D'altra parte lo stretto legame fra architettura civile e religiosa è provato, per esempio, dalla porta turrita fra Ani e il convento di Horomos. Una particolarità dell'Armenia è l'aggruppamento di più edifici sacri (chiese, campanili, conventi e tombe venerate) entro cinte munite, sì da formare quasi delle città monastiche (figg. 1 e 2).

Chiese. - La plastica monumentale delle chiese armene conosce i due sistemi principali: longitudinale e centrale. Il primo però ha avuto una scarsa attuazione, almeno nella sua espressione genuina a pianta rettangolare e senza elevazione di masse centrali. Quasi sempre a una sola navata, con una sola abside e più raramente a tre navi triabsidate, oppure con abside centrale, protesi e diaconico, esso presenta di regola l'importante particolarità di curve absidali incorporate nel muro e quindi esternamente o del tutto mascherate (chiese di Biraklar, Širuvanžuk, Aštarak) o d'apparenza poligonale (chiese di Eghibard, Kassac̣). La chiesa di Ereruk (figg. 3 e 4) presenta un'altra e non unica particolarità: quella di due portici esterni lungo i lati lunghi, portici terminati da absidi, quasi che le navate minori siano state rese esterne e l'intercolunnio sia stato riempito. La basilica armena; che usa costantemente come copertura la vòlta a botte, non adopera colonne a divisione delle navate, bensì pilastri sui quali vanno a scaricarsi le nervature di rinforzo della botte. La cortina esterna dei muri è compatta e uniforme, forata da piccole e rade finestre; ma talora acquista movimento dalle nicchie absidate.

Tutta la struttura si esplica, del resto, sia nella muratura rettilinea e nei piedritti, sia nelle superficie curve, absidi e vòlte, mediante una sapientissima tecnica, che diviene vera arte, della pietra tagliata (fig. 5). I conci, di dimensioni costanti e non molto grandi, accuratamente squadrati e sufficientemente levigati, si adattano al disegno predisposto dall'architetto con una precisione e un'aderenza alla loro funzione statica, per cui ben si spiega la resistenza alle secolari ingiurie del tempo e degli uomini. Resistenza tanto più stupefacente nelle ardite cupole che s'innalzano al centro della massima parte delle chiese e dei campanili armeni.

Veniamo allo schema con cupola. L'importanza che questa assume nel complesso monumentale della costruzione, la subordinazione che tutte le altre parti, anche se non simmetriche, rivelano verso di essa, ci autorizzano ad aggruppare quasi tutti gli edifici che ne sono provvisti al sistema centrale. La cupola infatti presso gli Armeni non si volta, come presso il bizantino primitivo, immediatamente sopra il tetto della nave, ma s'imposta, come nel tardo bizantino, su un altissimo tamburo (circolare o poligonale) che poggia sopra una base quadrata e talora maschera l'interna sfera sino a una copertura spiovente (a cono o a piramide o, originalissima, a ombrello). Il sistema di raccordo della cupola alle arcate di sostegno è molto semplice e generalmente consiste in un pennacchio sferico e talora a tromba. La cattedrale di Eǧmiadzin presenta però dei pennacchi a nervature intersecate, partito genialmente e arditamente sviluppato nella cupola delle chiese di Haghbad e di Aisasi.

La pianta circolare non è troppo frequente e anch'essa presenta sempre la cupola come una semplice sopraelevazione concentrica (chiese del Salvatore ad Ani, e di S. Sergio a Xckonk) o impostata sopra un nucleo a pianta quadriloba fasciata da un anello esterno (chiesa palatina di Zuarthnoc, chiesa di Bana). La pianta poligonale del corpo inferiore non esclude la cupola cilindrica (chiesa di S. Gregorio ad Ani), ma quasi sempre allora si preferisce una più complessa e dilatata disposizione radiale mediante absidi, esternamente poligonali (per es. la chiesa dei Ss. Apostoli a Qārs, le chiese di Sarinž, Agrak [fig. 6]). Una speciale icnografia che colpisce particolarmente noi italiani per la sua rassomiglianza con lo schema leonardesco-bramantesco, è quella a croce greca con absidi terminali e ambienti d'angolo fra braccio e braccio.

Molto frequente è lo schema con pianta quadrata o rettangolare e a quattro pilastri centrali di sostegno alla cupola, con alzato a transetto mediano in modo che le navate centrali - sopraelevate - formano croce greca (pianta quadrata) o croce simmetrica (pianta rettangolare). In tali casi la protesi e il diaconico non formano sporgenza e assai di rado sporge l'abside maggiore, ma sono incorporati nel muro rettilineo perimetrale. È frequente il nartece, fiancheggiato da cappellette. Chiese di questo tipo esistono, tra l'altro, a Odzun (figg. 7, 8 e 9), Bagaran, Astapat, Vałaršapat, Mren, Thališ, Xošawankh e specialmente ad Ani, con la sua elegantissima cattedrale. Lo schema suddetto, col suo poderoso equilibrarsi di masse di sostegno contrapposte, permette un considerevole sviluppo verticale non solo alla cupola ma anche alle navi, e allora i porticati che corrono lungo i lati lunghi, il nartece e gli ambienti fiancheggianti l'abside e il presbiterio acquistano una funzione statica di rinfianco della parte basamentale. La fecondità degli architetti armeni nel variare il tema fondamentale a pianta radiale con cupola sopraelevata si rivela in molti edifici d'aspetto eccezionale e bizzarro, come la chiesa di Kazkh (figg. 10 e 11).

