ARMI

Enciclopedia Italiana (1929)

ARMI (dal lat. arma; fr. armes; sp. armas; ted. Waffen; ingl. weapons)

George MONTANDON
Antonio TARAMELLI
Bartolomeo NOGARA
Doro LEVI
Goffredo BENDINELLI
Gioacchino MANCINI
Alfredo LENSI
Romeo MELLA

L'arma è uno dei più antichi strumenti dell'uomo; si può teoricamente concepire che essa sia stata preceduta da utensili che non servivano per la lotta, quali sarebbero bastoni per abbattere la frutta, o per scavare la terra; ma l'arma, sotto la forma di un grosso sasso tagliato a mandorla, chiamata amigdala o amigdaloide ("coup-de-poing"), che data dalle epoche preistoriche chelleana e prechelleana, è lo strumento più antico che sia giunto sino a noi. Il solo materiale, costruito artificialmente, da ritenersi anteriore all'arma, è quello che serviva di abitazione, poiché già gli animali ce ne offrono molti esempî. L'immensa quantità di specie di armi, e di forme per ogni specie, rende necessaria una classificazione. Per quanto seducente possa sembrare all'etnologo una classifica in armi da caccia e armi da guerra, e il sapere se la pace (e la caccia) abbia preceduto la guerra, o viceversa, pure il fatto che una stessa arma, con le sue piccole varianti, abbia servito ai due usi, esige un'altra divisione. La più pratica perciò è quella che divide le armi in offensive e difensive. Le armi di offesa hanno preceduto quelle di difesa, poiché non possiamo chiamare arma difensiva un riparo, sia pure artificiale. Inoltre le armi offensive offrono varietà più grandi che non le difensive. Infine, eccettuato lo scudo fra quelle di difesa, le armi di offesa sono molto più importanti per determinare rapporti etnologici. Le armi di offesa vanno suddivise in armi da colpo per il combattimento da vicino e in armi da getto per il combattimento a distanza. Riferendosi a questa differenza può essere posto il problema dell'anteriorità della pace o della guerra: va cioè riconosciuto che in origine le armi da getto sono armi da caccia, mentre quelle da colpo sono armi da guerra. D'altra parte i Pigmei hanno per arma, possiamo dire esclusiva, l'arco, e gli Australiani il bumerang, ambedue armi da getto. Ora, una scuola etnologica, ammettendo che i Pigmei possedessero la più antica civiltà, e gli Australiani pure una delle prime, vuole che le armi da getto - e la caccia, cioè la pace - abbiano preceduto le armi da colpo - cioè la guerra. Senza discutere qui la questione dell'antichità della civiltà dei Pigmei (v. civiltà), una semplice osservazione dei fatti preistorici distrugge questa ipotesi o almeno le considerazioni sulle quali è basata; l'amigdala chelleana è non solo l'arma più antica giunta sino a noi, ma certamente nel suo stato più rozzo ha dovuto precedere l'arco, il bumerang, la fionda e il propulsore. Queste armi da getto necessitano un ragionamento ed una costruzione complesse, e fra la pietra e il bastone tenuti a mano e questi oggetti intenzionalmente modificati, si passa per tutti i gradi. Certamente prodotti naturali, quali sassi, rami d'alberi, frutti duri, sono stati utilizzati in principio quali armi da getto (si sa che gruppi di scimmie, dall'alto degli alberi, colpiscono i loro avversarî con noci di cocco), ma non vi è un passaggio così immediato fra questi prodotti gettati e le armi da getto, come fra i prodotti naturali e le armi da colpo. Pure ammettendo che l'uso di armi naturali da colpo e da getto sia stato da prima quasi simultaneo, diremo che l'arma da colpo fabbricata ha preceduto l'arma da getto.

Le armi da colpo possono essere suddivise in tre gruppi: armi da percossa, quali il bastone e la clava, l'ascia e il piccone; armi a mano, quali il pugnale nelle sue multiple forme, la spada e la sciabola; armi in asta, che hanno cioè la punta fissata su di una lunga asta, quale la lancia e tutti i suoi derivati. Le armi da getto si suddividono in due gruppi: armi da getto a mano, quali il bastone, la clava da getto, il bumerang, la multipunta da getto, l'ascia da getto, l'arpone (per la caccia), il giavellotto e la zagaglia; armi da getto per ordigno, quali la fionda, il propulsore, la cerbottana, l'arco. Queste armi d'offesa sono le più importanti per l'etnologo, altre hanno minore importanza, sia perché sono armi per così dire di fantasia, cioè d'interesse locale, sia perché di origine moderna. Quali armi d'interesse locale possiamo nominare: la frusta e il coreggiato da guerra, il coup-de-poing a piramide della Cina, l'artiglio ferrato, arma femminile presso alcune tribù del Congo (presso i Mobali per esempio), i dischi affilati che hanno rivelato la preistoria, il lasso, ecc.; armi etnologicamente moderne sono: la balestra, derivazione dall'arco, le macchine da guerra, siano esse da getto come la catapulta che deriva dalla balestra, o da colpo come i carri a falce, e infine tutte le armi da fuoco. La differenza fra le armi da colpo e le armi da getto non è d'altra parte ben definita. Non solo alcuni pugnali, il bastone, la clava, l'ascia, possono esser gettati; la vera lancia, lunga da 2 a 4 metri, viene all'occasione efficacemente lanciata a una trentina di metri dai guerrieri della maggior parte dell'Etiopia, che non conoscono né l'arco né la zagaglia. Quest'ultima, intermedia come misura fra il giavellotto e la lancia, è una vera arma da getto; pure essa dovrà essere studiata con la lancia, poiché morfologicamente non è che una lancia di dimensioni ridotte; il giavellotto poi è solo una piccola zagaglia. Come armi di difesa abbiamo: guanti da arcieri, bracciali, bastoni di parata (cioè che servono a parare), archi di parata (Dinca dell'Alto Nilo), scudi, corazze, elmi; le più importanti di queste armi, per l'etnologo, sono lo scudo e il bastone di parata.

Clava (v.).

Ascia (v.).

Pugnale, spada e sciabola. - Se l'amigdala chelleana poteva colpire come un pugnale, pure soltanto alcune punte tagliate dei periodi paleolitici susseguenti meritano il nome di pugnali. Con la scoperta dei metalli i pugnali di selce furono sostituiti da altri di rame e di bronzo larghi e triangolari. Con l'ascia piatta, il pugnale fu, in Europa, la prima arma metallica. Qualunque fosse il luogo della sua prima apparizione, in Europa apparve sul Mediterraneo, spandendosi poi rapidamente verso il nord.

Fin dal I e II periodo dell'età del bronzo, si trovano tre specie di pugnali: gli uni a base rettilinea quali i pugnali di pietra, altri con una linguetta (paragonabili in quanto alla forma ai calcagni delle asce dell'Indocina [v. ascia]), - altri infine hanno un lungo codolo. Queste diverse forme erano fissate ad un manico da una ribaditura di chiodi. Nel III e nel IV periodo del bronzo il pugnale diviene meno tipico in quanto che le forme variano; se ne trovano anche a doccia, benché questo, fino ad oggi, non sia mai divenuto l'attacco tipico del pugnale. Con l'introduzione del ferro il pugnale ha seguitato a moltiplicare le sue varietà, attualmente innumerevoli. Ogni tribù ha un pugnale suo proprio assai bene riconoscibile; ma, tranne alcune linee generali, che si ritrovano nelle spade e nelle sciabole degli stessi popoli, non vi sono modalità fondamentali che permettano larghe classifiche di pugnali. Vanno però ricordati i coltelli delle tribù del Congo che hanno raggiunto le forme più stravaganti; toltene poche eccezioni, queste armi (chiamate coltelli in mancanza d'altro) non sono né pugnali, né spade, né sciabole, né asce; stanno fra tutte queste forme avvicinandosi a volte all'una a volte all'altra. Le une sono armi pratiche (p. es. coltelli da esecuzione), le altre, armi ostensorie (votive); alcune delle loro strane forme si possono vedere nella figura 1, nn.1-14.

La più antica preistoria non conosce né la spada né la sciabola; infatti esse non potevano esser fatte di pietra; e ciò riduce già i paragoni possibili; queste armi non sono apparse neppure subito con la scoperta dei metalli. Le prime spade sono solo pugnali più lunghi, ed esse derivano infatti da quest'ultim'arma. Mentre i pugnali appaiono già nel primo periodo dell'età del bronzo e alcuni si allungano nel II, pure è solo nel III periodo che appaiono le prime vere spade provenienti, come già prima i pugnali, dal Mediterraneo orientale. Come i primi pugnali, così le prime spade hanno la base ottusa, oppure munita di una linguetta o di un codolo (fig. 2, nn. 15-17); le più antiche spade a codolo erano semplicemente ficcate nel manico, tutte le altre sono fissate da ribaditure di chiodi. Il IV periodo dell'età del bronzo vede apparire un gran numero di nuovi modelli, dei quali quello munito di antenne (fig. 2, n. 18) è il più caratteristico; questo modello segna la fine dell'età del bronzo e perfino in Italia lo si trova solo nella I (periodo di Halstatt) e II (periodo di La Tène) età del ferro.

La forma della lama delle spade dell'ultimo periodo del bronzo dimostra che la sciabola è posteriore alla spada. Infatti mentre le spade del II e del III periodo avevano gli orli quasi paralleli, le spade del IV periodo sono pistilliformi, cioè si ristringono dall'impugnatura in giù, per poi riallargarsi prima di arrivare alla punta. Questa forma è dovuta al fatto che l'arma serviva come arma da stocco (spada) e arma da taglio (sciabola). Ma per ritrovare la vera sciabola a un solo taglio bisogna rivolgersi all'Egitto, alla Siria e all'Assiria. Col ferro, le forme si moltiplicano e variano all'infinito, come per il pugnale. Alcuni tratti generali permettono però di stabilire qualche grande gruppo. Sul vasto dominio islamico che con soluzioni di continuità si stende dalla Senegambia alle Filippine, si è imposta una forma molto curva di lama di pugnale e di sciabola; quest'ultima vien chiamata scimitarra (fig. 3, n. 20). Oltre che per questa curva l'arma bianca islamica si distingue per una gran ricercatezza, ma l'eleganza così ottenuta varia molto secondo i paesi. Nelle Filippine le armi musulmane differiscono da quelle delle tribù pagane per i loro abbellimenti metallici, mentre invece in Senegambia è la guaina che riceve tutte le cure e salta all'occhio per i suoi cuoi intrecciati con colori vivi. Nel centro dell'Asia, cioè nel Turkestan, le armi musulmane hanno acquistato una bellezza incomparabile, le lame sono damascate e le guaine ricoperte di pietre preziose. Alcune di queste armi rappresentano da sole un tesoro, e tre collezioni ne possiedono serie di splendore unico: il museo dell'Eremitaggio a Leningrado, il museo di Kensington a Londra e la collezione di Henry Moser, già privata e ora del Museo etnografico di Berna.

Una regione del grande dominio islamico non possiede però la curva della scimitarra: è la zona sahariana. Mentre il nord dell'Africa e il Sudan hanno la lama curva, si trova, dal paese dei Tuareg ad ovest fino al Nilo, una grande spada diritta munita di un'elsa a croce: la lama è coperta d'iscrizioni arabe e la guaina è spesso fatta di pelle di lucertola o di piccolo coccodrillo. Non vi è dubbio che questa forma (fig. 3 n. 19) deriva direttamente dalla spada delle crociate, per quanto strano possa sembrare che si sia ora rifugiata presso i musulmani del deserto.

Mentre l'India possiede forme stranamente contorte e riccamente abbellite e molto varie, la Cina ha forme più semplici, tanto per la sciabola quanto per la spada. Infine il Giappone ha la sua sciabola (fig. 3, n. 21) sempre uguale, leggermente curva, a lama molto spessa, che finisce bruscamente a punta; alla punta corrisponde una guaina a fondo piatto: elsa circolare, lunga impugnatura che continua la curva della lama, impugnatura e guaina ricoperte di materiale intrecciato. Questo per l'esterno; ma "l'interno" rivela la mentalità giapponese rispetto a quella cinese. L'arma bianca cinese può essere bella all'esterno; la lama è sempre mediocre. Per il Giapponese solo la lama conta. Se si entra da un armaiolo giapponese e si chiede una sciabola, egli mostrerà in un armadio file di lame brillanti disposte orizzontalmente - lame senza guaina né impugnatura. Se si chiede una sciabola completa il mercante si meraviglierà. Si scelga la lama, ci sarà sempre tempo per pensare all'impugnatura e alla guaina. E i nomi di grandi tempratori di lame si trasmettono in Giappone da secolo a secolo. Né l'Oceania né l'America conoscono la spada o la sciabola. Così il dominio di queste armi è limitato nel tempo e nello spazio.

La lancia. - Si può fare per la lancia la stessa osservazione che per il pugnale: per una stessa tribù il ferro della lancia è molto caratteristico, ma, a parte il carattere che sarà discusso più in là, è inutile tentare una classificazione delle lance. Il tentativo sarebbe tanto più inutile in quanto l'andamento generale di un ferro di lancia, per poter raggiungere il suo scopo, permette meno varianti che non un pugnale o un coltellaccio. La sola maniera di ben descrivere la lancia è di figurarla; va però notato che, a causa appunto della poca varietà di profilo di un ferro di lancia, le figurazioni utili sono rare; molti riproducono questo oggetto su di una scala troppo ridotta, cioè inutile per paragoni. Una sola divisione importante va fatta fra le lance; le une hanno il ferro fissato al manico da un codolo che entra nell'asta stessa, altre hanno il ferro incavato a guisa di un cartoccio che circonda l'asta (fig. 4, nn. 22-23). Le più vecchie lance certamente non erano né a codolo né a cartoccio. Ancora oggi gli Australiani usano lance che consistono in un'asta appuntita di legno duro; e non è passato molto tempo da che gli Ainu del nord del Giappone cacciavano l'orso con un lungo spiedo a punta. Benché la preistoria non ci abbia lasciato di queste lance di legno, pure si può ammettere senza essere tacciati di apriorismo, che le lance di un solo pezzo sono le più antiche. Né è meno certo che fra le lance a codolo e quelle a cartoccio, le prime sono più antiche. Ma qui il ragionamento è confermato dai dati della preistoria. Nell'età della pietra la punta poteva solo essere infilata nell'asta. Il solo dubbio possibile davanti ad alcune punte di selce, è di sapere se un determinato pezzo derivi dalla freccia, dalla zagaglia, dalla lancia, o se sia una punta indipendente. Pure l'età della pietra ha conosciuto alcune lance che non erano a codolo; la punta in questo caso, generalmente di corno, era tagliata a forca alla base, e questa forca s'incontrava nell'asta tagliata in modo adeguato a estremità piatta (fig. 4, n. 24).

La ragione di questo modo di fare era probabilmente la seguente. Il pezzo a forca essendo quello che alla lunga si spaccava, era preferibile perdere quello più facile a cambiarsi, cioè la punta, piuttosto che l'asta; quando invece che di materiale di corno, di legno o di bambù, si trattava di selce, naturalmente era l'asta a ricevere la punta, e ad essere perciò tagliata a forca, o a ricevere la punta a codolo nel centro. Il fatto che le punte biforcate sono le più antiche sembra dar ragione a questo modo di vedere. Si sono anche trovate alcune lance con un pezzo intermedio forcuto da una parte e piatto dall'altra; forse ciò era fatto perché la punta rimanesse nella ferita. Lance così formate di diversi segmenti incastrati l'uno nell'altro si trovano ancora oggi nelle Nuove Ebridi. Ciò premesso, il vero cartoccio può solo essere metallico, posteriore perciò al codolo. Ma se già il I periodo dell'età del bronzo conosce la lancia, questa lancia non è però a cartoccio; da prima è a codolo, prova dell'imitazione dei modelli di pietra. Però nel II periodo avviene il cambiamento, e durante il III la lancia a cartoccio invade l'Europa occidentale. È d'altra parte curioso osservare che quando il cartoccio fu conosciuto non fu applicato simultaneamente alle tre armi alle quali avrebbe potuto esserlo: alla lancia, all'ascia e alla freccia. La cosa è comprensibile per la freccia, perché sarebbe difficile farla a cartoccio a causa della sua piccolezza, e si sa ancora oggi (v. arco e freccia) che il dominio della freccia a cartoccio è molto minore che non quello della freccia a codolo, anche nei paesi che usano il ferro. Ma bisogna constatare che, senza ragione apparente, l'ascia e il ferro da lancia hanno avuto uno sviluppo indipendente l'una dall'altro. Mentre la lancia a cartoccio comincia ad apparire nel II periodo del bronzo, divenendo comune nel III, questo stesso III periodo conosce solo l'ascia ad alette (v. ascia) e anche questo solo alla fine, mentre l'ascia e così pure la freccia a cartoccio vengono fabbricate solo nel IV periodo. È stato dunque necessario, per gli stessi costruttori, che passassero più di 500 anni prima che si decidessero ad utilizzare in maniera generale un procedimento che già conoscevano. Ai nostri giorni la lancia interamente di legno, o a punta di legno, di corno, di pietra (ossidiana nelle isole dell'Ammiragliato), di dente di pesce, è quella dell'America e dell'Oceania (sulla successione di alcune forme, vedi oltre). La lancia a cartoccio è quella dell'Asia continentale e dell'Egitto; accompagna l'arco composto e lo scudo tondo. L'Insulindia, spesso nello stesso luogo, conosce le due maniere d'attacco. L'Africa infine, sotto questo rapporto, presenta due dominî compatti distinti; il nord ha l'attacco a cartoccio, il sud a codolo. La linea di divisione (vedi carta) è fra l'8° e il 9° di latitudine sud, ad ovest del lago Tanganica (i Bangala dell'Angola hanno i due tipi di lancia), e fra il 6° e il 7° a oriente di detto lago. A sud di questa linea di divisione non si trova la lancia a cartoccio, eccetto presso gli Ovambo; invece la lancia a codolo si trova anche in alcuni gruppi a nord del limite indicato: fra le tribù dell'altipiano senza efflusso dell'Africa orientale (i Turu, i Wambugwe, i Waranghi), poi fra i Wapokomo sul fiume Tana, presso tre popoli abitanti il versante occidentale del massiccio etiopico (i Massongo, i Yambo e i Churo), presso alcune tribù del Sudan centrale e della costa occidentale e, infine, presso i Tuareghi. Ora, queste diverse tribù sono, dal punto di vista culturale, più primitive di quelle che le circondano, come, preso in blocco, il sud dell'Africa comprende elementi più primitivi che il nord, e ciò prova che per l'attuale etnografia, come per l'etnografia preistorica, la lancia a codolo è più antica che quella a cartoccio. D'altra parte la lancia a codolo dell'Africa è facilmente riconoscibile da quella dell'Insulindia. In Insulindia le lance sono massicce; il ferro è a volte ondulato come la lama dei pugnali malesi detti kriss; d'ordinario però è diritto, ma spesso si allarga verso l'estremità, mentre invece è più slanciato in Africa (tanto nella lancia che nella zagaglia). Il manichino che circonda il punto ove il codolo entra nell'asta è, in Insulindia, fatto di vinco intrecciato o di un grosso anello di ferro; mentre in Africa questo manichino è fatto di cuoio o di fili molto tenui di ottone. Tutte le armi in asta del Medioevo, partigiane (simmetriche), alabarde (asimmetriche), derivano dalla lancia. Le loro forme, a volte "terribili" erano destinate alla platea, e non corrispondevano sempre a un fine utile, come avviene anche per le armi dei negri del Congo. E fuori dubbio che le forme raggiunte dalle armi in asta dei mercenarî svizzeri di secoli fa (forme che si accompagnavano con le loro uniformi brillanti), avessero per fine - cosciente o incosciente - di trovare più facilmente chi di loro si servisse. All'opposto della punta, l'asta di una lancia è quasi sempre munita di un tallone o zoccolo, che non deve essere trascurato come segno caratteristico della tribù. Lo zoccolo può esservi soltanto per impedire all'asta di consumarsi, ma può terminarsi in punta e servire a piantare la lancia in terra; oppure è a forma di pala - a Madagascar e presso i Tuareghi fra gli altri -, possa o non possa questa pala, data la sua piccolezza, scavare il terreno. Uno zoccolo speciale, consistente in una campanella, è quello di alcupe tribù dell'interno del Congo belga; quando la lancia è brandita la campanella suona, e si dice che tutte le campanelle di un gruppo di guerrieri, suonando insieme, spandano il terrore fra i nemici.

Armi da getto a mano. - Fra le armi da getto il primo posto, genealogicamente, spetta alle armi da getto a mano, e specialmente al bumerang (v.); il secondo posto non spetta, come si potrebbe credere, all'arpone, affine alla zagaglia, ma alla multipunta, poichè questa deriva dal bastone da getto del quale lo stesso bumerang non è che una derivazione, mentre l'arpone (v.) ha un'origine sua propria. La multipunta è di solito chiamata "coltello da getto", nome poco appropriato, mentre la designa esattamente il termine di multipunta. Non vi è dubbio che la multipunta sia una derivazione amplificata del bastone da getto; questa modificazione era possibile solo con l'apparizione del metallo, ed è sorta in un paese a vecchia tecnica metallurgica quale è l'Africa. Il dominio della multipunta è esattamente limitato; si stende all'ingrosso (cfr. carta) fra il lago Ciad, l'Alto Nilo e la foresta equatoriale, coincide cioè, parzialmente, con la regione dell'Africa - il nord-est - dove il bastone da getto è stato più usato. In particolare notiamo che, dalla parte dell'Alto Nilo, la multipunta non ha invaso ma solo circondato la grande palude di Bahr el Ghazal; d'altra parte, dove è penetrata nella foresta equatoriale, non è più che un'arma votiva carattere che si nota già nella zona dei boschi a galleria che divide la boscaglia dalla foresta fitta. Infatti la multipunta è un'arma da getto che richiede assai più spazio della freccia, che si può far scivolare fra le armi o fra i cespugli. La multipunta è un'arma a più rami (fig. 5, nn. 25-37) tutti nello stesso piano; i due o più rami sono terminati da punte o da lame affilate. L'arma è proiettata a piatto, e volteggia nell'aria - a piatto - colpendo il nemico o l'animale con una delle sue punte. Sotto questo riguardo il n. 37 della fig. 5 rappresenta l'esemplare più perfetto. Una multipunta è sempre fatta di un sol pezzo di ferro, l'impugnatura sola è ricoperta di legno, di cuoio o di filo metallico per renderla più facilmente maneggiabile. Si comprende perciò che quest'arma sia poco adatta per la foresta, tanto più che i soli luoghi liberi da alberi, i corsi d'acqua, dove avvengono i combattimenti, espongono facilmente alla perdita di un'arma che ha indubbiamente più valore della freccia. Ma non solo fisiologicamente è manifesta la sua derivazione dal bastone da getto. Anatomicamente si constata che le forme al confine nord del dominio (vedi come esempî la fig. 5, nn. 25 e 26), sono molto più semplici, formate di due soli rami e private dello sprone caratteristico delle altre; esse ricordano ancora più il bastone primitivo, mentre a sud e nel centro del dominio la forma pare contaminata dall'arte del Congo a profili contorti. Vi sono del resto alcune multipunte che devono poter servire tanto da armi da getto quanto da armi da colpo, e ciò non è solo un'idea teorica; infatti si constata che esemplari identici in ogni particolare, provenienti da una stessa tribù, sono chiamati da alcuni viaggiatori "coltelli da getto" e da altri coltelli da esecuzione": questo è il caso della fig. 5, n. 27. La multipunta con profilo a testa d'uccello con un occhio (fig. 5, n. 36) tipica dei Fang del Gabon, viene anch'essa da alcuni esploratori chiamata "coltello da getto" e da altri "coltello da sacrificio". Questa forma speciale dei Fang, a testa d'uccello, sembra dovuta solo al caso, la fig. 35 mostra uno degli stadî intermedî per i quali deve essere passata questa forma. Sul globo intero la multipunta si trova solo nella regione sopra indicata.

Armi da getto per ordigno. - Le armi da getto per ordigno derivano da tre principî: proiezione per mezzo di un braccio artificiale: la fionda e il propulsore; proiezione per mezzo di un legno flessibile: l'arco (v.); proiezione per mezzo di pressione dell'aria: la cerbottana (v.). La fionda e il propulsore derivano dunque dallo stesso principio con la differenza che, nella fionda, il braccio artificiale è flessibile mentre nel propulsore è rigido. Queste due armi saranno considerate separatamente, visto lo sviluppo indipendente che esse hanno preso, ma il loro punto comune essenziale non va dimenticato. Esiste d'altra parte un ordigno fatto con una corda, forma mista, ma connessa più al propulsore per il modo di usarlo. La fionda, secondo le contrade, presenta fabbricazioni diverse; può essere fatta di scorza, di cuoio, di fibra intrecciata; le due fettuccie possono essere identiche o differenti; nel primo caso una delle fettuccie potrà terminare ad anello per introdurvi l'indice fino a quando il dito lascia la fettuccia per far partire il colpo; l'altra termina in una palla che resta nella mano del fromboliere. Fatta di materiale caduco, la fionda non ci è conosciuta dalla preistoria propriamente detta, ma la protoistoria, cioè l'età del bronzo, ci ha lasciato un esemplare fatto d'un grossolano tessuto di lino, trovato nella stazione lacustre di Cortaillod (Svizzera). Anche oggi la fionda è un elemento culturale che, data la sua poco apparente importanza, può passare inosservato, senza contare che ora può anche essere sparita da contrade ove era in uso prima che ciò fosse constatato. Si sa però che è ancora d'uso comune in parte dell'Oceania, nelle Ande e in diverse parti dell'Africa.

In Oceania la si trova specialmente nella Nuova lrlanda, nella Nuova Bretagna, nella Nuova Guinea (nel distretto di Fischhafen di fronte alla Nuova Bretagna), all'estremo punto orientale della Nuova Guinea (distretto di Massim), nella Nuova Caledonia e nelle Nuove Ebridi, nella Micronesia e sporadicamente in Polinesia, specialmente negl'isolotti vicini alla catena delle isole Salomone. Perciò nella Melanesia, il suo impiego è più frequente nel dominio della civiltà delle due classi, che occupa la Melanesia e l'Australia orientali in contrapposto alla civiltà del totem che occupa la Melanesia e l'Australia occidentali. La fionda appartiene per conseguenza allo stesso ciclo culturale della clava a testa grossa. Queste due armi fanno ferite in sostanza identiche, in confronto a quelle causate dalle armi a punta, caratteristiche della civiltà del totem. Ora, il dominio della fionda e della clava a testa grossa risulta da recenti inchieste essere anche il dominio della trapanazione, dell'Oceania; ciò dimostra, meglio di tutte le ipotesi fondate sui dati incompleti della preistoria, che la trapanazione dei primitivi attuali e forse anche dei primitivi della preistoria, non aveva ragioni mistiche ma era nata nel territorio delle fratture craniche larghe e frequenti, quali sono appunto quelle che avvengono presso popoli che usano la fionda e la clava.

Il complesso culturale fionda. clava a testa grossa e trapanazione si trova, in America, nella regione delle Ande, prova evidente che esso ha migrato in blocco da un continente all'altro. Il fauo che l'area di dispersione della trapanazione è alquanto minore di quella della fionda, non attenua praticamente il valore di queste constatazioni, poiché la fionda non esiste nell'America del sud dovunque sarebbe stato possibile fabbricarla; si trova solo sporadicamente nella pianura dell'Amazonas, ed è invece frequente nella regione andina, dal Messico alla Terra del Fuoco. Si sa che fu normalmente usata nell'esercito degl'Inca, ove i guerrieri si disponevano per la battaglia su quattro linee; in prima linea i frombolieri protetti da scudi e corazze di mollettone; in seconda linea i guerrieri muniti di clave ed asce; in terza linea quelli che lanciavano le zagaglie col propulsore; e infine nella quarta linea quelli armati di lance. Va notato dunque che se l'esercito degli Inca contava, fra i soldati regolari, frombolieri e porta-propulsori, mancava però di arcieri.

In Africa, anche considerandola nei suoi diversi fini (armi da guerra, da caccia, strumenti per spaventare gli uccelli, trastulli) si vede che la fionda è ben lungi dall'occupare tutto il continente. La si trova: 1° sporadicamente nell'Africa del nord (costa mediterranea); 2° in Etiopia ma non in maniera continua: a nord presso i Mensa, i Cunama e i Tigrini; ad est si stende dal Capo Guardafui, in territorio somalo, per il paese dei Galla fino al Caffa; 3° su gran parte dell'Africa orientale già tedesca; 4° sporadicamente nell'alta Guinea, e nel Sudan centrale e occidentale cioè dall'Ogoué (dove è conosciuta presso i Fang) fino al lago Ciad, e da questo al Senegal, 5° al Madagascar. Così rimangono tre vaste regioni dove la fionda non è mai stata segnalata, e dove pare non esista: il Sahara, il Congo e tutta l'Africa a sud del Congo. Nel Sahara la sua assenza può essere attribuita alla scarsezza di sassi, almeno in alcune parti; e le foreste del Congo probabilmente non permettono il suo uso razionale. Ma queste ragioni non valgono per l'Africa del sud dove non è usata né dai Cafri, di cultura relativamente superiore, né dalle tribù ottentotte e boscimane. Questo è un argomento contro la teoria della scuola evoluzionista secondo la quale gli elementi di cultura si sviluppano ovunque la natura permette la loro esistenza. Per l'Africa bisogna assegnare alla fionda un solo focolare. E, se si eccettui il Madagascar, ove può essere connessa a quella, per quanto di poca importanza in quel paese, dell'Insulindia, la fionda si trova solo presso popoli ove l'influenza camitica si è fatta sentire, direttamente o indirettamente. Ma i popoli camitici hanno più legami col ciclo culturale del totem (che in Oceania ignora la fionda) che col ciclo delle due classi, alle quali essa in Oceania appartiene. Ciò prova che, se l'antica teoria evoluzionista va scartata, bisogna però evitare anche l'altro estremo che assegna ad ogni oggetto una sola culla. Come l'arco è nato poche volte ma più d'una, così non è impossibile che la fionda sia nata, non un numero illimitato di volte, ma almeno a due riprese; e che ciò sia avvenuto, essendo cambiati i luoghi e le circostanze, in gruppi differenti di cicli culturali. Nella fionda lo strumento di proiezione è indipendente dal proiettile, ma le due parti possono anche formare un solo insieme. Si hanno allora le bolas. Questa verosimile derivazione non è solo teorica. Le bolas sono formate da una corda tripla; ogni elemento della corda è terminato da un sasso tondo chiuso in una tasca di cuoio; uno dei sassi, quello che il cacciatore tiene in mano per brandire e far volteggiare l'arma, è più piccolo degli altri. La bola ha per primo fine di catturare l'animale, ma ve ne sono, che hanno una sola corda semplice con un solo sasso che serve a colpire da presso o da lungi, non solo nella caccia ma anche in guerra; l'arma, una volta scagliata, è spesso perduta (da qui il nome di bola-perda). Le bolas, non si trovano solo nell'America del sud, poiché i Ciukci hanno un'arma della stessa specie, multicorde con ogni corda terminata da un osso, per catturare gli uccelli.

Gli antichi Greci avevano una fionda speciale, con un pezzo centrale rigido, sul quale era posta, orizzontalmente, una freccia pesante. Nessun popolo attuale usa questo tipo.

Il propulsore. - È uno strumento che serve a scagliare una lancia o una zagaglia, a volte anche una freccia, con maggior forza e più lontano che non con le mani. Una lancia che con le mani potrà essere lanciata a venti o trenta metri, ne percorrerà, se scagliata col propulsore, da cinquanta a settanta. Il propulsore può essere flessibile o rigido, ed è molto difficile decidere a quale vada assegnata la priorità storica. Si hanno propulsori rigidi, d'avorio o di corno di renna, che datano dall'epoca maddaleniana, mentre il propulsore flessibile è conosciuto solo dall'età del bronzo; ma potrebbe darsi che alcuni esemplari flessibili, anteriori all'età del bronzo, siano spariti a causa della caducità del materiale (cuoio, corda). Gli antichi Greci e gli antichi Romani usavano il propulsore flessibile; d'altra parte, presso i primitivi attuali il tipo flessibile è poco diffuso in confronto a quello rigido. Esistono propulsori embrionali dell'uno e dell'altro tipo. Nel primo caso si tratta di lance munite di un cordoncino; la lancia è afferrata e gettata per mezzo del cordone (per far ciò la lancia deve essere momentaneamente sostenuta sulle dita della mano sinistra); nel secondo caso, invece del cordone, si ha un grosso cavicchio piantato nell'asta. Le lance munite di cordone sono state segnalate fra i Dravida e nell'Alta Guinea; presso alcune cavallerie europee, che pure lo usano, il cordone serve solo per attaccare la lancia, a riposo, e non per scagliarla. Nemmeno lo studio dei propulsori flessibili o propulsori a coreggia, porta a grandi risultati, perché son molto diversi, pur essendo poco diffusi. Alcuni consistono in una corda terminata a laccio; altri sono semirigidi, inquantoché la corda è attaccata ad un manico, a guisa di frusta; alcuni di questi strumenti sono usati da adulti, ma altri sono solo giocattoli; nell'insieme ricoprono un'area molto ristretta (v. la carta) formata della Nuova Zelanda, Nuova Caledonia, Nuove Ebridi del sud, con propaggini isolate nelle isole Hawai, nel golfo di Carpentaria, in un punto della penisola orientale della Nuova Guinea, e nelle isole dell'Ammiragliato. Si tratta probabilmente di residui dei primi propulsori con modificazioni secondarie e locali. La storia antica ci dice che anche i Galli, come i Greci e i Romani, possedevano il propulsore flessibile, ma non se ne conosce precisamente la costruzione; si sa tuttavia, da figure su vasi, che l'ammentum romano, diversamente da ciò che si osserva in Oceania, era una coreggia che avvolgeva la lancia a spirale; il soldato, tirando sulla coreggia per lanciare la lancia, imprimeva simultaneamente a quest'ultima un movimento di rotazione (va notato, a questo proposito, che molti indigeni, gettando la zagaglia, le imprimono un movimento di rotazione con un colpo di mano). Questo procedimento non viene oggi usato in alcun luogo.

Il vero propulsore è quello rigido. Benché varii molto quanto alla lunghezza, possiamo dire che in media misura mezzo metro. Se ne distinguono tre forme: il propulsore maschio è un bastone terminato con un uncino, che viene introdotto in una cavità nella base della lancia; il propulsore femmina è un bastone incavato: la scanalatura finisce ad un lato e su questo viene ad appoggiare la lancia con la sua base più o meno appuntita; il propulsore androgino è scanalato ma reca un uncino sul calcagno cavo, uncino sul quale si adatta una piccola cavità della base della lancia. Il riconoscimento di queste tre forme è il fondamento della classifica dei propulsori. Vi sono, tuttavia, varietà così simili per altri caratteri, che sarebbe artificiale separarle per questo solo criterio di "sesso". L'esistenza stessa della forma androgina mostra d'altronde che sotto questo rapporto le differenze non possono essere assolute. Tenendo conto dell'insieme dei caratteri si isoleranno i seguenti tipi.

Il propulsore australiano occupa, eccettuata una parte della regione orientale, all'incirca tutta l'Australia. È fatto di un bastone (fig. 6, n. 38) o di un'assicella verticale oppure di un'assicella orizzontale (fig. 6, n. 39), forma della quale non si capisce bene l'utilità poiché deve opporre una forte resistenza all'aria, o di un bastone che si allarga in un'asse orizzontale nella metà superiore. Tutti questi modelli sono maschili: qualche raro esemplare femminile, semplice trastullo, è stato scovato sulla costa nord-orientale del Queensland e nelle isole di Melville.

Il propulsore neo-guineano (fig. 6, n. 40), fatto di un bastone tagliato nel senso della lunghezza, è femminile. Sul davanti è munito di un cavalletto che è stato preso, da alcuni, per un motivo ornamentale, perché di solito rappresenta una testa scolpita; si tratta invece di un appoggio per la lancia situato alla destra di questa (poiché il cavalletto non è sull'asse mediano), mentre a sinistra la sostiene il pollice. La forma è comune sulla costa di nord-est della Nuova Guinea; sulla costa meridionale di quest'isola sono stati segnalati esemplari maschili. È probabile che la forma comune della Nuova Guinea sia determinata dalle possibilità materiali (bambù) e che le forme sessualmente diverse dalle prevalenti, trovate sulle rive opposte dell'Australia e della Nuova Guinea, siano dovute a contatti di vicinato. Perciò, anche se i propulsori femminili da giuoco delle isole Melville e del Queensland non hanno cavalletto, è ragionevole collegarli a quelli della Nuova Guinea.

Il propulsore micronesiano non esiste più ai giorni nostri sul luogo, ma diversi viaggiatori lo hanno segnalato e se ne conservano alcuni esemplari; sono femminili, come quelli della Nuova Guinea, ma senza cavalletto (fig. 6, n. 41). L'arcipelago di Figi ha la stessa forma. In sostanza, tutti i propulsori rigidi dell'Oceania formano genealogicamente un unico blocco e lo strumento rappresenta qui nettamente il ciclo culturale totemico.

Un immenso dominio occupato dal propulsore è, poi, la regione artica orientale. Senza interruzione, con varianti di un unico tipo (fig. 6, nn. 42 e 43), il propulsore è usato dai Ghiliaki (foci dell'Amur e rnetà settentrionale dell'isola Sachalin), dai Camciadali, dai Ciukci, dagli Aleuti, da tutti gli Eschimesi e dagli Indiani loro vicini, come i Tlingit dell'Alasca. In tutto questo dominio il propulsore è androgino, ma non è la sua sola caratteristica; è formato di un'assicella più o meno rettangolare, mentre l'assicella degli Australiani è arrotondata ai lati e sempre terminata a punta; poi, l'assicella è munita, per infilarvi l'indice, dì un foro o di una incavatura nella sua faccia inferiore, oppure di un uncino sui lati; la disposizione per le diverse dita è di solito molto accurata. Tale cura è dovuta probabilmnente al clima freddo che indebolisce la forza delle dita, coperte o no di guanti, per cui si richiede un adattamento quasi passivo, molto preciso, al manico dello strumento. Gli Eschimesi della Groenlandia se ne servono soltanto per lanciare l'arpone. Il meccanismo, tanto del propulsore quanto dell'arpone, che è provvisto di due uncini adattantisi al foro di quello, sono molto ingegnosi e rappresentano uno sviluppo locale dei due strumenti combinati; anche questo propulsore groenlandico è androgino, eccettuata una delle sue varianti, così simile però alle altre del paese che non può esserne separata. L'altra estremità del dominio artico del propulsore ha un confine molto netto fra i Ghiliaki che lo possiedono, e gli Ainu, che abitano anche una parte della stessa Sachalin, che non lo usano né l'hanno mai conosciuto.

