TIERI, Aroldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TIERI, Aroldo

Paolo Puppa

– Nacque a Corigliano Calabro, paesino nella provincia di Cosenza, oggi fuso in termini amministrativi con il Comune di Rossano, il 28 agosto 1917, da Vincenzo, giornalista e commediografo in carriera, e da Matilde Garofalo.

Quando aveva tre anni la famiglia si trasferì a Roma, per agevolare la professione del padre.

Vincenzo, infatti, oltre a importanti collaborazioni in qualità di critico teatrale con fogli come Il Giornale di Roma e Il Popolo di Roma, firmò una quarantina di commedie, portate con successo in scena, alcune anche dal figlio, come Chirurgia estetica (1940) e Ingresso libero (1952), entrambe le volte con la propria regia (e nel 1971 anche Un amore impossibile tratto da Taide su riduzione di Maurizio Costanzo).

Aroldo ebbe due fratelli, Gherardo e Marcello, ultimogenito morto in guerra in Russia. Studiò sotto Tatiana Pavlova presso l’Accademia d’arte drammatica, dove si iscrisse nel 1935, una volta terminati gli studi secondari, assimilandone il metodo inquisitivo con cui si smontano i personaggi, alla ricerca delle varie componenti caratteriali, delle contraddizioni tra temperamento, pulsione, estro – in una parola le ambiguità dell’anima – verso cui la sua natura ritrosa, radicata nella ‘reticenza calabrese’, era esplicitamente orientata. E sulle ambivalenze e le ombre che rimbalzavano dalla parte interpretata alla sua persona giocava con efficace ed esuberante piglio. Il padre gli avrebbe permesso di entrare in compagnia con il celebre Ruggero Ruggeri, opportunità che rifiutò per non restare schiavo del fraseggio lirico e dell’eccesso di ‘posa’ di quest’ultimo; più portato com’era, viceversa, all’asciuttezza aspra e dimessa di Luigi Cimara, con cui recitò in L’adolescente di Jacques Natanson nel 1947. Il percorso all’Accademia si concluse nel 1937, con il saggio su L’imbecille pirandelliano sotto la supervisione della Pavlova medesima.

Con l’autore siciliano si incrociò in varie occasioni, con esiti ogni volta vincenti: dall’isterico dr. Hinkfuss in Questa sera si recita a soggetto nel 1948, diretto da Gherardo Gherardi, al ridicolo e pusillanime professor Paolino in L’uomo, la bestia e la virtù nel 1949, allestito da Corrado Pavolini.

Ancora nel 1937 partecipò all’importante spettacolo Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore, montaggio drammaturgico di Silvio D’Amico, e regia del giovane Orazio Costa, primo allestitore diplomato all’Accademia. L’anno dopo si fece notare nei panni di Malatestino nella Francesca da Rimini dannunziana creata da Renato Simoni, per cui fu reclutato nell’acclamata Compagnia semistabile del teatro Eliseo di Roma, debuttando nella macchietta di Fabiano entro il casting della Dodicesima notte shakespeariana, guidato da Pietro Sharof.

Nel 1952 fece compagnia con Carlo Ninchi e Olga Villi. Eclettico e aperto a tutte le collaborazioni, attratto dai guadagni e dalla notorietà di riflesso, non esitò a infilarsi in produzioni cinematografiche anche scadenti e di routine, tra cui le parodie di western e gli apprezzati, all’epoca, ‘musicarelli’, ossia sceneggiature centrate su nuove star di Sanremo, da Gianni Morandi a Rita Pavone.

Dal primo Mille chilometri al minuto di Mario Mattoli nel 1939 arrivò a ben 126 titoli, film dove era abitualmente la spalla, interpretando il fidanzato geloso con propensioni patologiche, e rotondi vecchi occhi stralunati e sporgenti, fissate nella battuta canonica «Io osservo, scruto e deduco» di Fuga a due voci (1943) diretto da Carlo Ludovico Bragaglia. Le sue caratterizzazioni febbrili spesso incrociavano nella finzione dello schermo mostri sacri come Totò (Totò cerca casa di Steno e Mario Monicelli nel 1949) e Peppino De Filippo, ma riuscendo a sostenere un confronto che avrebbe reso invisibile chiunque (si veda Totò, Peppino e le fanatiche nel 1958 di Mattoli). Se si considera che abbandonò il set nel 1967 dopo La Feldmarescialla di Steno, se ne ricava un ritmo di quattro o cinque film all’anno, di frequente girati contemporaneamente.

Da aggiungere a tanto impegno anche riviste e varietà, intrusioni televisive, a partire dal 1954, e una Canzonissima nel 1960, assieme ad Alberto Lionello e Lauretta Masiero, con cui costituì un trio spumeggiante. Fu partner di grandi attrici, e questo stimolò in lui una forte vocazione alla seduzione compulsiva, sempre tenuta però rigorosamente lontana dai rotocalchi. Fece eccezione, rivelando una liaison solo sfiorata e una reciproca attrazione, Anna Magnani con cui entrò in sodalizio artistico nel 1944 per Così per gioco di Armand Salacrou.

Ma avventure e conquiste si fermarono nel 1966 non appena si legò a Giuliana Lojodice, sposata in precedenza con Mario Chiocco e madre di due bambini, arrivata giovanissima a fama mediatica grazie a rotocalchi popolari e sceneggiati di successo sul piccolo schermo.

Galeotta fu l’Antigone a Siracusa, dove Aroldo era Creonte e Giuliana Ismene, sorella della protagonista. E la scelta di vita comportò all’inizio scandalo e traumatica separazione dai figli per l’attrice. Da allora, in compenso, tra i due si intrecciò una insolita complicità artistica e umana, una chimica che dal privato si trasferiva intatta alla ribalta, in un rapporto via via più stretto con il pubblico, cui seppero offrire anche repertori scomodi e inusuali.