Come si è detto, il sistema di copertura è costantemente a vòlta: si comprende l'importanza che doveva derivarne ai sostegni. Ma l'interesse principale dei costruttori era rivolto alle soluzioni dei problemi statici, specialmente per ciò che riguarda l'imposta e i piedritti, nei quali non sono rare vere e proprie anticipazioni del gotico. Quanto alle forme dei sostegni, esse sono tenute nella massima semplicità: la colonna non si adopera quasi affatto in funzione statica, bensì come decorazione (addossata, semicolonna). I pilastri variano dalla forma più elementare, a pianta quadrata o rettangolare, sino alle pilastrate multiple della cattedrale di Ani, che nella rispondenza delle membrature con gli elementi di rinforzo delle vòlte anticipano la struttura tipica del romanico ultimo e del gotico. Le vòlte a botte sui piedritti perimetrali sono infatti rinforzate da nervature che si scaricano sui piedritti del perimetro mediante paraste e anche semicolonne.

Torri campanarie. Com'è noto, la questione della cronologia e dell'origine dei campanili è tuttora dibattuta. L'uso antichissimo delle campane nell'Estremo Oriente non ci autorizza a ritenere che di là sia venuta anche l'invenzione della torre campanaria: la quale anzi è, nell'uso religioso, tipicamente propria della liturgia occidentale. Qui non è però il luogo per discutere di ciò; ma soltanto si vuole richiamare l'attenzione sulla speciale forma architettonica attribuita dagli Armeni ai campanili.

Nella chiesa di San Giovanni a Xošavankh (1035), la cui pianta presenta una basilica inserita in un organismo a sistema centrale, mentre su questa seconda parte si erge una cupola cilindrica, sulla prima è innalzata un'alta cella per le campane, consistente in un tiburio a otto colonne (fig. 12). Il monastero di Sanahin possiede una vera e propria torre campanaria di massicce proporzioni: e finalmente a Haghbad nel 1245 venne innalzato un grandioso edificio a pianta cruciforme e con gli angoli tra braccio e braccio riempiti in alto per mezzo di un geniale partito. Una curiosa e inesplicabile particolarità è data dalla piccola cella campanaria formata da un numero dispari (sette) di colonne. Molto più tardi, e specialmente nel '600, sul davanti delle facciate in corrispondenza della porta centrale si aggiunsero delle torricelle che inferiormente servono da vestibolo e superiormente da celle campanarie: per esempio, una fu posta innanzi alla chiesa di Santa Ripsime costruita dieci secoli prima (figg. 13, 14, e 15).

Monumenti funerarî. - Molti ve ne sono a forma di piccoli mausolei, con ambienti interni a vòlte basse e con piccole porte d'accesso: talora ispirati alla casa d'abitazione (Sanahin, Ošakan) talaltra simili a cappelle (tombe della cattedrale di Mzxet e del canonicato di Horomos). Ma più spesso essi si avvicinano alla stele scolpita, fondendo l'aspetto e la decorazione di questa con la sagoma e le dimensioni dell'altare. Due esempî dell'uno e dell'altro tipo si trovano, sorti accanto, a Sanahin (figura 16). Il monumento di Odzun, consistente in una grande bifora che reca sotto le arcate due cippi inscritti, ha l'aspetto di un campaniletto a vela, uso a cui oggi, del resto, è destinato.

Decorazione. - Assai sobria nella grandissima maggioranza delle chiese, essa si svolge sempre con un'accurata aderenza alla struttura, che sottolinea, alleggerisce e varia. Infatti la semplicità dello schema architettonico armeno potrebbe diventare monotonia, specialmente nella parte più appariscente, la cupola, se questa non s'ingentilisse di varî partiti ornamentali. Talvolta il decorativo è ottenuto con abili movimenti del tetto (a soffietto conico, cioè a ombrello semichiuso). Ma più spesso la parte cilindrica della cupola era cerchiata da una serie di arcature con archi a tutto sesto o anche con timpanetti acuti e lesene o semplici o a fasci. La scultura mette in evidenza oltreché l'archivolto, l'intradosso e spesso l'estradosso, e solo raramente fiorisce le superficie delle pareti esterne, come nella chiesa della S. Croce a Ałthamar (Aghthamar) (fig. 17). Le arcature possono anche abbracciare tutto il perimetro delle mura; e l'esempio pił insigne ę la cattedrale di Ani.

I particolari decorativi non sono originali; derivano dagli ordini classici (particolarmente la voluta), da motivi assiro-persiani, romani, siriaci, bizantini (l'intreccio vimineo) e arabi. Lo stile armeno pern̄ si serve di tanti elementi dopo averli amalgamati. Caratteristica ę invece la decorazione a linee rette o per incorniciature di finestre o di porte o di angoli, o per grandi croci in rilievo come nel campanile di Haghbad (fig. 18).

Assai pił rara ę la decorazione policroma della cortina muraria. Un esempio di litotonia, ottenuta con conci quadrati di diverso colore, si ha nella chiesa di Ughuzlü.