Il propulsore messicano (fig. 6, n. 44) era diffuso almeno nella grande California, nell'America centrale, nelle Antille, nella Florida. È usato oggi sul golfo di Campeche (Yucatán) e sulle rive del lago Patzcuaro, ad oriente della città del Messico (fig. 6, n. 45). Tutti son d'accordo che può essere collegato al propulsore artico.

Lo stesso non si può dire del propulsore brasiliano, maschile, al quale viene attribuita un'origine diversa. Questo modo di vedere può non essere condiviso, poiché il propulsore brasiliano presenta, almeno in parte, l'assicella, ed è di solito munito di un foro per l'indice. Il suo dominio attuale è l'alto corso dei fiumi Xingú e Araguaya, ma la sua presenza passata è attestata nella regione vicina (benché non contigua) che si stende dal Panamȧ, per il Magdalena, sino all'alto corso dei tributarî dell'Amazonas, ai piedi delle Ande. I numeri 46 e 47 (fig. 6) dimostrano una certa parentela con lo strumento messicano, tanto più che esiste, presso alcune tribù Tupi, una varietà androgina.

Il propulsore andino (fig. 6, n. 48) pure maschile, è costituito di un bastone, e sotto questo aspetto s'assomiglia di più al propulsore australiano. È però difficile ricondurlo per l'origine a quest'ultimo, non tanto a causa della distanza, quanto per alcune differenze di forma. Il bastone andino presenta anzitutto all'estremità anteriore una dilatazione che permette alla mano di tenerlo ampiamente; un po' al di sopra di tale impugnatura v'è un uncino per l'indice, fissato a 90° rispetto all'uncino che serve a collocare la base della lancia, mentre quest'ultimo non si trova proprio all'estremità dell'arma, ma ad una certa distanza. Ci si può chiedere:

a) se il propulsore brasiliano sia un prodotto ibrido fra l'andino (qualunque sia l'origine di questo) del quale ha la mascolinità, e il messicano, del quale ha la forma ad assicella;

b) o se il brasiliano, derivato dal messicano, abbia dato luogo a sua volta a un derivato che conserva in comune col messicano soltanto il sostegno per l'indice;

c) o se l'andino e il brasiliano abbiano due origini distinte e indipendenti da tutti gli altri propulsori (si possono però notare delle analogie fra i nn. 47 e 48 della fig. 6);

d) o, infine, se il propulsore australiano (portato eventualmente da navigatori della Polinesia) abbia realmente esercitato una lontana influenza fin nell'America. Il propulsore andino è conosciuto ormai solo attraverso la letteratura e alcuni pochi esemplari. A proposito della fionda si è visto che il propulsore era un'arma dell'esercito degl'Inca, ma disgraziatamente non sappiamo quale ne fosse il modello ufficiale.

Le corrispondenze che si possono osservare fra il periodo maddaleniano e la civiltà artica attuale hanno naturalmente condotto a ravvicinare i propulsori maddaleniani trovati in Francia (una quarantina; v. fig. 6, nn. 49-51) ai propulsori artici, ma si sono trascurati i particolari della questione. Infatti, senza parlare delle dimensioni, molto più piccole che nei moderni, tutti i propulsori paleolitici raffigurati sono maschili (alcuni mostrano una tendenza all'androginato, con la scanalatura esistente fra le zampe anteriori dell'animale scolpito), in opposizione ai propulsori artici che sono tutti nettamente androgini, salvo una variante femminile; i maddaleniani sono inoltre tutti bastoni che non hanno niente dell'assicella, e nessun dispositivo per le dita. I propulsori maddaleniani sono semplici o scolpiti; queste sculture sono state paragonate a quelle delle armi analoghe neo-guineane, con l'avvertenza però che le sculture magdaleniane si trovano al "verso" (al di sotto) dell'uncino di appoggio per la lancia, mentre le sculture neo-guineane sono sulla faccia anteriore all'estremità opposta del propulsore. E vi è una differenza ancora più grande fra i due ordini di sculture: le maddaleniane sono puramente artistiche senza alcuno scopo utilitario; le neo-guineane servono invece da cavalletto d'appoggio, come è stato notato sopra. Certo, se il ciclo culturale del totem non viene suddiviso, tutti i propulsori vi appartengono, poiché tanto nelle regioni artiche ed americane quanto in Oceania, sono associati all'esistenza di gruppi totemici, e si ha ragione di ritenere che così fosse anche nell'epoca maddaleniana. Ma se una divisione qualsiasi è introdotta, i propulsori maddaleniani vanno separati tanto dagli artici quanto dagli oceanici. Di modo che, riassumendo, abbiamo tre grandi gruppi di propulsori: l'oceanico, l'articoamericano (poiché la situazione esatta dell'andino è sospesa) e il maddaleniano d'Europa.

Per le armi difensive, v. scudo, corazza e casco.

Le armi ed i cicli culturali. - È evidente che le armi si sono sviluppate e pefezionate a poco a poco. Per seguire le tappe di questo sviluppo le idee dettate dal semplice ragionamento dovranno essere controllate con i risultati degli studî della preistoria e dell'etnografia. Abbiamo visto, a proposito di ogni arma, che, nella preistoria, la successione delle forme si compie secondo un processo evolutivo - in senso affatto generale - dominato dal passaggio dall'età della pietra e dell'osso a quella del metallo. È in rapporto a questo cambiamento di materiale che la preistoria ci fornisce le indicazioni più preziose. Disgraziatamente più indietro, nel tempo, i dati sono meno sicuri perché molto frammentarî. Se vogliamo essere informati sulla successione delle prime armi bisogna rivolgersi alle civiltà più primitive, e ai luoghi nei quali queste non hanno subito contatti col metallo. In siffatte condizioni sono l'Oceania e almeno in parte, l'America. Non bisogna tuttavia dimenticare che in America la compattezza di questo doppio continente ha mescolato i diversi cicli culturali ed i loro elementi in modo tale da rendere difficile la loro discriminazione; ciò, in più del fatto che non sappiamo ancora esattamente quanto sia in America autoctono e quanto importato. D'altra parte va ricordato che i paesi del metallo albergano una civiltà estremamente primitiva, quella dei Pigmei. Pur tenendo conto dei dati contraddittorî, dal punto di vista delle armi, forniti da questo ciclo culturale, ci appoggeremo specialmente sul quadro fornito dalle civiltà oceaniche che presentano dominî relativamente distinti, e un bagaglio successivamente progressivo. La civiltà tasmaniana, la cui primitività è certa, non conosceva che armi grossolane, un coltello di pietra rozzamente tagliato, una clava per così dire naturale, uno spiedo appuntito quale lancia. La civiltà pigmea, parallela per primitività, presenta la discordanza di possedere un'arma così "avanzata" qual è l'arco, ad esclusione di tutte le altre armi. L'ultima parola però sull'origine di questo elemento presso di essa non è forse stata detta ancora. Nell'Oceania, la seconda civiltà per antichità, civiltà propriamente australiana, chiamata del bumerang, presenta già, rispetto al ciclo tasmaniano, armi che esigono più che un rudimento di preparazione. Sono pietre, non rozzamente tagliate, ma con forme intenzionali, così da presentare, tra l'altro, margini seghettati; sono lance munite di punte di pietra. L'ascia offre una gamma molto vasta di lavorazione, andando dalla scheggia grossolana alla pietra ritoccata e anche levigata; il manico dell'ascia è generalmente formato da un vinco ripiegato su sé stesso, che serra tra le due estremità la base della pietra, ma la caratteristica principale dell'ascia australiana è che il manico e la pietra sono uniti da uno spesso e duro strato di resina; armi più piccole, quale il pugnale, hanno per manico soltanto questa resina (anche il propulsore n. 39 della fig. 6 ha una impugnatura di resina). La civiltà australiana possiede un'ampia serie di clave diverse: di dimensioni ristrette, le une sono da getto, altre da colpo; una forma di clava a spada, diritta, con margini affilati a volte a punta, è pure caratteristica. Un'altra clava ha la forma a falcetto, e questa è particolarmente importante perché rappresenta il primo stadio del bumerang, l'arma che ha dato il nome a questo ciclo. Quale arma di difesa troviamo lo scudo da parata. Il terzo ciclo culturale, o ciclo del totem, che ricopre la maggior parte della Nuova Guinea, e che si è sovrapposto alla civiltà del bumerang nell'Australia occidentale, ha per armi speciali (oltre alla lancia munita di punta di pietra) la lancia uncinata la cui punta è di legno o d'osso, l'ascia a pietra incastrata nel manico e, soprattutto, il propulsore. Il quarto ciclo culturale, ciclo delle maschere o delle due classi, che ricopre l'Est della Nuova Guinea e le isole melanesiane e si è sovrapposto alle civiltà del bumerang e del totem nell'Australia orientale, ha lance uncinate più complesse, la clava a grossa testa formata da un ingrossamento del legno o dalla montatura di una pietra (a volte a forma di stella, morgenstern), l'ascia regolarmente levigata, la fionda, e, quale arma particolarmente tipica, lo scudo largo. Questo manca tanto nei cicli precedenti quanto nei successivi. Va ricordato inoltre che in questo ciclo appare l'arco musicale (idiocorde). Riterremo che, mentre le armi del ciclo del totem sono armi da stocco e in asta, quelle del ciclo delle maschere sono anzitutto armi da colpo; riterremo specialmente che nel corso delle quattro civiltà sopra citate, che corrispondono all'ingrosso alle età eolitiche e paleolitiche della preistoria, l'arco da guerra era ignorato. La quinta civiltà, o ciclo dell'arco da guerra, è chiaramente sovrapposta alle due civiltà precedenti in tutta la Melanesia (Nuova Guinea e isole della Melanesia). L'arma principale di questo ciclo è dunque l'arco da guerra nella forma dell'arco piatto. È accompagnato, nella Nuova Guinea, dallo scudo a spalla (sospeso alla spalla, non tenuto in mano), e dall'ascia a guaina intermedia. La sesta civiltà, o polinesiana, si potrebbe chiamare ciclo dell'ascia a manico ripiegato (a gomito) perché è caratterizzata da quest'arma-utensile. La pietra dell'ascia ha facce più angolose che nei cicli precedenti. Se la lancia e la fionda si trovano ancora, non esistono più però né l'arco né lo scudo. Questo ciclo culturale è quasi un ciclo disarmato, e questa dev'essere una manifestazione secondaria da attribuirsi alla dispersione della popolazione su isole lontane, il loro principale sforzo essendo rivolto alla navigazione. Il ciclo polinesiano corrisponde in qualche modo a quello del Sūdān, in Africa, ma siccome qui, come in Asia, è intervenuto il metallo, le condizioni di paragone delle armi sono sconvolte. Il ciclo polinesiano corrisponde al neolitico nella preistoria. Neolitico e polinesiano segnano la fine delle armi non metalliche.

Se i cicli culturali ancora riconoscibili in Oceania si sono altre volte estesi su regioni più vaste, sarebbe troppo arrischiato pretendere che ovunque la successione delle forme culturali, e delle armi in particolare, sia stata la stessa. Ma in relazione alle scoperte ancora da farsi nel dominio della preistoria, i cicli oceanici rappresentano un termine di paragone che non si può più trascurare.

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Le armi preistoriche.

La storia dell'umanità è in gran parte la storia delle sue armi di assalto e di difesa; esse per tutte le epoche preistoriche sono le caratteristiche più salienti dei diversi periodi e delle varie civiltà. Si può dire che un riassunto sulle armi preistoriche sia uno studio sintetico dei varî passi fatti dall'uomo nella conquista dei mezzi per affermare la propria potenza contro le belve e contro gli altri uomini.

Dopo una lunghissima fase preparatoria, che forse risale agli ultimi periodi del Terziario, in una vastissima area della terra si presentano le forme tipiche delle armi del periodo Quaternario, in cui l'uomo, contemporaneo di grandi mammiferi di razze scomparse, ebbe armi di selce a foggia di grossa mandorla, a larghe scheggiature su ambe le facce, del tipo detto di Chelles dalla località dei più antichi trovamenti; una forma alquanto raffinata, sempre però amigdaloide, è quella del tipo di Saint-Acheul, di periodo parallelo, mentre ad una fase più recente del paleolitico appartiene l'orizzonte caratterizzato dai tipi di Moustier, tratti da un ciottolo di selce con una superficie di stacco e l'altra faccia invece a grandi scheggiature. Il successivo periodo, detto di Solutré, dà le grandi lame di selce a minute scheggiature, e quello ancora posteriore, detto di La Magdaleine (magdaleniano), contemporaneo a una fase di clima di steppa, segna una decadenza della tecnica litica e un grande sviluppo di armi e di utensili tratti da corna ed ossa di renne e di cervo. fiocine ed arpioni di notevoli dimensioni. Le fasi di transizione dal Paleolitico al Neolitico, designate con varî nomi nella sempre più complessa stratigrafia seguita dai recenti studiosi, segnalano le successive trasformazioni nei tipi delle armi che conducono alla fase neolitica. Questa è per varietà e copia di tipi assai più complessa della precedente fase, e già si disegnano i grandi agglomeramenti sociali caratterizzati da fogge speciali di armi.

All'età neolitica appartengono le varietà di lame di selce foggiate a coltelli, mentre altre servirono per trapani, bulini, punteruoli; le accette levigate di rocce dure, provenienti talora da regioni lontane dalle località del giacimento, con forme svariatissime, da quelle piatte, tipiche di regioni nordiche, a quelle ovali o allungate, larghe al taglio e acuminate alla testa, diffuse largamente nell'Italia e nell'Europa centrale ed occidentale. Al Neolitico appartengono altresì le cuspidi di giavellotto o di freccia, ovali, a peduncolo, ad alette, per lo più in selce, dei tipi più varî, abbondantissime nelle stazioni lacustri di Svizzera, d'Italia, d'Austria e in sepolcreti di ogni genere; appartengono le lame di pugnali ottenute con minutissime scheggiature, che raggiungono dimensioni notevoli e compaiono in vasta area dall'Italia alla Danimarca, delle contrade dell'Atlantico alla Russia; appartengono infine le teste di mazza sferoidali o schiacciate, con foro nel centro per l'immanicatura, le quali, unitamente alle scuri ed alle elaboratissime bipenni litiche a delicate sagomature, rappresentano il punto più alto a cui giunsero, specie nel Nord dell'Europa e dopo la diffusione di esemplari metallici, le industrie della pietra levigata.

Raggiunta la mirabile conquista del metallo, l'industria umana sostituisce gradatamente tutta la suppellettile d'armi. Alle prime accette piatte, ai primi tentativi di pugnale a lama triangolare appiattita con breve codolo per innestarla al manico, che è proprio di tutto lo strato eneolitico o di transizione, succedono le forme più solide e sicure della vera età del bronzo, in cui si presentano aree di produzione e vie di espansione di determinati tipi. Alle lame triangolari, con breve risalto mediano e chiodetti per adattarle a un'impugnatura in legno o in osso, tien dietro una foggia più sicura con un lungo codolo appiattito, con alette e chiodi, infisso nel manico e ad esso solidamente unito; la lama si fa più robusta, a foglia di salice, con risalti e nervature, con manico a ghiera, come negli esemplari dati dalle terramare e dalle stazioni lacustri, sino ai begli esemplari tipo Castione o Fossombrone, nei quali la lama e l'anima dell'impugnatura sono d'un sol pezzo, rafforzato però con un fasciame chiodato per una più comoda presa. I pugnali hanno fogge variatissime, dalla Spagna all'Inghilterra, dalla Francia all'Italia, alle regioni danubiane, e peculiari a ciascuna regione. Una varietà del pugnale è quello a lama serpeggiante e con un solo tagliente, tipico delle palafitte di Svizzera e di Francia, come di quelle del Garda, ma che scende sino al secondo periodo delle necropoli estensi e alle necropoli bolognesi di Benacci, e persino al periodo Gallico.

Dal pugnale nasce la spada, svoltasi forse in regioni dove i metalli erano più abbondanti, e anch'essa mostrante fogge e varietà grandissime per evoluzione locale e per importazioni da determinate zone di produzione. Il tipo arcaico della spada è quello a lunga lama triangolare, con breve risalto mediano, assicurata al manico a mezzo di chiodi, come la spada rinvenuta nel letto della Senna; un ulteriore sviluppti è dato dalle spade più robuste, con uno o tre cordoni in rilievo sulla lama lanceolata e formante un sol pezzo con l'anima di bronzo dell'impugnatura più o meno ampia, con i fori per l'applicazione della rivestitura in legno o in osso. Un grande centro di produzione e di diffusione di spade furono le isole di Creta e Micene, che presentano lame a testa piatta e allungate nel codolo, lunghe, lievemente lanceolate ed acuminate, tipo dal quale derivano le spade di una gran parte dell'Europa, in età anteriore alla diffusione della fibula a grande arco; nella zona delle terramare, in Sicilia, in Sardegna appariscono le spade derivanti dal tipo della spada micenea. La regione danubiana è centro di produzione di altri tipi di spada a lama pistilliforme con varî risalti mediani e grossa impugnatura ribadita in basso sulla testa della lama, di cui abbiamo esempî in Italia, ad es. a Bernate di Como, e con leggiera variante in tutta l'Europa centrale. Al tipo danubiano si avvicina la spada detta ad antenne, con due riccioli ricurvi partenti dalla testa dell'impugnatura, propria dell'Europa centrale, ma che appare sporadicamente anche in Italia, p. es. a Castione di Bergamo, e vi si mantiene sino al periodo dei sepolcreti vetuloniesi della Sagrona. Questo sviluppo dei tipi della spada si fa sempre maggiore e più vario con l'età del ferro, che ci dà lunghe e solide spade con grandi antenne e il tipo detto di Hallstatt, dalla necropoli dove esso compare prima ed in gran numero, dalla forma allungata con elsa piena e dal grosso bottone in testa, caratteristico dell'Europa centrale e danubiana ma che fa la sua comparsa in Francia e nell'Italia, specialmente del Nord. Segue un periodo di transizione in cui la spada si accorcia; poi nel periodo successivo detto di La Tène la spada è di nuovo lunga, robusta, con impugnatura ad antenne in bronzo e in ferro, e da essa si sviluppa poi la spada germanica del periodo delle invasioni. In ltalia la spada in ferro riproduce i tipi delle spade in bronzo, come quelle dei sepolcreti di Cenisola, a lama allungata, codolo e testa appiattita, ma proseguono nello stesso metallo, considerato più nobile, i tipi tramandati dall'età del bronzo per tutto il periodo detto di Villanova e sino al susseguente periodo etrusco, nel quale prevalgono tuttavia le spade in ferro.

Le cuspidi di lancia e giavellotto sono copiose negli orizzonti del bronzo e del ferro e presentano variamente sviluppate le due parti essenziali, e cioè il cannone per l'innesto del manico e la punta con i due taglienti. Il cannone si presenta a sezione circolare e la punta breve nelle cuspidi di ripostigli francesi, come in quello di Lezzard (Côte-du-Nord); più lunghe le cuspidi, ben disegnate a foglia di salice e il lungo cannone che permette una solida immanicatura negli esemplari delle palafitte di Bourget e di altre località della Francia; è da allora già formato un tipo di arma che si trova nei depositi di gran parte dell'Europa, dalla Sardegna alla Germania, ora con cannone circolare, tira, ora, ma più raramente, ottagonale. Nei paesi del Nord dell'Europa la cuspide si fa assai più ampia e cortissima nella parte sporgente dal cannone; in Scozia invece il cannone è lungo e robusto e variamente traforati gli ampî taglienti ai lati. Nelle stazioni dei laghi d'Italia, massime nel Garda, abbondano tali armi che hanno poi il loro grande sviluppo nel periodo Villanoviano e nei grandi ripostigli di S. Francesco di Bologna e di Terni, nei magnifici esemplari del Piceno, con bulinature ai taglienti e nel cannone, che scendono sino all'età del ferro, in cui accanto alle cuspidi di ferro, allungate nel taglio e nel cannone, come negli esemplari di Cenisola e di Roccatagliata, persistono i bellissimi prodotti in bronzo delle tombe villanoviane della Quercianella di Livorno, in quelle di Chiusi con cannone lun-ghissimo e i taglienti a contorno ondulato, mentre le tombe etrusche di Vulci, Terni, Tarquinia presentano cuspidi e puntali in bronzo che mantengono le forme tradizionali del periodo Villanoviano.

L'arco da caccia e da guerra fu dato dalle palafitte dell'età del bronzo, e certamente archi guerreschi dovettero usarsi anche nell'età del ferro, non solo presso i popoli orientali che ebbero la tradizione dell'arma da getto, ma anche nelle regioni dell'Europa. Cuspidi di freccia a codolo piatto furono date dalle palafitte; più tardi si ebbero anche le piccole; cuspidi a cannone con peduccio ed alette, in qualche regione dell'Europa centrale anche tricuspidali e che scompaiono nel periodo di Hallstatt o al principio di La Tène. Le statuette votive sarde del periodo nuragico ci offrono molti esempî di guerrieri armati di arco e di faretra.

La scure ad occhio che nasce dalla bipenne e dal cannone è forma rara e tarda nelle armi preistoriche. L'Ungheria ne diede varie assai robuste, e tali sono quelle che compaiono in Italia, ad esempio a Pedaso, ma sono per lo più tipi tardi, specialmente abbondanti nel periodo di La Tène in aree al sud delle Alpi Orientali.

Le armi di difesa di gran parte dei periodi preistorici ci sono sconosciute e solo possiamo supporle per l'età del bronzo, se non anche per il periodo neolitico, che forse conobbe le difese del capo e del torace in cuoio. Ma all'alba dell'età del ferro risalgono le testimonianze che noi possediamo; la civiltà micenea conobbe elmi e schinieri e scudi grandi rettangolari e piccoli in pelle ed in lamina enea, che ci sono noti dalle rappresentazioni figurate e che si diffusero certo lungo le vie che portarono verso l'Occidente i tipi di armi di offesa nicenei. Scudi rettangolari sono stati dati dai rilievi del Bohuslän, nella Svezia; la Germania diede scudi rotondi probabilmente venuti dall'Italia e riproducenti le forme degli scudi rappresentati sulle situle atestine e felsinee. Scudi rotondi comparvero del pari nelle tombe di Cere, di Tarquinia, di Palestrina e di Vetulonia. L'età del ferro offre numerosi tipi di elmi varî secondo i territorî differenti. La Gallia offre tipi in lamina di bronzo a calotta molto alta, ogivale, con cresta continua e chiodetti, poco diversi da quelli delle regioni occidentali dell'Italia settentrionale, ad es. l'elmo trovato nel Tanaro, del Museo di Torino, che si accosta da un lato ai tipi Gallici e dall'altro agli elmi di Watsch e di S. Margherita delle regioni austriache. Il Piceno invece ci offre il tipo dell'elmo a calotta semisferica, con breve pileo ed ornati a sbalzo, con l'elmo di Fermo, tipo che prevale nelle tombe di Tarquinia e di altri centri etruschi che diedero anche, benché in misura meno frequente, elmi a calotta acuminata e crestata di cui si hanno le riproduzioni in terracotta, usate come coperchio di urne cinerarie. Elmi a calotta nuniti di corna mostrano i guerrieri riprodotti nelle statuette sarde, e scudi rotondi in pelle, coperti da dischi in lamina, spesso anche farsetti attillati e grosse uose alle gambe: tutto un complesso di armi di difesa a cui corrispondono archi e frecce, pugnali e spade spesso assai lunghe per l'assalto. Le corazze in lamina di bronzo in periodo preistorico, o meglio protostorico, sino a noi conservate non sono frequenti: bellissimo fra tutti l'esemplare trovato nel letto della Saône a Saint-Germain-du-Plain, ora nel Museo di Saint-Geimain, in lamina di bronzo lavorata a sbalzo nel petto e negli spallacci. Anche all'epoca di Cesare i Galli erano completamente difesi dall'armatura, mentre i Germani, anche all'età di Tacito, non ebbero né elmi né corazza, che invece assunsero più tardi o su esempio romano o per la diffusione di tipi danubiani.

Bibl.: Le fonti per lo studio delle armi preistoriche, delle quali qui abbiamo dato rapido cenno, sono copiosissime, ma qui ci limiteremo ad accennare ai volumi del Bollettino di Paletnologia Italiana, di Strobel, Chierici e Pigorini, interessanti specialmente per l'Italia; v. inoltre G. e A. de Mortillet, Musée préhistorique, Parigi 1900; J. Déchelette, Man. d'Archéol. préhistorique, celtique, et gallo-romaine, Parigi 1908; M. Hoernes, L'Uomo, storia naturale e preistoria, (trad. Zanolli), Milano 1911-1913; M. Much, Kupferzeit in Europa, 2ª edizione, Jena 1893; O. Montelius, Vorklassische Chronologie, Stoccolma 1912, e Civilisation primitive d'Italie, Stoccolma 1895; R. Munzo Lake, Dwellings in Europa, Londra 1890; J. Naue, Die vorrömischen Schwerter, Monaco 1903; R. Dussaud, La civilisation préhellénique dans le bassin de la mer Égéenne, 2ª edizione, Parigi 1914; T. F. Peet, Stone and Bronze ages, Oxford 1909; H. Schmidt, in Troja und Ilion, di W. Dörpfeld, Atene 1902.

Armi egizie e dei popoli dell'Asia anteriore. - Nelle età più antiche, i cui limiti si confondono con quelli della preistoria, nessuna notevole differenza è possibile stabilire fra le armi di questi popoli dell'Egitto e dell'Asia anteriore e quelle degli altri popoli del bacino del Mediterraneo: soltanto con l'avanzarsi della civiltà tali differenze si colgono. In Egitto nel periodo del regno antico le armi di offesa si limitano all'arco e alle frecce per colpire da lontano, e all'ascia immanicata per combattere da vicino: la clava con testa di pietra, che fino in tempi molto avanzati vediamo talvolta nelle mani dei re, come loro attributo, scompare presto dall'uso comune. Di armi di difesa propriamente dette non abbiamo testimonianza, per quanto non sia da escludere che, pur assai rozze, ne fossero adoperate.

Migliore guida abbiamo per i tempi più recenti osservando la riproduzione in legno, rinvenuta in una tomba di Siut, di due schiere di soldati che avanzano gli uni contro gli altri: quelli dell'una schiera recano solamente l'arco e le frecce, quelli dell'altra sono armati di una lunga lancia e si proteggono il corpo con scudi di legno abbastanza ampî, rivestiti di pelle, simili per forma a una finestra ad arco acuto: sono cioè rettangolari in basso, e terminano in alto ad arco acuto.

Nel medio impero lo scudo si fa, almeno in qualche caso, di minori proporzioni: nell'impero nuovo l'armatura diviene più complessa, e sembra acquisti anche una certa varietà, destinata a differenziare l'un corpo militare dall'altro. Così vediamo introdursi, a protezione del torace, una corazza, fatta di cuoio o di bronzo, o anche di stoffa, rivestita di piastrine metalliche; si mantiene naturalmente anche lo scudo; ma nessun uso riconosciamo dell'elmo, che pare gli Egizî non abbiano mai adottato considerandolo sempre più proprio delle popolazioni asiatiche.

Tra le armi di offesa, accanto alla lancia notiamo delle piccole spade a punta aguzza o di forma falcata, così piccole e brevi talvolta da essere considerate meglio come pugnali.

Diverse dalle armi degli Egizî sono quelle che nell'esercito egizio stesso vediamo in mano alle truppe che, per i loro tratti fisici, riconosciamo come straniere e mercenarie: così i Siri hanno lunghe lance e spade falcate, i Negri solo l'arco, i Libî l'arco e l'ascia.

L'arco è ancora l'arma più comune presso gli Assiro-Babilonesi e presso i Persiani: ne vediamo forniti i re dei palazzi di Sargon e di Ninive, e basta appena accennare alle tanto famose rappresentazioni di arcieri del palazzo di Susa. Egualmente comune è la lancia dal fusto molto lungo e munita di punta triangolare o a foglia di lauro, che gli arcieri stessi recano come arma ausiliare per il combattimento da vicino. Presso gli Assiri conosciamo esemplari di spade in bronzo dalla immanicatura riccamente ornata di figure di leoni in lotta fra loro, e di scudi circolari in bronzo, decorati: oggetti votivi forse, certo non oggetti d'uso comune, ma copie, fatte più belle e più preziose, di essi: ché infatti le une e gli altri formano la normale armatura dei guerrieri rappresentati nelle molte figurazioni a rilievo. Dalle quali altresì resta provato l'uso presso gli stessi popoli di corazze molto semplici, fatte di strisce sovrapposte, forse di cuoio, e di elmi conici a punta molto pronunciata.

Una forma particolare di scudi è quella che vediamo in alcuni rilievi di Persepoli: scudi circolari forniti di un umbone centrale, e di due piccoli tagli laterali a forma di orecchietta, quasi circolare anch'essa: forse una tarda derivazione e riduzione di questi scudi è la pelta, che presso Greci e Romani è preferibilmente data in mano ai combattenti di stirpe orientale, barbara.

Bibl.: A. Erman e H. Ranke, Agypten und ägyptisches Leben, Tubinga 1923; G. Perrot e Ch. Chipiez, Histoire de l'art, II, Parigi 1884, p. 752; V, 1890, ecc.

Le armi cretesi-micenee.

Nell'età della pietra anche a Creta troviamo usate le consuete armi neolitiche: sono specialmente numerose le asce, sia di forma allungata, con presa grossa e rozza, sia di forma piuttosto larga, trapezoidale oppure arcuata sulla presa, con taglio lunato; inoltre molto frequenti sono le pesanti mazze di pietra, mentre compaiono più di rado le piccole accette strette. I materiali usati sono la selce verde, il serpentino, la diorite, la giadeite, e per le asce anche l'ematite. In ossidiana sono tagliati in genere i coltellini e le punte di freccia; la quantità di nuclei di ossidiana mostra che la lavorazione avveniva sul posto; l'abbondanza dell'ossidiana palesa le relazioni e lo sfruttamento antichissimo delle miniere di Milo, non solo, ma anche di quelle di Iali e di Nisiro, per la presenza pure a Creta dell'ossidiana più chiara, quasi vitrea, peculiare di tali isole del Dodecanneso, e assente invece a Milo (v. Xanthoudides, The vaulted Tombs of Mesarà, p. 105-; cfr. Amauorio della Scuola it. di Atene, ViII-IX, p. 279 segg.).

Con l'inizio della civiltà del bronzo appaiono le prime armi di rame. Sono anzitutto i pugnali di tipo più antiquato, di forma triangolare, senza codolo, con due o tre forellini all'estremità larga della lama per l'innesto dell'impugnatura (fig. 12 a); talora i due tagli sono arcuati con l'arco verso l'esterno (fig. 12 b); la base larga forma talora una sporgenza per il più facile innesto del manico, come un timido principio di codolo (fig. 12 c-d). Alla fine del periodo Primo-minoico (3ª fase) appartengono anche due interessanti pugnali triangolari in argento da Koumasa, con una costolatura assai accentuata sul dorso della lama (fig. 12 e). I primi pugnali sono assai piccoli (la lunghezza varia fra i 6 e i 12 cm.); a poco a poco le loro dimensioni aumentano, mentre la larghezza della base al contrario tende a diminuire; si formano così i tipi a foglia ovale e a linguetta (fig. 12 f), coi due tagli cioè incavate la punta assottigliata rapidamente; qualche esemplare di questo tipo già appartenente al periodo Medio-minoico, anche fornito di un rudimento di codolo, ha le due spalle leggermente ribattute e ripiegate, ed è di grande interesse come prototipo delle spade a spalle ribattute, divenute poi a elsa cornuta, che saranno caratteristiche della prima fase del Tardo-minoico (fig. 12 f-i). Bisogna notare che già durante il fiorire di questo tipo di pugnale, verso la metà del Medio-minoico, la tecnica delle armi era tanto progredita che oltre all'utile l'artefice poteva già pensare a un'ornamentazione decorativa; è di grande interesse per questo rispetto l'esemplare di pugnale proveniente dai monti Lasithi, che reca incise sui due lati della lama una scena di caccia al cinghiale, da una parte, e una lotta di due tori dall'altra (fig. 13). Il modo di portare il pugnaletto primitivo, appeso davanti alla cintura, ci è palesato dalle statuette di Petsofà (fig. 14), ma una figurina incisa su un cilindro di avorio ancora della prima fase del Medio-minoico, ci mostra già la lama assai assottigliata e allungata, e quindi appesa al fianco; una matrice per la fusione di pugnali trovata nel palazzo di Festo (Mon. Ant. Linc., XIV, p. 469, fig. 75 a) serviva a produrrc lame lunghe m. 0,315, con una base larga appena m. 0,04; nel medesimo tempo, accanto alla continuazione e alla trasformazione dei tipi antichi, si formano dei tipi nuovi e svariati, di cui studieremo l'uso, quali corte daghe, accanto a quello delle vere e proprie spade lunghe.

Strumenti di lavoro, più che armi, inventati quasi contemporaneamente ai primi pugnali, sono l'accetta, il pennato, il trincetto; la stessa bipenne tanto consueta a Creta, e usata anche talora dai guerrieri omerici come arma ausiliaria, quando si trovano sforniti delle altre armi, appare quasi sin dall'inizio dell'epoca del bronzo più spesso come oggetto votivo che come arma di offesa, e come tale ci si presenta con sicurezza in numerosissimi esemplari che accompagnano tutto lo svolgimento della civilta minoica, talora in minuscoli modelli votivi, talaltra quali grandi oggetti sacrali, in un caso, dal palazzo di Festo, con magnifica decorazione d'una farfalla cesellata in fine disegno naturalistico (v. bipenne).

Al propagarsi dell'abilità metallurgica corrisponde un progressivo allungamento nelle lame delle armi; i pugnali vanno continuamente affilandosi, e a Gournià sorpassano ormai la lunghezza di 40 cm. Tuttavia, per poter trafiggere i grossi scudi di pelle e di lamina, tale lunghezza non era sufflciente. Verso la fine del periodo Medio-minoico cominciano ad apparire le prime spade; le più antiche si presentano in realtà a Micene, e precisamente nelle tombe a camera della necropoli, ma la continuità e la derivazione dai prototipi cretesi è evidente. Per tutto lo sviluppo di tale arma si distinguono due varietà, cioè una spada corta e una spada lunga, che si svolvono parallelamente. Le varietà sono state raggruppate in 7 tipi: i primi sono l'evoluzione diretta e immediata dai pugnali e dalle daghe, con lama stretta e sotiile costolatura centrale, a spalle arrotondate con semplice codolo e forellino di innesto, con impugnatura separata (fig. 16 a); questo tipo si differenzia poi in una variante simile ma a lama meno affilata, con spalle più ampie e rigonfie, codolo più largo e fori d'innesto più grossi (fig. 16 b); segue il tipo a impugnatura cornuta, di cui una varietà ha i corni a uncini ritorti verso il manico, spesso terminato da un grosso bottone (fig. 16 c), e la spada a impugnatura cruciforme (fig. 16 d). Sono queste le spade caratteristiche del periodo più fiorente della civiltà cretese, che raggiungono talora quasi un metro di lunghezza, e che si espandono in Oriente, fino a Rodi e in Palestina, e in Occidente, fino in Sicilia. Un sesto tipo, che s'incontra verso l'ultima fase minoica, a lama pistilliforme e impugnatura a orli ribattuti (fig. 16 e), è simile a esemplari assai numerosi nell'Europa settentrionale e occidentale, mentre rimane piuttosto isolato nell'Egeo, e forse segna qui una prima penetrazione di tipi stranieri. Infine, dopo lo splendore delle lunghe spade cretesi, si ha una fase di decadenza, con un ritorno alle dimensioni primitive e più corte: tale è, appunto, l'ultimo tipo, a larga lama triangolare e con grosso margine ribattuto sulla spalla e sul manico (fig. 16 f), di cui un esemplare, trovato nella Tomba A di Moulianà a Creta (fig. 16 g), palesa una forma assai divulgata in tutto il Mediterraneo nell'ultimo periodo miceneo, e che si ripete ancora in alcuni esemplari del mondo classico; ma da essa tuttavia si differenzia nettamente la spada in bronzo della Tomba B di Moulianà (fig. 16 h), che ormai è l'arma da taglio, completamente distinta da quella minoica a punta, con un lungo codolo e spalle della lama a semplice angolo, o talvolta arrotondate: questa è la spada venuta dal nord dell'Europa, e il prototipo dell'arma in ferro, semplice traduzione di questa in bronzo, che si espande anche nell'Egeo nel periodo geometrico.

All'enorme efficacia delle spade cretesi si associa un'estrema eleganza; le arti dell'incrostazione, dell'incisione e del niello si mettono a disposizione degli armaiuoli per adornare fino all'ultimo particolare le armi datrici di morte. Già alla fine dell'Antico-minoico troviamo un pugnale di Mochlos ornato di un pomo d'alabastro; all'alabastro si sostituiscono presto l'avorio, la maiolica, l'agata, l'onice, il cristallo di rocca, l'oro; e la decorazione dall'impugnatura si estende alla lama. Abbiamo già accennato alla scena di caccia incisa sulla lama di un pugnale cretese del Medio-minoico; ma al principio del Tardo-minoico appartengono ì famosi pugnali e le spade di Micene ageminate in oro e in metalli preziosi (v. agemina). Dalla Tomba del duce di Zafer Papoura vengono altri due mirabili esemplari di spade, con serie di spirali in rilievo lungo tutta la costolatura, e con lotte d'animali incise sulla lamina d'oro che copre l'impugnatura d'una di esse.