Si devono assai spesso attribuire a un intento decorativo le nicchie a strombo che solcano con effetto singolare i muri esterni del corpo inferiore e talora delle cupole. Tale espediente, che rivela nella scuola armena, almeno nel suo periodo di maturità, l'amore del pittoresco, giunge sino a un'ingegnosa disposizione a sporgenze e rientranze, esplicazione ultima della pianta radiale, nella chiesa del Buon Pastore ad Ani (fig. 19).

Tecnica costruttiva. - Abbiamo già detto che gli edifici monumentali armeni sono costruiti esclusivamente di pietra. Questa è lavorata e disposta con la massima esattezza quando costituisce il rivestimento di superficie in vista, è invece spezzata e distribuita senza regola quando, con la eccellente malta adoperata dagli Armeni, forma il riempimento dei muri e delle vòlte. Il procedimento costruttivo, analogo a quello romano ed ancora in uso nella regione, consiste in una massa di conglomerato contenuta fra superficie in pietra concia. Nelle vòlte queste superficie costituiscono una vera armatura permanente e, come già presso i Romani quelle in laterizio, rimangono a far parte della vòlta anche dopo il disarmo dell'armatura provvisoria in legno. Questa veniva così ad avere una funzione di assai minore importanza e presentava quindi minori difficoltà. A tale intento di ridurre le opere provvisorie di sostegno può forse attribuirsi l'uso, correme presso gli Armeni, di suddividere le vòlte mediante nervature sporgenti che, come poi nei periodi romanico e gotico, venivano eseguite per le prime e costituivano la prima ossatura alla quale si appoggiava la costruzione seguente.

I materiali adoperati erano lave e tufo. Le lave potevano essere di due qualità: l'una di color grigio scuro, usata per le membrature più importanti dell'ossatura interna; l'altra gialliccia, impiegata insieme col tufo rossastro o grigio per il semplice rivestimento. Il basalto, troppo duro per la lavorazione in conci di forme diverse, era usato quasi esclusivamente per sottili rivestimenti applicati ad opera finita, lapidi, iscrizioni.

L'ottima qualità della malta degli Armeni permise loro di formare un calcestruzzo di una compattezza e d'una coerenza comparabili a quelle delle costruzioni romane, tanto che, come in queste ultime, non mancano esempî di edifici corrosi alla base da saccheggi e devastazioni e pure ancora intatti nelle zone più alte e meno raggiungibili.

Storia. - Fino al cristianesimo gli Armeni non segnarono un'impronta propria e originale nelle arti. I resti di monumenti pagani che si trovano nella regione si rivelano più come derivazioni provinciali e periferiche dell'architettura greca o mesopotamica, o romana, che come manifestazioni di un'arte indipendente. Ma la predicazione di S. Gregorio l'Illuminatore e il conseguente avvento del cristianesimo a religione di stato col re arsacide Trdat (Tiridate), ai primi del sec. IV, dové accentuare la reazione della ex-provincia d'Armenia contro le due grandi potenze che a turno l'avevano signoreggiata - l'impero romano e la Persia ancora pagana - e favorire la progressiva formazione d'uno stile nazionale. Pure il ricordo dei prospetti romano-siriaci, con massicce semicolonne addossate e con lunette ad archi di scarico e protiri a tettòia, appare ancora nella chiesa di San Sergio a Tekor e nella basilica di Ereruk (secoli V-VI). A ogni modo verso il sec. VII le tendenze nazionali sono ormai decisamente vittoriose anche nelle forme riferibili al sistema longitudinale. Komitas (dopo il 618) innalza ad Eǧmiadzin, monastero a breve distanza dalla capitale Vałaršapat (Vagharšapat) le chiese di Santa Ripsime e S. Gaiana. Nersēs III (641-661), detto "l'Edificatore", fonda la chiesa di S. Gregorio l'Illuminatore per custodirne il venerato sepolcro, il palazzo e la chiesa di Zuarthnoc e la chiesa di Bana; (ambedue a pianta circolare). Nel sec. VIII sorgono le cattedrali di Odzun e di Mren. S'inizia poi, nel sec. IX, quella dinastia dei Bagratidi, che diede sino a tre quarti del sec. XI l'ultima fioritura dell'arte armena. E sorgono così la chiesa dei Ss. Apostoli a Qārṣ, il monastero di Sanahin, le cattedrali di Marmašen, Ani e Kutais, le chiese di Agrak, Xckonk, il monastero di Horomos, le chiese di Gagik, dei Ss. Apostoli e del Salvatore (rinnovata nel sec. XII) ad Ani. Tuttavia la presenza di finestre gotiche, per esempio nel transetto della cattedrale di Marmašen (fig. 20), il carattere arabo della decorazione in molte chiese di questo periodo, obbligano ad ammettere che ad assai frequenti e anche radicali modificazioni esse siano andate sottoposte nei secoli XII e XIII.