La seconda indispensabile arma offensiva dei guerrieri minoici e omerici è la lancia. La sua storia si confonde dapprima con quella del pugnale: infatti si otteneva semplicemente fissando all'asta di legno la primitiva lama di rame o di bronzo, in origine probabilmente a forma triangolare, unita all'asta con chiodetti alla base o mediante il codolo, presto munita di alette per rendere più dolorosa la ferita, a imitazione delle alette delle frecce. Ma per fare più salda l'immanicatura tosto il codolo si trasformò, prima allungandosi e ribattendo i margini a doccia, poi fondendo insieme con la lama piatta (l'αἰχμή dell'arma omerica) la lamina del manico a cilindro o a tronco di cono (αὑλός), che inviluppava tutta l'estremità dell'asta (δόρυ, μελίη, in legno di frassino, nei poemi omerici), rinsaldata ancora con chiodetti o con una ghiera (πόρκης). Nell'epoca del secondo palazzo di Cnosso e sino alla fine della civiltà minoica si mantengono svariate forme di teste di lancia, i cui tre tipi essenziali hanno, l'uno una lunga lama affilata, della larghezza circa dell'immanicatura e con costolatura fino alla punta; il secondo una lama ovale un poco più larga e corta; e il terzo una lama a foglia assai larga e affilata verso la punta.

La lancia era insieme arma per combattimento da vicino e da lontano: non differiva infatti per niente, se non forse per la lunghezza dell'asta, dal giavellotto; è per questo che nelle rappresentazioni minoiche, come per esempio negli affreschi di Tirinto, vediamo i guerrieri e i cacciatori armati di due lance, affinché non rimanessero disarmati dopo il lancio di una di esse. Nella tarda e famosa anfora dei guerrieri da Micene, vediamo una serie di guerrieri con aste lunghe, probabilmente lance per combattimento da vicino, e altri in atto di scagliare giavellotti più corti; sui monumenti figurati minoici, a ogni modo, la lancia appare circa della stessa altezza del guerriero, e non raggiunge le dimensioni enormi, di circa cinque metri, di alcune delle lance menzionate in Omero.

La terza importante arma di offesa a Creta è l'arco; è ben noto che fino in epoca classica gli arcieri cretesi erano rinomati; più anticamente, da Creta provenivano forse gli arcieri che formavano la guardia del corpo dei re di Israele (i Kheretim); e anche nei poemi omerici l'arco è considerato un'arma nobilissima, di cui si potevano vantare eroi come Filottete e Ulisse, e gli arcieri, combattenti dietro agli astati, sono ritenuti come prezioso elemento ausiliario, soprattutto per respingere gli assalti della fanteria. Tra i monumenti archeologici, le freccioline in bronzo appaiono ben presto, e si limitano a imitare le precedenti frecce di selce e di ossidiana, mantenendone le piccole dimensioni; le forme si tramandano sempre le stesse attraverso i secoli e raggiungono anche l'età del ferro, forme le cui due principali varietà sono a semplice foglia di lauro oppure triangolari con alette. Numerose treccioline acuminate e piatte ritrovate nell'armeria del palazzo di Cnosso, variano secondo che sono con o senza peduncolo a sua volta fornito di barbette a coda di rondine, che rendevano più dolorosa e lacerante la ferita. Nel medesimo magazzino militare, oltre ai resti delle cassette che contenevano le frecce, erano numerose tavolette iscritte, con gli inventarî delle frecce e dei corni degli archi che servivano a lanciarle; in Omero l'arco di Pandaro è fatto delle corna d'un capro selvaggio, lunghe ben sedici palmi (Il., IV, 105-112); tali corna erano saldate alla base da un anello aureo. Gli arcieri omerici, per tirar l'arco, avanzavano la gamba destra piegando il ginocchio quasi fino a terra; in tale posizione sono raffigurati su numerosi monumenti minoici, sui pugnali di Micene, sulle cretule (fig. 17), su un vaso di steatite di Cnosso, e sul famoso rhyton argenteo di Micene (v. arcieri).

In quest'ultimo vaso notiamo anche una nuova arma, cioè la fionda, nominata una volta in Omero (Il., XlII, 599), arma però di cui non troviamo alcun'altra documentazione per i guerrieri cretesi, e che probabilmente è rappresentata quale arma peculiare di popoli nemici contro i quali i Micenei sono venuti in lotta. Ma, per terminare la rassegna delle armi offensive, bisogna ancora fare un accenno ai tridenti che portano i personaggi del discusso vaso in steatite di Hagia Triada: essi, secondo il pubblicatore (Savignoni, Mon. Ant. Linc., XIII, p. 77 segg.) e altri, non sarebbero strumenti agricoli, ma vere e proprie armi primitive, da ricollegare con strumenti consimili trovati in diverse parti del mondo antico, come per esempio il magnifico esemplare bronzeo etrusco della Tomba del tridente di Vetulonia. A Creta, una sola convalida è data dal bidente bronzeo trovato nell'antichissimo deposito di Hagios Onouphrios.

Delle armi di difesa, costruite in materiali deperibili, non s'è conservato alcun esemplare originale, e quindi dovremo basare l'esame sui soli monumenti figurati.

La difesa principale del guerriero antico era lo scudo, dapprima costituito probabilmente da una semplice pelle bovina stesa su un telaio ligneo; l'aspetto di questo primitivo scudo, che doveva ricoprire tutta la persona dell'eroe, e che è quello che appare in fondo quale l'arma difensiva di un buon numero di eroi omerici, come l'enorme scudo di Aiace, simile a torre, fatto dal cuoiaio Tichio con sette pelli di bove, ci è conservato in una leggiadra rappresentazione sul piccolo vaso di steatite di Hagía Triáda (fig. 18), in cui è visibile ancora la coda della pelle animale. Tale scudo si modifica e perfeziona presto in una forma semicilindrica, che meglio abbraccia e protegge il corpo del combattente, con la sommità per lo più arcuata; è questo lo scudo che vediamo in un gran numero di monumenti, opposto ai colpi di lancia e di spada, per esempio nel magnifico anello aureo di Micene. È esso, in uno dei pugnali ageminati di Micene (v. agemina, tav. col.), associato a una forma differente e caratteristica del mondo egeo, cioè la forma bilobata, o ad 8, composta cioè di due lobi convessi uniti da una sbarra verticale, forma più maneggevole ma che meno bene proteggeva i fianchi del guerriero, e che spiega forse le molte ferite alla cintura e alla coscia nei combattimenti omerici. Tali grossi scudi, invero, potevano vemr sospesi alle spalle mediante cinghie, e, per non stancare il soldato, erano forse trasportati nella marcia da una spalla all'altra; in un sigillo di Cnosso (Annual of the Brit. School of Athens, VIII, 1901-1902, p. 77, fig. 41) lo vediamo portato sulla spalla destra da un lanciere. Lo scudo bilobato appare a Creta e a Micene anche assai spesso tra i simboli religiosi e tra i motivi decorativi: su affreschi murali e su decorazioni di vasi (fig. 15), inciso su tavolette iscritte, rilevato in osso su tavolette intarsiate, ecc. Infine, verso il tramonto della cíviltà minoica, importato probabilmente dall'Assiria attraverso Cipro circa il sec. XIV, appare il piccolo scudo rotondo, tutto metallico talvolta (χάλκεον nei poemi omerici, dove è tale certamente, tra altri, lo scudo di Idomeneo), o di cuoio intarsiato, come appare lo scudo sul Vaso dei guerrieri di Micene, di forma tondeggiante ma incavato in basso, dipinto in giallo, grigio e turchino per i metalli diversi (v. aristonoo, cratere di Cerveteri).

Diverse fogge di copricapo muniscono la testa dei guerrieri cretesi e micenei, che però compaiono anche spesso nella mischia a capo scoperto; più di consueto forse che nei guerrieri l'elmo appare sul capo degli atleti. Un copricapo di forma conica terminante con un alto pennacchio è quello del lanciere sul sigillo di Cnosso or ora menzionato; tipi di elmi piuttosto curiosi sono quelli del Vaso dei guerrieri, come pure varî tipi appaiono dalle descrizioni dei poemi omerici; ma l'elmo miceneo si può distinguere essenzialmente in due fogge: uno è ancora l'elmo di cuoio, in forma di calotta, terminante in un bottone sul cocuzzolo per l'innesto del cimiero, spesso munito pure di paranuca e di paragnatidi. e rinforzato da serie orizzontali di denti di cinghiale; è tale l'elmo che appare per esempio sulle teste di avorio da Micene e da Sparta (v. avorio), quello che è descritto nell'elmo donato a Ulisse da Merione (Il., X, 261); nelle tombe dei guerrieri di Creta e di Micene si sono conservati di tali elmi soltanto i denti, perforati per essere cuciti sul cuoio. Il secondo tipo di elmo, invece, tutto fatto di lamelle metalliche, con paranuca e paragnatidi anche in lamina e alto cimiero, è quello che copre gli atleti dell'alto rhyton in steatite di Hagía Triáda, e ch'è dipinto anche sul vaso di Isopata (del Tardo-minoico I; v. fig. 15).

La corazza non fa parte dell'armatura cretese antica; una specie di casacca indossata dal capo della processione del vaso di steatite di Hagía Triáda, come pure in alcune raffigurazioni di sigilli cretesi, sembra una veste rituale a scaglie piuttosto che una vera arma di difesa. Tale protezione è importata, assieme con lo scudo rotondo, dall'Assiria e da Cipro, e penetra nella civiltà egea in tempo per formare parte integrante dell'armatura omerica, eccetto che per gli armati alla leggiera, e per i guerrieri protetti dal grandissimo scudo minoico, come Aiace. Una rappresentazione figurata ci è data dal Vaso dei guerrieri di Micene più volte ricordato. La corazza era pure probabilmente di cuoio, talvolta rivestita di metallo; Omero menziona ancora una corazza più leggiera, di lino. Anche la μίτρη omerica è probabilmente un'arma post-micenea, cioè una lamina metallica emisferica sospesa dal guerriero a protezione dell'inguine, della quale parecchi esemplari protoellenici sono stati rinvenuti a Creta, fra cui le famose mitre bronzee decorate di Axós, di Dreros e di Retimo.

Lo stesso che per la corazza si può dire per gli schinieri, di cui l'eroe cretese, coperto dall'immenso scudo, non aveva bisogno, che compaiono nel mondo miceneo tardo, e sono figurati sul Vaso dei guerrieri, come sulla stele di Micene e sugli affreschi dei palazzi di Micene e di Orcomeno. Meno casi eccezionali, gli schimeri dovevano essere di cuoio, come appaiono anche in Omero, talora fissati alla gamba da giarrettiere d'oro e di metalli preziosi: giarrettiere di questo tipo sono state rinvenute a Micene.

Bibl.: W. Reichel, Über homerische Waffen, Vienna 1894 (Abhandl. d. arch. epigr. Semin. Univ. Wien, XI); J. Naue, Die vorrömischen Schwerte, Monaco 1903; A. Evans, The prehistoric Tombs of Knossos, p. 105 segg. (Archeologia, LIX, Londra 1906, p. 391 segg.); A. Mosso, Le armi più antiche di rame e di bronzo, in Mem. Lincei, XII (1907), p. 479 segg.; Π. Καββαδίας, Προϊστορικὴ 'Αρχαιολογὶα, Atene 1909, p. 737 segg.; J. Déchelette, Man. d'Arch. préhist., II, i, Parigi 1910, p. 210 segg.; A. Evans, The Palace of Minos at Knossos, I, Londra 1921, p. 54, fig. 15, p. 99 seg., p. 197, fig. 145; G. Glotz, La Civilisation Égéenne, Parigi 1925, p. 99 segg.; L. Stella, Echi di civiltà preistoriche nei poemi d'Omero, Milano 1927, p. 106 segg.

Le armi greche.

Il passaggio dalla civiltà micenea alla civiltà del periodo geometrico (secoli IX-VIII), propria della penisola greca, è caratterizzato, in seguito all'invasione dal nord (la cosiddetta invasione dorica), da innovazioni nell'armamento bellico. Nelle tombe del Dipylon alle porte di Atene i guerrieri vengono sepolti insieme con le loro spade, i loro pugnali, le loro lance unicamente di ferro, prive di qualsiasi ornamento superfluo. Tempi veramente ferrei e difficili hanno seguito all'età eroica e fastosa di Ilio e di Micene. Spade a corta impugnatura e lama semplice e lunga, coltelli e asce di forma quasi primitiva. Sebbene anche per il periodo geometrico nessuna traccia di elmi e di scudi si rinvenga nelle tombe, queste parti essenziali dell'armamento sono chiaramente rappresentate sui vasi dipinti dell'epoca. L'elmo è a calotta semplice, senza appendici anteriori o posteriori, con cimiero però e con pennacchio di crini di cavallo. Lo scudo, probabilmente di cuoio e legno con rivestimenti metallici, ricorda ancora quello tipico miceneo, con incavi lunati, simmetrici, molto ampî. È questo il tipo di scudo che, usato largamente in età storica nella Grecia centrale, prende il nome di scudo beotico. Simultaneamente fa la sua comparsa un nuovo tipo di scudo, a forma rotonda, più piccolo, ma più pratico, munito d'immanicatura interna per il braccio, mentre lo scudo miceneo si faceva aderire alla persona mediante correggiuoli, per lasciar libere le braccia. Nessuna indicazione ci forniscono i monumenti di questa età intorno ai particolari delle corazze e degli schinieri. Nell'età omerica il combattere con l'arco non appare molto usato; solo le truppe locresi di Aiace (Iliade, XIII, 714 segg.) combattono con arco e fionda (σϕενδόνη). L'arco (τόξον) era di corno (κέρας, κεραοξοῦς), con anelli metallici alle estremità esternamente arricciate, cui si avvolgeva la corda. Gli stessi vasi dipinti di stile geometrico ci mostrano soldati in marcia, con spada alla cintola, con doppia lancia nella mano sinistra, capaci di usare con disinvoltura in combattimento l'arco e le frecce.

Nell'età immediatamente successiva (età classica arcaica e matura) troviamo sui monumenti la riproduzione esatta di quello che con poche varianti sarà l'armamento greco vero e proprio. In un piatto dell'isola di Rodi (necropoli di Camiro), istoriato con scena eroica, i due eroi combattenti dell'epos omerico, Menelao ed Ettore, e l'eroe caduto, Euforbo, appaiono tutti nello stesso costume. L'elmo è ampio, con paranuca, paraguance e visiera, munita di fori per gli occhi e di appendice paranaso (elmo aulopide secondo Esichio), sormontato da un'appendice in cui s'innesta il ricco cimiero semilunato. La corazza (ϑώραξ) di bronzo aderisce rigidamente al tronco sopra il chitonisco, portando rilevati i pettorali in mezzo a ornamenti varî, incisi a bulino o intarsiati d'argento. Schinieri metallici, parimenti adorni, sono affibbiati alle gambe, mentre al braccio sinistro fa bella mostfa lo scudo rotondo, esternamente ornato d'imprese araldiche. Ciascun combattente brandisce vigorosamente la lancia. Lo stesso costume di oplita (cioè di fante munito di grave armatura) è ripetuto sul celebre vaso Chigi, di fabbricazione ionica (sec. VI), dove schiere allineate di fanteria si avanzano armate le une contro le altre, sollevando le lance brandite all'altezza dei volti degli avversarî. Nei due monumenti citati l'ampia corazza, ristretta alla cintola, allarga ì suoi bordi al di sotto, a protezione dei fianchi. In un sistema così rigido di corazza si comprende come questa dovesse constare non d'un solo pezzo, ma, al pari della corazza omerica, di due piastre distinte (γύαλον, γυαλοϑώραξ), concave, a protezione del petto e del dorso, riunite ai fianchi mediante ganci o correggiuoli.

L'immagine precisa dell'oplita greco, o meglio attico, in periodo anteriore, per quanto prossimo alle guerre persiane, ci è offerta da un caratteristico rilievo funerario ateniese: un soldato ha il capo coperto da una semplice calotta di cuoio (κυνῆ), alla quale doveva sovrapporsi l'elmo metallico (κκράνος); sopra il chitonisco, la corazza, parte di cuoio, parte di metallo, con spallacci e cintura di bronzo lavorato, e con larghe strisce di cuoio (πρέρυγες) pendenti tutt'intorno dalla corazza per protezione dei fianchi. Gli schinieri (κνημῖδες) metallici si modellano elegantemente sulla muscolatura della gamba. La mano sinistra impugna, nello stato di riposo, la robusta lancia di rovere, che è l'arma principale di offesa usata dalla fanteria. L'iperolica lunghezza della lancia dell'età omerica si riduce in questo periodo storico a poco più di due metri. L'elmo più comune di questo periodo è ad alta calotta, con visiera e paraguance ora fisse ora mobili su cerniera. L'elmo a paraguance fisse (elmo corinzio) si teneva abbassato sul volto in combattimento, usandosi altrimenti tenerlo alzato sul capo. Lo scudo era comunemente rotondo (κύκλος, ἀσπίς) e di limitato diametro (3 piedi = 90 centimetri), per il peso altrimenti eccessivo d'una superficie rotonda. Del resto ogni oplita poteva avere al suo seguito uno schiavo scudiero (ὑπασπιστής, "porta-scudo"), il che vuol dire che lo scudo era portato di necessità dall'oplita solo in combattimento. Anche in età storica lo scudo greco si componeva di pelli bovine disposte a strati sopra un'armatura bronzea di rinforzo, internamente concava, con una cinghia per infilare il braccio e una cinghia di presa, da stringere con la mano, ed esternamente convessa, con un saliente centrale per la maggior resistenza (ὀμϕαλός), con ornamenti anche in oro ed argento, e imprese araldiche (ἐπισήματα) intarsiate, di artistico valore. Del tutto fantastica si dimostra all'analisi la grandiosa decorazione figurata dello scudo d'Achille nel libro XVIII dell'Iliade (v. 428 segg.). Ma non è improbabile che anche in età postomerica si usassero nel mondo greco scudi assai riccamente decorati, mentre nei superstiti monumenti figurati (vasi dipinti) non appaiono sugli scudi che semplici imprese e simboli araldici, quali il leone, il serpe, il gallo, il tridente, ecc., oppure simboli di carattere apotropaico, tra cui il motivo più frequentemente ripetuto sopra scudi d'età arcaica è la maschera di Medusa. Da Plutarco sappiamo che Alcibiade portava sullo scudo un Eros armato di fulmine (Alcib., XVI). Campioni di armi e di armature (corazze, cinture, schinieri, elmi, scudi, punte di lance e di frecce), con esemplari pregevoli dall'età arcaica all, età ellenistica, si rinvennero durante gli scavi di Olimpia.

Gli opliti costituivano il nerbo delle forze armate ateniesi. Accanto a questo tipo di fanteria pesante fu creato nel sec. V, dopo la battaglia di Platea, un tipo di fanteria leggiera, composta di peltasti, soldati armati semplicemente di spada, di lancia e di scudo leggiero di legno e cuoio, detto pelta (πέλτη), a forma di mezzaluna. Un tipo simile di fanteria leggiera, mista (i ψιλοί), in uso presso Spartani e presso Ateniesi, si componeva di astati, di arcieri muniti di faretra, di frombolieri. Contemporaneamente la fanteria di linea viene sveltita anche con il più largo uso di corazze fatte di cuoio (σπολάς) o di scaglie metalliche sovrapposte. La corazza diventa una specie dí busto completo di cuoio e metallo, con le giunture unite sul petto o sul fianco, e tenute a posto dagli spallacci e dalla cintura. Con l'uso della lancia dorica relativamente corta si generalizza l'uso della spada corta (μάχαιρα), poco più lunga di un coltellaccio a lama diritta o ricurva (ξυήλη, κοπίς), ad unico taglio. La faretra (ϕαρέτρα, γωρυτός) poteva essere di metallo, di legno, di cuoio, con o senza coperchio. I frombolieri portavano le munizioni, consistenti in pietre o in palle di piombo (μολύβδαινα, μολυβδίς), a forma di mandorla o ghianda, di peso assai limitato (30 o 40 grammi), contenute entro apposito sacco di cuoio (διϕϑέρα).

La cavalleria, pochissimo usata dagli Spartani, ricevette in Atene un grande sviluppo a partire dai sec. V. Vi appartenevano quei cittadini agiati che erano in grado di mantenere un cavallo e un servo. l cavalieri combattevano con la lancia o con la spada, più raramente con l'arco. Erano muniti d'elmo senza visiera (elmo attico), e di corazza metallica con πρέρυγες. Per protezione della spalla e del braccio sinistro, in luogo dello scudo, portavano la χειρίς, specie di bracciale formato di piastre metalliche articolate. Alti stivali di cuoio a bordi rovesciati (ἐμβα8δες) proteggevano le gambe, in sostituzione degli schinieri metallici venuti a poco a poco in disuso. Armamento ordinario: una spada corta (μάχαιρα) e una coppia di lance, non troppo lunghe, una da gettare a distanza, l'altra per la lotta a corpo a corpo.

Grande innovatore nell'armamento dell'esercito ateniese fu sui primi del sec. IV Ificrate, il quale contrihuì allo sveltimento e alleggerimento delle truppe di fanteria, che vennero munite dì pelta, di corazza di lino (λινοϑώραξ), di schinieri di cuoio detti appunto ἰϕικρατίδες, e armate di giavellotto o di lancia, oltre che di una lunga spada (ξίϕος). Con Filippo II di Macedonia e Alessandro suo figlio, l'armamento e l'ordinamento greco subiscono cambiamenti notevoli, in armonia con l'esercito macedonico. Le fonti letterarie non ci offrono dati precisi in proposito e ci dànno solo i nomi di numerose categorie di soldati: πεζέταιροι, o fanteria pesante; ὑπασπισταί, o fanteria leggiera; ἑταῖροι e βασιλικοὶ παῖδες, corpi scelti di cavalleria; σωματοϕύλακες, guardie del corpo, ecc. Tanta varietà di armati nell'esercito macedonico doveva essere richiesta anche dall'eterogeneità degli elementi che lo componevano tra cui barbari di nazionalità varie, con armamento appropriato. Molto in uso nell'esercito macedonico erano le corazze leggiere (πανοπλίαι διαϕανεῖς, intendendosi πανοπλία come armamento in genere, offensivo e difensivo, ma anche semplicemente come "corazza"): corazze di lamina di bronzo, lisce per la truppa, abbellite di omamenti varî per l'ufficialità. E menzione anche di truppe ὰργυράσπιδες, dette così dagli ornamenti d'argento degli scudi. L'elmo era a calotta metallica, senza cimiero, ma spesso con ricchi ornamenti in rilievo. Armi d'offesa più comuni la lancia macedonica, detta σάρισα, di notevole lunghezza, sempre superiore ai 4 metri (δόρυ καμάκινον), e la spada diritta.

Negli eserciti dei diadochi aumenta ancora la varietà delle nazionalità e degli armamenti. Acquista in tale periodo una grande importanza la cavalleria, sia del tipo pesante (come i κατάϕρακτοι, soldati corazzati, su cavalli pure corazzati), con grandi scudi quadrati, sia del tipo leggiero, con armi per colpire da vicino o a distanza (δορατοϕόροι, armati di lancia, ἀκροβολισταί, armati dì giavellotto, ἱπποτοξόται, armati d'arco e frecce, ϑυρεοϕόροι, muniti di grandi scudi). Tutto quanto l'armamento difensivo risente nell'età ellenistica, o prossima all'ellenistica, dei perfezionamenti non solo dell'arte militare, ma delle stesse arti plastiche. Di ciò la più vasta documentazione è fornita dalle sculture decorative della balaustrata del tempio di Atena a Pergamo, dovuta ad Eumene II (197-159 a. C.). Mentre, per esempio, le corazze greche del sec. V ancora aderiscono al corpo solo parzialmente, con una propria sagoma rigida, a tagli inferiori orizzontali, le corazze d'eta protoellenistica (2ª metà del sec. IV) ed ellenistica seguono esattamente ed accentuano elegantemente le forme anatomiche, e assumendo alla base una linea arcuata, convessa, arrivano a proteggere completamente l'addome, senza ostacolare i più vivaci movimenti della persona. Le corazze di maglia (ἁλυσιδωτοὶ ϑώρακες), di cui pure è chiara testimonianza sui rilievi pergameni, sembrano proprie esclusivamente dell'armamento di popolazioni galate e barbare in generale, pur rispondendo al medesimo fine di praticità. Per gli elmi di bronzo, e talora di ferro, viene meno, in età ellemstica, l'importanza dei cimieri, ma non cessa la ricchezza degli ornamenti figurati e floreali, intarsiati o applicati a rilievo, in bronzo o in argento. Anche lo scudo macedonico era rotondo (per quanto sulla balaustrata di Pergamo s'incontrino anche scudi ovali), di legno e cuoio, con guarnizioni metalliche. Alla nostra breve trattazione delle armi greche ed ellenistiche sono ancora da aggiungere i pugnali (ἐγχειρίδια), a lama piuttosto piatta, a breve punta triangolare, e il giavellotto (ἀκόντιον), asta di piccole dimensioni (5 piedi circa, meno di m. 1,50) che veniva usato per lanciare a distanza, così dalla fanteria come dalla cavalleria greca, con puntale, simile a quello della lancia e con cappio di cuoio per effettuare la spinta, dalla parte opposta a quella della punta. Il lancio del giavellotto (ἀκόντισις) era anche uno degli esercizî atletici del pentathlon. Negli eserciti macedoni e dei Seleucidi i corpi di cavalleria armati di lancia prendono il nome di δορυϕόροι, ecc.

Sulla citata balaustrata scolpita di Pergamo, vero compendio di materiale da guerra ellenistico, sono inclusi, oltre ai capi ricordati, campioni di oggetti che, per quanto non di uso personale, pure meritano di rientrare nel quadro dell'armamento usato in territorio greco. Tali gli ornamenti per cavalli, come pendagli e pettorali, gli ornamenti pure metallici per navi da guerra e precisamente lo sperone della nave, detto ἀκροστόλιον o aplustre). Tali, a maggior diritto, le stesse macchine d'assedio, come le catapulte (καταπάλται o καταπέλται) per il lancio di dardi a grande distanza, o di pietre di notevoli dimensioni.

I Greci conobbero infatti e usarono, almeno a partire dal IV secolo a. C., delle vere e proprie macchine d'assedio per lanciare pietre ed altro (dette λιϑοβόλοι, πετροβόλοι); ma le informazioni in proposito rimangono tuttora assai vaghe.

Centri rinomati per la produzione delle armi nel mondo greco erano: Argo per gli scudi, Atene per le corazze, Corinto e la Beozia per gli elmi, Calcide per le spade di acciaio temprato. Anche Sparta, Rodi e Cizico possedettero apprezzate fabbriche d'armi. In età più avanzata è da ritenere che, mutati anche i principali centri di produzione delle armi, i varî stati ellenistici, specialmente asiatici, riuscissero presto a rendersi indipendenti dal commercio estero per un genere, come le armi, di così essenziale e continua necessità.

Bibl.: W. Helbig, Das homerische Epos aus d. Denkm. erläutert, Lipsia 1884; (trad. franc. di H. Trawinski, L'épopée homérique expliquée par les monum., Parigi 1894); G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'antiquité, VI, Parigi 1894, pp. 762 segg., 975 segg., VII, Parigi 1898, p. 275 segg.; A. Mosso, Escursioni nel Mediterraneo, Milano 1907; A. Müller, in A. Baumeister, Denkm. d. klass. Altert., s. v. Waffen; Daremberg e Saglio, Dict. des antiquités (articoli varî); R. Forrer, Reallexikon, 1907 (articoli varî); Paris-Roques, Lex. des antiq. grecques, Parigi 1909 (articoli varî); Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., (articoli varî); F. H. Droysen, Kriegsaltert., in K. F. Hermann, Lehrbuch d. griech. Ant., II, Friburgo 1888, p. 11; A. Furtwängler, Die Bronzen von Olympia, Berlino 1890, tav. LVIII segg.; H. Droysen, Die Balaustradenreliefs, in Altert. von Pergamon, 1896, II; J. Kromayer e G. Veith, Heerwesen und Kriegführung der Griechen und Römer, Monaco 1928. Monografie speciali: M. Greger, Schildformen u. Schildschmuck bei d. Griechen, Erlangen 1908; G. Lippold, Griechische Schilde, in Münchener Archaeolog. d. Andenken A. Furtwänglers gewidmet, Monaco 1909; B. Schröder, Thrakische Helme, in Jahrb. des Archäologischen Inst., XXVII (1912), p. 317-344.

Le armi etrusche.

Si conoscono le armi etrusche dalle notizie che ne diedero gli scrittori antichi, dagli esemplari scoperti negli scavi e dalle rappresentazioni dei monumenti figurati. Gli esemplari scoperti negli scavi hanno importanza maggiore; ma, date le condizioni frammentarie nelle quali ci sono pervenuti, devono essere confrontati con le rappresentazîoni monumentali che riproducono armi e guerrieri etruschi, le quali servono a completarli; soltanto in via subordinata e a conferma si possono addurre le testimonianze degli scrittori.

Armi di offesa. - Lasciando da parte le armi ereditate dalla civiltà del bronzo o d'importazione orientale, come la scure manicata della stele di Fiesole e la bipenne della stele di Vetulonia, le armi di offesa che si trovano comunemente in Etruria sono la lancia, la spada e la daga (che è una spada più corta), il pugnale, il giavellotto, l'arco e la saetta, la fionda e le ghiande missili. La lancia è l'arma principale e rassomiglia a quella dei Greci. Il fusto è di legno, la punta è di metallo a forma di foglia o di losanga, e vien fissata al fusto mediante spirali e chiodi che attraversano il cannone; un altro cannone di metallo protegge il piede del fusto. Le punte di bronzo sono le più antiche e le più conservate; succedono a queste le punte di ferro, ma la forma rimane sempre press'a poco la medesima. Ne troviamo esempî nelle stele di Fiesole e di Volterra e nei materiali scoperti negli scavi, tra cui ricordiamo quelli di Marsiliana d'Albegna. La spada e la daga hanno comunemente forma triangolare allungata, a due tagli con nervatura mediana che si assottiglia verso l'apice; la crociera e il codolo del manico formano un sol pezzo con la lama, ma sono rivestiti d'altra materia, legno od osso; esse erano protette dal fodero di legno o di cuoio rinforzato talvolta da una spirale di filo metallico, bronzo appiattito o ferro. Tipi di spada meno comuni sono quelli a un sol taglio, di cui vediamo esempio nella stele di Volterra (con manico ricurvo ad uncino) e nella stele di Pomarance (a dorso falcato). Nell'acroterio centrale del Tempio dei Sassi Caduti (Falerii Veteres) del principio del sec. V si vede una corta spada a doppio taglio ricurva; nella Tomba dei bassorilievi di Cere, che appartiene a un periodo più tardo, sono raffigurati in due pilastri i due tipi di spada. Simile alla spada, per la forma, l'impugnatura e il fodero, è il pugnale; ne differisce solamente per le proporzioni minori. Il giavellotto è essenzialmente un'arma da getto, che come la lancia è formato da una punta di metallo per lo più conica e da un fusto di legno; corrisponde all'hasta velitaris dei Romani che aveva la lunghezza di circa 92 cm. e che gli antichi attribuivano specialmente agli Etruschi (Plinio, Nat. hist., VII, 56, 2).

Che gli Etruschi come arma abbiano adoperato l'arco e le saette è attestato dalla tradizione letteraria e confermato anche dai monumenti (p. es. nei due frontali di cavallo della Marsiliana d'Albegna); ma, negli scavi, avanzi sicuri di archi non si sono trovati; soltanto s'incontrano non di rado punte di bronzo o di ferro simili a quelle delle lance e dei giavellotti, ma molto più sottili, che si debbono riferire a saette, delle quali è venuto a mancare il fusto di legno. L'arco poi era formato comunemente da un bastone di legno elastico, dalle estremità leggermente curvate e riunite da una cordicella o da un nervo fatto di budella bovine. Ultima tra le armi da getto è la fionda, la quale era una correggia di pelle che si restringeva alle estremità. Nel mezzo era collocato il proiettile che poteva essere formato di ciottoli rotondi o pallottole di terracotta, o anche di pallottole più piccole di piombo a forma di mandorle, dette dai latini glandes. Per gli Etruschi l'uso della fionda è attestato non solo per la caccia dalle pitture della Tomba del Cacciatore a Tarquinia, ma anche per la guerra, dalle glandes di piombo che furono trovate sotto le mura di Perugia, nelle campagne del contado chiusino e sotto Chiusi stessa e che portano iscrizioni etrusche (v. G.F. Gamurrini, Appendice al Corpus Inscr. Etrusc., n. 377 segg.). Per il carro da guerra v. carro.

Armi di difesa sono l'elmo, la corazza, i gambali o schinieri e lo scudo. - Gli elmi in uso presso gli Etruschi si possono ridurre a quattro tipi: a) a calotta emisferica semplice con apice a forma di pomo e con paranuca appena accennato. Il tipo si estende fino all'impero romano. In alcuni esemplari antichissimi all'apice s'innesta una lamina triangolare che scende fino alla metà della calotta e continua con tre speroni per lato fino all'orlo (v. l'elmo di bronzo del Museo di Villa Giulia e quello della Tomba dei Sette Camini); b) a calotta ovoidale o sferoidale con gola rientrante e orlo a tesa inclinata, orizzontale e anche verticale. Negli esemplari più tardi e più comuni la calotta termina in alto con uno spigolo longitudinale netto; anteriormente (sec. VI a. C.) o la calotta è liscia, come l'elmo dedicato da Ierone ad Olimpia, oppure è fornita di doppia costolatura longitudinale; c) a calotta aderente al capo, che copre anteciormente la fronte e, dietro, la nuca ed è fornito di cresta o cimiero di forme svariate e anche di paragote. È tale l'elmo del Marte di Todi del Museo Gregoriano Etrusco del Vaticano; d) a calotta sferoidale con cimiero ed anche senza, ma con paranuca e con visiera, che copre la fronte, le gote e il naso, per lo più ricavate da un solo pezzo di metallo. Questo tipo e il precedente, derivati probabilmente dalla Grecia, sono meno comuni, ma compariscono in diverse parti del territorio etrusco (v. l'elmo di Populonia e quello della stele di Vetulonia). Una forma di transizione dal tipo c al tipo d è rappresentata dalla testa di nenfro del cippo Volsiniese ora nel Museo Archeologico di Firenze.

Corazze e gambali così in Italia, come più specialmente in Etruria, non furono molto usati, e gli esemplari trovati nelle tombe rimontano a tipi greci. Le corazze erano formate da due lastre metalliche intere, che coprivano l'una il petto e l'altra il dorso, ed erano affibbiate sui fianchi e sulle spalle; oppure da parecchie lamine o strisce sovrapposte, e foderate di cuoio, che si adattavano meglio al busto (v. il busto del Marte di Todi e le corazze del Museo Gregoriano Etrusco). Lo stesso si dica dei gambali che si usavano forse più per pompa che a scopo difensivo (v. l'esemplare del Museo Gregoriano Etrusco). Meglio informati siamo circa gli scudi che sono di forma ovale o rotonda, e che nelle due forme si trovano già nel periodo più antico, come si vede nelle pietre clipeate dei pozzetti di Vetulonia, ora nel Museo di Firenze. Parecchi esemplari di scudi rotondi si conoscono dalle tombe di Populonia, Vetulonía, Cere, ecc. Erano di solito di lamina sottile di rame con ornati a sbalzo di stile geometrico, foderati di legno e di cuoio. Uno scudo del museo Vaticano-Gregoriano proveniente da Bomarzo conserva ancora, sotto la lamina di rame, frammenti del legno che ne costituiva l'ossatura, del cuoio che rivestiva il legno, delle maniglie e della traversa collocata al centro per la quale s'infilava il braccio.

Bibl.: Oltre agli articoli dedicati all'argomento nelle principali enciclopedie di antichità classica, come quelle di Daremberg e Saglio e di Pauly-Wissowa, si possono consultare; B. Schröder, in Arch. Anzeiger, 1905, p. 26 segg.; L. Pernier, in Ausonia, IX, p. 13 segg.; A. Minto, Marsiliana d'Albegna, Firenze 1921, pp. 257-272; id., Populonia, Firenze 1922, pp. 103 e 148.

Le armi romane.

Le armi usate nell'esercito romano sono spesso ricordate dagli autori classìci, ma di esse non abbiamo una descrizione particolareggiata. A darne quindi una notizia che si accosti il più possibile alla verità si deve ricorrere necessariamente alle rappresentazioni di esse sui monumenti artistici e ai pezzi di armatura superstiti. Questi invero sono relativamente poco numerosi: le località che furono campo delle grandi battaglie dell'antichità dovrebbero rigurgitare di armi, e invece non se ne è conservata che una piccola quantità. Questo fenomeno si spiega con il fatto che l'uso delle armi di bronzo, che meglio si conservano nella terra, ben presto fu sostituito da quello delle armi di ferro, che, come ognuno sa, facili ad ossidarsi, vengono distrutte dall'azione dei reagenti chimici contenuti nell'humus.

Tuttavia si può, nello stato attuale delle cognizioni che sì hanno su questo argomento, tentare di ricostruire un quadro quasi completo dell'armamento romano, il quale non subì invero modificazioni sostanziali dall'età repubblicana ai tempi imperiali.

Le armi si dividevano in armi difensive (arma, armatura) e offensive (tela).

Le armi di difesa, che formavano al tempo stesso l'abbigliamento esteriore del guerriero romano, erano quattro: l'elmo, la corazza, gli schinieri e lo scudo.

Nell'esercito dell'età regia l'armatura dei Romani fu nell'ordinamento di Servio Tullio, regolata secondo il principio che chi più possedeva, ed aveva quindi maggiormente da perdere in caso di disgrazia, fosse più dei non abbienti tenuto alla difesa della patria. In corrispettivo aveva il diritto d'usare un maggior numero di armi difensive. Le classi inferiori erano quindi meno armate tanto per la difesa quanto per l'offesa, secondo ciò che si dirà nel trattare le singole parti dell'armatura.

a) Armi difensive. - Elnto (galea, cassis). - L'elmo romano si distingueva dal greco specialmente per la mancanza della visiera. La galea era di pelle (di lupo o di cane), mentre la cassis era di metallo. Tuttivia anche la galea, a difesa contro i colpi, era fornita di alcune laminette di ferro (cfr. Cic., Verr., IV, 44; Ovid., Metam., VIII, 24). L'elmo della forma più semplice era un caschetto metallico al quale si potevano aggiungere, per una migliore difesa, un riparo verticale girante attorno all'occipite e cadente sulla nuca, e due barbozze (bucculae), attaccate mediante cerniere e fermate a nodo sotto il mento, a difesa delle guance. I centurioni e gli ufficiali di grado superiore avevano l'elmo fregiato sul vertice da un cimiero (crista) formato da tre piume rosse o nere (Polyb. VI, 23), oppure da crini di cavallo a foggia di coda (iuba, cristaequina), scendenti sul dorso ed atti a difenderlo.