I rapporti stretti fra i varî stili costruttivi in epoche così oscure e travagliate come i secoli dell'alto Medioevo debbono essere obbiettivamente osservati, ma senza dar luogo ad affermazioni di valore assoluto: anzitutto bisogna guardarsi dal generalizzare. La grande peculiarita dell'architettura armena è la vòlta di pietra, alla quale quei costruttori (che erano chiamati "maestri di pietra" cioè scalpellini) seppero genialmente applicare, e poi svolgere, i principî dell'arte romana diffusasi nel Mediterraneo sin dal sec. II. In Occidente, dove restavano in piedi esempî numerosi di enorme volte in laterizio, il travaglio evolutivo delle forme fu assai più lento; e probabilmente alcune soluzioni, date alla botte e alla crociera già nel sec. VII dagli Armeni, non restarono ignote agli architetti occidentali che preparavano il romanico: in Italia, in Francia e financo in Spagna (collegiata di Toro presso León). Ma non bisogna nemmeno dimenticare che dalla stessa causa debbono nascere effetti simili. Rapporti più stretti sono tra l'Armenia e la Puglia (absidi incorporate nei muri perimetrali), e tra l'Armenia e Pisa (le arcature esterne e la policromia), e qui la storia non può che confermare le relazioni anche nel campo commerciale. Ma basta guardare la cattedrale di Ani e una qualsiasi chiesa pisana, per notare, insieme con le rassomiglianze, le fondamentali differenze di anima. Accade anche nell'architettura quel che è frequentissimo in musica: che due temi uguali si sviluppino e si affermino in modo da assumere carattere e significato del tutto diversi. Così pure con Bisanzio, con gli Arabi e coi Russi ebbero gli Armeni relazioni evidenti nel campo dell'arte; ma si tratta sempre di particolari decorativi, poiché uno stile architettonico così coerente, statico, convinto e inequivocabile come l'armeno non poteva molto assorbire né molto donare.

Scultura e Pittura.

Scarsa e affatto secondaria importanza ebbe nell'arte armena la scultura, concepita, come nell'arte romanica dell'Occidente, in funzione puramente archítettonica. L'arte armena primitiva dal secolo V al VII non conobbe, sembra, la rappresentazione plastica o dipinta di forme umane o di animali, limitandosi probabilmente alla sola decorazione ornamentale in base a motivi lineari. Appena nel periodo della seconda fioritura dell'architettura armena, nei secoli X e XI, appaiono, soprattutto all'esterno degli edifici religiosi, numerosi bassorilievi in pietra che denotano l'evidente influsso dell'arte bizantina e siriaca. Un esempio notevolissimo di decorazione scultorea è dato dalla chiesa di Ałthamar del sec. X. Sotto il tetto a piramide corre, con robusto aggetto, una balza di 32 animali: leoni, gazzelle, cervi, lepri, ecc. Un'altra simile balza di animali ę scolpita nei timpani, e lungo le pareti sotto i tetti. Segue, pił in basso, una zona a rilievo che cinge all'ingiro tutto l'edificio, composta di pampini e di tralci d'uva includenti figure umane e animali. La decorazione termina con scene tratte dall'Antico Testamento e con figure isolate di santi, inframmezzate da sculture di animali, e culmina nella rappresentazione del donatore reggente il modello della chiesa dinnanzi a Cristo. Gli animalị (grifi alati, orsi affrontati, ecc.) sono, per lo pił, lavorati rozzamente e hanno spesso singolari attinenze con le drôleries francesi medievali. Le figure umane hanno rilievo piatto e incerto; sono debolmente rilevate dal fondo, avvolte in panneggi triti e minuti, di chiara derivazione bizantina.

La figura del donatore, quasi sempre col modello della chiesa nelle mani, dinnanzi al Redentore (chiesa di Mzxet) e alla Madonna, o anche isolata, costituisce una particolarità iconografica assai caratteristica e diffusa nella scultura armena. Essa viene a volte rappresentata anche a tutto tondo, come lo dimostra la celebre statua del re Gagik (991-1020), alta m. 3,5, nel museo di Ani. Ricorrono poi non di rado immagini equestri, a rilievo schiacciato, non chiaramente identificabili nel loro significato, come nelle chiese di Ani, di Ughuzlü, di Mren. Più frequenti le immagini di animali isolate, o rincorrentisi, o lottanti, scolpite all'estremo degli edifici, disposte spesso senza apparente ordine. Tra gli ornati vegetali predomina il motivo bizantino dei pampini con grappoli d'uva e di granate. Sparse a migliaia nella regione si trovano inoltre pietre tombali che racchiudono, incavate nella superficie animata da fitti intrecci ornamentali, delle croci dalle estremità espanse.

I mutili e incompleti cicli di affreschi che si conservano ancora in qualche chiesa armena sono di tarda epoca e del tutto dominati dai modi bizantini. Anche l'iconografia è, naturalmente, informata al repertorio bizantino, come lo dimostrano, ad esempio, gli affreschi del sec. XIII nella chiesa del Salvatore ad Ani, che dipinti nelle nicchie e nelle pareti sottostanti, rappresentano il Cristo in trono tra arcangeli e cherubini, i dodici Apostoli, la Pentecoste, la nascita di Gesù, la crocefissione, l'ultima cena, la resurrezione e altre scene ancora. Altri avanzi di affreschi rimangono nella cattedrale di Thalin e, più abbondanti, nelle chiese della S. Croce ad Ałthamar e di S. Gregorio ad Ani, anch'essi del sec. XIII. Mentre la decorazione scultorea all'esterno della chiesa della S. Croce contiene scene dell'Antico Testamento, i soggetti della maggior parte degli affeschi, che nell'interno coprono pareti, absidi e cupola, sono tratti dal Nuovo Testamento. Questi affreschi, grossolanamente coloriti, delle chiese armene si rivelano di povera e stentata fattura; sono pallidi riflessi provinciali della raffinata arte pittorica di Bisanzio.

Uno sviluppo pił coerente e originale presenta la miniatura armena, anch'essa del resto largamente dipendente da quella bizantina. Il pił antico manoscritto armeno dell'887, che si conserva nel giމ Istituto Lazarev (ora Istituto per l'Oriente di Mosca), non possiede miniature; e quelle dell'evangeliario di Eǧmiadzin, scritto nel 989 da un certo Giovanni per il monaco e sacerdote Stefano, appartengono all'arte siriaca del sec. VI. Di carattere armeno sono soltanto gli ornamenti e alcune mediocri miniature nei margini. Le dieci miniature, che ornano un evangeliario del convento di S. Lazzaro a Venezia, scritto probabilmente nel sec. X, sono di scuola bizantina. Una sola rappresentazione col Cristo Pantocrator entro un medaglione è stata aggiunta dal calligrafo armeno. L'esecuzione è rozza e informe, anche coloristicamente, e palesa il basso livello artistico dei miniatori armeni di quell'epoca. Analoghe osservazioni s'impongono per un altro manoscritto armeno dello stesso convento di S. Lazzaro, ove le due miniature con gli evangelisti Luca e Giovanni rivelano così debole potere creativo da non poter essere confuse con quelle bizantine, ben altrimenti compiute. Col procedere del tempo le forme bizantineggianti si modificarono. Nell'evangeliario n. 1636 del convento di S. Lazzaro, dell'anno 1193, agl'influssi bizantini si mescolano elmmenti persiani, e altri più schiettamente armeni, specie nelle architetture dipinte. Le miniature armene del sec. XIII dimostrano già completamente sviluppate quelle caratteristiche di stile che persistettero invariate fino ai nostri giorni. Mentre nella rappresentazione delle scene sacre il dominio delle forme bizantine rimane preponderante, nel campo dell'ornamento la miniatura armena trovò espressioni profondamente originali. Questo stile ornamentale armeno si compiace di un raffinato e squisito giuoco di linee che s'inseguono, s'intersecano e s'intrecciano con una varietà e complessità di motivi veramente mirabile. Come nelle sculture decorative dei secoli X e XI, ricorrono spesso, derivate dal tesoro iconografico bizantino, le raffigurazioni di sirene, specie nelle iniziali, di mostri, di busti di santi sorgenti da ornamenti varî, mentre nastri intrecciati si alternano a pampini d'uva e altri ornati. L'influenza dell'arte musulmana è invece palese soprattutto nel frequente motivo delle palmette. A partire dal sec. XIV il numero dei manoscritti miniati armeni è grandissimo; essi contengono quasi sempre date precise e assai spesso anche il nome dei miniatori.

Dei prodotti delle arti minori poco si è conservato. Dalle descrizioni degli storici sappiamo che le chiese erano sontuosamente decorate con tappeti preziosi e con oggetti d'oro e d'argento, probabilmente importati per la maggior parte da Bisanzio. Nulla ci resta dei tessuti armeni prima del 1100. Le più antiche stoffe armene ancora esistenti appartengono al sec. XVIII.

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Musica.

La musica armena può dividersi in due periodi distinti: del primo periodo abbiamo notizie molto scarse. Alcuni scrittori armeni, ad esempio Fausto di Bisanzio [Puzant] (sec. IV), Mosè Corenese (sec. V), Mosè Kałankatuac̣i (sec. VII), Toma Arzruni [Arcruni] (sec. IX) ci riferiscono, incidentalmente, l'Armenia pagana aver conosciuto il canto e gli strumenti musicali. Il Corenese, meglio che gli altri, menziona e riporta qualche frammento di gran pregio, da cui risulta che si usavano canzoni di allegria, di nozze, di lutto, di lode, di ballo o racconti, cantati secondo la storia, dagli improvvisatori, dai mercenarî, dalle prefiche, dai cantastorie e dai celebri cantori di Golthn (in Vaspurakan). Come i rapsodi greci, essi pure fino al sec. V circa, andavano narrando col loro canto le gesta degli antichi e specialmente dei re armeni.

Il più rinomato di tali racconti epici è il Canto di Vahagn (figlio di Tigran), del quale la favola dice:

Partoriano in dolore il ciel, la terra

Ed il purpureo mar, nacque dal mare

Una cannuccia di color rossino;

E fumo uscìa dal vano della canna,

Fiamma dal vano della canna uscia;

E balzò dalla fiamma un giovanetto,

E il giovanetto avea chioma di fuoco,

Barba fiammante, e occhini come soli.

(Storia dell'Armenia di Mosè Corenese, traduzione di N. Tommaseo, Venezia 1850, p. 85).

Cantavansi queste lodi "al suon de' cembali" (come dice lo storico stesso; i cembali erano strumenti speciali degli Armeni).