Questo cimiero si toglieva durante le esercitazioni e le marce ma si sovrapponeva all'elmo nelle parate e quando si era in procinto di entrare in combattimento, affinché nella confusione della mischia i comandanti fossero facilmente riconoscibili.

Durante l'impero l'elmo del soldato semplice (miles) fu ornato da un semplice bottone in cima al caschetto, come si vede nei soldati rappresentati nei rilievi dell'arco di Settimio Severo; dal tempo di Costantino l'elmo del soldato ricevette invece un cimiero formato da piccole penne. Siffatti elmi, come quelli già descritti degli ufficiali, tanto di cavalleria quanto di fanteria, si vedono rappresentati nei rilievi dell'arco di Costantino.

Corazza (lorica). - La forma più antica di difesa del busto fu una specie di protezione del petto e del dorso formata da una doppia lamina metallica riproducente le forme e la muscolatura del corpo, simile a quello che i Greci chiamavano ϑώραξ στάδιο. Questa primitiva lorica di lamina bronzea fu con tutta probabilita quella generalmente usata al tempo di Servio Tullio, quando avvenne l'organizzazione dell'esercito dei cittadini romani sul modello della falange greca: in essa le truppe armate alla leggiera si distinguevano da quelle di grave armatura formanti le prime due file dell'esercito operante. Queste erano regolarmente armate di elmo, corazza e scudo ovale. Di questa specie di corsaletto di bronzo giunsero fino a noi alcuni esemplari ben conservati.

Questo tipo semplicissimo di lorica andò ben presto in disuso, rimanendo eccezionalmente riservato ai comandanti; al bronzo fu sostituito il ferro, e l'armatura prese il nome di lorica ferrea. L'imperatore Ottone, al dire di Tacito (Hist., II, 11), si presentò alle sue truppe con il corpo protetto appunto da una lorica ferrea.

Nell'ulteriore organizzazione dell'esercito romano, forse già al tempo di Camillo, fu introdotto quel pratico tipo di corazza, la vera lorica (da lorum, "correggia") formata da cinque a sette strisce metalliche, cinte attorno al corpo, fermate le une alle altre mediante uncini. Queste strisce metalliche erano applicate su strisce di cuoio (lora), larghe circa tre dita. Le strisce sovrapposte e raccomandate le une alle altre formavano una protezione pieghevole, che non impediva i movimenti anche più violenti del corpo, dall'ombelico in su, fin sotto le ascelle. Questa parte della corazza si diceva pectorale; la parte inferiore dall'ombelico in giù era formata da una serie di bandelle di cuoio appese al pettorale verticalmente. Durante l'impero venne in uso per i semplici soldati un genere molto semplice di corsaletto di cuoio strettamente aderente al corpo, stretto sopra la tunica. Sopra questo corsaletto veniva indossata anche la lorica a strisce ora descritta.

Fin dall'età più antica gli hastati ed i principes si distinguevano per un genere di lorica più ricca e costosa formata da squame e da catenelle (lorica squamata, hamata). Più tardi un tal genere di Corazza distinse gli ufficiali dai gregarî.

I generali dell'esercito repubblicano, e più gl'imperatori e i loro generali portarono una corazza ben più ricca e di pregio, foggiata sul tipo del χαλκοχίτων greco, reso più elegante ed artistico. UJn rilevante numero di statue imperiali ci mostra una serie interessante di tali loriche, adorne vagamente di simboli e di ornati, i più variati, riprodotte sul marmo in gran parte da originali di bronzo o di ferro, sui quali le decorazioni erano sbalzate a cesello o applicate ad intarsio. Celeberrima fra tutte è la statua loricata dell'imperatore Augusto, scoperta nell'anno 1863 a villa Senni, fuori Porta del Popolo, presso Roma, e che ora decora il Braccio Nuovo del museo Vaticano. La meravigliosa lorica riprodotta in quella celebre statua conserva tuttora tracce di policromia, riproducente appunto la varietà dei colori degl'intarsî nell'originale.

Dallo splendore di queste loriche si passava nei tempi imperiali alla semplicità della lorica di cuoio crudo, tenuta ferma con corregge e con fibbie, usata per Io più dalla fanteria.

Schinieri (ocreae). - Gli schinieri, formati da sottili lamine di bronzo, erano portati ai tempi della repubblica dalle truppe ad armatura pesante (hastati, principes, triarii). Dapprima coprivano entrambe le gambe, poi si usò di portarli soltanto alla gamba destra, perché non difesa, come la sinistra, dallo scudo. Alla fine della repubblica andarono in disuso e furono sostituiti da calzettoni di pelle o di lana, il piede e la parte inferiore della gamba fin sopra il malleolo erano fasciati da un intreccio di corregge.

Scudo (clipeus, scutum). - I Romani portarono dapprima scudi ampî quadrangolari, che ben presto furono sostituiti dal più comodo e maneggevole scudo argivo (ἀσπίς), che era già in uso presso gli Etruschi. Questo scudo rotondo fu detto clipeus ed era portato dai soldati della prima classe. Quelli della seconda, terza e quarta classe furono invece armati con lo scudo sannitico quadrilatero (scutum). Questo genere di scudo era proprio dei Sanniti ed era formato da assi unite insieme e ricurve tanto da formare quasi un mezzo cilindro, ricoperto al di fuori da una pelle greggia. Il quadrilatero formato da questo scudo non era perfetto, poiché andava rastremandosi verso il basso essendo i due lati lunghi obliqui. In progresso di tempo, e specialmente ai tempi imperiali, si usò lo scutum lungo, a lati paralleli, imitato da una forma di scudo propria dei Greci. I soldati armati alla leggiera ebbero uno scudo rotondo pochissimo pesante (parma), che aveva sostituito il massiccio clipeus di metallo; tale fu lo scudo adoperato dai velites. I varî scudi ora descritti avevano tutti nel mezzo all'esterno una placca rilevata di ferro (umbo), che aveva l'ufficio di far rimbalzare le freccie e le punte nemiche.

Altre forme di scudi, usate promiscuamente con la rotonda e la quadrilatera durante l'impero, furono la ovale e la esagonale. Sull'arco trionfale di Settimio Severo in Roma i soldati romani erompenti da un castello portano scudi di tre forme: retta, ovale ed esagonale. I singoli corpi di truppa si distinguevano non tanto dalla forma dello scudo quanto dal diverso colore onde gli scudi erano dipinti e dalla diversità degli emblemi ed imprese che lo decoravano.

I militari rappresenta nei rilievi della colonna Traiana recano sullo scudo il fulmine alato, l'aquila, corone d'alloro, raggi, figure romboidali e mezzelune; in quelli della colonna Antonina, ghirlande di gigli, figure romboidali e mezzelune. Durante le marce i soldati di fanteria portavano lo scudo dietro le spalle, appeso ad una tracolla, mentre quelli di cavalleria lo portavano fermato alla sella sul fianco del cavallo (v. i rilievi delle colonne Traiana ed Antonina).

b) Armi offensive. - Spada (gladius). - La spada si portava al fianco destro, essendo il fianco sinistro ingombrato dallo scudo.

I generali e i comandanti che non avevano lo scudo la portavano invece appesa al fianco sinistro. Pendeva generalmente da una bandoliera (balteus) o da una cintura (cingulum) stretta con una fibbia.

Due furono le forme di spada in uso nell'esercito romano. La più antica fu la spada gallica, piuttosto lunga e pesante, a un solo taglio e senza punta, atta a dare fendenti, molto facile a piegarsi e a rendersi inutile. Durante le guerre puniche i Romani ebbero a sperimentare la praticità e l'efficacia della spada iberica usata dai Cartaginesi, corta, a doppio taglio e a punta acuminata, e subito l'adottarono a preferenza della spada gallica. Di questa non abbiamo esempî nei monumenti, mentre ne abbiamo della spada iberica, rappresentata anche frequentemente tra gli oggetti dei nostri musei.

Le lame delle spade degli ufficiali e dei comandanti erano naturalmente di migliore qualità e più finemente lavorate, con impugnature e guaine di metallo artisticamente lavorate a sbalzo e a cesello. Pendevano dal cingulum che era in modo particolare distintivo degli ufficiali superiori. I soldati si vedono talvolta sui monumenti imperiali portare a destra, oltre al gladius, un piccolo pugnale (sica).

Nel corso del sec. II tornarono in onore le spade più lunghe (spatha), adottate da alcuni corpi speciali. La spada ricurva o sciabola fu propria dei guerrieri barbarici.

Lancia (hasta, pilum). - Nell'età più antica fu in uso presso i Romani la lunga asta etrusca o picca (hasta). Nella riforma dell'esercito operata da Camillo, gli hastati coi principes ebbero, oltre alla pesante asta, un'arma più leggera da lancio, il pilum. La forma più antica di quest'arma da offesa, importantissima nella tattica bellica romana, dovette essere quella di un'arma lunga e pesante destinata a respingere dall'alto del vallo l'impeto del nemico che tentava di salirvi (pilum murale). Con l'introdursi nella tattica militare con maggiore frequenza il sistema dei combattimenti in aperta campagna, una tale arma, greve e ingombrante e per nulla adatta al lancio orizzontale, divenne quasi inutile e necessariamente fu sostituita da un'altra più snella e maneggevole. Ciò avvenne fin dalla guerra con Pirro, e nella seconda guerra punica principes e hastati ne erano forniti insieme con l'antico pilum, che probabilmente lasciavano nella tenda quando uscivano in aperta battaglia. Un tale giavellotto, lungo un metro circa, o un metro e mezzo, si componeva di un fusto ligneo (hastile) cui era infissa una lunga testa di ferro (cuspis), che per la metà superiore era un'asta massiccia a quadrello e per l'altra metà era a tubo. La punta di ferro era saldata all'asta con chiodini, fornita talvolta di punte uncinate che, prodotta la ferita, difficilmente potevano estrarsi (pilum hamatum). L'arma terminava in basso con un puntale (spiculum). Il pilum deve considerarsi come l'arma nazionale della fanteria romana menzionata e illustrata da più autori (Liv., IX, 19; Flor., II, 7, 9; Sil. Ital., XIII, 1; Polyb., VI, 23). La circostanza che la sua punta era di ferro e quindi facilmente deperibile per l'ossidazione e il fusio di legno, ha impedito che ci pervenissero molti campioni di una tale arma, e inoltre la difficoltà di riprodurla per la sua sottigliezza nei rilievi marmorei, nei quali del resto eran rappresentati quasi sempre ufficiali e di rado militi semplici che soli ne erano forniti, non ci ha permesso di avere molte riproduzioni artistiche del pilum. La sua forma fu molto simile ad un pestello, che in latino si dice ugualmente pilum.

Dalla forma del pilum, esemplificata in alcune pietre sepolcrali di milites rinvenute in Germania, e da alcuni rari esemplari di teste di lancia pervenutici dall'antichità, si può però ricostruire il tipo approssimativo di quest'arma.

Per scagliare il pilum in linea retta il braccio destro del soldato doveva subire una forte contrazione allo scopo di imprimere all'arma il necessario impeto per raggiungere il bersaglio. Per questo si hanno le espressioni rotare e torquere hastam o pilum (Virg., Aen., X, 583; XII, 36; Stat., Theb., IX, 102). Si diceva invece iacere o iactare se il lancio dell'arma si effettuava dall'alto in basso. Tale era il lancio della cavalleria la cui lancia (lancea) aveva la punta in basso e in alto.

Allo scopo di rendere inservibili i pila una volta scagliati e infissi nel bersaglio, e impedire che il nemico li potesse raccogliere per ritorcerli contro i Romani, Mario dapprima (Plut., Mar., 25), e poi Cesare ne modificarono la struttura introducendo nell'ossatura del fusto un cavicchio di legno che facilmente si rompesse, e facendo la testa ferrea di ferro dolce (ad eccezione della punta) che facilmente si ripiegasse.

In età imperiale, durante il sec. III, venne in uso un giavellotto più corto dell'antico, munito all'estremità superiore di un ferro triangolare. Questa nuova arma si disse spiculum, e ci è descritta da Vegezio (Mil., II, 15). Contemporaneamente si adottò un'arma più comoda, perché più corta ancora e più leggiera, detta verutum o vericulum, in tutto simile nella forma alla precedente.

Nei tempi imperiali si usò anche applicare al giavellotto, nel suo centro di gravità, una correggia (amentum) per facilitare il lancio dell'arma e accrescerne la potenza (Liv., XXXVII, 41; Ovid., Metam., XII, 221; Sil. Ital., IV, 14).

Nel Basso Impero vennero in uso vere e proprie lance (lanceae), ed anche giavellotti cortissimi in forma di saette (sagittae); ciascun soldato ne aveva cinque, assicurate nell'interno dello scudo. Avevano la punta uncinata (hamata), e il cannello da infiggervi il fusto era reso più pesante con uno spesso rivestimento di piombo, il che rendeva l'arma molto pericolosa. Per questa loro particolare struttura, queste armi furono dette anche plumbatae. Gli armati con questi giavellotti leggieri si dissero iaculatores.

Arco (arcus). - L'uso dell'arco e dei dardi (sagittae) non fu proprio dei Romani, bensì delle truppe ausiliarie straniere incorporate nell'esercito romano, e ciò fin dalle guerre puniche, quando furono ammessi, come milizie regolari ausiliarie della fanteria romana, arcieri balearici e cretesi. L'uso generale di quest'arma presso i Romani era riservato alla caccia.

Un forte contingente di abilissimi arcieri a cavallo era fornito dagli alleati asiatici, i quali erano vestiti alla foggia orientale, da capo a piede, di una corazza a maglia ed a squame (cataphracti). La forma dell'arco usato dalle truppe ausiliarie era simile a quella dell'arco greco; le punte dei dardi erano triangolari e si fissavano al fusto a mezzo di un piccolo perno a spina.

Fionda (funda). - Nel piu antico ordinamento dell'esercito romano una centuria speciale degli armati alla leggiera (velites) era costituita dai rorarii, o lanciatori di fionda (funditores). Tuttavia questo reparto militare non acquistò importanza che in progresso di tempo e cioè dopo le guerre puniche, impiegandosi in questa specialità le truppe ausiliarie baleariche. Vestiti con la semplice tunica e il sagum, o manto militare, che veniva fatto passare sul braccio sinistro in modo da formare un sacco entro cui si ponevano le munizioni, con la destra agitavano la fionda, formata da una correggia, più larga in mezzo e più stretta verso le estremità.

Il proiettile era formato da una pietra (lapides missiles) o da una palla di piombo a forma di ghianda (glandes missiles), che si poneva nella parte più larga della fionda; i due capi di questa erano stretti nella mano del fromboliere, che, dopo averla fatta girare più volte attorno al suo capo, scagliava il proiettile verso la mira, lasciando sfuggire di mano uno dei capi. Un numero rilevante di queste glandes furono restituite dai territorî presso Ascoli Piceno e presso Enna in Sicilia. Talune hanno brevi motti sarcasticì e dì scherno per il nemico, quali: pete culum Octaviani; fugitivi peristis; feri Pompeium, ed altre simili. Vegezio (Mil., I., 20) fa distinzione fra accensi, funditores e ferentarii; sembra che i primì scagliassero pietre con le mani, i secondi con la fionda, gli ultimi, di grado più elevato degli altri, con una fionda più pesante e di maggiore gittata.

Balestra (ballista). - Macchina adoperata negli assedî per scagliare lontano grosse pietre. Ne abbiamo descrizioni in Vitruvio (X, 11) e in Ammiano Marcellino (XXIII, 4, 13), insufficienti tuttavia a darcì un'idea adeguata della loro forma precisa. Le bollistae erano di varie dimensioni e si dicevano perciò maiores e minores (Liv., XXIV, 47). Le più leggiere si potevano agevolmente trasportare su carri tiratí da muli a qualunque punto del campo di battaglia; per tale motivo si dicevano carroballistae (Veget., Mil., III, 24). Un carro di questo genere è forse scolpito su uno dei rilievi della colonna Traiana: ma è rappresentazione troppo imperfetta per poterci fornire una nozione adeguata del principio su cui si basava la costruzione di tali armi d'artiglieria da campo. Il magazzino in cui si custodivano le ballistae si diceva ballistarium, i soldati addetti alla manovra dello strumento bellico erano detti ballistarii (Ammian., XVI, 2, 5; Veget., Mil., II, 2). I graduati che dovevano dirigere al segno i proiettili (tragulae) erano detti tragularii (Veget., ?Mill., II, 15).

Macchine d'assedio. - La forma più semplice di protezione per le truppe procedenti all'assalto diretto di una fortificazione nemica era quella di far tenere a ciascun soldato lo scudo steso orizzontalmente sul capo, mentre gli uomini della prima fila e quelli estremi dei fianchi li portavano davanti alla persona, verticalmente o di fianco. Si vedeva in tal modo avanzare come una immensa testuggine (testudo); gli scudi formavano altrettante squamme. Si dava a questa specie di tetto protettore una certa inclinazione, per far sì che i proietti dei difensori scivolassero senza ledere gli uomini sottostanti, facendo stare curvi i soldati della fila esterna, mentre quelli delle file interne si tenevano a mano a mano sempre più dritti (Caes., B.G., II, 8; Tac., Hist., III, 27).

Quando si doveva procedere a un vero e proprio assedio regolare si erigeva anzitutto un vallo, tutt'attorno alla fortezza, con bastioni. Si scavavano quindi gallerie sotterranee per gli approcci. Nel compiere queste operazioni gli assedianti erano protetti da speciali congegni detti musculi, descritti minutamente da Cesare (B.C., II, 10) e da Vegezio (Mil., IV, 16). Parapetti di tavole detti plutei servivano a riparare gli assalitori dai tiri del nemico durante gli approcci preliminari all'assalto (Caes., B.G., VIII, 41; B.C., I, 25; II, 15; Ammian., XXI, 12). Contro il rovinare della terra e delle macerie si costruivano baracche, vineae, a tetto inclinato, formato di assi e di graticci sostenuti da pali, le quali si portavano a ridosso delle mura, in modo che gli ordigni bellici di assalto potessero essere sicuramente manovrati sotto di esse, contro le mura (Caes., B.C., II, 2; Veget., Mil., IV, 15). Si ergevano inoltre torri mobili (turres mobiles o ambulatoriae) fatte di legno e di pelle e poste su ruote in modo da poterle facilmente avvicinare alle mura nemiche. Tali torri erano divise in ripiani, ciascuno dei quali aveva un ponte levatoio per far passare i soldati sulle mura (Vitruv., X, 13; Veget., Mil., IV, 17). Si disponevano infine tutte quelle macchme atte a lanciare ogni specie di proietti, dette genericamente tormenta, quali le balestre, le catapultae per il lancio delle grosse saette e di aste di grande mole (Vitruv., X, 15), e gli scorpiones, armi da lanciare pietre e palle di piombo (Veget., Mil., lV, 22; Ammian., XXIII, 4).

Quando gli assedianti si erano accostati alle mura nemiche, si metteva in azione una macchina da far breccia, formata da una poderosa trave colla testata rivestita di ferro per lo più foggiata a testa di ariete, donde il suo nome di aries (v. ariete). Nella primitiva maniera di adoperare questa macchina, essa era portata a braccia da un certo numero di uominì e lanciata contro le mura (Vitruv., X, 13, 1). Un esempio di questo modo di adoperare l'ariete si vede sulla colonna Traiana. Un ariete di poca mole era anche quello sostenuto da ruote e perciò detto aries subrotatus, che fu usato anche nei bassi tempi e ci è esemplificato nella figurazione del disco di una lucerna fittile. In seguito fu adottato il sistema dei Greci e fu introdotto nel macchinario bellico dell'esercito romano il lungo ariete sospeso con catena e corde a un grande trave orizzontale, collocato su sostegni ritti e manovrato per mezzo di corde (Vitruv., X, 13, 2). Più tardi ancora, per proteggere i manovratori dello strumento, fu fissata sopra un congegno, che si moveva su ruote, una copertura di tavole fatta a forma di casa o di capanna, con tetto a schiena d'asino (testudo arietaria): è rappresentata in uno dei rilievi dell'arco trionfale dí Settimio Severo.

Altri strumenti bellici d'assalto erano le falci murali (falces murales), atte a smantellare un muro strappandone le pietre, e grossi pali con la punta aguzza di ferro (terebrae), che a guisa di perforatrici armate su rulli giungevano a fare, con reiterati colpi, larghe brecce nei muri anche più spessi (Vitruv., X, 13, 7).

I mezzi di difesa da parte degli assediati erano varî e talvolta molto ingegnosi. Si trattava di riuscire a lanciare sugli assalitori e sugli assedianti quanto più si poteva di proiettili d'ogni specie e qualità. Si cercava d'incendiare le macchine di approccio del nemico e d'infrangerle per ridurle alla più completa inefficacia. Si tentava di sollevare gli arieti e le terebrae mediante grossi lacci o grandi tenaglie detti lupi. Ovvero si cercava il mezzo dì attutire i colpi calando giù lungo le mura e accatastandoli, sacchi di sabbia o anche fasci di canne. Inoltre dall'alto delle mura si scagliavano sulle masse degli assalitori fiaccole di pece, recipienti pieni di fuoco, o si colava piombo fuso od olio bollente, o si ruzzolavano giù massi di pietra. Singolare era l'uso di un proiettile atto ad appiccare il fuoco e ad incendiare quando avesse fatto presa; si trattava di una specie di freccia, munita alla testa di una gabbietta in fil di ferro, simile alla testa di una conocchia, piena di materia infiammabile, cui si dava fuoco prima del lancio. Questo proiettile, il cui uso fu molto comune, si adoperava anche nella marina da guerra per tentare d'incendiare le navi nemiche. Un tale strumento bellico si diceva malleolus, ossia piccolo maglio: aveva infatti nell'insieme l'apparenza di un mazzuolo, con il fusto e la testa.

Per impedire un assalto di cavalleria si adoperavano apparecchi composti di tre robuste punte di ferro (tribuli), sporgenti da una palla parimenti di ferro e disposte in modo che quando lo strumento era lanciato sul terreno, una delle punte rimaneva in aria (Veget., Mil., III, 24).

Armi corte. - Rimane a mostrare quali fossero le armi corte in uso presso i Romani, adoperate, oltre che dai militari, anche dai privati per la difesa personale.

Le spade, oltre al gladius di cui si è già parlato, e la cui voce ha per sinonimo, usato specialmente in poesia, ensis (Quint., X, 1, 11), si distinguono in alcune varietà. Il parazonium era una spada corta, cinta alla vita, e come spada di lusso era portata di solito dai tribuni militari e dagli ufficiali superiori dell'esercito romano. Più corta della spatha era la semispatha, usata anch'essa come arma di lusso (Veget., Mil., II, 15). Una spada a un solo taglio era poi la machaera, atta perciò più a tagliare che a perforare, e in fondo non più che un elegante coltellaccio: aveva quindi una grande analogia con il culter venatorius o coltellaccio da caccia, e fu adoperata anche negli esercizî gladiatorî, specialmente dai bestiarii per abbattere le fiere.

Un genere curioso di spada era il cluden, usato dagli attori sulla scena romana, la cui lama rientrava nel manico appena incontrava una piccola resistenza, e faceva così l'effetto di dare il colpo, senza alcun pericolo per il colpito (Apul., Apol., X, p. 526).

Il coltello (culter) era di varî tipi, usato, oltre che nei sacrifizî, anche dai cuochi, dai cacciatori, dai vignaiuoli e dai barbitonsori. Un coltello più piccolo dicevasi cultellus (diminutivo di culter); il nostro temperino era lo scalprum, usato anche dagli amanuensi e dagli scrivani per temperare le penne di canna per scrivere (arundines). Un coltello a pugnale ricurvo a punta aguzza era la sica e si diceva sicarius colui che ne faceva uso. La sica era ritenuta arma propria dei malfattori (Isid., Origin., XVIII, 6, 8).

Un coltellino molto affilato, adatto a radere i capelli e la barba, era la novacula (Petr., Sat., 103, 1; Mart., II, 66).

Altre specie di pugnali erano il pugio, piccolo a due tagli e puntuto, portato anche dagl'imperatori e dai generali in capo dell'esercito a indicare il diritto di vita e di morte (Tac., Hist., III, 68; Val. Max., V, 3). Una specie di stiletto si diceva pugiunculus. Un pugnale portato dietro, sulle natiche (clunes), si chiamava per l'appunto clunabulum o clunaculum (Aul. Gell., V, 25), anche il coltello del cultrarius, con il quale questi apriva le viscere della vittima, aveva lo stesso nome, ed era portato nella stessa maniera, raccomandato a una correggia sui lombi.

Altre armi, infine, usate raramente erano la clava, specie di randello di offesa e di difesa: si usava anche nelle esercitazioni delle reclute invece dell'arma vera; la fuscĭna, specie di forca a tre o più rebbî usata dai gladiatori detti retiarii per attaccare i loro avversarî, dopo averli avviluppati in una rete; la bipennis, o scure a doppio taglio, adoperata anche come arma da guerra (Virgil., Aen., V, 307) e la securis o accetta, usata anche come arma insidiosa.

Bibl.: H. Reinhard, Griechische und römische Kriegsalterthümer, Berlino 1859; F. Kraner, Das Kriegswesen bei Caesar (pref. al De bello gallico), 7ª ed., Berlino 1870; W. Rustow, Heerwesen und Kriegsführung C. Julii Caesaris, 2ª ed., Lipsia 1862; E. Guhl e W. Kohner, La vita dei Greci e dei Romani (trad. C. Giussani), Torino 1875, p. 694 segg.; Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, (s. le varie voci); L. Lindenschmidt, Pracht u. Bewaffnung d. römischen Heeres, Brunswick 1882; P. Couissin, Les armes romaines, Parigi 1926; J. Kromayer e G. Weith, Heerwesen und Kriegsführung der Griechen und Römer (in Handbuch di I. Müller), Monaco 1928.

Le armi dal principio del Medioevo al 1850.

Periodo barbarico. - Con lo sfasciarsi della potenza e dell'unità latina, veniva meno la gran luce della sua civiltà. Con essa morivano anche i mirabili ordinamenti militari romani. Le prime torme barbariche che invasero e saccheggiarono l'Italia, erano formate principalmente di uomini a cavallo, che avevano appreso gl'insegnamenti dell'arte della guerra nelle coorti ausiliarie dell'impero, e nelle stesse legioni dove, nel sec. V, i Romani erano ormai un'eccezione; portavano l'armamento del paese d'origine, o modellato su quello romano. Rimasero tuttavia bande selvagge, e alla disciplina e alla tattica sostituirono lo slancio e la foga. Fra questi popoli invasori, gli Ostrogoti furono i meno lontani dalla cultura latina, di cui non ignoravano le grandi tradizioni intellettuali; talché, senza rozzo dispregio, poterono accostarsi all'elemento romano. Teodorico riordinò la milizia adoperando come soldati i suoi Ostrogoti, e soltanto vi ammise qualche ufficiale romano.

Com'era armata questa milizia? È difficile, o per meglio dire impossihile descriverlo con sicurezza; ma si può supporre che usasse le stesse armi delle legioni scomparse e dei numeri bizantini.

Procopio, che seguì Belisario e gli fu compagno nelle guerre d'Africa e d'Italia, conclude le sue narrazioni descrivendo l'estrema battaglia, combattuta fra Goti e Bizantini ai piedi del Vesuvio. Così sappiamo che i Goti avevano una testa di ponte sul Sarno, fortificata con torri di legno e baliste all'uso romano; e che infine, stremati dalla fame, lasciati i cavalli e composta una profonda falange, mossero disperatamente all'assalto del campo nemico. Teia, il re della loro nazione, riparato dallo scudo e imbrandita la lancia, veniva dinanzi alla falange. Fatto bersaglio ai colpi "celato dallo scudo, in questo riceveva i dardi e poi a un tratto gettandosi sui nemici molti ne uccideva. E quando vedeva che lo scudo era carico di dardi, ei lo dava a uno dei suoi scudieri e prendevane un altro", finché rimasto "col petto scoperto un momento, un giavellotto colselo e l'uccise di colpo" (cfr. Procopio di Cesarea, La guerra gotica, ed. trad. D. Comparetti, Roma 1895). La lancia e lo scudo dell'eroico re goto, erano certo come quelli delle guardie di Giustiniano nel mosaico di San Vitale: la lancia con l'asta guarnita di chiodi, e lo scudo ovale, cerchiato di metallo e rinforzato nel mezzo con l'umbone aguzzo; lancia e scudo che si ritrovano eguali nel dittico d'avorio di Monza, su cui sono forse rappresentati Costanzo e Galla Placidia col figlio Valentiniano III.

Tuttavia sia il musaico di Ravenna, sia l'avorio di Monza, ci mettono sott'occhio soltanto il costume guerresco e le armi degli alti ufficiali e della guardia del corpo degl'imperatori d'Oriente (v. più oltre: le armi bizantine). Questa guardia, com'è noto, era formata dei domestici, milizia scelta di fanti e cavalieri, domestici pedites e domestici equites, che ritroviamo effiggiati anche in altri rarissimi monumenti del tempo: alcuni dischi d'argento, fra i quali i più rappresentativi sono quello scoperto ad Almandralejo (Spagna), e l'altro trovato nella catacomba di Kerč (Caucaso). (Cfr. F. Cabrol, Dict. d'archéol. chrét. et de liturgie, Parigi 1925).

Come nel musaico ravennate, i protectores che stanno ai lati dell'imperatore Teodosio e dei figli Arcadio e Onorio nel disco di Almandralejo, sono sbarbati, a testa nuda, con i capelli tagliati orizzontalmente sulla fronte e ricadenti dai lati; indossano la varoca, sorta di tunica corta e ampia con maniche strette, e calze lunghe non troppo aderenti. In quello stesso disco, le guardie impugnano la lunga lancia e sono armate di scudo di grandi dimensioni. Scrittori di quel tempo hanno elogiato le belle capigliature bionde dei protectores, le quali erano certo celate dall'elmo quando la guardia imperiale entrava in campagna. Sappiamo anche che i protectores, reclutati esclusivamente fra i veterani e i giovani nobili, e che avevano tutti grado di ufficiale, portavano una torques d'oro al collo con la bulla pendente, tuniche tutte ricamate d'oro e di porpora, sottili fasce bianche intrecciate sulle gambe e compagi neri; e che, in seguito, lo scudo, ovale o rotondo, dorato e guarnito, come l'asta della lancia, di chiodi d'oro e di pietre preziose, venne fregiato col monogramma di Cristo. Ma nessun altro documento figurato ci dà il modo di stabilire con precisione le fogge e l'armamento dei semplici soldati, iscritti alle scholae e ai numeri, fogge e armamento che, senza dubbio accoppiavano alla tradizione romana le mode e le usanze asiatiche. Forse la cotta d'arme trapunta a pieghe longitudinali, il largo budriere, la spada col fodero ornato di gemme e le scarpe traforate dei quattro personaggi che si abbracciano nel rilievo di porfido, sull'angolo di San Marco a Venezia, possono essere esempio approssimativo di queste fogge e di questo armamento.

Più rozzi dei Goti, i Longobardi conservarono dapprima le vesti e le armi delle native regioni. Ma poiché nelle maggiori città italiane erano botteghe d'armaioli che lavoravano secondo le antiche tradizioni spade e scudi, archi e frecce, anche i Longobardi finirono, sia pur lentamente, con l'armarsi all'uso romano e col vestirsi in modo più conforme al clima meridionale. Non solo, ma persino nel perfezionamento dell'arte della guerra divennero discepoli del popolo vinto. Anch'essi, abili cavalcatori come gli altri barbari scesi in Italia, ferrarono i cavalli e adoprarono la sella e le staffe.

Il re Astolfo, regolando il servizio militare degli abitanti dei distretti privi di beni prediali, stabiliva che i più doviziosi dovessero scendere in campo a cavallo e armati di corazza; quelli di più modesta fortuna pure a cavallo ma senza corazza; e i meno abbienti, provvisti solamente d'arco, di frecce e di faretra. S'intende che la corazza della quale si parla era di cuoio modellato secondo la forma del torso, oppure di lamine di ferro disposte in senso orizzontale, o anche di canovaccio armato di squame metalliche. Naturalmente queste milizie erano una specie di corpo ausiliario della cavalleria longobarda che costituiva l'esercito vero e proprio. In una lamella di rame dorato, rinvenuta in Val di Nievole e oggi esposta nel Museo nazionale di Firenze, è rappresentato un altro re longobardo, Agilulfo, che siede in trono stringendo con la sinistra la spada e benedicendo con la destra, fra due guerrieri armati di lancia e di scudo rotondo, con la corazza squammata e l'elmo conico impennacchiato (v. agilulfo). Dall'una e dall'altra parte, una Vittoria alata porta un labaro con la scritta Victuria, e due scudieri presentano al re le corone dei vinti. Il latino è barbaro come le figure: il re, le Vittorie, gli scudieri, non sono se non larve grottesche. Ed è questo uno dei pochi esempî di rappresentazione plastica del costume e dell'armatura nel periodo longobardo che ci sono pervenuti. Alla deficienza del materiale iconografico possono supplire i cimelî che il suolo ci restituisce in tutto il vastissimo territorio occupato o percorso dalle popolazioni barbariche in Italia e fuori, nel cosiddetto periodo delle migrazioni. Nelle tombe maschili più comuni si ritrovano i resti dell'armatura ordinaria: lunghe spade, e coltellacci a un fendente (scramasasca), puntali di fimbrie, borchie e umboni di scudi che dovevano essere di legno ricoperti di cuoio; e una figurina acefala, ritagliata in lamina di bronzo, del Museo di Lucca ci dà almeno il profilo di un guerriero, forse longobardo, vestito di lunga tunica, armato di daga e di piccolo scudo rotondo, in atto di reggere un'asta con la croce e la colomba. Altre tombe più ricche hanno restituito armi preziosamente lavorate da artefici barbarici (v. barbarica, arte). Un elmo conico, come quello dei guerrieri di Agilulfo, completo e di materia preziosa, si vede nel Museo d'Ancona. È tutto coperto di lamina d'oro, con radi fregi geometrici, e guernito dei guanciali traforati nell'orlo, per cucirvi la fodera di pelle. È certo, un elmo da parata, come sono da parata le spade e le daghe di Nocera Umbra e di Castel Trosino - la cui età è dubbia tra il periodo goto e il longobardo - con l'impugnatura ricoperta di bellissimi intagli d'oro. Sopra un altro elmo, dello stesso tipo ma di bronzo dorato, rinvenuto a Giulianova e ora a Berlino, son graffite strane figure, fra cui appare un guerriero, tutto armato, che lotta con mostri di varie forme, mostrando loro, per esorcismo, la croce.

La rarità degli elmi longobardi si deve forse al fatto che soltanto i qapi portavano l'elmo in guerra; la gran massa preferiva lasciare in vista le lunghe trecce di capelli pendenti sulle gote. Gli stessi capi non esitavano a togliersi l'elmo, quando volevano dar prova di valore. Vettari, duca di Cividale, combattendo contro gli Slavi, si slacciò l'elmo e mostrò ai nemici il suo volto. E quelli, riconosciuto il gran duce, si diedero alla fuga, considerando la battaglia perduta.

Di questo episodio ci ha lasciato memoria Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. Lo stesso Paolo, dove racconta del primo incontro di re Autari con Teodolinda, c'inlorma che fra le armi dei cavalieri longobardi v'era di già la scure, probabilmente la francisca a un taglio, che sopravvisse fino al Cinquecento. Dice il Diacono: "Autari adunque essendo già arrivato presso a' confini d'Italia e avendo con sé i Bavari che lo riaccompagnavano, levossi quanto poté sul cavallo che inforcava, e con tutta forza infisse nell'albero che gli era più prossimo la scure che teneva in mano e la lasciò infissa con queste parole: "Di cotali ferite suol fare Autari". (Cfr. Pauli, Historia Langobardorum edentibus L. Bethnann et G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum langobard. et italic. saec. VI-IX).

Dal sec. IX al XIII - È difficile, nonostante tutti gli sforzi dell'erudizione, avere qualche luce nel folto buio del periodo dei Carolingi e degli Ottoni. Vi fu, anche allora, una lotta costante fra le usanze romane e le usanze barbariche, ma gli scarsi monumenti delle arti figurative non ci consentono di stabilirne con sicurezza i singoli elementi. Le armi furono sempre la daga corta, portata a destra, e la spada larga e diritta, portata a sinistra. Spesso queste armi venivano arricchite di sottili lavori di oreficeria, di pietre preziose, ed erano sempre racchiuse in belle guaine di cuoio, o di sottili assicelle di legno ricoperte di tela o di pergamena (v. barbarica, arte). Il monaco di San Gallo così descrive nel De gestis Karoli il costume di guerra di Carlo Magno: "La testa coperta con l'elmo di ferro, le mani guarnite di guanti di ferro, il petto e le spalle difesi da una corazza di ferro, la sinistra armata di una lancia di ferro, la destra sempre stesa sulla invincibile spada, i fianchi cinti di lamine di ferro. E che dire delle scarpe? Tutto l'esercito era usato a portarle come lui, sempre di ferro. Sul suo scudo non si vedeva se non ferro. Tutti coloro che circondavano il monarca, anche i semplici soldati avevano armature simili, secondo la loro possibilità". Questo ritratto elogistico bisogna guardarlo però al lume della critica, o si corre il rischio di confondere Carlo Magno con Carlo V. Vediamo dunque come erano congegnate le armature che indossarono l'imperatore franco e i suoi paladini. È ben nota la statuetta di bronzo del Museo Carnevalet di Parigi, prodotto dell'ultimo stile provinciale romano, alla quale si dà il nome di Carlo Magno e che rappresenta certo uno dei primi Carolingi. Il monarca è a cavallo, con la clamide e la corona. Impugna una larga spada, e porta il globo; i lacci dei compagi s'intrecciano sulla calza fino al ginocchio. Le scaglie delle loriche si applicavano anche sugli omeri e sugli avambracci; se la lorica era lunga, ricopriva le cosce del cavaliere, il quale, tutto chiuso così in un rilucente guscio d'acciaio, assumeva l'aspetto dei guerrieri persiani ammirati da Senofonte, e dei cataphracti figurati sulla Colonna Traiana. La lorica squamata veniva spesso sostituita con la cotta armata di strisce di cuoio disposte a traliccio e fermate sulle giunture con chiodetti a capocchia larga. Questa specie di cotta, la cotte treillissée dei Francesi, era sufficiente a riparare i colpi di taglio, ma non quelli di punta. Vero è che la spada del periodo carolingio, ha la lama larga e piatta, e i due fili si riuniscono disegnando una leggiera curva anziché un angolo acuto.

È il periodo in cui la spada assume il carattere di arma nobile per eccellenza e nel suo pomo s'incomincia a metter qualche reliquia. Si giura su questo pomo come sul Vangelo, si prega dinnanzi a esso, e nel movimento del saluto vien portato alla bocca, come quando, prima di slanciarsi all'assalto, si bacia la reliquia che vi è racchiusa. È un'arme amata e venerata; i guerrieri cristiani parlano alla loro spada, come gli eroi d'Omero parlavano ai loro cavalli. Le Chansons de geste e i poemi cavallereschi sono pieni di allocuzioni alla spada. Morente nelle gole di Roncisvalle, Orlando stringe la sua spada Durendal tutta sguainata; ha dinnanzi una pietra nera; dieci colpi ei vi dà con essa per dolore e ira: scricchia l'acciaro, ma non si rompe né s'intacca.

L'espée cruist, ne fruisset ne se brise,

Cuntre ciel amunt est resortie....

Il ricamo di Bayeux (H6tel de Ville), che risale alla fine del sec. XI, attribuito dalla tradizione alla regina Matilde moglie del conquistatore dell'Inghilterra, segna come il punto di partenza per la storia dell'armatura nel Medioevo. In esso vediamo i rudi cavalieri normanni coperti della cotta d'arme, che senza essere attillata accompagna le forme del corpo: ha maniche ampie e si biforca in basso a guisa di brache scendenti fin oltre il ginocchio. La cotta, al solito di pelle o di canovaccio, è tutta armata di piccole scaglie o di cerchietti di metallo infilati in un cordoncino di refe, e poi cuciti fila per fila in modo che ciascuna si sovrapponga all'altra e tutte seguano la forma del corpo; alla sommità del petto v'è un'apertura quadrata che si può chiudere con un ritaglio cucito per l'orlo inferiore; da quest'apertura il cavaliere passa le gambe e le braccia per indossare la cotta. Essa è foderata e imbottita; dietro v'è attaccato un camaglio, sorta di cappuccio o di cuffia, per coprire il capo. Sotto la cotta, il cavaliere ha un farsetto impuntito che serve ad attutir le percosse. Completa l'armatura difensiva un ampio scudo di legno, a forma di mandorla, cerchiato di ferro e dipinto con strani simboli; e un elmo conico, di ferro o di rame, che ha dinanzi, ribadita sul coppo, una lamina rilevata nel mezzo che scende a coprire il naso, e dalla parte di dietro un'altra lamina più larga che difende la nuca. L'elmo vien portato sul camaglio, durante il combattimento; talvolta è ornato d'un lembo di stoffa legato a un anello sventolante sulle spalle del guerriero. Impostato sulla sella arcionata, con le gambe coperte di calze ferrate come la cotta e i compagi armati di sproni, diritto per portare il peso del corpo sulle staffe, il cavaliere impugna la lancia lunga almeno tre metri, col ferro a forma di foglia di salice e una fiamma colorata alla sommità dell'asta; dal fianco sinistro gli pende la spada che arriva più giù del lembo della cotta, la salda spada che è il segno dell'onore e delle virtù guerriere, che ha un nome proprio e che divien fatata se la impugna un eroe. Anche i fanti sono raffigurati nel ricamo, armati come i cavalieri, ma con la scure franca, che ha il manico lungo più di un metro. Gli scudieri trasportano le armi alle navi, tenendo infilate in una stanga, per le maniche, le rigide cotte.

Ecco dunque quali erano, su per giù, le armi del feudalesimo e della cavalleria. Con esse i primi crociati s'imbarcarono per il venturoso Oriente, e i milites e i pedites dei comuni tusci, umbri e lombardi, combatterono le prime lotte per abbattere i feudatarî del contado e per rivendicare le autonomie cittadine. Gli uomini che indossarono queste armi furono i modelli che i poeti romanici avevano sotto gli occhi, quando cantavano le gesta dei paladini e dei cavalieri della Tavola rotonda. In un affresco nella cripta del duomo d'Aquileia si vede un cavaliere, armato di lancia, che insegue un arciere. Il cavaliere ha il grande scudo a mandorla e indossa la cotta armata d'anelli di ferro, come quelle dei soldati del Conquistatore. A Verona, sugli stipiti della porta del duomo, due figure scolpite ad altorilievo verso la metà del millecento - Orlando e Oliviero, secondo la tradizione - sono armate di scudo normanno, che vediamo imbracciato anche da un San Giorgio figurato sull'ambone della chiesa di Santa Maria del Lago a Moscufo.

Dalle crociate e dal contatto coi guerrieri musulmani, i violenti cavalieri del sec. XII, appresero nuovi metodi di guerreggiare e d'armare. Infatti verso la metà del sec. XII, dopo la seconda crociata (1147-1148) fecero la loro comparsa le maglie di ferro, e la loro fabbricazione si estese in tutto l'Occidente. Allora la lunga camicia di maglia, l'haubert o osberc francese, l'halsberc tedesco, l'usbergo od osbergo italiano, ricoprì l'uomo d'arme fino a mezza gamba e fu aperto dinnanzi e di dietro per consentire lo stare a cavallo; il camaglio di pelle completò la difesa della testa, e i guanti, anch'essi di pelle, quella delle mani. L'elmo rimase di forma conica, ma ebbe la sommità del coppo appuntata e ricurva all'innanzi. Lo scudo crebbe di proporzioni, per nascondere interamente l'uomo d'arme appiedato, e fu guernito d'umbone. Sotto l'usbergo si portò la gonnella di stoffa, che variò di lunghezza secondo la moda, fino a raggiungere il collo del piede. Poco dopo, anche il camaglio, i guanti, le calze e le stesse scarpe, furon di maglia di ferro.

Uno smalto conosciutissimo del museo di Le Mans, rappresentante Goffredo Plantageneto il Bello, duca del Maine, ci presenta il costume cavalleresco nei primi del duecento. La cotta d'arme arriva al ginocchio e ha le maniche attillate e strette al polso; sotto la cotta ondeggia fin sui piedi la gonnella. L'elmo ha il coppo appuntato, e lo scudo triangolare e convesso, fregiato di pezze araldiche, è di proporzioni grandiose. Dell'armatura di maglia ci si può rendere conto chiaramente in due opere di scultura italiane: sul fonte battesimale di S. Frediano a Lucca e nel candelabro marmoreo di S. Paolo fuori le mura, a Roma.

Nel Duecento la fabbricazione delle maglie di ferro raggiunse la perfezione, e se ne variò l'uniformità con ogni sorta di trovati. Il filo d'ottone fu mischiato col filo di ferro per ottenere la maglia ornata a disegno, oppure si tinsero gli usberghi a colori svariati, in modo da aver le armature rosse, nere, verdi e azzurre. E poiché l'usbergo, se era sufficiente contro le quadrella e contro i colpi di punta della spada, non proteggeva abbastanza dai colpi più violenti della lancia o della mazza d'arme, si continuò a portar sotto il farsetto, il coietto impuntito. Le maglie furono di più specie; gli anelli delle più antiche ebbero oltre un centimetro di diametro e il filo d'acciaio di due millimetri di grossezza. Ogni anello veniva riunito all'altro a caldo, sovrapponendo le estremità e battendovi su un colpo di martello che le schiacciasse. Così schiacciate vi si faceva un forellino nel quale si poneva un pernietto che, sottoposto a un altro colpo di martello, formava un piccolo rilievo somigliante a un chicco d'orzo, onde il nome della ribaditura grano d'orzo. Si ebbero anche le maglie piatte o gazzarrine, ma queste eran composte di piastrine d'acciaio, soprammesse o imbullettate o cucite sul canovaccio, o riunite fra loro da anelletti di ferro, all'uso orientale. I vocaboli ghiazzarino e maglia ghiazzarina parrebbero derivare dallo spagnolo jazarino (algerino), importati poi da crociati ed estesi a tutte le armature formate di scaglie sovrapposte. L'armatura di maglia fu, con poche variazioni, d'uso generale in tutto l'Occidente europeo. E dappertutto, come gli sproni dorati, fu privilegio del cavaliere. Il divieto d'indossare l'usbergo era esteso perfino allo scudiere. Dice a proposito il de Joinville:.... il ne doit avoir nulles chausses de mailles, ni brachières, ni coeffettes de mailles sur le bacin et des autres choses ne peut s'armer comme un chevalier. Ma salvo queste restrizioni speciali, ognuno si armava a modo suo, ricercando le armi migliori tanto da offesa che da difesa. Di qui un continuo cambiar di forme, secondo la moda, il gusto personale e l'esperienza (cfr. Jean sire de Joinville, Histoire de Saint Louis, Parigi 1873).

Verso la metà del Duecento vennero peraltro attuate alcune riforme di carattere generale, a cominciare da quella dell'elmo. L'elmo normanno lasciava, come s'è visto, quasi scoperta la faccia, donde il pericolo immanente di ferite mortali o mutilazioni dolorose. I tentativi per dar perfezione a questo pezzo dell'armatura furono perciò continuati senza sosta, e l'elmo cambiò spesso di sagoma e di dimensioni; divenne emisferico, fu guamito di una lamina traforata, embrione di visiera, ribadita sull'orlo anteriore del coppo, e anche di un nasale mobile, scorrente dentro un nasello assicurato al frontale; infine prese l'aspetto d'una campana e ricoprì tutta la testa dell'uomo d'arme. Ma il rimedio era peggiore del male, perché si aggravò la testa di un peso eccessivo senza garantirne l'invulnerabilità. Attraverso questi tentativi, si raggiunse pertanto un risultato pratico con l'elmo cilindrico, tutto chiuso, fucinato di tre o quattro piastre d'acciaio ribadite a caldo, forato per la respirazione e per l'udito, con due aperture orizzontali per la vista, difese da un risalto del frontale sfuggente, e col coppo leggermente conico onde il colpo di lancia, percotendo in falso, vi strisciasse sopra attutito. Il peso dell'elmo venne allora a posare sul camaglio, alla base del collo; talché restava fermo sulle spalle, mentre l'uomo d'arme poteva muover liberamente la testa nella concavità. Questo elmo fu dipinto, dorato, ornato di pietre preziose, arricchito di cimieri fantastici, di corone ingemmate, di nastri svolazzanti. Ne fu fatto il simbolo precipuo della nobiltà e della cavalleria, e i semplici gentiluomini che non potevano adattarvi sopra una corona, si contentarono di recingerlo col cercine di panno.

È l'elmo che Luigi IX, il santo, portava a Mansura, e il buon re Manfredi a Benevento. "Manfredi, - dice Giovanni Villani nella sua Cronica - rimaso con pochi, fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna; e mettendosi l'elmo, una aquila d'argento ch'egli avea ivi su per cimiera, gli cadde in su l'arcione dinanzi; ed egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a' baroni che gli erano dal lato in latino: hoc est signum Dei, perocché questa cimiera appiccicai io colle mie mani in tal modo, che non doveva potere cadere".

Un'altra innovazione fu la cotta d'arme. Era questa una sorta di guarnacca di stoffa di lino o di seta, che si passava sull'armatura di maglia per proteggerla dalla pioggia e dal sole, un altro risultato delle spedizioni d'oltremare, che offriva anche il vantaggio di smorzare la violenza dei tiri degli arcadori e dei balestrieri. Da prima fu di colore unito e di toni chiari, senza maniche e spaccata sui fianchi, onde non fosse d'impaccio a cavalcare; in seguito fu vivacemente colorata, impreziosita di ricami, d'imprese araldiche, di motti. Sulla cotta s'affibbiava la cintura dalla quale pendeva il budriere della lunga spada, con la guaina ornata di sugatti e nastri intrecciati. Anche la cotta seguì i capricci della moda, si allargò e si restrinse, si scorciò e s'allungò, ebbe talvolta le maniche, la balza liscia o frastagliata a coda di gambero.

Per accompagnare tanto lusso anche il cavallo fu coperto con la gualdrappa che ne avvolse tutte le membra, dal muso ai garretti, aperta dinnanzi per lasciar libera l'andatura, sgargiante di colori e di blasoni. Chi non ricorda il superbo esempio di questa pompa guerresca, che appare nell'affresco di Simone Martini nel Palazzo pubblico di Siena? Guido Riccio da Fogliano cavalca all'assedio di Montemaggi, chiuso nella cotta, sul destriero coperto, campeggiante sull'arido paese afforzato di steccati e incastellato.

Si cercò di perfezionare anche l'armamento del cavaliere, munendolo di una seconda spada, da attaccarsi all'arcione davanti, con la lama lunga a sezione quadrangolare, destinata a colpire d'estoc, di punta; la spada ordinaria, più leggiera, restò appesa al budriere. Fu questa nuova spada, lo stocco d'arme, che fece le sue non cavalleresche prove a Benevento. Narra in proposito il Villani: ".... Ma subitamente si levò uno grido tra le schiere dei Franceschi, chi che 'l si cominciasse, dicendo: agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavalli, e così fu fatto" (Cronica, lib. XIII).

Si diminuirono le dimensioni dello scudo per renderlo più maneggevole; se ne arrotondarono gli spigoli superiori ma se ne conservò la punta acuta, che all'occorrenza poteva servire per conficcarlo in terra, al modo dei balestrieri.

Un passo del Joinville illustra quest'usanza. I crociati erano sbarcati a Damietta; Joinville con alcuni cavalieri appiedati s'era spinto innanzi, quando apparve una grossa "battaglia" di Saraceni: Si tost, comme il nous virent à terre, il vindrent, ferant des esperons, vers nous. Quant nous les veismes venir, nous fichames les pointes de nos escus ou sablon, et le fust de nos lances ou sablon et les pointes vers aus. Maintenant que il les virent ainsi comme pour aler parmi les ventres, il tournerent ce devant darieres et s'en fououirent (J. de Joinville, op. cit.).

Né la lancia rimase immune da innovazioni. A cavallo, l'uomo d'arme portava la lancia verticalmente, con l'estremità dell'asta inserita in un bocciolo assicurato alla staffa di destra; nell'atto di caricare, abbandonato l'uso normanno di brandir l'arme all'altezza dell'anca, ne stringeva l'asta sotto l'ascella, si rizzava sulle staffe e, puntato all'arcione di dietro, incurvava la schiena e portava il corpo innanzi per resistere all'urto, che la spinta del movimento del cavallo, slanciato di carriera, rendeva terribile. L'asta aveva un diametro che da cinque centimetri s'assottigliava all'apice fino a poco più di tre, e una lunghezza di quattro metri. Alla lancia era assicurato il successo del primo scontro; quindi la fabbricazione e la tempera del ferro erano cose d'importanza assoluta. Il maneggio dell'arme esigeva inoltre destrezza, forza e lunga pratica. Presso la gorbia del ferro, era d'uso attaccare una fiamma, quadrata per i cavalieri banderesi, triangolare per i baccellieri (bas-chevaliers). Sulla metà del Duecento la fiamma disparve, forse perché impacciava la vista. Per difendere la mano dell'uomo d'arme, sullo scorcio del secolo, si munì l'asta di una rotella di ferro, rotonda, poi conica o semisferica, un padiglione, che col tempo variò di forma e di dimensioni, e fu anche imbottito internamente di borra. Questa novità non fu d'uso generale che per la lancia da giostra. In un curioso bassorilievo, di pietra, che orna la base di un'antica torre a San Sepolcro, si trova un altro esempio autentico, e di assoluta evidenza, del costume guerresco che abbiamo descritto. Probabilmente la scena rappresenta uno scontro in campo chiuso, un passo d'arme.

Il secolo XIV. - Col sec. XIV un mutamento più grande viene maturandosi nel mondo delle amii. Fin qui la cavalleria è rimasta padrona incontrastata dei campi di battaglia; d'ora innanzi la fanteria afferma grado a grado la sua preponderanza. Il feudalesimo non ebbe fanteria; nei suoi eserciti non v'erano altri uomini a piedi che i servi, i bagaglioni, incaricati delle salmerie, armati alla peggio di mannaresi e giusarme, e pronti, all'occorrenza, più a saccomannare che a combattere. La fanteria, come elemento combattente, risorge con la formazione dei comuni. Qui da noi, dove i comuni divennero presto veri e proprî stati, il fante comunale, il pedes che aveva fatta la sua apparizione fin dal periodo longobardo, come masnadiere del signore, del vescovo o del convento, è incorporato nelle compagnie o nei pivieri del contado, e ascritto all'oste come balestriere o arcadore o pavesaro o ribaldo, con gli stessi diritti del miles per il quale il privilegio d'andare a cavallo proviene soltanto dal censo. Decisa la guerra, si presenta ai costringitores per dimostrare il buono stato della balestra, dell'arco, del roncone, del palvese: e, venuto il giorno stabilito per l'entrata in campagna, ha l'obbligo di trovarsi sotto la sua bandiera, prima che si spenga la torcia accesa sotto la porta donde uscirà l'esercito. Se è arcadore o balestriere, marcia all'avanguardia. Le guerre comunali furono combattute, in gran parte, da questa fanteria cittadina. Le vittorie di Legnano e di Campaldino furono le sue vittorie. Fuori d'Italia, in Francia, in Inghilterra, in Germania, nella Spagna, i comuni fioriscono più tardi e hanno valore più di organismo economico e sociale che politico. Sono affrancati e protetti dal principe, e, in contraccambio, devono fornirgli le milizie civiche quando egli lo richieda. Ma il compito di queste milizie equipaggiate e armate male, che non resistono all'urto dei ferrati uomini d'arme, è limitato; sono considerate più imbarazzanti che utili, spregiate dai nobili a cavallo, e vengono di solito impiegate nelle operazioni d'assedio. La nobiltà considera la guerra come una contesa da decidersi tra gentiluomini, e non vede senz'inquietudine i villani e i borghesi con le armi in mano. Nondimeno si formano alcuni corpi di balestrieri e d'arcadori che sanno segnalarsi, come i balestrieri piccardi e gli arcadori inglesi.

La balestra e l'arco sono le armi precipue di questi corpi. L'arco vanta origini antiche; la balestra, da principio un semplice arco assicurato all'estremità d'un regolo di legno per aggiustare meglio il tiro, fece parte dell'armamento dei primi crociati, e diede risultati così micidiali che nel secondo concilio del Laterano (nella seduta del 3 aprile 1139) ne fu interdetto l'uso fra cristiani. Nel 1198 tornò a far parte dell'armamento dei fanti. Era infatti un'arme eccellente, tanto per l'aggiustatezza che per la potenza del tiro. Soltanto le si poteva imputare il peso soverchio e la lentezza nel l'uso, giacché mentre un arciere scoccava dieci o dodici frecce in un minuto, il balestriere poteva appena saettare due quadrella nello stesso tempo. Dino Compagni narra che nel dicembre del 1303 Corso Donati "armato a cavallo venne in piazza e con balestra e con fuoco" diede l'assalto a Palazzo Vecchio. Nel luglio del 1304, i fuorusciti fiorentini, bianchi e ghibellini, "con balestra a torno vennero saettando a Santa Reparata" (Cronica). Ottimi balestrieri erano i fanti genovesi. Portavano il cappello di ferro a larga tesa col camaglio di maglia, la corazzina e le calze di maglia, ginocchielli di ferro; alla cintola la spada, la leva per tender la balestra e la faretra. Adoperavano per difesa il palvese, un ampio scudo di doghe di legno o contesto di vimini, ricoperto di pelle e dipinto. Al sicuro dietro il palvese piantato in terra, il balestriere incoccava e aggiustava il tiro. Nella giornata di Campaldino (11 giugno 1289), sulla fronte dell'esercito guelfo ".... i palvesi col campo bianco e giglio vermiglio furono attelati dinanzi. Allora il vescovo [di Arezzo] che avea vista corta, domandò: Quelle che mura sono? Fugli risposto: I palvesi de' nemici" (Compagni, Cronica).

Gli arcadori o arcieri armavano più alla leggiera: avevano anch'essi il cappello di ferro, e, come arme di difesa la corazzina o brigantina, formata di laminette metalliche imbullettate sul canovaccio, e ricoperte di velluto. L'arco, molto lungo, era di legno, nocciolo, frassino o corniolo.

A Crécy, il 26 agosto 1346, nell'esercito francese erano quindicimila balestrieri genovesi. Furono posti in linea, dopo una marcia di sei leghe. Ebbero l'ordine di attaccare, e marciarono bravamente contro gli uomini d'arme inglesi, appiedati e formati su tre linee. Furono accolti da una grandine di frecce dagli arcieri inglesi, rimasti fino allora coricati a terra. "Era venuta, - dice un cronista del tempo, - uno poco de pioverella. La terra era infusa e molle. Quando voleano caricare la valestra, metteano lo pede ne la staffa. Lo pede sfuiva". La pioggia aveva inoltre guastate le corde delle balestre. I balestrieri, non potendo sostenere i tiri degli arcieri furon costretti a ritirarsi. Ma dietro a loro incalzava la massa della cavalleria francese, impaziente di caricare, furibonda dell'intoppo. Allora il re di Francia, Filippo di Valois, grida ai suoi cavalieri: "Or tost, tuez toute cette ribaudaille; ils nous empechent la voie sans raison" (J. Froissart, Cronique de France, d'Angleterre, d'Écosse et d'Espagne, Parigi 1824, I,1, cap. CCLXXXVII).

Che a Crécy, nell'esercito del re di Francia, vi fossero quindicimila balestrieri genovesi non deve far meraviglia. Il fenomeno delle milizie di ventura non fu soltanto italiano ma addirittura europeo; ché tali milizie vennero adoperate tanto dalle monarchie straniere quanto dai nostri comuni. Anche la stessa cavalleria feudale, nel periodo più fiorente, aveva accolto nelle sue file avventurieri e gentiluomini rovinati, cadetti e bastardi, che agevolarono l'istituzione della cavalleria volontaria o di adozione, donde più tardi sorse la cavalleria assoldata.

Furono senza dubbio i condottieri, gli specialisti della guerra ai quali occorrevano armi perfette e armature a tutta prova, che eccitarono il progredire dell'arte degli armaioli. È incalcolabile la quantità delle armi fabbricate nel Medioevo, come pure quella delle armi guastate o distrutte nelle guerre continue, nei saccheggi, negl'incendî e nelle repressioni di quell'età.

Oggi ben poco rimane di questi documenti attivi del passato, anteriori al Quattrocento: qualche elmo, qualche camicia di maglia, alcune spade ma neppure un'armatura intera. In Italia c'è una spada sola del Duecento, rimasta intatta e col suo fodero; quella che una pia tradizione secolare attribuiva a San Maurizio, e che oggi è nella Reale Armeria. Ma sono ben conservate e di mirabile lavoro le spade tratte dai sepolcri dei re normanni a Palermo, nella Schatzkammer di Vienna.

Si può dire che ogni stato e ogni città d'Europa abbia avuto le sue fabbriche d'armi. Già nel sec. X e nell'XI si fabbricavano spade d'acciaio di singolare bellezza, ornate d'oro e d'argento, nell'Europa settentrionale e in Germania; nella seconda metà del Duecento si ha notizia di spade e di elmi di Pavia, di Verdun, di Friesland; nei primi del Trecento sono rinomate le spade del Poitou e di Vienna nel Delfinato. Il sire di Joinville ricorda che re Luigi, il Santo, nella giornata di Mansura impugnava une espée d'Alemaigne, ed erano specialmente rinomate le spade di Colonia. Nella Spagna, in Andalusia, si fabbricavano armi e armature d'ogni specie, e finimenti di cavalli incomparabili; la Murcia era famosa per le spade, le corazze e le armature decorate all'agemina all'uso persiano; anche Siviglia era nota per le sue fabbriche di spade. Nel Trecento sono ricercate le armi di Bordeaux e di Milano, anzi fin dal 1288 Milano è ricordata come uno dei centri più attivi per la fabbricazione delle armi; le armature milanesi si trovano sui mercati d'ogni parte d'Italia, e perfino tra i Saraceni e i Tartari. Nel 1316, fra le armi di Luigi X di Francia sono ricordati due corsaletti e un giaco di Lombardia; Carlo V di Valois ricorre a Bernabò Visconti per provvedere i suoi uomini d'arme di corsaletti, ghiazzarini e maglie di Milano; gli armaioli milanesi vengono in tanta fama che sono richiesti da principi e da monarchi stranieri. A Bordeaux si fabbricano spade e ferri da lancia pregiatissimi; spade "buone leggiere e rigide" come quella impugnata da lord Bercler a Poitiers, e ferri di lancia "larghi, affìlati e taglienti come rasoi". Un trovatore, Curvelier, che cantò le gesta di Bernardo du Guesclin dice: Un escuier y vint, qui le conte lança, d'un espoit de Bordiaux, qui moult chier li cousta. Gli armaioli che produiei-ano queste armi di tanta nomea ci sono ignoti; il barone de Cosson non cita che un nome solo, quello di Guilhem de Sauveterre faure d'espcdos nel 1382. Dopo i primi anni del Quattrocento non si ha più notizie di armi tli Bordeaux. Anche Bray, Tolosa e Clermont ebbero armaioli di rinomanza nel sec. XIV. Nel 1383 un maestro Hennequin Duvisier, lavorava un fornimento d'oro per una spada di Carlo VI. Chambly (Beauvais) era celebre per la sua maglia de haute cloueure, double e de demii cloueure. Montauban diede il suo nome a una sorta d'elmi che ebbe gran voga per oltre due secoli, il cappello di Montauban, un coppo con larga tesa, che fu portato dai principi e dai semplici soldati; in Italia si chiamò anche cuppellina. Nel 1416 l'imperatore Sigismondo aveva un cappello di Montauban appeso all'arcione; Enrico VIII d'Inghilterra, quando nel 1513 sbarcò in Francia, aveva in capo un cappello di Montauban foderato di seta cremisina, ornato d'una corona d'oro e d'un gioiello prezioso con l'immagine di San Giorgio. In Germania v'erano armaioli abili che fabbricavano armature assai pregiate, ma non raggiunsero la fama degl'Italiani. Nel 1302 Raoul de Clermont possedeva una spada di Genova; le spade di Firenze erano notissime e in gran voga anche in Francia. Anche in Inghilterra si fabbricavano armature eccellenti; Froissart accenna alla valentia degli armaioli londinesi: Et en etoient armuries en la cité de Londres moult ensoignés.

Con il Quattrocento Milano afferma la sua supremazia assoluta; gli armaioli milanesi non hanno più emuli e le armature che escono dalle loro fucine rimangono insuperate.

Ma quanta diversità si nota fra le armature del Trecento inoltrato e quelle del Duecento! L'elmo di S. Luigi, la cotta d'arme di Guido Riccio da Fogliano, sono ormai relegati nel mondo grigio dei ricordi. Per duecent'anni gli armaioli lavorano a modificare a perfezionare l'armatura perché ogni parte del corpo, da capo a piedi, abbia la sua difesa, senza impacciare i movimenti delle membra e senza diminuire la forza e l'agilità dell'uomo d'arme. La riforma incominciò sugli ultimi del sec. XIII. I colpi di spada o di mazza d'arme diretti al capo, se percotevano in falso sull'elmo finivano per cadere sulle spalle che spesso ne uscivano rotte. Per ovviare al danno si cominciò con l'imbottire il coietto sotto l'usbergo, ma poiché anche questa difesa si dimostrò insufficiente, si inventarono le alette, due piastre di ferro rettangolari che si fermavano sotto le ascelle e al coppo dell'elmo con dei sugatti, in modo da formare un piano inclinato. Ma le alette erano incomode e difficilmente restavano nella posizione normale; e quindi si cercò qualcosa di meglio. E infatti, sui primi del Trecento le alette furono sostituite da due mezze sfere d'acciaio, assicurate sulle spalle da un pernio ribadito sull'usbergo e da una cinghia passante sotto le ascelle e verso la metà di quello stesso secolo comparve lo spallaccio completo, congegnato a lame articolate e affibbiato sulla clavicola. Insieme alle alette eran venuti in uso anche i ginocchietti di piastra, modellati secondo la forma della rotula e assicurati sulla maglia delle calze; seguirono a questi pezzi le schiniere, o gamberuoli, destinate a ricoprire gli stinchi; da prima furono due semplici lamine di ferro incurvate a modo di tegolo, come le classiche κνημῖδες di bronzo, disposte sulla parte anteriore della gamba e tenute ferme con due o tre fibbie; poi vennero fatte di due lamine congegnate con perni e cerniere in modo da fasciare tutta la gamba, e riunite al ginocchietto. Sulle cosce, fin allora coperte dalla falda dell'usbergo, s'adattarono alcune lamine fermate su una cinghia di cuoio, che furon presto sostituite da una piastra convessa, il cosciale, congiunta anche questa al ginocchietto. Risale parimenti alla fine del Duecento l'uso delle piastre di ferro destinate a difender le braccia; prima venne fuori la cubitiera, che ebbe la forma del cubito; ad essa tennero dietro in breve tempo i due cannoni troncoconici per il braccio e l'antibraccio e i guanti di ferro, le manopole, col dorso della mano difeso da lamine articolate e tutte le dita separate e coperte di scaglie. Anche le lamine disposte sul collo del piede e fermate alla suola sono dello stesso periodo. Dopo verrà la scarpa di ferro. Tutti questi pezzi di piastra, modellati grossolanamente, si portavano da principio con l'usbergo; ma via via che col progredire della tecnica se ne perfezionò la forma e il congegno, la maglia di ferro fu ridotta alle dimensioni di un farsetto, senza maniche e senza calze.

Nel primo periodo, che può chiamarsi di transizione, si usarono anche bracciali e gambiere di cuoio bollito, riccamente decorati, come può vedersi nel bassorilievo della fine del Duecento, avanzo della tomba di Guglielmo Durfort, balivo di messere Amerigo di Narbona, morto sul campo di battaglia a Campaldino (1289) e sepolto nel chiostro dell'Annunziata a Firenze. Del resto ogni uomo d'arme adattava l'armatura ai suoi gusti e ai suoi bisogni; talché si trova nei monumenti del tempo, segnatamente su quelli funerarî, una grande diversità di tipi e di forme. S'intende che bisogna sempre escludere in queste figurazioni tutto ciò che la fantasia degli artisti può avere aggiunto al costume guerresco, come i frequenti ricorsi alle fogge classiche, destinate ad eroicizzare il defunto.

D'uso generale nel Trecento è il sorcotto d'arme, di stoffa preziosa, sciamito o broccato, senza maniche, attillato, imbottito sul petto e stretto alla cintola, che ricopre l'usbergo scendente appena a mezza coscia. Sul sorcotto si affibbia la cintura della spada, e, più basso, all'altezza dell'anca, il gemmato cingolo militare, distintivo della dignità cavalleresca. La spada e la daga sono legate per l'impugnatura a due catene d'argento, le catene d'arme, che pendono dal sommo del petto, attraverso due fori aperti nel sorcotto; spesso una terza catena è destinata allo scudo, piccolo, ma sempre di forma triangolare.

Anche per riguardo alla difesa del capo le riforme furono radicali. L'elmo chiuso era pesante e incomodo; sicché si portava attaccato all'arcione e non si metteva che al momento di caricare; per il resto bastava il camaglio. Con l'andar del tempo la sommità del camaglio invece che di maglia di ferro venne fatta di piastra d'acciaio tirata a forma di zuccotto, e prese il nome di cervelliera. Questa, foderata di pelle e imbottita, raddoppiò la resistenza dell'elmo. Ma ben presto la cervelliera cambiò forma; si allungò adattando il suo profilo alla voga dell'arco a sesto acuto, e scese sulla nuca con una leggiera curva. Si ebbe così una nuova foggia d'elmo, la barbuta, alla quale poteva fermarsi il camaglio, che scendendo lungo le gote recingeva il mento ed era guarnita di un nasale di piastra, pendente ordinariamente a guisa di barba, ma che al momento opportuno veniva rialzato e fissato a un gancio ribadito al frontale, in modo da coprire, all'infuori degli occhi, quasi tutta la faccia. La barbuta fu d'uso generale in Italia per tutti gli uomini a cavallo, o "di cavallo" secondo l'espressione di Matteo Villani, tantoché da noi gli uomini d'arme si contavano per barbute, come si contavano per lance. Dice il Villani: ".... Fece la mostra della gente sua la quale fu di duemila barbute".

Un'altra specie d'elmo, sul tipo della barbuta, con la quale si confuse addirittura, fu il bacinetto, guarnito anch'esso di un piccolo camaglio attaccato ai contorni dell'orlo che si chiamò gorgiera o gorgerino.

Si vede il bacinetto in numerosi monumenti del tempo. Citiamo ad esempio la tomba di Tommaso II duca di Savoia e del Chiablese, nella cattedrale d'Aosta. Il duca, che morì nel 1259, è rappresentato disteso sul letto funebre, tutto armato di maglia, con gli spallacci, le cubitiere, i ginocchielli e il bacinetto fregiato di ricchi ornamenti; ma conviene osservare che la sua tomba, sia per lo stile della scultura sia per quell'armatura, appartiene alla fine del sec. XIV e forse anche al principio del XV. A Firenze, nel Cappellone degli Spagnoli, nell'affresco rappresentante la Chiesa militante e trionfante (circa 1365; v.: andrea di bonaiuto), si scorge, in un gruppo di personaggi disposti dinnanzi a Santa Maria del Fiore, un guerriero, supposto il conte Guido di Battifolle, col bacinetto a camaglio. Il bacinetto fu usatissimo in Europa durante il sec. XIV. Subì poche variazioni nella forma. Jean Froissart (1333-1410) ricorda il bacinetto del re di Castiglia (1385) che aveva un cerchio d'oro ornato di pietre preziose, del valore di centomila lire. Tuttavia, benché guarnito di camaglio, il bacinetto lasciava indifesa la faccia, sicché l'uomo d'arme doveva sovrapporvi il vecchio elmo chiuso. Era ancora un complemento dell'elmo, una "segreta", come lo definisce la Crusca; ad esso accenna Luigi Pulci in questi versi del Morgante Maggiore: "E lo percosse sopra il riccho elmetto - d'un colpo tal che sarebbe bastato - ma più valse che l'elmo il bacinetto". Nondimeno si trovò modo di sostituire interamente all'elmo il bacinetto, aggiungendovi una visiera mobile, fabbricata di piastra e fissata al coppo con cerniere mastiettate. Quando si voleva toglier la visiera, si sfilavano i mastietti delle cerniere. Il bacinetto è menzionato da Franco Sacchetti (Novella 224): "... Non aprite se prima Guernieri non si mostra fuori del bacinetto, perocché altrimenti potremo ricevere grande inganno. Detto.... questa santa parola, gridarono tutti: Guernieri, cavati il bacinetto che noi ti vogliamo vedere". E altrove (Novella 223): "Mettimi il bacinetto in testa e dara'mi la miglior lancia in su la coscia". La visiera ebbe in generale una forma appuntata a guisa di "becco di passero" o di "muso di porco". Si sostituì in seguito al camaglio un'alta gorgiera d'acciaio, la quale, oltre a difendere il collo, portò tutto il peso dell'elmo sulle spalle. Nell'armeria del Palazzo ducale di Venezia si conserva uno di questi bellissimi bacinetti della fine del Trecento. Il bacinetto con la sua fiera sagoma, fu quasi il simbolo della cavalleria feudale, e disparve con essa dopo aver fatto le ultime prove ad Azincourt. Da noi ne restano pochissimi esemplari, oltre quello di Venezia; e cioè uno nella Reale armeria (Torino), un altro, rovinato dalla ruggine, nel Museo Bardini (Firenze), un terzo della foggia della barbuta, nel Museo Stibbert (Firenze), un quarto nel Museo Civico di San Gimignano, confuso con molte cose disparate, e un quinto ed ultimo proveniente da Cipro, nella collezione Ressmann (Firenze).

In un libro della Camera del comune di Siena, dell'anno 1373, troviamo ricordate tutte le armi del tempo, fra le quali le "barbute col camaglio", le "corazzine", le "ciarvegliere", i "guanti di piastra", le "bombarde col cieppo", i "giachi di maglia" e via dicendo.

L'armatura del Trecento, più resistente e più leggiera di quella di maglia di ferro, s'accordava bene col nuovo modo di combattere a piedi usato dalla cavalleria. Fino allora tutta l'azione tattica della cavalleria s'era ristretta all'impeto e alla carica. Gli uomini d'arme caricavano in ordine chiuso, ma disposti sopra una sola riga, perché nessuno avrebbe tollerato d'esser coperto da un altro; d'ora innanzi per resister meglio alle armi affilate e pesanti di cui incomincia ad armarsi la fanteria, i cavalli vengono lasciati indietro insellati; e i cavalieri, scorciate le aste delle lance, ordinati in "battaglie" serrate, preceduti dai palvesari che li difendono dai tiri degli arcadori, sostenuti da maniche di balestrieri e d'arcieri, aspettano l'urto della carica o marciano contro il nemico aussi serrés et aussi joints que on ne put mie jeter une pomme qu'elle ne cheist sur un bacinet ou sur une lance. Et portoit chacun homme d'armes son glaive droit devant lui retaillé à la mesure de cinq pieds, et une hache forte, dure et bien acérée, à petit manche, à son coté ou à son col; et s'en venoient ainsi tout bellement le pas, chacun sire en son arroy et entre ses gens, et sa bannière devant lui ou son pennon, avisés de ce qu'ils devoient faire: così il Froissart parlando della battaglia d'Auray.

Anche il nostro Matteo Villani accenna al nuovo ordinamento tattico degli uomini d'arme, descrivendo i soldati inglesi della compagnia di Giovanni Aguto: "Il modo loro di combattere in campo quasi sempre era a piede, assegnando i cavalli ai paggi loro, legandosi in schiera quasi tonda... e così legati e stretti, colle lance basse a lenti passi si faceano contro a' nemici con terribili strida..." E ne descrive anche l'armamento: "loro armatura quasi di tutti erano panzeroni e davanti al petto un'anima d'acciaio, bracciali di ferro, cosciali e gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lance da posta, le quali scesi a piè volentieri usavano". Da questo passo della Cronica del Villani vengon fuori cose nuove: il panzerone e l'anima d'acciaio. L'anima era una corazza congegnata a lamine articolate, disposte in senso orizzontale, un primo risultato delle prove fatte per coprire anche il busto con la piastra di ferro, senza incontrare la difficoltà della modellatura di un pezzo di grandi dimensioni. Del resto la corazza di piastra, formata di "petto" e "schiena" era già in uso quando i rudi cavalieri dell'Aguto devastano i dintorni di Firenze (1363). Franco Sacchetti parla appunto di questa corazza di due pezzi, "le corazze", in una sua piacevole novella (LXIII); anzi ci dà la nomenclatura precisa di tutti i varî pezzi dell'arnese di un uomo d'arme d'allora: "La qual dipintura [una pittura fatta per scherzo da Giotto sopra un palvese] fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello ed una lancia". Il panzerone o panziera era in qualche modo la continuazione della corazza, e copriva il basso ventre. Entrò nell'uso insieme alla corazza di piastra, e nel Trecento fu lungo, di tre ed anche di cinque lamine snodate, l'ultima delle quali tratteneva il cingolo militare.