La diffusione della fede cristiana conduce il canto armeno a rapido rinnovamento, il quale può dirsi definitivamente avviato nel pieno sec. V (il secolo aureo della nazione armena). Il nuovo canto, ispirato a sincera fede, presenta gli stessi caratteri del canto religioso di tutti i paesi in quel lontano tempo, semplicità e omofonia; e vi s'innestano recitativi e salmodie. Sin d'allora, cioè dal sec. V, s'inizia dunque la costituzione d'un ricco patrimonio poetico-musicale, quale si doveva poi vedere completamente raccolto e ordinato nel libro che nel sec. XI fu chiamato da Paolo di Tarōn col nome di Šarakan ("Canzoniere", o "Collana di gemme"). È una collezione d'inni sacri, in parte originali e in parte tradotti dalla liturgia greca. Gli autori sono parecchi, ma specialmente meritano di essere ricordati S. Isacco e Mesrop, inventore dell'alfabeto armeno (sec. V), il Patriarca Komitas e Hovhan Ocneci (sec. VII) e Stefano di Siunikh (sec. VIII); S. Nersete Claiense (o il Grazioso) e Chaciadur [Xačatur] di Tarōn (sec. XII), ecc.

I soggetti di questi inni sono tolti dalla vita e dai misteri di Gesù Cristo, della SS. Vergine, dei Ss. Apostoli e Martiri, e da Santi Padri della chiesa; ed altri sono puramente ascetici, per i defunti e per giorni di penitenza o di ferie. Alcuni degli scrittori suddetti sono autori anche delle musiche per i loro testi. Lo Šarakan fu definitivamente ordinato da S. Nersete il Grazioso, il quale lo arricchì anche di poesie, cui egli stesso diede dolce intonazione melodica.

Gli otto modi ecclesiastici. - Seguendo la chiesa greca, la chiesa armena, come quella latina, ha adottato l'uso di otto modi ecclesiastici. L'origine di alcuni di questi secondo taluni risale al sec. V, e i rimanenti sarebbero stati introdotti, forse da Stefano di Siunikh, nel sec. VIII, cioè quando S. Gregorio Magno diede disposizioni generali per il canto religioso latino.

Anche gli otto modi della chiesa armena si dividono in due categorie, quattro autentici e quattro plagali. Ognuno di questi viene contrassegnato con due lettere iniziali:

Della teoria inerente a questi modi non ci è giunto alcun documento, e certo non per negligenza di quegli antichi autori, ma per le infinite sciagure che hanno straziato per tanto tempo l'Armenia.

Benché i modi talvolta siano stati studiati da diversi studiosi col metodo comparativo, e perfino spiegati (in particolar modo nell'ottimo opuscolo stampato a Tiflis nel 1914 dall'insigne M. Spiriton Melikhian), tuttavia codesti studî non hanno condotto a risultati comunque definitivi.

È dunque soltanto in virtù dell'istintivo attaccamento degli Armeni alle loro tradizioni, che lo spirito dell'antico canto religioso nazionale giunge a farsi sentire anche oggi.

Notazione musicale. - Quanto alla notazione musicale, in Armenia si usarono - come nelle altre nazioni - i neumi, introdotti (a quanto riferisce uno scrittore del sec. XIII) da quello stesso Xačatur Vardapet di Tarōn che ordinò in notazione neumatica lo Šarakan sopra menzionato. I codici dello Šarakan ci mostrano neumi in numerose forme e combinazioni, tali da rendere difficile un'esatta decifrazione.

Di studî sulla notazione neumatica armena se ne sono tentati e condotti molti durante gli ultimi secoli, a cura di religiosi e di laici, Armeni e (con minore utilità) Europei, ma - come dianzi si accennava - a risultati definitivi, ad opere riassuntive e sistematiche non si è peranco giunti. Una sicura "chiave", nonostante lo sforzo geniale di Komitas Vardapet (celebre musicista, appartenente al convento di Eǧmiadzin, tuttora vivente ma infermo) non si è trovata ancora; tuttavia, giovandosi, nello studio dei documenti neumatici, dell'ausilio offerto dall'ancor gagliarda tradizione che fino a noi ha tramandato a viva voce gli antichi canti, si è ritenuto - nel sec. XVIII - di potere senz'altro procedere a un'approssimativa trascrizione dei canti liturgici in una nuova notazione per molti caratteri analoga a quella europea.

A questo lavoro importante diede opera, nel '700, il compositore e cantore di grande ingegno Papa Hambarcum Limongian, da Costantinopoli (1768-1839), aiutato da altri illustri Armeni, e l'opera fu portata innanzi dagli allievi di Hambarcum e da altri musicisti e studiosi. Il frutto già notevole di questa somma di opere e di studî fu il grandioso Atean Šarakan, innario stampato ad Eǧmiadzin nel 1874, nel quale sono raccolti, con la nuova notazione armena, gl'inni sacri dell'anno; ma vicino a questa importante pubblicazione vanno poste anche molte altre, di musiche più recenti.