Carattere distintivo dell'armatura del Trecento tanto in Italia quanto in Francia, in Inghilterra e in Germania, è l'attillatura spinta fino all'esagerazione. Il desiderio dell'uomo d'arme è di apparire di membra sciolte e sottili. Jeoffroy de Charny, il valente stendardiere di Francia caduto a Poitiers (1356), parla con amarezza di quei cavalieri che se variglent et se estraigrient par le ventre et si fort, da dover disarmarsi in gran fretta per non restar soffocati dentro l'armatura. L'amore del fasto fa tornare di moda, almeno per qualche tempo, anche la cotta d'arme, e si passa allora sull'armatura "bianca" un'ampia e lunga guarnacca di sciamito di varie sorte e colori, con le maniche e la balza frastagliate, che se sta bene e fa figura a cavallo, è d'impaccio a piedi. E lo provò il famoso John Chandos, siniscalco del Poitou, che marciando a piedi coi suoi incontro al nemico, inciampò nella guarnacca e non poté parare un colpo mortale di lancia tra il naso e la fronte (1370). Or il fasoit à ce matin un petit reslet (brinata); si estoit la voie moillie, si que, en passant, il s'entorteilla en son parement, qui estoit sur le plus long, tant que un petit il trebucha (J. Froissart, op. cit.).

Ben presto, sull'armatura appariscono i primi segni del Rinascimento italiano; gli armaioli tentano le linee classiche ed arricchiscono i varî pezzi d'elementi ispirati all'armatura romana, alle arcaiche loriche degl'imperatori.

Un bell'esempio di questo ritorno al classicismo anche nel costume guerresco, lo abbiamo nella certosa di Firenze, sui monumenti orcagneschi, dedicati al gran siniscalco di Napoli Niccolò Acciaioli ed ai suoi; e segnatamente sulla lastra che ricopre la tomba del giovine Lorenzo. A Verona, tre monumenti celebri riuniti nello stesso luogo, le arche degli Scaligeri, ci mettono sotto gli occhi la dimostrazione più evidente del progresso dell'armatura nel sec. XIV. Can Grande, morto nel 1329, non ha i ginocchielli e le schiniere sulla maglia di ferro; gli pende sulle spalle il grande elmo che ancora al suo tempo si portava sul bacinetto. Mastino II, morto nel 1351, oltre alle schiniere e ai ginocchielli, ha i cosciali e le manopole; è chiuso nella sella dagli alti arcioni collegati da una spranga di ferro. Can Signorio, morto nel 1375, e la cui statua fu scolpita, lui vivente, da Bonino da Campione, è rigidamente impostato sull'arcione posteriore della sella, ed ha le schiniere, i cosciali, le manopole, i bracciali, le cubitiere e la corazza; la maglia è ormai ridotta al camaglio del bacinetto e al corto usbergo. Altri genuini esempî di guernimenti militari del Trecento, li abbiamo nei bassorilievi che ornano il monumento del vescovo Tarlati, opera di Agostino di Giovanni e di Agnolo di Ventura, nel duomo di Arezzo.

Dopo tanti tentativi e miglioramenti che si seguirono ininterrotti per tutta la seconda metà del Trecento, l'armatura bianca intera era trovata, e bastò una diecina d'anni perché raggiungesse la più grande perfezione, e si potesse portare scoperta, senza la cotta d'arme e senza il sorcotto. Però, oltre che bella, l'armatura doveva essere anche sicura. Donde l'obbligo negli armaioli di apporre la loro marca, il "segno del maestro", sopra ogni singolo pezzo, a garanzia della perfezione del lavoro e della resistenza del metallo; la marca accertava inoltre con la sua presenza che il pezzo, sul quale era impressa, aveva resistito alla prova del tiro d'arco o di balestra. Fino dalla prima metà del secolo questa prova delle armi era già sottoposta a regole fisse, che dovevano codificarsi più tardi; v'era la "prova" e la "mezza prova", la prova "de toute botte et de botte cassée".

Da noi, nel 1341, le leggi marinare di Genova prescrivevano che su ciascuna galera armata vi fossero 160 corazze, di cui 110 "de media proba"; e il Còmito doveva avere "coiratia de proba, collario de ferro, cerveleria de proba". Per la mezza prova bastava la balestra a crocco o a leva; per la prova intera occorreva la balestra a tornio. Gli antichi statuti contenevano norme severissime, non solamente per la fabbricazione delle armi, ma anche per la prova. Ecco come, ad esempio, si esprimono in proposito gli statuti fiorentini dell'Arte dei corazzai e spadai (conservati nel Regio Archivio di stato di Firenze), del 3 giugno 1321: Teneantur et debeant omnes et singuli de dicta arte et sotietate facere et dare et fieri et dari facere eorum laboreria cuilibet mercatori et alij persone talia qualia promictunt aut meliora et de eo quod promictunt. Videlicet, si ad aurum vel deauratum promictunt, faciant illud fieri de rame de deaurato et non de octone. Et si de acciario promictunt, non faciant nec dent nec fieri faciant illud de ferro, et elmos faciant ct fieri faciant et vendant de acciario ad minus in culmis; et etiam teneantur magistri dicte artis omnes corazas quas fecerint ad ciarnerios sive ad gangaros vel costuras facere de bono et puro acciario et non de ferro et non forbire vel forbiri facere nec singnare vel stampare nec ad probam dare aliquam corazzam de ferro nec promictere quod sit de acciario; et qui contra predicta vel aliquod predictorum fecerit, puniatur et condepnetur pro qualibet vice et pro quolibet genere ipsorum armorum, in libris decem fl0renorum parvorum..." Lo statuto dei corazzai e spadai del 1410 coordina la materia degli statuti precedenti, che sembra fossero due, quantunque non ci sia pervenuto che quello del 1321, e contiene inoltre aggiunte posteriori che vanno dal 1413 al 1504. Esso è anche più esplicito: Quod quilibet magister ponat suum signale vel stampam et non alterius. Item statutum et ordinatum est quod quilibet magister dicte artis teneatur et debeat suum signale aive suam stampam, cum quo seu qua stampat, seu signat, seu stampare vel signare solitus est corazas, spadas et alia arma et laboreria dicte artis, et etiam scribi facere per notarium et dicere et facere consulibus dicte artis ipsum huiusmodi suum signale sive stampam, et etiam imprimi facere in lamina plumbea, ad hoc et pro hijs per dictam artem habenda et tenenda et quod aliter non possit aliquas corazas seu aliqua arma vel laboreria signare vel stampare sub pena librarum vigintiquinque florenorum parvorum pro quolibet et qualibet vice auferenda eidem per consules dicte artis....". Quando alle armi da corda furon sostituite le armi da fuoco, si tralasciò l'uso di marcare i pezzi sottoposti alla prova, della quale facevano ormai fede le ammaccature dei colpi di pistola, d'archibuso o di moschetto. Pistola, archibuso, moschetto sono parole e cose ignote al secolo XIV, il quale non conobbe che le artiglierie nella loro forma rudimentale.

Il secolo XV. - A che tempo risalgono l'invenzione della polvere e l'uso delle armi da fuoco? Tutte le tradizioni venute a noi su questi argomenti, compresa quella del monaco Bertoldo Schwartz, sono da relelegare nel regno delle leggende. Il miscuglio di zolfo salnitro e carbone fu conosciuto dagli antichi; i Romani ebbero i fuochi artifiziati, i Greci si servivano negli assedî di materie incendiarie per guastare le opere e le macchine dei nemici. Il fuoco pennace, o fuoco volante fu d'uso corrente nel Medioevo; ordigni misteriosi, a forma di tubo, che scoppiavano e incendiavano, confusi sotto la denominazione generica di fuochi greci, si adoperarono per terra e per mare, in Europa e in Oriente, fin dai tempi più remoti. Nel sec. XI i Saraceni scagliavano, con le pietriere, certi barili ripieni di materie infiammabili, zolfo, petrolio, canfora, bitume o resina, polvere di carbone e salnitro, che neppur l'acqua poteva spegnere. Il Sire di Joinville descrive vivacemente gli effetti terribili di questo fuoco. L'esercito dei Crociati doveva attraversare un braccio del Nilo, sotto il tiro delle macchine dei Saraceni:... un soir avint, là où nous guietons les chas-chastiaus (torri a più piani con una galleria, un gatto, nella parte inferiore) de nuit, que il nous avierent un engin que l'en appèle perriere, ce que il n'avoient encore fait, et mistrent le feu gregois en la fonde de l'engin.... La manière du feu gregois est oit tele, que il venoit bien devant aussi gros comme un tonnel de verjus, et la queue du feu qui partoit di li estoit bien aussi grant comme un grand glaive; il fasoit tele noise au venir, que il sambloit que ce feust a foudre du ciel; il sembloit un dragon qui volast par l'air, tant getoit grant clarté, que l'on véoit parmi l'ost comme se il feust jour, pour le grant foison dit feu qui jetoit la grant clarté (J. de Joinville, op. cit.).

Il fuoco pennace si scagliava con le falariche e anche con ampolle di vetro o di terracotta. Nei Libri della Biccherna del comune di Siena, si fa menzione, fino dalla prima metà del Duecento (1229-39) di arnesi da guerra, verghe di ferro e zolfo; e v'è una partita relativa al pagamento di 20 soldi a Orlando Johannis per centum ollis missis querc.... [portati a Querce Grossa?] ad prohicendum ignem parabula. Si trova pure rammentato lo stombolo, che parrebbe fosse un pezzo di legno vuoto, ridotto come una canna, in cui si mettevano palle di carta attorcigliata e imbevuta di resine e di zolfo, che venivano scagliate, accese in punta, per mezzo di uno stantuffo a pressione d'aria. È da ritenersi che anche le antiche balestre, a ballotte o pallozzole, fossero armi da fuoco e servissero, in principio, per lanciare il fuoco greco; di poi si adoperarono per lanciare altre composizioni incendiarie e esplodenti, dove forse entrava la polvere.

Le armi da fuoco derivarono dal perfezionamento di questi antichi ordigni, destinati a lanciar di volata i più disparati proiettili. Quando comparvero i primi cannoni, le bombarde di ferro? Fin dalla prima metà del Duecento ricorre in alcune nostre antiche scritture la parola bombarda, e vi si parla di mura castellane disfatte con le bombarde. Certo è che il primo documento inoppugnabile che si conosca sull'uso delle bombarde è italiano.

Una provvisione del comune di Firenze, che porta la data dell'11 febbraio 1326 (1325 secondo lo stile fiorentino) dà facoltà ai priori delle Arti e al gonfaloniere di giustizia di nominare "uno o due maestri per fare palle di ferro e cannoni di metalli a difesa del comune, delle sue terre e castella": Item possint dicti domini Priores artium et Vexillifer Justitie una cum dicto offitio duodecim bonarum virorum, eisque liceat etc.... nominare, eligere, et deputare unum vel duos magistros in offitiales et pro offitialibus ad fatiendum et fieri fatiendum pro ipso Comuni pilas seu palloctas ferreas et canones de metallo pro ipsis canonibus, et pallottis habendis et operandis per ipsos magistros et officiales et alias personas in defensionem Communis Florentie et castrorum et terrarum que pro ipso Comuni tenentur, et in dampnum et preiudictium inimicorum pro illo tempore et termino, et cum illis offitio et salario eisdem per Comunem Florentie et de ipsius Communis petitione per Camerarium Camere dicti Communis solvendo illis temporibus et terminis et cum ea immunitate et eo modo et forma et cum illis pactis et conditionibus quibus ipsis Prioribus et Vexillifero et dicto offitio duodecim Bonorum virorum placuerit (Archivio di stato di Firenze, Provvisioni dell'anno 1326, c. 65. In margine alla Provvisione è la nota Magistri bombardorum). Al maestro bombardiere nominato dalla Signoria (si chiamava Rinaldo da Villamagna) venne tolto l'incarico, due mesi dopo, per deliberazione del Consiglio dei Cento (23 aprile 1326), ma non si conoscono le ragioni del provvedimento. In ogni modo la seconda deliberazione non infirma la prima ma la convalida.

Le prime bombarde furono fatte di doghe di ferro, ristrette da cerchi di ferro; si caricavano dalla culatta, alla quale si assicurava, mediante una braga o una bietta, il mascolo o cannone ripieno di polvere, dopo aver messo nella tromba la palla. Per far fuoco s'accostava al focone del mascolo un'asta di ferro arroventata. Sulla sommità di ciascun anello della cerchiatura v'era, di solito, una tacca: la tacca di mira. Ogni bombarda aveva tre mascoli. L'affusto consisteva in una semplice piana scavata, un ceppo, su cui il pezzo veniva legato. Il mascolo mobile, che spesso scoppiava sui serventi, fu presto abbandonato, e si incominciò a far le bombarde di ferro fuso, tutte d'un pezzo, da caricarsi dalla bocca.

Le bombarde di calibro maggiore lanciavano palle di pietra. Le bombarde che Maometto II fece mettere in batteria dinnanzi a Costantinopoli nel 1453, gettavano palle di pietra del peso di duecento libbre. Fra queste artiglierie v'era un pezzo il cui proiettile pesava ottocentocinquanta libbre; scoppiò al primo colpo massacrando gli artiglieri. Un'altra bombarda posta nel 1468 a Kanak, per la difesa dei Dardanelli, aveva un calibro di 610 mm. e lanciava proiettili di seicentottanta libbre. Attualmente è nell'arsenale di Woolwich. A Siena, verso il 1479, Piero del Campana fece, probabilmente col disegno di Francesco Martini, una bombarda di tre pezzi, lunga sette braccia, del peso complessivo di venticinquemila libbre, che tirava dalle trecentosettanta alle trecentottanta libbre di pietra.

Calibri straordinarî - 410, 450 e perfino 530 mm. - raggiunsero anche le bombarde sforzesche. Un inventario delle artiglierie del Castello di Pavia all'avvento di Francesco Sforza come duca di Milano menziona le bombarde rimastevi alla morte di Filippo Maria Visconti, tra le quali la Liona, la Ferlina e la Bissona, così dette dal nome dei fonditori. Il pezzo più famoso, la Galeazzesca Vittoriosa, venne fuso nel Castello di Milano nel 1471. La fusione ebbe molte vicende; riuscì finalmente il Gadio a gittare questa bombarda in due mesi, con ventisettemila libbre di metallo (circa ottomilaseicento chilogrammi). Per il suo trasporto occorrevano due carri e diciotto gioghi di bovi; i proiettili pesavano seicentoquaranta libbre l'uno, e venivano caricati quattro per carro. Quando, nel 1472, Galeazzo Maria poté disporre di tutta la sua artiglieria, ci vollero per il treno duecentoquarantaquattro carri e cinquecentocinquantasei paia di bovi. La Galeazzesca Vittoriosa segnò il tipo massimo delle artiglierie sforzesche; dopo la battaglia di Pavia, decisa dall'abile e rapido impiego delle artiglierie più leggiere del Galliot, la grande bombarda venne spezzata, e forse rifusa in tanti più piccoli cannoni (L. Beltrami, La Galeazzesca Vittoriosa, Milano 1916).

Dapprima le artiglierie, bombarde per i tiri di volata e mortai per i tiri curvi, servirono più che altro per attacco e difesa dei luoghi fortificati; in seguito, quando si trovò il modo di metter le ruote agli affusti, vennero portate in rasa campagna. Però anche in pieno Quattrocento, quando venivano fatte di bronzo, erano talmente pericolose durante il tiro, che gli artiglieri le avvicinavano sempre con sospetto. Narra a proposito il Vasari (Le Vite: Giuliano e Antonio da San Gallo, ediz. Milanesi, Firenze 1878-85), che Giuliano da San Gallo, essendo stato inviato da Lorenzo de' Medici, il Magnifico, a fortificare, come ingegnere, la Castellina assalita dall'esercito del duca di Calabria e del duca d'Urbino, "veggendo gli uomini star lontani all'artiglieria, e maneggiarla e caricarla e tirarla timidamente, si gettò a quella, e l'acconciò di maniera che indi in poi a nessuno fece male; avendo ella prima occiso molte persone le quali nel tirarla, per poco giudizio loro non avevano saputo far sì, che nel tornare addietro non offendesse".

In breve, di giorno in giorno, l'artiglieria affermò sempre più la sua potenza, nonostanti gli ostacoli frapposti al suo sviluppo e il disprezzo della cavalleria, allarmata nel veder la facilità con la quale il più oscuro operaio, assoldato per l'occasione e alla pari dei villani addetti al carriaggio, smantellava da lontano torri e mura e abbatteva i superbi uomini d'arme coperti dell'armatura di piastra, prima ancora che potessero metter mano alla spada o abbassare la lancia. Il disprezzo era del resto condiviso da tutto il vecchio ordine militare, che manifestava la più grande ripugnanza per la sostituzione delle armi da fuoco a quelle lanciatoie tradizionali, l'arco e la balestra. Ciò spiega perché gli scoppietti, gli archibusi e le pistole vennero accolti così tardi negli eserciti e non furono curati dai grandi armaioli del Rinascimento.

Soltanto verso la metà del Quattrocento lo scoppietto incominciò a entrare nell'uso. Era allora un rozzo cilindro di ferro o di rame, lungo circa sessanta centimetri, innestato a un manico di ferro, e talvolta assicurato su un pezzo di corrente. Sulla culatta del cilindro era un foro, la lumiera o luminello, con una piccola cavità intorno, per mettervi la polvere fine da innescare. Lo scoppiettiere stringeva il manico sotto l'ascella sinistra, aggiustava alla meglio o alla peggio la mira e, con la miccia accesa, comunicava il fuoco alla carica. Nell'antico convento di San Leonardo in Lecceto, presso Siena, in un affresco già attribuito a Paolo di Neri, allievo del Lorenzetti, ma che la moderna critica assegna a un artista della seconda metà del Quattrocento, si vedono i fanti con questo scoppietto primordiale. In seguito lo scoppietto raggiunse un certo grado di perfezione. Si otturò la culatta della canna di ferro con un pezzo dello stesso metallo bollito o saldato in essa, o con un vitone, come si usa anch'oggi; l'armatura di legno, la cassa, venne assottigliata e lavorata all'estremità; si passava, per sparare sotto il braccio destro, mentre la canna era mantenuta orizzontale dalla forcina piantata in terra. Poi la cassa si modificò ancora ed ebbe il calcio, per appoggiar lo scoppietto non precisamente alla spalla ma sul petto; infine, fatto il luminello sul lato destro della canna e aggiustatovi lo scodellino, si diede fuoco alla polvere non più a mano, con la miccia, ma per mezzo di un serpentino, a scatto, a cui la miccia era assicurata. In fatto di perfezionamenti è da ricordare lo scoppietto con l'anima rigata a lumaca, della Rocca di Guastalla, di cui si ha notizia in un inventario del 28 luglio 1476.

Intanto sparivano gradatamente tutte le grandiose macchine da offesa e da difesa che il Medioevo aveva ereditato dai Romani e dai Bizantini: le catapulte e le baliste descritte da Vitruvio, destinate a lanciar dardi e pietre; gli onagri e gli scorpioni di cui parla Vegezio; gli arieti adoperati per demolire le fortificazioni; i gatti, sorta di gallerie mobili, coperte di pelli fresche, che permettevano ai minatori di scalzar le muraglie e di scavar trincee anche sotto il tiro del nemico, le manganelle e le pietriere, che per mezzo di contrappesi scagliavan carichi di pietre; i graffi adatti a deviare i colpi degli arieti e delle catapulte, ed anche a rovesciare addirittura questi ordigni sui serventi; le torri da assedio che per mezzo di argani venivano portate fin sotto le mura nemiche, per gettarvi i ponti volanti. E l'artiglieria si nobilitò quando ai semplici operai si sostituirono i maestri bombardieri e gl'ingegneri, reclutati fin tra i più famosi architetti del Rinascimento, come Francesco Martini e Giuliano da San Gallo che abbiamo ricordati. E perfino Leonardo vantò la sua perizia d'ingegnere militare e d'artigliere, e Michelangiolo non sdegnò il titolo ufficiale di provveditore sopra i ripari e ingegnere, col suo stipendio di trenta scudi al mese; né di dividere le fatiche e i pericoli di un famoso bombardiere, "Giovanni d'Antonio vocato Lupo", che folgorava coi suoi pezzi contro l'esercito di Carlo V imperatore.

Ma l'avvento delle armi da fuoco, se fece abbandonare le vecchie artiglierie a contrappeso e a corda intorno alle quali gli uomini si erano affaticati per tanti secoli, trovò resistenza nell'armatura di ferro. È ben vero che rispetto alla potenza del cannone le armi e gli ordigni antichi avrebbero dovuto sembrare inutili; ma poiché non si trovò, come dice il Machiavelli, "ordini ed armi che contro all'artiglieria fossero utili", si conservò l'uso dell'armatura che difendeva, se non dal cannone, almeno "dalle balestre, dalle picche, dalle spade e da' sassi". E fu proprio allora che l'armatura segnò il grado supremo dell'arte dell'armaiolo, dal quale ormai si richiese l'esatta conoscenza del corpo umano, e un tale sentimento delle proporzioni, che l'artefice poté stare accanto allo statuario.

L'armatura del Quattrocento è semplice, scevra di ogni ornamentazione, ma di un'assoluta eleganza di linee e modellata addirittura su chi deve indossarla. Ricopre il corpo da capo a piedi, ma il suo peso non supera quasi mai i venticinque chilogrammi; è congegnata alla perfezione, e la tempera dell'acciaio di ogni singolo pezzo raggiunge il massimo grado di durezza. Anche l'armatura del capo, l'elmetto italiano della prima metà del sec. XV, è perfetto, piccolo, leggiero, e modellato anch'esso secondo la forma della testa. Oltre a queste proprietà che lo rendono tanto superiore al bacinetto, è provvisto di una visiera mobile, che permette all'uomo d'arme d'aver libera la vista, e di respirare a suo agio. Questo prodotto geniale dell'arte dell'armaiolo si vede riprodotto per a prima volta su due medaglie del Pisanello, tra il 1445 e il 1446: sul verso di quella di Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini, e sul retto di quella di Filippo Maria-Visconti, nella quale il duca di Milano è a cavallo, in armi, con la lancia nella destra e un enorme cimiero, con la biscia che ingoia il bambino.

La visiera dell'elmetto è "a becco di passero"; sulla nuca è fissata una rotella d'acciaio, di cui l'uso è incerto, ma che probabilmente era messa lì per impedire che un fendente tagliasse la cinghia del barbotto. Si può vedere la precisa rappresentazione dell'elmetto nel ritratto di Federico duca d'Urbino, nella Galleria Barberini (Roma), già attribuito a Melozzo da Forlì, e recentemente assegnato a Pietro Berruguete. Un esemplare conservatissimo di quest'armatura difensiva del capo è nella collezione Carrand, a Firenze (R. Museo Nazionale); un altro a Torino nella Reale Armeria, unito all'armatura B. 19. Gli elmetti nei giorni di pompa si ornavano di cimieri fantastici, fatti di cartapesta, di bambagia e di penne. Negli affreschi di Pier della Francesca, nel S. Francesco d'Arezzo, compaiono questi strani ornamenti; come pure nella medaglia di Lodovico III Gonzaga, del Pisanello, e in quella di Carlo Grati, dello Sperandio. Quando nel 1461 Luigi XI di Francia, fece il suo ingresso in Parigi tout le plus prochain du Roy par devant estoit J0achin Roault portant l'armette royale; couronné et tymbré de fleurs de lys d'or bien riche. Il signor di Brantôme narra che alla battaglia di Marignano Francesco I portava un armet orné d'une rose d'escarbouche.

Spesso invece dell'elmetto si portava, specialmente oltr'alpe, la celata, che era guarnita di visiera ma lasciava scoperta la parte inferiore del viso. Un anonimo scrittore francese del tempo descrive così la celata: ricopre "tout la plus part du couj derrière et toute la temple, l'oreille et la plus part de la joue, et davant couvre le front jusque an sourciz. En laquelle sallade y a une visière petite, laquelle visière quant elle est abesse recouvre les yeulx, le nés et la bouche". Il mento e la gola erano difesi dal barbotto fermato sul petto della corazza.

Del resto, nel Quattrocento, l'elmo fu considerato come un pezzo a parte, e l'armatura si completava indifferentemente o con l'elmetto o con la celata o con la barbuta. Non solo, ma anche in quel tempo si mantenne l'uso di non portar l'elmo che sul campo di battaglia e proprio nel momento dell'azione. Fuor di questa eccezione l'uomo d'arme sostituiva all'elmetto o alla barbuta la berretta di panno, o il cappello. In una tavoletta del Pisanello, che è nella National Gallery (Londra), si vede perfino San Giorgio, in armi forbite, con un gran cappello di paglia piumato; e i lineamenti del santo sono quelli caratteristici di Leonello d'Este.

La celata italiana rimase fedele al tipo della barbuta, cioè al classico elmo degli opliti. Fu d'uso estesissimo e infinite opere d'arte ne fanno fede, dagli affreschi di Aldighieri e di Iacopo Avanzi nella cappella di San Giorgio, in Sant'Antonio di Padova, al celebre dipinto di Giorgione nella chiesa di Castelfranco, in cui si vede, dinanzi al trono della Vergine, il bellissimo San Liberale, in armi; dai bassorilievi dell'arco d'Alfonso d'Aragona a Napoli, alla medaglia dello stesso principe modellata dal Pisanello, e al noto dipinto di Domenico Morone "la cacciata dei Bonacolsi", dove si trovano tutte le fogge dell'armatura della fine del Quattrocento. A Venezia la celata si ricopriva di velluto o di seta rossa, e si ornava di fregi di bronzo dorato che sulla fronte si sviluppavano in foglie d'acanto, e di cimieri, pure di bronzo dorato, a forma di corno o di drago. Tutta questa decorazione scintillante sul fondo cupo della stoffa, formava un insieme di rara eleganza, quale non s'era mai immaginata per l'innanzi. E nondimeno gli esemplari pervenuti fino a noi, come quello bellissimo della raccolta Carrand, non sono che pezzi comuni, mentre le celate da pompa, spesso ornate di metalli preziosi, erano certo di fattura molto più ricca e accurata. Marino Sanudo e il Sansovino ci dànno notizia di uno di questi elmi, fabbricato da due orefici, Vincenzo Levriero e Luigi Caorlini. Era d'oro, ornato di pietre preziose e di quattro corone, col cimiero parimenti d'oro, tempestato di perle, smeraldi e brillanti. Quest'elmo favoloso, valutato più di centomila ducati, fu ordinato da tre personaggi appartenenti alla più illustre aristocrazia veneziana, agli Zeno, ai Cornaro, ai Morosini, i quali l'offrirono in vendita al Sultano per mezzo di Antonio Sanudo, a cui toccò una bellissima senseria.

Tutti i varî pezzi dell'armatura, la goletta, gli spallacci, la corazza, sul cui petto è stata aggiunta la resta per appoggiarvi l'asta della lancia negli scontri, i bracciali, le manopole, i fiancali, i cosciali, gli schinieri e le scarpe, si distinguono per la bellezza e per la semplicità; sopra ognuno è impressa la marca dell'armaiolo. Questo non fa più parte della folla anonima degli artigiani, ma ha raggiunto tale notorietà che neppure i più famosi maestri delle arti del disegno uguagliano. È il confidente e l'uomo di fiducia di signori e di principi; i Missaglia, i Negroli, i Modrone, i Merate, tutti armaioli milanesi, fondano vere e proprie dinastie, insignite di distinzioni e privilegi. Ed è veramente grande l'attività di Milano, nell'industria delle armi, per tutto il Quattrocento. Tra gli amiaioli milanesi emergono particolarmente i Missaglia. Nel 1435 Tommaso Missaglia è fatto cavaliere da Filippo Maria Visconti; Francesco Sforza lo esenta dalle imposte nel 1450. Nella primavera del 1466 Francesco Missaglia è presentato a Luigi XI di Francia da Giovanni Pietro Panicharola, agente del duca di Milano a Parigi. Sua Maestà vuole un'armatura di suo gusto, e l'armaiolo può entrare nella camera reale di giorno e di notte, per studiare, modellare la persona del re e conoscerne tutti i desiderî, affinché l'ammatura riesca perfetta. Nel 1492 gli ambasciatori veneti, Contarini e Pisani, visitano la bella casa di Antonio Missaglia e rimangono meravigliati; quando, sullo scorcio del secolo, questa casa s'incendia, Lodovico il Moro, in persona, dirige l'opera delle guardie del fuoco. Accanto a questi artefici famosi, troviamo fra i tanti maestri di cui ci resta soltanto il nome: Giovanni da Pampuro "magistro da corazze" del duca Galeazzo; Biagio, che si recò alla corte di Ferrara nel 1483, per far barde e armature agli uomini d'arme di Niccolò da Correggio; Giacomo da Cantano armorum faber nel 1478; Martino del Pizzo, maestro d'archibugi, che nel 1485 s'unì a Jacopo Magnanini modenese, in arte armorum; Simone Grassi che nel 1477 fabbricava cimieri e fra i suoi clienti era il capitano di giustizia (cfr. E. Motta, in Archivio storico lombardo, 1914; F. Malaguzzi Valeri, La Corte di Lodovico il Moro, Milano 1923). In Germania, ad Augusta e a Norimberga, sorgono e si sviluppano altre maestranze d'armaioli, che lottano con quelle milanesi; in Francia lavorano ventiquattro armaioli lombardi dei quali si conosce il nome e il luogo d'origine. Dovunque, i santi guerrieri figurati dall'arte appaiono veramente nel più degno e nobile arredo che mai abbiano avuto: il San Giorgio appoggiato al troncone di lancia, del Mantegna, che è all'Accademia di Venezia; il San Giorgio con la lancia in resta, che il Carpaccio dipinse nella chiesa degli Schiavoni; il San Giorgio che Donatello pose nella nicchia d'Orsanmichele, hanno veramente l'arnese da battaglia che si conviene al "cavaliere de' Santi".

Per tutta la seconda metà del Quattrocento le armature italiane, o, secondo l'espressione francese, à la façon d'Italie, rimangono le più perfette, tanto per il disegno quanto per la potenza dlfensiva. Ma sono soprattutto milanesi quelle destinate a far bella mostra nelle pompe guerresche e nelle giostre, le mirabili armature fucinate dai Missaglia e segnate con le marche della loro bottega. Oggi di queste armature, già tanto usate e fabbricate a migliaia, ne rimangono ben poche; tre sole se ne conoscono delle più antiche: la prima è il superbo arnese di Federigo il Vittorioso, conte palatino del Reno, nell'armeria di Vienna; la seconda è l'armatura della collezione del duca di Dino, oggi nel Metropolitan Museum di New York; la terza è nel museo di Berna. In Italia abbiamo solamente pezzi staccati: un barbotto nella reale armeria di Torino, il quale porta il marchio ripetuto d'Antonio Missaglia, attestante la prova con la balestra a tornio; qualche petto e una celata, molto restaurata, che si trova nel Museo Stibbert a Firenze; e un modello d'armatura intera, forse d'origine milanese, nello stesso museo.

Intorno a queste belle armature fiorisce, senza più freni, il lusso del costume militare. In Italia il petto della corazza è ordinariamente ricoperto di stoffa preziosa; e si porta, anche a cavallo, la corta giornèa gheronata, di broccato d'oro, che vediamo ondeggiante sulle spalle di Niccolò da Tolentino, nell'affresco di Andrea del Castagno, in Santa Maria del Fiore. In seguito, si porterà sull'armatura il saio o la cioppettella di velluto o di cuoio. La daga assurge a capolavoro con le cinquedea decorate da quell'Ercole de' Fideli, l'ebreo convertito che fece lavori di niello e di cesello incomparabili, fra i quali forse la famosa spada di Cesare Borgia; e la spada anch'essa diverrà di pregio inestimabile, come per esempio quella celebre della collezione Ressmann, in cui l'acciaio, l'oro e la decorazione del più puro stile compongono l'arme più bella che si possa vedere.

Per i cavalli da pompa, i palafreni, si tornò, per sfoggio di ricchezza, alla vecchia gualdrappa di velluto e di drappo d'oro, quantunque in Italia si preferisse di lasciare scoperte le forme di questi nobili animali, abituati perfino a un'andatura speciale, l'ambio. Nel 1449, nell'occasione dell'ingresso solenne di Carlo VII a Rouen, il 20 novembre, il conte Louis de Saint Pol è tout armé à blanc monté sur un cheval enharnaché de satin noir semé d'orfévrerie blanche; e il re, armé de toutes pièces, s'avance sur un cheval houssé de velours bleu à fleurs de lis d'or. Invece per i cavalli d'arme, i destrieri, si creò la barda di cuoio o di piastre di ferro, con la testiera, il collo, la pettiera, la groppa, il guardacoda. Il primo a usare la barda in Italia si dice che fosse Alberico da Barbiano, condottiere della compagnia di San Giorgio, sulla fine del Trecento. Però, in generale, la gente d'arme si palesò restia a caricare i cavalli d'un peso eccessivo, che ne ostacolava le movenze e ne fiaccava l'energia. L'ordinamento militare di questi fantastici cavalieri, che hanno abbandonato lo scudo per la mazza e il martello d'arme, è rimasto quello del Trecento, con la divisione per lance. Ognuna di queste unità comprende un effettivo da tre a quattordici uomini, sottoposti al capo-lancia; gli altri sono uomini d'arme, cavalcatori, paggi e garzoni. Quest'ordinamento è pure mantenuto, con l'effettivo di sei uomini, da Carlo VII di Francia, quando nel 1439 il connestabile di Richemont istituisce le quindici Compagnies d'Ordonnance, composte ciascuna di cento gendarmi scelti, cent lances, et que chascune lance servit comptée àgages pour six personnes, dont les trois seroient archers, le quatrième coutillier avec l'homme d'arme et son page. Da queste compagnie deriva l'istituzione degli eserciti permanenti.

Il secolo XVI. - Frattanto la fanteria che ha cominciato a formarsi in grosse battaglie e battaglioni, tanto per l'attacco quanto per la difesa, ha visto entrare nelle sue file gli scoppiettieri che portano il nuovo ordigno guerresco, e i picchieri la cui arma principale è la picca, con l'asta lunga cinque metri e più. Giacomo di Grassi, nel suo trattato Ragione di adoperar sicuramente l'rrme (Venezia 1510), parla così della picca: "Siccome la sola spada fra tutte le arme che si portano a canto è la più onorata come quella che manco inganni riceve che niun'altra, così tra le arme d'hasta la picca è la più sincera, la più honorata et nobil'arma di ciascun'altra". Arme di difesa del fante è il petto di ferro, leggiero, ossia non "a prova"; per l'offesa, oltre la picca, ha la spada, "piuttosto tonda nella punta che acuta".

Pochi tra i fanti hanno la corazza intera e i bracciali, e, nei primi del Cinquecento, nessuno ha l'elmo. Poi anche i fanti portano l'armatura greve, ed hanno invece della picca l'alabarda, d'origine tedesca, con la scure a mezzaluna. Le fanterie svizzere, rinomatissime, nelle loro battaglie, formate da sei a ottomila uomini, hanno speciali reparti armati di spadone a due mani, l'arma che ha fatto le sue terribili prove a Granson e a Morat, contro l'orgogliosa cavalleria di Carlo il Temerario, duca di Borgogna. Lo scudo è quasi abbandonato anche dalle fanterie; lo hanno ancora, ma per poco, gli Spagnoli, ed è il brocchiere rotondo, che ha nel mezzo una punta, il brocco. Porteranno poi il brocchiere o la rotella i soli capitani, con la mezza armatura, costretti come sono a precedere negli assalti i loro uomini di due lunghezze di picca (più di dieci metri).

Quando, nel corso del sec. XVI, l'uso delle armi da fuoco si estende, e allo scoppietto subentra l'archibugio a miccia e a ruota si creano intere formazioni di archibugieri, nonostante i molti inconvenienti derivanti dall'arma, il cui tiro è ancora incerto, irregolare e lento. Basta che piova o che il tempo sia appena umido per rendere inutile l'archibugio; spesso poi, nel caricarlo, l'archibugio scoppia fra le mani del soldato inesperto; né è senza pericolo la scossa dello sparo; per cui tra gli archibugieri, dice il Brantôme, il y en avoit plusieurs bien mouchés et balafrés et par le nez et par les joues. Con l'esperienza molti di tali inconvenienti vengono eliminati, e gli archibugieri, riuniti in corpi speciali, costituiscono, nelle azioni offensive, la linea di fuoco, dietro la quale i picchieri si ammassano in ordine chiuso. Alle armi da fuoco vien poi ad aggiungersi il moschetto, più pesante dell'archibugio, e che non può adoperarsi senza l'appoggio della forcina. Saranno armati di moschetto i moschettieri, i quali, come gli archibugieri, avranno a tracolla la bandoliera coi bossoli delle cariche e il sacchetto delle palle; alla cintura, la fiasca o il fiaschino della polvere.

I picchieri e i fanti armati di alabarda o di partigiana hanno la borgognotta, aperta, con cresta, frontale, guanciali e gronda, una sorta d'elmo particolarmente prediletta dagli armaioli italiani, per la sagoma classica che si presta a trasformare il coppo in magnifici elmi da pompa di disegni svariati, come teste di leone e di chimere, teste laurate e perfino con capellature ricciute, come la borgognotta dell'armeria reale di Madrid, segnata col marchio dei Negroli. Oppure portano il bacinetto, che non è più quello della cavalleria feudale, ma un elmo ricordante l'antico pètaso, col coppo emisferico a piccola tesa; e indossano la corazza con gli spallacci e i bracciali e talvolta anche i cosciali. Gli archibugieri si contentano del corsaletto e delle maniche di maglia di ferro, e hanno in capo il caratteristico morione italiano, col coppo alto e schiacciato dalle parti, a punta o a cresta, con la tesa arcuata. Anche il morione si presta ad essere ornato e arricchito di dorature. Il Brantôme dice a questo proposito:.... Je me souviens qu'à la revue que monsieur, nostre général, fist au voyage de Lorraine à Troye, il se trouva quarante mil hommes à pied français, tant de M. de Strozze que de Brissac, dont il avoit dix mille morions gravés et dorés. Et si n'estoient alors si communs comme despuis (Brantôme, Couronnels françois, III).

Fra tante innovazioni nell'armamento e negli ordinamenti militari, la cavalleria non resta addietro. Però non lascia l'armatura di piastra, che segue anzi i capricci della moda, a seconda delle varie regioni, e si conforma al taglio e talvolta perfino all'apparenza degli abiti civili. Già sul finire del sec. XV il petto è rigonfio, i guardagoletta si aggrandiscono, tutto l'insieme insomma perde la sua purezza di profili e la sua impronta di forza e di severità.

Allora l'armatura spigolata sostituisce quella bianca e fu probabilmente a Milano, nei primi anni del Cinquecento, che s'inventarono le scannellature parallele che poi, esagerate, ingoffirono i prodotti delle fabbriche tedesche; quelle armature che dal nome di Massimiliano I imperatore (1493-1519) tolsero il nome di massimiliane. Quindi, di mano in mano che c'inoltriamo nel sec. XVI, l'armatura, abbandonata la semplicità quattrocentesca, s'arricchisce di lavori di cesello, d'incisioni, di rabeschi all'agemina d'oro e d'argento; ma. mentre il lavoro dell'artefice acquista in preziosità, non sempre rivela un gusto squisito. Le fantasie imposte dall'usanza passeggera tormenteranno il metallo in mille modi, per ridurlo a una contraffazione del tessuto; striature e scannellature imiteranno le pieghe e le trinciature dei farsetti; sboffi e solchi operati a cesello simuleranno i tagli e le pieghe dei braconi rigonfi. E i modesti cavalieri, i semplici soldati che non possono avere sulle amature i fregi all'antica e le figurazioni di un bulino magistrale, chiederanno all'acquaforte i fogliami, i nastri, gli arabeschi decorativi. Ma quando gli scultori, i cesellatori, gli incisori, gli ageminatori, gareggiano nell'arricchire i singoli pezzi, e i più grandi maestri mettono in questo lavoro un'impronta di genio e di misurata armonia, allora l'armatura acquista di nuovo tutto il pregio d'un'opera d'arte perfetta.

I primi esempî di decorazione artistica dell'armatura son milanesi e risalgono alla fine del Quattrocento; i Missaglia e i Negroli ne iniziarono la pratica. Nella Reale armeria di Madrid si conservano i pezzi più antichi ornati a bulino; due celate che portano la marca dei Negroli; ma il disegno è talmente ispirato agli schemi orientali, da far supporre che l'incisore sia da ricercarsi piuttosto fra gli artisti veneziani. Nella stessa armeria vi sono altri pezzi mirabili, fabbricati dai Negroli per Carlo V. che fu appassionato raccoglitore d'armi; vi è pure l'armatura intera che l'imperatore si fece fare da Desiderio Colman, un temibile concorrente degli armaioli milanesi, che lavorava in Germania, ad Augusta, tentando d'uguagliare la perfezione del loro stile. Sempre in Germania, da Dresda, da Innsbruck, da Norimberga, uscirono pure splendidi pezzi lavorati a cesello; in Italia fiorirono artisti isolati anche a Mantova e ad Urbino. In Francia sorse una scuola di cesellatori che seppero dare ai loro lavori un carattere tutto proprio; e se non raggiunsero la potenza e la classica purezza dei maestri milanesi, emersero tuttavia per grazia ed eleganza. In Inghilterra si formò forse un'abile maestranza a Greenwich, che s'ispirò più all'arte tedesca che all'italiana.

Non tutte le belle armature cinquecentesche, impreziosite dal bulino e dal cesello, erano destinate alla guerra. V'erano pure quelle da giostra, pesantissime: l'armatura di Massimiliano I, nel Musée de l'armée a Parigi, pesa, con la barda, ottantadue chilogrammi; quella di Carlo V, nell'armeria di Madrid, novantadue. La fabbricazione di tali armature risale al sec. XV, come quella delle armature usate per i duelli in campo chiuso, i cosiddetti passi d'arme, le quali coprivano interamente il corpo, ma erano messe insieme con tanta maestria da lasciar liberi i più piccoli movimenti. Un esempio mirabile d'armatura da duello, si trova a Parigi nel Musée de l'armée (G. 179). È un'imitazione perfetta dell'abito civile del tempo di Luigi XII, tutta decorata di finissime incisioni, tra le quali sono intrecciate imprese medicee: l'anello con le tre penne di struzzo, i motti Semper e Suave. È di fabbrica milanese, e si crede appartenesse a Giuliano II de' Medici duca di Nemours. Talvolta per render più resistente l'armatura o per adoperarla anche nelle giostre (in questo caso l'armatura si diceva doppia) vi si aggiungevano alcuni pezzi speciali, i pezzi di rinforzo, come la buffa da spallaccio, il guardacore. Innumerevoli dipinti e opere d'arte di quel tempo ci offrono esempî di tali pezzi, come, per citarne alcuni, il ritratto di Federigo da Montefeltro inginocchiato dinanzi alla Vergine, di Piero della Francesca, che è a Brera; la medaglia di Alfonso I re di Napoli, del Pisanello; quella di Sigismondo Malatesta, di Matteo de' Pasti. L'armatura doppia fabbricata dal Colman per Carlo V, nel 1521, è guernita del maggior numero possibile di pezzi di rinforzo; l'elmetto solo ne ha otto.

Dopo aver creato tanti capolavori, l'arte degli armaioli nella seconda metà del Cinquecento declina rapidamente. Resiste però l'industria delle spade. In Lombardia eccelle una famiglia bresciana di spadai rinomatissimi; Antonio Piccinino e i figli di lui Federigo e Lucio. Antonio morì nel 1589, di ottant'anni; il Morigia asserisce che "fu il primo uomo non solo d'Italia, ma anche d'Europa, per fare una lama di spada, o pugnale, o coltello, o qualunque arma da tagliare, che tagliava ogni sorta di ferro". Federigo ebbe fama non (inferiore a quella del padre; Lucio fu eccellente nei lavori di cesello e all'agemina. Anche Brescia ebbe spadai famosi; divenne poi un centro di prim'ordine per la fabbricazione delle armi da fuoco; basti rammentare i Cominazzo da Gardone, che ebbero celebrità in tutta l'Europa. Due grandi centri di produzione di lame furono Solingen e Toledo. Si conoscono i nomi di cento spadai toledani che nel Cinquecento e nel Seicento produssero spade di tempera meravigliosa. Oltre al marchio dell'armaiolo, sulle lame era usanza d'incidere motti, sentenze, invocazioni, e anche formule magiche, per renderne il colpo mortale.

Abbiamo detto che dalla seconda metà del Cinquecento incomincia la decadenza dell'arte dell'armaiolo; e, per rendersi subito conto di questo scadimento, basta confrontare un'annatura notissima dell'armeria di Torino, quella attribuita al cardinale Ascanio Maria Sforza (Serie B, 1), che è degli ultimi anni del Quattrocento, con l'armatura davvero anacronistica che dalla repubblica di Venezia fu offerta a Luigi XIV, dopo la conquista delle Fiandre, armatura che fu fatta a Brescia nel 1668 dal Garbagnaus. Vediamo ora quali sono le ragioni della decadenza. Nel corso del sec. XVI, le condizioni sociali e politiche degli stati sono cambiate. Si affermano le vaste unità nazionali e i governi accentratori; gli eserciti, per conseguenza più numerosi e agguerriti, hanno formazioni e ordinamenti nuovi. L'unità tattica della cavalleria non è più la lancia; ogni cavaliere è un semplice soldato solo col suo cavallo, e porta l'armatura intera se appartiene a uno squadrone d'uomini d'arme, la mezza armatura se è cavalleggere. Gli elmi, le corazze, i lunghi cosciali "a coda di gambero", che uomini d'arme e cavalleggeri hanno ora addosso, son lisci e di contorni atticciati. L'armatura cerca ancora di modellarsi sull'abito civile, ma s'ingoffisce per adattarsi in pari tempo alle nuove armi e alle nuove norme guerresche. Gli artisti non gareggiano più nell'abbellire le pesanti piastre, alle quali si chiede soltanto di resistere ai colpi d'archibugio e di moschetto. Dal canto loro gli archibugieri hanno moltiplicato i tentativi per rendere le armi, che escono dalle loro fabbriche, più rapide e terribili; queste armi ormai fatali per cui cadde, ferito di costa ma "con la faccia rivolta al nemico", Pietro III, du Terrail, il prode Bajardo; le armi che l'Ariosto (Orl. Fur., XI, 25) maledisse per cantare poi sconsolato:

Rendi, miser soldato, alla fucina

Pur tutte l'armi c'hai, sino alla spada;

E in spalla un scoppio o un archibugio prendi

Ché senza, io so, non toccherai stipendi.

Col perfezionamento delle armi si tenta in vario modo di perfezionare anche le polveri e i proietti, e si fabbricano non soltanto palle rotonde di piombo, ma anche "d'acciaio, quadrate, triangolate ed a punta". Gli scrittori di cose militari del tempo ci offrono molteplici esempî di queste affannose ricerche. Lo stesso Benvenuto Cellini si vanta di aver trovata la giusta proporzione della carica per ottenere il massimo di potenza e di precisione: "Questo si era, che con la quinta parte della palla il peso della mia polvere, detta palla mi portava dugento passì andanti in punto bianco". Non solo, ma il bizzarro artista avrebbe trovato anche il modo di raffinare la polvere: ".... Facevo di mia mano la finissima polvere da trarre, nella quale io trovai i più bei segreti, che mai per insino a oggi da nessun'altro si sieno trovati" (La vita di B. Cellini, ecc.). Quando lo studio e il tecnicismo non sembrano sufficienti, si ricorre alla magia e all'astrologia. Bonaventura Pistofilo con tutta serietà consiglia: "Fra la palla e la polvere si metterà il segno significante il primo et l'ultimo della luna, che sia dominato da qualsivoglia pianeta, eccetto da Mercurio e dal Sole, ma per far effetto maggiore sia dominato o da Saturno o da Venere.... si vedrà effetto tale che non sarà arme di difesa che resister possi" (B. Pistofilo, Oplomachia, Siena 1621, p. 192).

Gli armaioli però non si dànno per vinti; da prima s'affaticano a cercare nuove forme, per aumentare la resislenza dell'armatura senz'accrescerne troppo il peso; poi, quando il progresso delle armi da fuoco rende vani i loro sforzi, cercano con risolutezza di risolvere il difficile problema dello spessore delle píastre e delle tempere. Cosicché ben presto dalle più reputate fucine escono armature talmente solide da resistere ai colpi delle armi da fuoco; anzi, per maggior sicurezza, abbandonata la vecchia prova della balestra, si sottopongono i pezzi, prima della brunitura, al tiro di pistola, d'archibugio o di moschetto. La piastra resiste; l'armatura a botta e a tutta botta ha vinto il proiettile. Se non che, all'atto pratico, le nuove armature a prova risultano più dannose che utili per il loro peso eccessivo che schiaccia e stroppia uomini e cavalli. Infatti il peso dell'armatura che s'era mantenuto, come s'è detto innanzi, sui venticinque chilogrammi, salì ad un tratto a quarantacinque e a cinquanta. Le barde aumentarono di peso in proporzione. E vero che a quest'eccessivo peso s'era già arrivati con le armature da giostra, ma quell'esercizio militare si faceva soltanto da uomini robusti e addestrati da un continuo esercizio, che montavano e scendevano da cavallo con l'aiuto degli scudieri e degli armieri, e non portavano l'armatura se non il brevissimo tempo richiesto da una corta galoppata. La guerra, invece, vuole ben altra continuità di sforzi, costringendo il soldato a star sotto le armi giornate intere, a piedi o a cavallo, ora che l'arte della guerra ha capovolto tutti i vecchi sistemi. Tuttavia la forza della tradizione e la sicurezza dell'invumerabilità sono tali stimoli, che ben pochi, fra gli uomini d'arme, possono od osano sottrarsi all'immane fatica. Il signore di Montaigne, che nei suoi Saggi ha trattato un po' di tutto, così parla di quello stato di cose: "S'il se veoid quelq'un tué par le défault d'un harnois, il n'en est guêres moindre nombre que l'empeschement des armes a faict perdre, engagez soubs leur pesanteur, ou froissez et rompus, ou par un contrecoup, ou aultrement. Car il semble, à la verité, à veoir le poids des nostres et leur espesseur, que nous ne cherchons qu'a nous deffendre, et en sommes plus chargez que couverts. Nous avons assez à faire à en soustenir le faix, entravez et contraincts, comme si nous n'avions à combattre que du choc de nos armes" (Montaigne, Essais, II, 9).

Nondimeno, poiché le forze umane hanno pure un limite e la nuova tattica esige una rapidità di manovra sempre maggiore, adagio adagio s'incomincia a tralasciare qualche pezzo secondario dell'armatura per conservare quelli che coprono le parti più vitali del corpo. Pertanto, dapprima s'abbandona l'uso delle barde, salvo la sella d'arme ferrata e il frontale, in seguito si sopprimono gli schinieri e le scarpe di ferro per sostituirle con gli alti stivali di cuoio, e si fa anche a meno dei bracciali, dopo un parziale ritorno alle maniche di maglia di ferro; delle manopole si tiene quella sinistra, essendo la mano destra dilesa abbastanza dalla complicata guardia della spada. Ma anche ridotta così, l'armatura è sempre d'un peso insopportabile. Allora gli archibugieri a cavallo, che è il nuovo corpo di fanteria montata creato da Giovanni delle Bande Nere e portato in Francia da Piero Strozzi, abbandonano addirittura anche la corazza, che rimane insieme col morione leggiero ai loro ufficiali. Conservano però il bacinetto; sono armati di spada e portano all'arcione da una parte la mazza d'arme, dall'altra, entro un fodero di cuoio bollito, l'archibugio lungo al massimo tre piedi e leggiero. I raitri, i pistolieri, venuti dalla Germania, non hanno che la lunga spada e la pistola d'arcione, a ruota, ma neppure un pezzo di ferro addosso: "ils n'avaient pas de fer sur leur corps, mais seulement des pourpoints de buffle pour amortir les balles; et contre le mauvais temps, de grosses lourdes casaques". L'azione tattica di questa nuova cavalleria consiste nell'avvicinarsi al nemico schierata in ordine di combattimento per linee successive, quasi continue; ogni linea giunta sulla "linea di fuoco", si stacca al trotto dalla massa, scarica le sue pistole, e quindi passa al coperto dietro lo squadrone per ricaricarle. Generalmente però la pistola serve soltanto per la prima salva, la quale soltanto è considerata efficace, non avendosi alcuna fiducia nelle armi ricaricate in fretta, nel turbamento delle mischie. Anzi, affinché la prima salva consegua l'effetto desiderato, i pistolieri, seguendo l'esempio degli archibugieri, caricano in caserma le loro armi, con precisione. "Iddio mi guardi - dice il Pistofilo nell'Oplomachia - dall'archibuso caricato in casa, perciocché caricandosi con comodità, non vi si pone se non quella polvere che comporta la palla e la canna dell'archibuso; messa la detta polvere, si calca bene con la bacchetta; avanti si metta la palla si procura che essa palla non vada se non per forza, almeno sia sempre giusta, né contentandosi d'una sola palla, ne pongono due, ed anche tre".

I secoli XVII e XVIII. - I picchieri sono gli ultimi fanti armati di ferro. Nella seconda metà del sec. XVII l'armatura è quasi interamente scomparsa dagli eserciti; il colleito di pelle di bufalo, e l'uniforme di panno ne hanno ormai preso il posto. Solamente, e quasi per eccezione, la conservano ancora le corazze, la cavalleria pesante, ma ridotta alla borgognotta di tipo polacco con nasale scorrevole e gronda, alla corazza con gli spallacci e i mezzi bracciali ed ai cosciali; in seguito all'elmo e alla corazza. Alcuni corpi speciali, come i minatori, continuarono a portar la corazza sola; e anche gli ufficiali superiori, i generali, mantennero questo resto dell'armatura più per tradizione e per complemento dell'uniforme, che per difesa. Le corazze, gli elmi, i bracciali che tante volte vediamo riprodotti nelle opere d'arte di questo tempo, non sono che semplici accessorî decorativi.

In quanto all'artiglieria, continuò anch'essa il suo lento progresso. Nell'avanguardia di Carlo VIII, quando l'esercito francese si ritirava attraverso l'Appennino, v'erano quarantadue pezzi di grosso calibro, dei quali quattordici pesavano duemilacentotrentasette chilogrammi, ed eran trainati da ventitré cavalli e da cento uomini. Nel corso del sec. XVI i calibri e i modelli variarono all'infinito, e spesso i maestri delle artiglierie trasformavano i cannoni in vere opere d'arte, ricoprendoli di magnifiche e svariate decorazioni, di stemmi e figure allegoriche, anche di tutto rilievo. Le "bocche da fuoco" ebbero allora i nomi più bizzarri: basilisco, dragone, serpentino, pellicano, sagro, smeriglio. Verso la fine del secolo si tentò una specie d'unificazione, e le forme vennero ridotte a sei, e cioè il cannone del calibro di 330, la colubrina di 200, la colubrina bastarda dello stesso calibro ma più corta, la mezza colubrina, il falcone, il falconetto, piccoli pezzi da 40. Ogni pezzo era montato sul suo affusto a ruote, al quale si attaccavano, in fila, da quattro a ventun cavalli. Seguiva il pezzo la turma dei conducenti e dei cannonieri, coi carri destinati al trasporto delle munizioni e delle armi di ricambio. Le palle eran di ferro o di piombo, ma potevano essere anche di pietra. Cannone petriere o semplicemente petriere, si chiamava il pezzo che scagliava esclusivamente palle di pietra. (Per maggiori particolari, v. la parte storica della voce artiglieria).

Sullo scorcio del Seicento si hanno, un'altra volta, grandi cambiamenti nell'armamento degli eserciti. L'archibuso a ruota era stato abbandonato per il pesante moschetto; ora si abbandona il moschetto per l'archibugio a focile: il fucile, che invece della piastra a ruota ha la piastra ad acciarino, ossia con uno scodellino d'acciaio per la polvere da innesco, sul quale batte una pietra focaia stretta nel cane.

Questo ordigno ingegnoso, d'origine italiana, si trova ricordato fino dal 1522 in un bando ferrarese; nel 1574 o 75 erano armati di archibugio a focile gli archibugieri della guardia del duca Emanuele Filiberto di Savoia.

Il fucile aveva peraltro il difetto di fallire qualche volta il colpo, ma siccome era maneggevole, leggiero e costava poco, ne furono armate tutte le fanterie, compresi i granatieri, soldati scelti in ragione di una squadra per compagnia di fucilieri, che avevan l'incarico di scagliare a mano le granate, sorta di proiettili ripieni di materie esplodenti a cui si dava fuoco, sul momento, per mezzo di una miccia.

Nei primi anni del Settecento fu aggiunta al fucile la baionetta. Da tempo si era studiata la possibilità di trasformare al bisogno l'archibugio in picca, innestandovi, sulla bocca della canna, un apice di ferro. Fin dal sec. XVI si trovano esempî in Italia di questa innovazione; come si trovano, fra le armi da fuoco, lunghe e corte, tutti gli esempî possibili, dalle armi rigate e di precisione alle armi a retrocarica e a ripetizione. Comunque, la baionetta fu adoperata per la prima volta dalla milizia in Fiandra, verso il 1642

La baionetta consisteva in una lama lunga due piedi, compreso il manico di legno; si portava al fianco sinistro invece della spada, e quando si presentava il bisogno si piantava nella bocca del fucile, di cui però non era più possibile valersi come arma da fuoco. Per ovviare a tale inconveniente s'immaginò allora un manico vuoto per introdurvi la canna dell'archibugio, con un braccio che discostasse la lama dalla bocca. Di questo nuovo trovato si fecero le prove alla presenza di Luigi XIV nel 1688, che non ebbero buon risultato; ma nel 1703 la baionetta venne finalmente ridotta alla sua perfezione, e tutti i fucili della fanteria e dei dragoni ne vennero armati. Gli ufficiali continuarono a portare lo spuntone e i sergenti l'alabardina o la partigianetta.

Disparvero dagli eserciti i picchieri, al cui impiego s'erano da tempo manifestati contrarî illustri capitani. Infatti nel 1684 Manesson-Mulet, nel suo celebre trattato dei Travaux de Mars sentenziava: "On remarque qu'excepté dans les combats de campagne, les piquiers sont partout fort inutiles".

Abbandonata l'armatura di ferro, le milizie, nella seconda metà del Seicento hanno l'uniforme e l'armamento comune secondo i varî corpi. In passato, soltanto speciali reparti vennero armati e vestiti allo stesso modo; le cotte d'armi, le casacche, le giornee, avevano sovente i colori del capitano o del luogo d'origine dei soldati o della loro insegna. Per esempio, gli Svizzeri della Guardia pontificia, i Fanti dell'Ordinanza fiorentina, i Gendarmi d'Enrico IV avevano l'uniforme, ma il grosso degli eserciti, riunione temporanea dei più disparati elementi, non aveva che un semplice segno di riconoscimento, una sciarpa passata a tracolla sulla corazza, una "banda" in una parola, secondo il termine araldico, di cui la diversità del colore bastava a distinguere gli amici dai nemici. Le prime divise militari si conformarono all'abito civile: tuniche a larghe falde, sottovesti, braconi e cappelli di feltro a testa rotonda, rinforzati qualche volta con una calotta di ferro. La diversità del colore delle stoffe, o delle sole rovesce, distinse i corpi e i reggimenti; nastri sgargianti, ricami e bottoni d'oro e d'argento guarnirono le costure, i paramenti, le tasche. Dopo la pace di Ryswick il cappello rotondo, impennacchiato, fu sostituito dal tricorno orlato di gallone e la tunica si modellò secondo la moda francese. La gente a cavallo, restìa ad abbandonare gli ultimi pezzi dell'armatura, vestì l'uniforme più tardi della fanteria ed ebbe fogge ed armi conformate a strane mode orientali. Fin dal Trecento servivano negli eserciti certi corpi di cavalleria leggiera composti di levantini, schiavoni, stradiotti e ungheri, con l'incarico di esplorare e di fiancheggiare le pesanti compagnie d'uomini d'arme; nel Seicento i corpi di cavalleria leggiera furono di Croati e d'Ungheresi, armati di lunghe lance e di spade ricurve, alla turca. Questi cavalieri esotici imposero il gusto dei loro abiti e delle loro armi alle nuove formazioni di cavalleria, dragoni, usseri, ulani. La lancia divenne allora un'arma bastarda, senza più alcun rapporto con la terribile lancia del secolo XIV; e la spada, con la lama lunata come la scimitarra persiana, male equilibrata e non più adatta a ferire di punta, prese il nome di sciabola.

Fucili, pistole e lance, ora che sono armi da mettersi in mano a chiunque, hanno perduto ogni segno di ricchezza e ogni pregio d'arte. Gli sforzi degl'inventori e degli armaioli tendono unicamente a conseguire questo scopo, che le armi di qualunque sorta, nude, semplici e leggiere, rispondano alle sole necessità della guerra. Tenta di resistere alla corrente livellatrice la spada, e si trasforma nello spadino da corte e da città, che tutti cingono, gli alti dignitarî, gli ufficiali, gli ascritti agli ordini cavallereschi, i nobili, i borghesi e perfino gli abati. Lo spadino ha il fornimento lavorato come un gioiello, d'argento, di bronzo dorato, di pietre dure, di porcellana, ma non è più che un'arma buona solo per il duello. In Francia, lo chiamano excuse, giacché non è possibile servirsene senza vederlo volare in pezzi; con l'abito da lutto diventa cupo anch'esso; ed ha il fornimento d'acciaio annerito e l'impugnatura di legno nero o fasciata di seta nera.

La sciabola cerca di mantenere alta la tradizione della spada. Ha la lama quasi sempre incisa a bulino o ad acquaforte: arabeschi, cartelle, figurine stilizzate, motti e invocazioni. La guardia è di bronzo dorato o d'acciaio brunito, e il fodero d'acciaio, d'ottone o di cuoio, è ornatissimo nella cappa, nelle fascette e nel puntale.

Il secolo XIX. - Dalle artiglierie spariscono tutte le belle fioriture che le "illeggiadrivano". Il cannone di Francia, il cannone di Spagna, i bastardi, i mezzani, e anche i modesti sopravviventi petrieri hanno fatto il loro tempo. Gli affusti massicci e pesanti non si prestano alle manovre sul campo di battaglia; le batterie immobili nei complicati sistemi di terrapieni, gabbioni e ventiere sono esposte a tutte le sorprese del nemico. Occorrono dunque pezzi leggieri e affusti mobilissimi, con avantreni e cassoni per il trasporto dei cartocci delle cariche e dei proiettili, pronti a muoversi coi pezzi, per aumentare la celerità di tiro. E a questa necessità si provvide assai presto già nella prima metà del secolo scorso.

L'esperienza della guerra dei Sette anni ha palesato la necessità di quest'artiglieria adatta a seguire i movimenti delle truppe. Ma finché i cannonieri sono soldati a piedi, non è possibile appoggiare le azioni della cavalleria. Allora Federico II di Prussia abbandona l'artiglieria di battaglione istituita sull'esempio di Gustavo Adolfo e crea l'artiglieria leggiera, che ha l'avantreno a due ruote riunito all'affusto dalla prolonge, il traino con le tre pariglie, "di timone, di mezzo, di volata", e tutti gli uomini conducenti e serventi, a cavallo. In Francia, il Gribeauval, ispettore generale dell'artiglieria, ne riforma negli ultimi anni della monarchia l'ordinamento e il materiale. L'artiglieria da campagna vien distinta dall'artiglieria da assedio, e ha i nuovi pezzi con l'avantreno e l'attacco alla tedesca. In seguito, l'Assemblea Costituente, su proposta del Lafayette, istituisce le compagnie dell'artiglieria leggiera. È questa l'artiglieria che trascorre l'Europa con gli eserciti di Hoche di Jourdan e di Moreau, e assicura le vittorie imperiali d'Austerlitz, di Jena, di Friedland, di Wagram e della Moskova.

Verso il 1830 il materiale d'artiglieria è di nuovo rimaneggiato. Gli avantreni dei pezzi sono dovunque sistemati in modo da farvi stare a sedere i serventi; si escogitano nuove invenzioni per aumentare la mobilità e la potenza delle batterie. Un progresso molto notevole si ha in Italia con il cannone Cavalli (1832): il generale piemontese Giovanni Cavalli (v.) riesce a creare un'artiglieria mobilissima, a tiro celere, capace al bisogno di operare da sola. La mobilità è facilitata dal traino coi carri a due ruote di grande diametro e dal potere sparare il pezzo senza staccare i cavalli; la celerità del tiro, dall'impiego del cannone a retrocarica che un solo servente può caricare, puntare e sparare. La capacità di operare da sola è data alla batteria dai cannonieri armati di carabina che ne formano la scorta. Il Cavalli perfezionò ancora l'invenzione applicando il sistema della rigatura all'anima del cannone a retrocarica. Il primo colpo del cannone rigato fu sparato il 27 aprile 1846, ma l'invenzione non fu allora favorita né dagli uomini né dagli eventi.

Nell'armamento della fanteria e della cavalleria non vi furono grandi mutamenti. Il fucile di munizione con la piastra a pietra focaia dei fanti del "reggimento fucilieri" creato nel febbraio del 1690 da Vittorio Amedeo duca di Savoia, lo ritroviamo, sia pure semplificato e alleggerito, nelle mani dei soldati dell'Impero e del Regno italico, con tutti i suoi difetti, compreso quello di fallire il colpo. La fanteria austriaca a Dresda il 27 agosto 1813, la divisione Puthod al fiume Katzbach lo stesso giorno, i reggimenti imperiali, russi e prussiani alla Rothière si trovarono quasi nell'impossibilità di servirsi dei fucili. C'erano stati, è vero, alcuni tentativi per migliorare il fucile e ridurlo magari a retrocarica, come quello ideato dal piemontese Curiazio nel 1773, ma non avevano avuto seguito. Dopo il 1815 si ripresero le esperienze, ma allo scopo di applicare alle armi da guerra una piastra già in uso per le armi da caccia, con la quale si comunicava il fuoco alla carica del fucile percotendo col cane una cassula spalmata di polvere fulminante, messa sul luminello. Di questo sistema fu inventore l'armaiolo scozzese Forsith, il quale ne prese la patente nel 1807. Le esperienze furono, al solito, laboriose, e non portarono a risultati pratici che verso il 1840, quando il fucile a percussione fu dato alle fanterie. Certi corpi speciali di fanteria leggiera, come, per esempio, i bersaglieri piemontesi e i cacciatori francesi, furono armati di carabine a palla forzata e sciabola-baionetta; i cacciatori tirolesi dell'esercito austriaco ebbero le carabine a canna rigata. Nel 1846 la fanteria leggiera francese ebbe la carabina a stelo, ideata dal colonnello d'artiglieria Thouvenin, nella quale la palla cilindrica veniva pressata con la bacchetta contro uno stelo fissato in fondo all'anima della canna.

Nella cavalleria, mirabilmente ordinata in Prussia durante il sec. XVIII, e anche in Francia negli ultimi anni della monarchia, fu ripreso con larghezza l'uso dell'elmo e della corazza.

Luigi XVI aveva avuto un solo reggimento di corazzieri, i Cuirassiers du Roi, ma senz'elmo. Nell'esercito austriaco i reggimenti di cavalieri armati di corazza erano parecchi. Napoleone I diede la corazza e il caratteristico elmo crestato e ornato d'una coda equina, a quattordici reggimenti; dopo il 1809 ebbero l'elmo con la cresta di ciniglia rossa e la corazza rivestita di lamina d'ottone dorato, con un sole d'argento nel petto, due reggimenti di carabinieri a cavallo. Il Regno italico istituì i corazzieri, vestiti e armati sul modello di quelli dell'Impero. In Piemonte, nel 1842, in occasione delle nozze del duca di Savoia (Vittorio Emanuele II) con Maria Adelaide, Carlo Alberto diede l'elmo e la corazza a uno squadrone di carabinieri: l'elmo, nero con criniera nera sulla cresta a giorno, la corazza pure nera con la croce bianca di Savoia sul petto. I corazzieri, come tutta la cavalleria pesante, avevano la lunga sciabola diritta a un filo e un terzo, col fodero d'acciaio; la cavalleria leggiera, la sciabola con la lama curva a filo e costola, e il moschetto (mousqueton).

Le prime guerre dell'indipendenza, le guerre del 1848 e del 1849 contro l'Austria, furono combattute con queste armi: i cannoni ad avancarica, i fucili e le pistole a percussione; e molti fucili prima d'aver la piastra a percussione avevano avuto quella a pietra focaia.

Incominciavano però a entrar nell'uso le armi da fuoco ad ago, inventate dal tecnico tedesco Giovanni Dreyse, e anche quelle a rotazione. Ma non erano proprio cose assolutamente nuove: nell'armeria reale di Torino v'è un archibugio italiano (m. 56) della metà del sec. XVI che si carica dalla culatta con la cartuccia metallica; e v'è pure un revolver (N. 49) a tre canne girevoli su un perno della culatta, che è anche un'opera d'arte e appartenne a Carlo V; a Venezia, nell'Armeria di Palazzo Ducale v'è un cannoncino a venti canne (P. 9) disposte su un tamburo cilindrico, un primo esempio di mitragliatrice, che risale ai primi del Seicento.

L'Oriente. - Mentre in Europa si svolgeva questa ininterrotta vicenda del "marzial lavoro", altri popoli, in altri continenti, subivano il fascino fatale delle armi, circondandone la fabbricazione di ogni più sottile accorgimento e di tutto il fasto dell'arte. Fra questi popoli ci limiteremo ad accennare ai più famosi: i Persiani, gl'Indiani e i Giapponesi che hanno creato, nel corso dei secoli una serie infinita di capolavori. Fin dall'antichità più remota, la Persia e l'India ebbero fama di conoscere i segreti della lavorazione dei metalli; e questi segreti, tramandati in un cerchio ristretto di artigiani, scomparvero talvolta con essi. L'origine dei rinomati acciai damaschini è da ricercarsi nell'Iran leggendario dei potenti Achemenidi e dei Sassanidi; le più belle lame sono uscite dalle fabbriche di Ispahan.

Il complesso delle armi orientali è illimitato; per farsene un'idea bisognerebbe incominciare dalle accette e dagli archi delle "orde" sperdute da Samarcanda a Khiva, a Bukhara, nei deserti aridi del Turkestān, nelle montagne verdi della Persia, nelle foreste del Caucaso, nelle sterminate pianure dell'India, negli altipiani del Tibet, per terminare coi cannoni e coi fucili moderni, ornati più o meno felicemente dagli artisti indigeni. Ma dovremo restringere le nostre ricerche all'armatura intera, di piastra o di maglia, e alle principali armi da offesa: la spada, la lancia, il pugnale.

L'armatura persiana venne diffusa in tutto il mondo musulmano e nell'India dalle conquiste arabe e mongole; l'invasione turca la estese poi, imbarbarita, nell'Oriente europeo. L'armatura di piastra, rimasta per secoli quasi inalterata, si compone di quattro pezzi soli: l'elmo, la corazza, i bracciali e lo scudo. L'elmo è un bacinetto emisferico, che ha sulla sommità del corpo una punta piramidale e talvolta una pennacchiera o un piccolo cimiero metallico, p. es. una testa di pavone; è guarnito di nasale mobile da regolarsi per mezzo d'una vite a pressione, e di un camaglio di maglia di ferro che dinanzi non scende più in giù degli occhi. La corazza è composta di quattro o cinque piastre d'acciaio, di forma rettangolare, spesso sagomate superiormente, appena appena convesse e riunite insieme da cerniere o da cinghie di cuoio ricoperte di velluto, per ricingere il torso; donde il nome di "corazza a specchi". I bracciali, a forma di manopola, salgono appena oltre il gomito, e lo scudo è sempre una rotella che può avere, al massimo, il diametro di sessanta centimetri o le dimensioni di un rotellino da pugno. Quattro borchie disposte simmetricamente intorno al centro dello scudo servono a mascherare l'attaccatura delle guigge. In generale lo scudo è d'acciaio; ma ve ne sono anche di pelle di rinoceronte, quasi trasparenti, guarniti di rapporti di bronzo. Molto spesso si fa a meno della corazza; allora l'armatura si riduce all'elmo, allo scudo e al solo bracciale destro, a cui è unito il guanto di maglia. È in uso anche la barda da cavallo, di cuoio o di lamine di ferro riunite da anelletti di maglia; il frontale è sempre di piastra. Il sistema di lamine riunite con la maglia, la maglia ghiazzarina, è largamente adoperato dagli Arabi e dai Turchi, che ne fanno armature e barde intere. L'elmo turco è più sviluppato in altezza e ha il profilo a sezione di barca, un'ampia gronda o il camaglio di piastrine metalliche embricate; la corazza porta sulle piastre del petto e della schiena un raggiante a sbalzo, che rivela le origini iraniche; e, quasi sempre, sui singoli pezzi appare la marca dell'arsenale di Costantinopoli, esprimente in caratteri cufici la parola Allah. Nell'armatura di maglia la cotta e le calze sono rinforzate, sul petto, sulla schiena, sulle spalle, sulle cosce e sui ginocchi, di piastre d'acciaio damaschino. Si portano anche semplici cotte di velluto, imbottite e foderate di seta, tutte armate di borchie e di chiodetti dorati disposti a disegno.

Per abbellire le armi gli artisti orientali hanno prodigato in tutti i tempi la loro inesauribile fantasia decorativa, intrecciando arabeschi, nodi, ornamenti vegetali, animali, leggende, preghiere, invocazioni, incastonandovi smalti e pietre preziose. I lavori di bulino o di cesello, le agemine persiane (‛Agiam è il nome col quale gli Arabi chiamano la Persia), adornano coi più delicati meandri d'oro e d'argento ogni pezzo. I lavori usciti dalle mani degli artisti persiani, specialmente nel periodo in cui l'arte iranica raggiunse il massimo splendore, il periodo di Abbas il Grande, sono di bellezza meravigliosa.

La decorazione all'agemina (v.), passata da tempo immemorabile dalla Persia nel Panjab e nell'Afghanistan, e di lì in tutta la penisola indiana e poi combinata con la doratura e l'argentatura a fuoco o con gli acidi, ha dato il modo anche ai maestri indiani di fare opere mirabili per eleganza e per resistenza, sull'acciaio e sul bronzo. La tradizione persiana domina però incontrastata pur nella forma delle singole armi; soltanto un esame accurato degli elementi decorativi consente di accertare l'identità delle origini.

Anche le armi da offesa, la picca trifida (nīzah), la scimitarra (shamshīr) e il pugnale (khangiar) della Persia; la spada a lama diritta (khanda, pulonar), il pugnale col fornimento a staffa (katar), lo spadone con l'impugnatura a manopola (pata, dei Mahratta) dell'India; il coltellaccio dei Balcani (yatagan); la sciabola (qīlig) e il coltello (pīciāq) dei Turchi, perdono ogni aspetto di ferocia sotto la magnifica fioritura degli ornamenti e delle materie preziose, talvolta tanto ricche e tanto fragili da togliere all'arme, come nei superbi "pugnali dei Mahārāgiā", la natura e lo scopo.