Questa nuova notazione armena, quantunque certo imperfetta ancora, offre vantaggi inestimabili per la conservazione e per l'insegnamento dei canti liturgici, ma è d'uopo notare che essa rappresenta un mezzo assai dubbio agli effetti di una diffusione della musica armena nel mondo. Molti musicisti moderni hanno quindi voluto servirsi della notazione europea, e anzi introdurla in varie scuole, ma è necessario avvertire che neppure tale sistema è adatto a far conoscere la vera musica d'Armenia, la quale, per i suoi intervalli, in Europa virtualmente sconosciuti (minori del semitono), esigerebbe una notazione ben diversa e in ogni caso più ricca di possibilità.

La pratica musicale. - Lo scopo principale dei neumi, cioè quello di conservare il canto, si manifesta sin dal sec. V, giacché lo scrittore Lazzaro di Pharp scrive che il Patriarca S. Isacco era "erudito nelle lettere (cioè nei segni) musicali". E nei tempi posteriori il canto fu intensamente coltivato; ci è giunta la fama di due consanguinei ugualmente eccellenti nella musica, Stefano Metropolitano di Siunikh e sua sorella Sahaktuxt, musicista e compositrice di alto valore (sec. VIII). Anche il convento di Tathew nel secolo IX era centro di dotti musicisti. Samuele, superiore di Kamrǧatsor (sec. X), secondo lo storico Asołik era "profondo nella Sacra Scrittura e nei canti dell'arte musicale", e secondo lo storico Matteo Urhayec̣i (sec. XII) era musicista-cantore.

In quest'epoca giungono alla maggior floridezza celebri monasteri come Hałpat, Sanahin e Narek, centri famosi di cultura nonchḫ d'arte musicale; si ricordano i due musicisti Teodoro Alaxōsik e Daniele; e in Sanahin nel sec. XI prospera un "collegio d'eloquenza e di musica". Infine incontriamo nel sec. XII il patriarca S. Nersete il Grazioso, glorioso scrittore e ultimo assettatore e innografo dell'Ufficio divino della chiesa armena. Ci piace di presentare qui un singolare canto tradizionale dedicato alle vergini armene Ripsimiane e attribuito appunto dalla tradizione a quel santo patriarca.

Dopo l'avvento dei neumi il sistema si diffuse rapidamente in tutta la nazione, specialmente in Cilicia, dove fiorì, secondo le testimonianze degli scrittori armeni, il convento di Arkhakałin centro principale del sistema neumatico. In questo tempo furono composti in gran numero inni e melodie, piene di fioriture e ricche di sentimento, le quali furono complessivamente denominate dai musicisti stessi col titolo di Manrusmunkh.

Questi inni sono in notazione neumatica, di cui i margini degli stessi codici recano le 70 specie di variazioni, tutte con nomi differenti (L. Ališan, Sisuan, Venezia 1885; K. Vardapet, Hayrenikh, 7 agosto 1894).

Il sec. XIII ci dà i nomi dei seguenti poeti compositori di musica: Costantino Srik, Stefano Srik, Nersēs Badveli [Patueli] figlio di Leone II re d'Armenia, i due fratelli Awak e Thoros di Drazark, i due sacerdoti Hakob Erēc̣ e Hovhannēs, un altro Hovhannēs del monastero di Akner, Leone, Nersēs, Thoros Thaphronc̣, Simon il capo cantore di Drazark, i due filosofi Simone e Markar, l'insigne musico Giuseppe di Drazark e molti altri.

Tra i centri principali oggi esistenti e rimasti più fedeli alla tradizione antica, si può citare anzitutto la sede patriarcale degli armeni non uniti di Eǧmiadzin, e poi il cenobio di Sevan sul lago omonimo e il monastero di S. Lazzaro a Venezia.

Data l'importanza singolare dell'opera del ven. abate Mechitar e per la chiesa e per la nazione armena, non sarà inopportuno ricordare con brevi cenni l'opera svolta da lui e dalla sua congregazione, anche nel campo musicale.

Labate Mechitar era eruditissimo anche nel canto degl'inni dello Šarakan, che aveva imparato in diverse comunità religiose di Armenia. E nel fondare la sua congregazione, egli, personalmente, istruiva i suoi discepoli anche nel canto tradizionale dell'Innario armeno, come rilevano concordemente i suoi biografi.

Mechitar, oltre ad essere conduttore ed istruttore degli inni sacri dello Šarakan, è parimenti compositore delle melodie di numerose odi scritte da lui e dedicate alla Santissima Vergine; almeno così riferiscono i suoi biografi, e così è scritto negli annali della sua congregazione. Questi inni si cantavano nel convento durante le agapi in alcune solennità annuali. Oggi però, non ostante tutte le cautele e la vigilanza, non ce ne restano, disgraziatamente, che pochi. Mechitar scrisse alcuni canoni, cioè alcune parti proprie in servizio dell'ufficio divino, le quali nel caso venissero introdotte nell'ufficiatura armena, dovrebbero cantarsi, secondo il suo esplicito intendimento, su certi inni esistenti nello Šarakan, prescritti da lui per alcune feste della chiesa, sovrapponendovi perfino i medesimi neumi.

La congregazione di Mechitar durante la sua vita due volte secolare ebbe fra i suoi membri molti cultori di musica e cantori, dei quali ricordiamo: il padre Minas Pegiškian (Bžiškean) (1777-1851), dotto musicista e teorista dei canti orientali e principale cooperatore del celebre Papa Hambarcum per la riforma della notazione armena; mons. Edoardo Hiurmiuzian, Arcivescovo titolare di Širak (1799-1876), espressivo cantore di sacre melodie armene, "piene di dolcezza", come dicono i suoi contemporanei; padre Agostino Kuyumgian (1823-1896), grande artista dotato di una voce sonora e maestosa, per la quale fu chiamato da tutti i suoi contemporanei "l'usignolo della chiesa"; mons. Ignazio Ghiurekian, il sesto abate generale, arcivescovo di Traianopoli, tenore limpidissimo, perfino nella sua età più tarda. La gloria di quest'ultimo sta particolarmente nella pubblicazione dell'Innario e nei suoi studî paleografici armeni.

La polifonia vocale venne introdotta tra gli Armeni specialmente quando si poté disporre di professionisti, i quali organizzarono cori vocali e concerti. Fra questi maestri i più insigni furono i seguenti: Tigran Ciuhagian (1836-1898), autore di Arifin hiylesi, Leblerigi horhor, Kosse Kehia, Olimpia, e Zemiba; Cristoforo Gara-Murza (1854-1902), compositore celebre, che, oltre ad essere autore di una Messa armena a più voci (inedita), scrisse molti altri canti di diverso genere e li presentò con successo, sotto la sua direzione, nelle grandi città della Russia; Makar Ēkmalian (1852-1902), diplomato nel conservatorio di Pietroburgo, che scrisse i corali della messa, come è detto più sotto, ed ebbe anche parte attiva nella formazione del grande Šarakan di Eǧmiadzin scritto in notazione moderna armena: pubblicò, sempre nella stessa notazione, anche trattati di musica. Komitas Vardapet, nato in Turchia nel 1869, diplomatosi al conservatorio di Berlino, fu degnamente onorato da tutta la nazione armena. Egli, allo scopo di ricercare documenti sul canto genuino armeno, si addentrò fino nei paesi più interni dell'Armenia, nelle case dei contadini, dei pastori e di appartenenti a tutte le classi sociali, non lasciando inesplorato nessun angolo sia pur remoto della sua patria; in tal guisa finì col raccogliere una serie innumerevole di canti di ogni specie, e, armonizzati diversi di essi, li diede a conoscere al pubblico. Organizzò anche concerti e cori per l'esecuzione di canti sacri e canti popolari, da lui stesso raccolti. Tenne inoltre lodate conferenze con saggi vocali e impartì lezioni pubbliche nelle grandi città d'Europa e altrove. Egli aveva in animo di dare alla luce l'intera collezione dei suoi lavori musicali, ma sventuratamente venne colpito da una grave malattia, di cui ancora oggi soffre. Da anni esiste anzi una speciale Commissione degli amici di Komitas Vardapet, la quale si propone di venire in aiuto allo sventurato artista, e di completare e riordinare l'immenso materiale raccolto da lui.

Per i più recenti musicisti si consulti l'almanacco Sevan, ricco di notizie sui compositori armeni del secolo XX, redatto da Aram Veremian, con un'appendice di alcune loro opere, pubblicate in notazione europea e armonizzate (Venezia 1927).

Dai canti chiesastici armeni si sono pubblicate in note europee le parti della messa, come segue: Les chants liturgiques de l'Église arménienne, tradotti in note musicali europee da P. Bianchini, per sollecitudine dell'abate generale mons. Ghiurekian (Venezia 1877), Le melodie della Santa Messa della Chiesa Armena, di mons. Aydinian, abate generale dei Padri Armeni di Vienna (Vienna 1877); Le melodie della Messa cantata a tre e a quattro voci, di Makar Ēkmalian (Vienna 1896).

Riguardo alla trascrizione degl'inni dello Šarakan ve ne sono finora pochissimi pubblicati in note europee. È da osservare peraltro, che in questi ultimi tempi ferve un movimento notevole per la pubblicazione dell'Innario armeno e dell'Ufficiatura armena.

Strumenti musicali. - Gli Armeni antichi adoperavano varî strumenti nei loro riti pagani. Oltre il cembalo, si menzionano presso alcuni storici trombe di bronzo, flauto, lira, timpano, arpa, piatti. Da ciò si deduce che esistevano strumenti a fiato, a corda e a percussione.

Dopo la conversione degli Armeni al Cristianesimo, tali strumenti furono aboliti e rimase in uso unicamente il khšoc̣ tolto dai Greci, che è ancora adoperato per la messa cantata. Si usano ancora altri due strumenti, cioè il dzendzgha [cncłay] (piatti) e i campanelli, i quali furono introdotti presso gli Armeni più tardi. E mentre il khšoc̣ continua ad essere usato nelle cerimonie armene, gli altri sono ogni giorno più sostituiti dall'organo o dall'armonium. Mentre questi ultimi strumenti, un quarto di secolo fa, erano oggetto di controversie e d'opposizioni nella stampa quotidiana armena, oggi invece ferve un movimento, di cui è esponente una commissione speciale da pochi anni organizzata, inteso a realizzare la generale speranza di seguire anche per la musica armena, mantenendone intatta per quanto possibile l'essenza, le vie della civiltà occidentale.

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