L'abilità straordinaria e il gusto raffinato degli armaioli persiani, non colpiscono più quando si hanno sottocchio i lavori degli antichi maestri giapponesi. Nell'Estremo Oriente la lavorazione dei metalli per la fabbricazione di armi è antichissima. Le armi degli antichi Cinesi sono state finora poco studiate. Essi avevano spade, archi, balestre, elmi e corazze. Le armi cinesi servirono di modello alle giapponesi. I giapponesi superarono di gran lunga i loro primi maestri. La spada offerta, secondo la leggenda, dalla dea del Sole a Ninigi è ancora il palladio della nazione giapponese. Bisogna risalire almeno al regno di Yoritomo, per ricercare le origini dell'armatura (gusoku) giapponese, che presenta nell'insieme (salvo, s'intende la diversità del costume), evidenti analogie con l'armatura europea dei secoli XIV e XV. Non solo, ma non si può fare a meno di ravvicinare certi elmi giapponesi agli elmi arcaici dei Greci e degli Etruschi. Nel Duecento, l'armatura giapponese venne fissata nelle sue linee essenziali, poi quasi invariate. L'elmo solo ebbe una certa indipendenza di fo me. Risalgono pure al regno di Yoritomo le origini della casa dei Myōchim, la celebre discendenza di armaioli che si protrasse fino al sec. XVIII, e da cui uscirono i più rinomati artisti del ferro. Nell'armatura giapponese si ritrovano tutti i pezzi di quella nostra del Rinascimento, dall'elmo alle gambiere; fino al Quattrocento rimane anch'essa nuda e austera, poi le decorazioni, le cesellature, le ageminature fioriscono le piastre; le lamine delle gorgiere, degli spallacci e delle panciere si ricoprono di brillanti lacche, e vengono collegate coi nastri e cordoni di seta, colorati secondo gli smalti araldici delle potenti casate dei daimio. Nell'armeria reale di Madrid si conservano due armature del primo periodo; sono le cose giapponesi più antiche pervenute in Europa. Il lavoro di cesello è superbo; la maschera della visiera, la corazza, le manopole, le gambiere imitano con singolare naturalismo le forme umane. Senza contare la ricchezza dell'ornamentazione, che spesso fa dell'armatura un'opera d'arte, il valore di questa è principalmente nella qualità del ferro, reso di una durezza meravigliosa dalla martellatura. Il sistema delle lamine, dei lacci, delle congiunture di seta e delle imbottiture di stoffa è così perfezionato da ammortire i colpi di qualunque arma offensiva. Col sec. XVI le armature diventano più comode e leggiere. Quelle composte di sottili piastre laccate, inventate da Matsunaga Hisahide, sono rimaste in uso fin oltre la metà del sec. XIX. Le armi manesche, sono, al solito, la lancia, la scure, l'arco e la spada, la cui tempera non è stata mai superata. Le prime armi da fuoco sono di origine portoghese. Ma l'arma preferita dai samurai guerrieri e cavallereschi, anzi l'oggetto d'arte più bello per ogni giapponese, è la lama della spada. In ogni tempo la qualità e la perfezione della spada sono state argomento della più grande importanza e nessun'arte fu tanto stimata e onorata come quellà dello spadaio. Paragonate alle spade giapponesi, quelle di Damasco e di Toledo perdono ogni pregio. La spada (Ken), per i giapponesi, è veramente il simbolo del coraggio e dell'onore; il suo cerimoniale è rigido; le cure di cui sono state oggetto le lame antiche ne hanno conservata, attraverso i secoli, la lucentezza immacolata. Certe lame sono ornate d'incisioni a bulino, intagliate a freddo, e i motivi decorativi, immagini divine, draghi, imprese gentilizie, hanno la leggerezza e la pastosità delle cere. Anche gli armaioli giapponesi hanno segnate le armature e le spade coi loro nomi, ben noti, a cominciare da quello di Amakuni di Yamato che viveva nel secolo VIII. Tuttavia, a partire del secolo XVIII gli spadai non hanno più storia; le lame son divenute solo oggetti di lusso, e spesso d'un lusso fastoso, come le belle lame di Naotane. Degno complemento delle lame giapponesi sono i fornimenti: la guardia rotonda (tsuba), le impugnature guarnite di rapporti (menuki), le stesse guaine di legno laccato coi loro fini kozuka, sono quasi sempre opere perfette. Le guardie specialmente sono veri oggetti d'arte; la loro storia è quella dei cesellatori giapponesi; e bastano da sé ad attestare quale squisito senso artistico, e quanta abilità di mano e perfezione d'arnesi occorressero per eseguire, su una materia più dura dell'acciaio, decorazioni a rilievo e a traforo che sembrano miracoli operati con mezzi soprannaturali.

Collezioni e musei d'armi. - Di tutte queste armi che accesero il desiderio e l'orgoglio degli uomini, ben poco resta. Da noi, come avvenne della mobilia domestica, s'incominciò ad apprezzarne il singolare valore, artistico e storico, soltanto quando furono emigrate nelle grandi collezioni straniere e quasi scomparse dal mercato antiquario. All'estero, la raccolta e lo studio delle armi antiche appassionano artisti e cultori d'arte; e opere famose furono scritte intorno ad esse. In Italia il solo Angelucci ne trattò con erudizione e con senso critico, ed ebbe il merito di ristabilirne, si può dire, la nomenclatura, se pure non sempre in modo impeccabile. La mancanza di studiosi nostrani è forse da ascriversi alla rarità del materiale a cui abbiamo accennato. Esistono, è vero, piccole raccolte pubbliche e private, e anche collezioni speciali, come quella veneziana delle "Monitioni del Consiglio dei Dieci" ritornata da poco nella sua sede di Palazzo Ducale dove non mancano pezzi belli e notevoli; mentre in alcune famiglie si conservano certi cimelî, come la spada di Cesare Borgia posseduta dai duchi di Sermoneta. Ma di collezioni vere e proprie, dopo la sparizione di quelle messe insieme dalle vecchie corti principesche, non s'è avuto finora che quella di Torino, la "Reale armaria" creata da Carlo Alberto nel 1833, quando la moda romantica aveva suscitato negli animi l'amore per le antichità medievali. Tuttavia lo spirito informatore di quella collezione essendo stato quello di riunire esemplari di pregio eccezionale più per ricchezza di lavoro che per valore storico o archeologico, essa non comprende, salvo pochi pezzi, se non armi e armature del Cinquecento e del Seicento. Le difficoltà d'istituire una raccolta sul genere di quella del Musée de l'armée di Parigi, dove è possibile di studiare l'evoluzione e la storia dell'arredo guerresco dall'età classica in poi, sono dunque evidenti, tanto più che gli esemplari anteriori alla prima metà del Quattrocento sono introvabili. Solamente a Firenze, in questi ultimi anni, le collezioni d'arte del comune si sono arricchite di un tal numero di armi antiche e d'alto pregio, da formare un insieme degno di competere con le collezioni straniere. In poco tempo il nucleo primitivo di armi e armature esposte nel Museo nazionale, nucleo iniziato nel 1865 coi pochissimi avanzi dell'Armeria di Palazzo Vecchio, venduta nel 1775, a peso di ferro, dal governo lorenese, si sono aggiunti i bellissimi esemplari della raccolta Carrand, legata al comune nel 1888, e poi i pezzi d'incomparabile valore della raccolta Ressmann, ereditata anche questa dal comune nel 1899. Nel 1909 lo stesso comune entrava in possesso del Museo Stibbert, che da solo supera per numero e varietà di pezzi le più note raccolte ed è forse unico per la ricchezza delle sue collezioni d'armi orientali, persiane, indiane, turche, cinesi e giapponesi. lnfine il lascito Bardini (1922) ha portato un altro notevole contributo a queste raccolte, specialmente con rarissimi esemplari di palvesi e di targhe, che vi mancavano. A Venezia abbiamo ora un altro ricco Museo d'arte orientale, dove, fra un numero considerevole d'armi manesche, si trovano cinquanta armature giapponesi complete, con gli elmi giganteschi guerniti di maschere urlanti, che rievocano per incanto il Giappone dei samurai. A Genova il Museo Chiossone accoglie pregevoli pezzi d'armi giapponesi, bianche e da fuoco, e una superba collezione di guardie e guarniture di spade, che supera ogni altra al mondo.

Fuori d'Italia, le raccolte d'armi più famose sono, oltre il Musée de l'Armée ricordato, l'Armería Real di Madrid, ricchissima di pezzi storici di prim'ordine; l'Armeria di Vienna dove si trovano bellissimi pezzi italiani del Quattrocento e del Cinquecento; la sceltissima e varia raccolta del Museum Johanneum di Dresda; il Museo d'armi antiche e orientali di Leningrado; la Royal Collection di Windser; la Tower of London Armoury e la Wallace Collection pure a Londra; e infine il Museo di Berna e le collezioni del Metropolitan Museum di Nuova York, da poco accresciute col prezioso Cabinet d'armes del duca di Dino.

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Le armi moderne.

Con l'aumentata potenza delle armi da fuoco, le armi difensive individuali hanno perduto d'importanza. Scudi e corazze, sebbene costituiti con materiali speciali, dovendo avere uno spessore limitato per non riuscire eccessivamente pesanti (ché, come già si è detto sopra, comprometterebbero le caratteristiche di mobilità e di resistenza del fante), non proteggono dalle offese dei proiettili, i quali anzi, deformandosi, producono ferite più gravi. Ciò ha fatto mettere in disparte le corazze (sono in uso quelle che hanno solo scopo decorativo), mentre gli scudi da trincea, individuali o collettivi, opportunamente mascherati, possono trovare tuttora utile impiego. L'arma difensiva riconosciuta efficace e di pratico impiego presso gli eserciti belligeranti nella grande guerra europea è l'elmetto metallico, perché serve a proteggere il capo dalle pallette degli shrapnels e dalle piccole schegge.

Armi bianche. - Le armi bianche offensive, destinate a produrre ferite da punta e da taglio, hanno oggi un'importanza secondaria: ciò massimamente per l'aumentata celerità di tiro delle armi da fuoco a ripetizione ordinaria o automatica. Tuttavia le sciabole e le sciabole baionette (armi da punta e da taglio), le baionette o spade baionette e le lance (armi da punta) sono in uso o come armi da sport, o come armi da combattimento, sia per l'azione morale che esse possono esercitare sul combattente (spirito aggressivo), sia per la lotta a corpo a corpo sulle posizioni conquistate. Le armi bianche offensive debbono rispondere a requisiti di leggerezza, resistenza, maneggevolezza e penetrazione, qualità spesso antitetiche; perciò il costruttore dà la preminenza all'una o all'altra a seconda del tipo d'arma e dell'uso che se ne deve fare.

Le parti principali di un'arma bianca offensiva sono: la lama, l'impugnatura, il fodero. La lama è fatta d'acciaio di ottima qualità, temperato e rinvenuto di tempra per conferire alla lama durezza ed elasticità. In essa si distinguono: la punta, il taglio, il falso taglio, il dorso, gli sgusci, il tallone, il codolo. Dicesi angolo di taglio l'angolo acuto che risulta in corrispondenza del taglio sezionando la lama con un piano normale al dorso. Se l'angolo di taglio è piccolo, la penetrazione è facilitata. La saetta di curvatura, indice della curvatura della lama, è la perpendicolare alla congiungente punta-tallone, e misura la massima distanza tra questa congiungente e il dorso della lama. Le armi eminentememe da taglio hanno una lunga saetta di curvatura perché ciò agevola la penetrazione della lama. L'impugnatura spesso ha come parti accessorie: la crociera, la guardia con una o più else, il cappuccio, le guance, il bottone. Il fodero è di metallo o di cuoio con guarnizioni metalliche per lo più d'ottone, e in esso si distinguono: la cappa con bocchetta elastica, il puntale, il bottone e le campanelle per appenderlo al cinturino.

Per la scherma si usano sciabole a lama stretta e spade o fioretti.

Armi da fuoco. - Le armi da fuoco sfruttano l'energia potenziale dei gas che si sviluppano con l'accensione dell'esplosivo (chiamato per consuetudine polvere, sebbene la parola generalmente non corrisponda all'aspetto fisico dell'esplosivo) per lanciare a distanza più o meno grande e in modo che vi arrivi dotato ancora di notevole forza viva, un corpo solido detto proietto, di forma allungata per le armi da guerra; o per proiettare normalmente numerosi piccoli corpi sferici (pallini, migliarini), se le armi sono da caccia.

Le armi da fuoco utilizzano generalmente la pressione statica esercitata dai gas, generati dalla carica, sul proietto; ma per le artiglierie si fanno esperienze allo scopo di sfruttare l'energia dinamica dei gas, i quali giungono alla bocca delle armi animati ancora da grande velocità.

Le moderne armi da fuoco portatili per usi bellici debbono rispondere a varî requisiti di ordine balistico e meccanico.

Le principali qualità balistiche sono: a) grande giustezza di tiro, per modo che, in un tiro prolungato con una determinata arma, i proiettili formino una rosa di dimensioni limitate: ciò dipende dal grado d' armonia raggiunto nello studio dell'arma, del proietto e dell'esplosivo; b) notevole tensione della traiettoria (fatta eccezione per le armi destinate a lanciare bombe): essa dipende principalmente dalla velocità iniziale, e vi concorre quindi anche la forma del proiettile; offre il vantaggio di una maggiore gittata, e di maggiore penetrazione nei bersagli verticali; c) rilevante forza d'urto e di penetrazione: la prima è in funzione della massa e della velocità residua del proiettile, la seconda dipende dalle sue qualità fisiche e dinamiche.

Le più importanti qualità meccaniche sono: a) resistenza e leggerezza, qualità antitetiche e che sono in relazione alle dimensioni delle armi, alla semplicità dei congegni e alla specie dei materiali impiegati; b) facilità di maneggio e di trasporto; c) sicurezza e celerità d'impiego, sia nel puntamento sia nell'esecuzione del fuoco.

Da questa duplice serie di requisiti si deduce che lo studio e la costruzione di un'arma costituiscono un problema complesso i cui termini essenziali sono quelli relativi: a) alla natura dell'esplosivo, il quale dovrebbe avere poca forza dilaniatrice e molta potenza balistica; b) al calibro, variabile a seconda degli obiettivi normali che dovrà battere l'arma in istudio; c) alla rigatura, che richiede d'essere presa in esame nei suoi elementi costitutivi, cioè: inclinazione, direzione, numero delle righe, profondità, profilo, passo; d) al proiettile, cioè alla sua forma, leggerezza, peso, costituzione; e) ai congegni varî dell'arma che debbono conformarsi ai principî su cui s'impernia la meccanica moderna.

Le armi da fuoco portatili prendono le seguenti denominazioni:

Lanciabombe. - Può essere un'arma a sé, o un congegno da applicare ai moschetti e ai fucili per adattarli al lancio delle bombe.

Cannoncino. - Arma di calibro relativamente piccolo, che ha le caratteristiche delle artiglierie, ma che per la sua scomponibilità in parti di peso limitato e per le modalità d'impiego sì annovera tra le armi portatili.

Nonostante varie esigenze emerse dalla guerra del 1914-18 riguardo alle armi portatili, i progressi della chimica, della meccanica e dell'arte siderurgica consentono di risolvere bene il problema. Presso tutti gli stati principali, moventi forse da premesse diverse, ma tutti concorrenti nei medesimi scopi, fervono in proposito studî ed esperimenti, e, superate le conseguenti difficoltà finanziarie, non si tarderà ad adottare nuove armi portatili - in massima armi automatiche - adatte alle molteplici e spesso mutevoli situazioni dei moderni combattimenti.

Le parti principali di un'arma da fuoco portatile sono: canna, culatta mobile o scatola di culatta, congegno di puntamento, meccanismi di caricamento, chiusura e sparo, cassa o castello. Nelle armi automatiche vi sono inoltre speciali congegni.

La canna è un tubo d'acciaio (generalmente acciaio speciale al nichelio, al volframio o al vanadio) per mezzo del quale il proietto può ricevere la spinta dei gas e col moto di traslazione assumere anche una determinata direzione, nonché un movimento di rotazione, impresso dalla rigatura. La parte posteriore della canna si dice culatta ed ha uno spessore maggiore, perché ivi le pressioni esercitate dai gas sono più forti; la parte anteriore è detta volata e il foro alla sua estremità è chiamato bocca. Il vuoto interno assume due nomi: camera, che è il tratto posteriore ove si alloga la cartuccia, con la canna liscia e sagomata come la cartuccia, e anima, che è il tratto rimanente, rigato con un numero vario di righe, non minore di tre. Questa rigatura può essere a inclinazione costante, e si dice rigatura elicoidale, oppure ad inclinazione variabile e si dice progressiva. Le armi portatili sono quasi tutte a rigatura elicoidale, che presenta minori inconvenienti. Il passo è la distanza fra due punti di una stessa riga misurata sulla generatrice della canna. Nella rigatura elicoidale il passo è costante, in quella progressiva decresce dalla culatta verso la bocca. In talune armi, la rigatura si volge da sinistra a destra, in altre da destra a sinistra, ma non vi sono ragioni fondate che possano far dare la preferenza all'uno piuttostoché all'altro sistema. Il profilo ci dà l'idea della forma delle righe, le quali possono avere il fondo concentrico alla canna, oppure eccentrico, e avere i fianchi paralleli e convergenti, e talvolta anche un fianco solo, che è il fianco direttore. La culatta mobile o scatola di culatta è quella parte dove si allogano e dove funzionano i meccanismi di chiusura, di caricamento e di sparo: la culatta mobile ha forma e dimensioni corrispondenti a quelle dell'otturatore; la scatola di culatta è generalmente più grande e contiene altresì congegni varî per il funzionamento automatico dell'arma. Il congegno di puntamento ha lo scopo d'ottenere che quando la linea di mira è diretta al segno, l'arma abbia direzione e inclinazione tali che il proiettile possa colpire l'obiettivo. Normalmente nelle armi portatili il congegno di puntamento è costituito da due parti: alzo e mirino, il primo in culatta, il secondo in volata.

Gli alzi moderni possono essere: a settore rotante, a ritto con cursore, a quadrante con tacche di graduazione o con carrello cursore, a collimatore e, talvolta, per tiri di grande precisione, a cannocchiale: in questi casi manca il mirino, perché la linea di mira è determinata dall'asse dello strumento o da una scanalatura ricavata su una delle sue facce. Giova ricordare che il puntamento per mezzo dell'alzo e del mirino cagiona errori più frequentemente che non l'uso di collimatori e cannocchiali, perché la collimazione di più punti non è facile; tuttavia l'alzo e il mirino costituiscono il meccanismo più adatto per le armi portatili.

L'alzo può avere un congegno di scostamento per spostare lateralmente la tacca di mira, allo scopo di rimediare alle deviazioni del proiettile dovute al vento o prodotte dal suo movimento di rotazione (deviazione).

I meccanismi di chiusura, caricamento e sparo sono costituiti dai congegni di otturazione, di scatto e percussione, di ripetizione, di estrazione ed espulsione del bossolo, di sicurezza.

I congegni di otturazione assumono comunemente il nome di otturatori, talvolta di blocchi otturatori o blocchi di chiusura; possono essere cilindrici, prismatici o a blocco ed essere dotati del solo movimento scorrevole, oppure di movimento scorrevole e girevole.

Si dicono otturatori scorrevoli con trasformazione di movimento quelli che hanno un movimento longitudinale, con una parte che automaticamente, per effetto di scanalature elicoidali, ruota per assicurarne la chiusura. In genere gli elementi che ne garantiscono la chiusura sono alette, denti, zoccoli, intagli e incastri variamente disposti a seconda del tipo dell'arma.

Il congegno di scatto e percussione è costituito da parti destinate a produrre la detonazione della capsula: esso consiste in un sistema di leve (grilletto, bilanciere, leva di scatto, ecc.), agendo sulle quali si mette in libertà la massa battente (percussore, cane), la quale, sotto la spinta di molle (elicoidali o lamellari) messe precedentemente in potenza, va a percuotere energicamente la capsula, che a sua volta, detonando, provoca l'accensione della carica di proiezione.

Le armi che consentono il tiro di più colpi consecutivi, senza che si debbano introdurre di volta in volta le cartucce, si chiamano armi a ripetizione e sono provviste di un serbatoio fisso o mobile. I fucili da caccia in luogo del serbatoio hanno generalmente due canne; nelle armi da guerra tale sistema non sarebbe pratico, sia per il peso, sia per la limitata celeriià di tiro.

I serbatoi situati lungo il fusto o nel calcio debbono ormai considerarsi sorpassati, perché sono causa di molteplici inconvenienti, quali la lentezza di caricamento, lo squilibrio dell'arma, il pericolo di scoppî fortuiti specialmente con le pallottole a punta.

Le armi moderne hanno i serbatoi costituiti da scatole metalliche o tamburi girevoli in posizione pressoché centrale, e consentono quasi tutte il caricamento multiplo, cioè l'introduzione contemporanea di più cartucce mediante uno strumento detto caricatore. I caricatori dovrebbero essere molto leggieri, resistenti e, se di metallo, inossidabili: in base alla loro forma si dicono a lastrina, a pacchetto, ad astuccio, a cassetta, a tramoggia, a nastro. I primi due sono in uso per i fucili, quelli ad astuccio per le pistole automatiche e per le mitragliatrici; gli ultimi tre sono generalmente impiegati nelle mitragliatrici.

I caricatori simmetrici presentano il vantaggio di agevolare le operazioni di caricamento, e pertanto sono preferiti.

Per l'estrazione e l'espulsione del bossolo è indispensabile l'estrattore, mentre l'espulsore in qualche arma non esiste. L'estrattore comunemente ha un dente che afferra l'orlo della cartuccia o penetra in una scanalatura del bossolo; può essere a lamina elastica, a bilanciere, a forchetta; l'espulsore è costituito da una piccola parte sporgente fissa o mobile (piuolo, laminetta, testa di vite, ecc.), contro cui va ad urtare il bossolo nel movimento retrogrado che fa insieme con l'otturatore, cosicché, sollecitato da una coppia di forze, viene espulso; dove l'espulsore manca, il bossolo cade per effetto della gravità. Nelle pistole con serbatoio a tamburo, si ottiene l'espulsione del bossolo mediante la bacchetta, e in quelle più perfezionate mediante un espulsore automatico per lo scaricamento multiplo.

I congegni di sicurezza servono ad evitare gli spari fortuiti e funzionano a volontà del tiratore. Non è qui possibile accennare, così per questi congegni come per gli altri, ai diversi sistemi in uso; si ricorda soltanto che essi per lo più immobilizzano il cane, o il percussore, o il grilletto, o le leve di sparo, e che, per evitare incidenti, debbono dare assoluta garanzia di buon funzionamento ed essere ben visibili. Nelle armi automatiche, spesso, oltre ai congegni di sicurezza ordinarî, vi sono quelli a funzionamento automatico aventi lo scopo d'impedire lo sparo se prima non è avvenuta la chiusura completa dell'arma.

La cassa, o castello, ha l'ufficio di tenere riuniti i diversi meccanismi, nonché di facilitare il trasporto e l'impiego dell'arma. Nei fucili si chiama cassa, nelle pistole e nelle mitragliatrici, castello.

La cassa è di legno, con le fibre disposte nel senso della lunghezza. Vi si distinguono tre parti: il fusto, parte anteriore che sostiene la canna in apposita doccia; l'impugnatura, tratto arrotondato dietro il fusto; il calcio, parte piatta la cui estremità trova appoggio contro la spalla quando si spara.

Il fusto e l'asse del calcio non hanno la stessa direzione, e l'angolo che quest'ultimo fa col prolungamento del fusto, dicesi angolo di calcio. Quest'angolo, mentre seme a rendere più agevole l'uso dell'arma nel tiro, attenua l'urto contro la spalla per effetto dello sdoppiamento della forza di rinculo in una forza secondo l'asse del calcio e in un'altra secondo una normale ad esso, e dà luogo all'angolo di rilevamento, per cui l'arma tende a rotare verso l'alto facendo perno della spalla.

L'angolo di calcio non può essere grande nei fucili e moschetti per non indebolire troppo l'impugnatura e per mantenere in convenienti limiti l'angolo di rilevamento.

Nel castello delle pistole invece l'angolo di calcio è grande, sia per poter meglio impugnare l'arma, sia per ridurre al minimo la forza che si manifesta in direzione della mano che l'impugna; la quale non può dare quella stabilità che offre la spalla al calcio dei fucili.

Le parti secondarie di un'arma da fuoco sono: i fornimenti, il copricanna, la bacchetta e gli accessorî. I fornimenti servono di completamento e di protezione, e sono le fascette che collegano la canna alla cassa, le copiglie, i tubicini che rivestono i fori della cassa attraversati dalle viti, le magliette, il bocchino e il calciolo, che proteggono rispettivamente l'estremità del fusto e del calcio le piastrine, ecc.

I copricanna difendono la mano del tiratore dalle bruciature, ricoprono in tutto o in parte la canna, e possono essere di legno o di metallo.

La bacchetta era indispensabile nelle armi ad avancarica, ora si usa per la pulitura della canna o per l'espulsione di una cartuccia o di un bossolo eventualmente sfuggiti all'azione dell'estrattore.

Gli accessorî servono per la manutenzione, scomposizione e ricomposizione, e per eliminare inceppamenti o riparare piccoli guasti.

Armi automatiche.

Le armi automatiche sono quelle il cui funzionamento avviene per effetto dello sparo, dopo che il tiratore, eseguitone il caricamento, ha provocato la partenza del primo colpo, premendo sul grilletto ovvero sull'apposita leva o bottone di scatto. In talune armi, compiutesi automaticamente le operazioni d'estrazione ed espulsione del bossolo, introduzione di un'altra cartuccia nella camera di canna, chiusura di questa, armamento del congegno di scatto e percussione, si ha ad ogni colpo un arresto nel tiro. Queste sono le armi automatiche a tiro intermittente; le pistole automatiche appartengono a tale specie perché le circostanze relative al loro impiego non richiedono un fuoco ininterrotto ed esigono invece un uso parsimonioso di munizioni. Nelle altre armi portatili invece si ha una serie continua di spari più o meno lunga, a volontà del tiratore, con o senza limitatori o regolatori di celerità: sono le armi il cui funzionamento è detto mitragliera (fucili automatici, fucili mitraglieri, mitragliatrici).

La gara fra le nazioni più progredite in materia d'armamento, gara che da oltre mezzo secolo mirava ad accrescere la celerità di tiro delle armi portatili, raggiunto il massimo consentito dal perfezionamento dei serbatoi e dei rispettivi mezzi di caricamento, ha portato all'applicazione dell'automatismo.

Sino dal 1854 l'ingegnere Bessemer aveva concepito l'idea di utilizzare la forza espansiva dei gas prodotti dalla deflagrazione della polvere, per semplificare il servizio delle bocche da fuoco. Di tale idea s'impadronirono gli studiosi d'armi portatili e dopo numerosi tentativi, spesso poco fortunati, si giunse, mercé i progressi della tecnica, non solo a perfezionare le armi nelle loro qualità balistiche e meccaniche, ma a potervi praticamente applicare il principio dello sfruttamento dei gas, dato che per esse, più che per le artiglierie, si faceva sentire la necessità di un tiro molto celere per avere un fuoco più intenso con minor densità di uomini.

Esigenze tecniche e tattiche hanno ritardato l'adozione delle armi automatiche; le prime, per la difficoltà di fabbricare armi automatiche che oltre ad essere leggiere, robuste e semplici fossero anche sicure e di regolare funzionamento nelle circostanze meno favorevoli per la loro buona conservazione, come in guerra; le seconde, dovute alla preoccupazione per il notevole consumo di munizioni e al conseguente problema logistico.

Queste difficoltà sono ormai superate e oggi la tecnica ha potuto creare armi automatiche che eccellono in potenza, rapidità e buon funzionamento, facendo conseguire, in tutto o in parte a seconda dei tipi, i seguenti vantaggi: maggior volume di fuoco, concentramento dei suoi effetti, manovra del fuoco, minor tormento per il tiratore, agevolazione nel puntamento, rarefazione dei reparti, scaglionamento in profondità, più accentuato e più duraturo, dei mezzi di fuoco, maggior libertà di manovra.

Fatta questa premessa generica, esporremo brevemente come vengono sfruttati i gas che trasformano le armi in una specie di piccoli motori. I gas che si producono nella combustione dell'esplosivo costituente la carica di proiezione, esercitano pressioni in tutti i sensi e con la medesima intensità. Questa pressione non è costante; aumenta rapidamente sino a un massimo, quindi decresce man mano che il proietto, spostandosi lungo la canna, cede spazio per l'espansione dei gas stessi. Le pressioni esercitate sulle pareti della camera dànno luogo alla cosiddetta forza dilaniatrice, e per essa si ha una chiusura ermetica, data la forte aderenza del bossolo alle pareti della camera. Alla forza dilaniatrice deve contrapporsi una conveniente resistenza della culatta, impiegando acciaio di buona qualità e facendo le pareti di notevole spessore. Le pressioni che si manifestano sul fondo del proietto costituiscono la forza di proiezione e quelle che agiscono in senso opposto, cioè sul fondello del bossolo e conseguentemente sulla testa del congegno di otturazione, prendono il nome di forza di rinculo.

Se chiamiamo con P e p le pressioni per cmq. esercitate in un dato istante rispettivamente sul fondo del proietto e sulla testa dell'otturatore, con s e S le corrispondenti superficie, si avrà che Ps - pS, cioè forza di rinculo e forza di proiezione sono uguali.

In molte armi la forza di rinculo viene utilizzata per il loro funzionamento automatico, e questo è uno dei sistemi che trova maggiore applicazione. Gli altri sistemi adottati, sebbene in minor misura, sono quelli a utilizzazione diretta dei gas mediante sottrazione lungo la canna, o nella camera (pochissimo usato). Talune armi automatiche fruiscono dei gas all'uscita dalla bocca della canna, da soli o in ausilio della forza di rinculo, altre (rarissime) sfruttano l'attrito del proietto lungo la canna.

Le ammi automatiche possono essere a canna fissa, a canna rinculante o a canna scorrevole innanzi.

Le armi che utilizzano la forza di rinculo sono a canna fissa o a canna scorrevole, e in questo caso si dicono a lungo rinculo quando canna e otturatore compiono contemporaneamente una lunga corsa all'indietro e ritornano innanzi separatamente, la canna prima dell'otturatore; si dicono invece a corto rinculo quando la canna retrocede solo di pochi millimetri.

Scopo del movimento retrogrado della canna insieme con l'otturatore è quello di ritardare l'apertura di culatta per dar tempo al proietto di percorrere la canna e di abbandonare l'arma; ma poiché questo tempo è brevissimo, il lungo rinculo non è indispensabile e perciò le armi di tale sistema possono considerarsi sorpassate.

Il sistema della canna scorrevole indietro con corto rinculo, detto anche a corsa disuguale della canna e dell'otturatore, può essere conveniente per le armi a canna molto lunga. In genere oggi, quando si utilizza la forza di rinculo, si tende ad avere la canna fissa, perché ciò va a vantaggio delle qualità balistiche e della semplicità dell'arma. Nelle pistole, data la cortezza della canna, non occorrono particolari accorgimenti per ritardare l'apertura della culatta, essendo sufficiente l'inerzia e l'attrito dell'otturatore, la resistenza della molla ricuperatrice e la forte aderenza del bossolo. Nelle armi a canna più lunga, per conseguire un maggior ritardo d'apertura di culatta, si aumentano peso e dimensioni della massa rinculante e s'impiegano molle ricuperatrici più robuste, tenendo conto dell'uguaglianza delle due quantità di moto: Pv = pV, in cui P e v sono rispettivamente il peso e la velocità della massa rinculante; p e V sono il peso e la velocità del proiettile. Questo ultimo sistema è sempre di pratica attuazione nelle mitragliatrici pesanti, ma può essere adottato anche in quelle leggiere e nei fucili automatici, quando non si ritiene preminente il requisito della massima leggerezza e non si preferisce ricorrere ad altro mezzo per ottenere l'accennato ritardo di apertura dell'otturatore, come, per esempio, obbligando l'otturatore a compiere un lieve movimento di rotazione prima di poter retrocedere.

L'impiego diretto dei gas per il funzionamento automatico, come già si è accennato, può farsi in tre modi: nella camera, lungo la canna o alla bocca della canna.

Per l'utilizzazione dei gas nella camera, occorrono cartucce speciali dal cui bossolo, per mezzo di appositi forellini, possono passare parte dei gas, i quali agendo sull'otturatore lo fanno retrocedere. Occorre che le cartucce siano allestite con molta accuratezza per assicurare un regolare funzionamento; ma poiché questo difficilmente si può ottenere nella fabbricazione corrente di numerose cartucce, tale sistema può essere adatto per le pistole (pistola Roth mod. 1920), non già per le altre armi automatiche destinate a eseguire un fuoco più o meno continuativo.

Per le armi a canna relativamente lunga può convenire il sistema di utilizzazione diretta dei gas mediante sottrazione di parte di essi per mezzo di un foro praticato nella canna stessa e comunicante con una camera d'espansione, dove mettono in azione un apposito stantuffo, il quale, mediante tiranti e leve fa compiere i necessari movimenti all'otturatore e agli altri congegni. Non mancano tecnici che preferiscono e adottano questo sistema; ma esso rende l'arma più complicata, la fa sottostare ad un maggiore tormento e richiede un apposito congegno per regolare l'afflusso dei gas nella camera dello stantuffo, giacché il foro di immissione, o per la presenza di fecce o per l'azione corrosiva dei gas stessi, può variare di dimensione e quindi far passare una minore o maggior quantità di gas, con effetti d'intensità variabile (mitragliatrici Saint-Ètienne, Hotchkiss, fucile Mannlicher 1901).

Infine, i gas possono essere utilizzati per il funzionamento dell'arma, quando stanno per abbandonare la canna, evitandone l'immediata dispersione nell'aria con l'applicazione di coppe. È però da rilevare che l'uso esclusivo di tali gas non ha dato risultati molto soddisfacenti (fucile Bang, mitragliatrice De Puteaux); tuttavia in parecchi tipi di armi a canna scorrevole indietro essi vengono utilizzati come ausilio della forza di rinculo (mitragliatrice Perino e Maxim, italiana). Nel primo caso (uso esclusivo dei gas sfuggenti dalla bocca) la coppa viene spinta innanzi e con essa, mercé la conveniente disposizione di tiranti e di leve, si ottiene un movimento inverso dell'otturatore; nel secondo caso, i gas urtano contro una coppa fissa avente la concavità rivolta all'indietro, e di rimbalzo vanno ad agire sopra un'altra coppa applicata alla canna con la concavità rivolta in avanti, e così la canna riceve una spinta all'indietro. Nel tiro prolungato, col notevole riscaldamento della canna e dei proiettili, si formano sulle coppe delle incrostazioni metalliche prodotte dal rivestimento delle pallottole, e ciò talvolta causa arresti nel funzionamento dell'arma.

I proiettili, come è noto, nell'interno della canna seguono l'andamento della rigatura, nella quale sono talmente forzati che la loro superficie esterna ne porta l'impronta; orbene, qualche costruttore ha tentato di sfruttare detto forzamento per il funzionamento automatico dei fucili. Essi appartengono alla specie sopra indicata, a canna scorrevole innanzi (fucile Mannlicher); armi alquanto complicate e di funzionamento non molto regolare, di modo che esse non sono riuscite ad affermarsi.

Nelle armi automatiche oltre ai congegni principali, comuni a tutte le armi da fuoco, ve ne sono altri di cui alcuni sono necessarî e alcuni, avendo compiti secondarî, non sono indispensabili.

Nel funzionamento di un'arma automatica possiamo distinguere due fasi: la prima quando per l'azione diretta o indiretta dei gas si compiono i movimenti di apertura della culatta con tutti gli altri relativi all'estrazione ed espulsione del bossolo, armamento del congegno di scatto, ecc.; la seconda quando s'introduce una nuova cartuccia nella camera e con la chiusura di questa si ha poi lo scatto e la partenza di un successivo colpo. Per questa seconda fase occorre il ricuperatore, costituito da una o più molle generalmente a spirale (più propriamente dovrebbero chiamarsi elicoidali), le quali assorbono conveniente energia nella prima fase, comprimendosi o distendendosi, e la restituiscono poi per determinare i movimenti della seconda fase.

Un altro congegno importante per le armi automatiche è il congegno di alimentazione che in talune armi è costituito dal solo caricatore, in molte altre invece, come in parecchie mitragliatrici, da un apposito meccanismo a funzionamento automatico.

Per attutire al termine della corsa l'urto delle parti rinculanti spesso si applica un apposito cuscinetto (ammortizzatore).

Nel tiro prolungato occorre limitare il riscaldamento delle canne, specie delle mitragliatrici, che obbligherebbe a fare raffiche eccessivamente brevi o a sospendere il fuoco quando le circostanze del combattimento richiederebbero invece di dare ad esso la massima intensità; da ciò la convenienza di applicare alle mitragliatrici congegni di raffreddamento. I sistemi in uso sono tre: refrigerante ad acqua, a radiatore metallico, a corrente d'aria.

Col refrigerante ad acqua, la canna attraversa un manicotto chiuso, contenente da tre a cinque litri d'acqua, che può essere circolante se si usa un bidone a pompa (mitragliatrice Fiat, mitragliatrice Perino). Questo mezzo di raffreddamento, per quanto efficace, trova molti oppositori perché complica il servizio delle mitragliatrici in combattimento.

Il sistema a radiatore metallico consiste nell'aumentare la superficie della canna per favorire l'irradiazione del calore, ciò che generalmente si ottiene applicandovi alette longitudinali o trasversali, oppure rondelle di metallo, preferibilmente di alluminio per non eccedere nel peso. È questo il mezzo refrigerante più pratico (mitragliatrice Sia e Breda, fucile mitragliere Chauchat).

Quello a corrente d'aria è costituito da un manicotto vuoto, di lamiera, attraversato, nel senso della lunghezza, dalla canna, aperto alle due estremità con luci di diverso diametro. Durante il tiro, per il divario di temperatura tra l'aria del manicotto e quella esterna, si determina entro il tubo una corrente che rinnova l'aria, asportando il calore interno irradiato dalla canna (mitragliatrice Lewis).

Il lubrificatore automatico è un congegno che ha lo scopo di dosare convenientemente, durante il tiro, la lubrificazione dei meccanismi soggetti a maggiore attrito, in modo da assicurare un più regolare e duraturo funzionamento, giacché la lubrificazione preventiva, piuttosto abbondante, che spesso si fa nelle armi prive dell'anzidetto congegno, talvolta è causa di arresti (ottimo è il lubrificatore della mitragliatrice Schwarzlose).

Lo spegnifiamma è un altro congegno accessorio delle armi automatiche, particolarmente delle mitragliatrici. Esso serve ad occultare la fiamma che può svelare la postazione delle armi, mentre si cerca di tenerle quanto più è possibile celate con lo sfruttare le accidentalità del terreno, col mascheramento e col mimetismo. Lo spegnifiamma è un tubo tronco-conico applicato all'estremità della canna; ma esso presenta l'inconveniente di aumentare le vibrazioni dell'arma. (V. Tavv. LXXXV-CIII).

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