Nella loro relazione, un sodalizio di inusitata durata nel nostro teatro, quasi trentacinque anni di continuità spesso premiata dal biglietto d’oro Agis, era lei a scegliere con dinamico piglio i testi, forzando e smuovendo con il suo grande temperamento l’indubbia insicurezza di lui. Furono altresì coinvolti in due edizioni del fortunato Gran Varietà radiofonico, nel 1969 con gli sketch di Leonida ed Esmeralda, coppia snob e affettata, mentre nel 1976 Aroldo si esibì in Il divino creaturo, popolano romanesco mal celato dietro manierismi dannunziani. Il tutto coronato dal matrimonio, celebrato a Roma il 28 luglio 1989.

Ecco allora, tra le proposte vincenti, i titoli italiani: da L’uomo, la bestia e la virtù pirandelliano (1977), a La maschera e il volto di Luigi Chiarelli (1979), entrambi con la regia di Edmo Fenoglio, da Il giuoco delle parti (1981), diretto da Giancarlo Sbragia, a Marionette, che passione! di Pier Maria Rosso di San Secondo, con la guida di Giancarlo Sepe (1988), orientato su soluzioni cinematografiche, in cui, quasi ottantenne, si calò nel personaggio del Signore in grigio torbido, disperato ma tenuto su un distacco elegantemente mondano. Del resto, la sua miracolosa prestanza fisica, smentendo l’anagrafe, gli fece interpretare sempre a ottant’anni nel Marito ideale di Oscar Wilde il dandy trentenne. Nel 1983 in Un marito di Italo Svevo riscosse un successo trionfale, suggellato l’anno dopo dal premio Curcio, interpretando il protagonista, l’avvocato Federico Arcetri, piagato da sensi di colpa per l’uxoricidio della prima moglie adultera (forse) e inibito ad amare la seconda; alle sue spalle, la regia di Gianfranco De Bosio piazzava con sapienza un divano in scena, allusivo all’indagine psicoanalitica dell’inconscio, ricorrendo alla musica di Arnold Schönberg. Luigi Squarzina (che già nel 1955 aveva sfruttato tutte le sue enormi potenzialità in Il potere e la gloria da Graham Greene, offrendogli la parte del prete messicano alcolizzato e lussurioso, miserabile ma umanissimo in preda al panico davanti alla morte) lo esaltò ulteriormente nel Misantropo molieriano del 1984, liberandone umori atrabiliari e insofferenze neurotiche, sottolineandone estraneità e isolamento anche grazie a un sobrio costume ottocentesco, predisposto da Luciano Damiani, in contrasto con gli abiti secenteschi degli altri. L’attore ne volle fare, per sua dichiarazione, nell’estremismo dei sentimenti e nell’intransigenza dei valori una sorta di ‘brigatista’, tanta la durezza e la rabbia manifestate nella resa scenica. Altri titoli eccentrici, in quanto coraggiosi, Esuli di James Joyce, nella messinscena di Marco Sciaccaluga nel 1986, e Le bugie con le gambe lunghe di Eduardo De Filippo nel 1990.

L’ultima volta sul palco, al compimento di sessantadue anni sotto le luci della ribalta, fu nel 1999, per L’amante inglese di Marguerite Duras, un noir dove la vicenda dell’irreprensibile coppia borghese nella Roma dei salotti pariolini si trasformava in una logorante storia di perversioni e crudeltà omicida. In generale, il ritmo compulsivo del lavoro cinematografico e televisivo, per lo più confinato nel comico-brillante si risolse in un autentico laboratorio per la sua magrezza flessibile: il clown fisiognomico e corporale seppe infatti sfrangiarsi nella moltiplicata capacità di sbozzare superbi ritratti di crisi esistenziali e di controverse dinamiche interiori. Di qui l’esplosione, dopo il 1965, di una prolungata maturità rappresentata da ruoli per lo più drammatici o al massimo grotteschi che favorivano al meglio l’emergere degli abissi più intimi, rendendo visibile per qualche istante la buia malinconia di Tieri stesso. Il critico Roberto De Monticelli parlò acutamente di viluppi oscuri, di segreti, di grumi, di blocchi nell’attore. Ma intanto l’interazione con registi intellettuali e colti, da Squarzina a De Bosio a Sepe, agevolò una valorizzazione del genere.

Tonalità accorate e pathos fremente sempre controllato con piglio asciutto e saltuari scatti improvvisi, gesti inopinati di rottura, si alternavano in compenso con il ricorrente scatenamento nel vaudeville frizzante e pochadistico di un Georges Feydeau, come in L’albergo del libero scambio (1973) o in Le pillole d’Ercole di Charles Maurice Hennequin e Paul Bilhaud (1978). Ipocondria e istrionismo parevano pertanto alternarsi in una singolare altalena di tonalità psichiche e di movenze fisiche.

In generale, e sempre più, fu un interprete misurato, schivo in scena e fuori, portato all’arte della sottrazione e allergico agli eccessi, al sovraccarico. Per lui, fondamentale, in un’ottica ancora ottocentesca e conservativa, e quasi ossessiva, l’enfasi posta sul ruolo, e il relativo carisma, del prim’attore assicurato ogni volta dalla semplice sua epifania sul palco.

Certo, i modelli erano soprattutto d’Oltralpe e inglesi, in particolare Laurence Olivier o Alec Guinness, perché, allo stesso modo di questi modelli illustri, in lui il consolidato mestiere si trasformava in un contrassegno artistico personalissimo.

Se lo caratterizzava un fisico scattante, in apparenza fragile, lo valorizzava in particolar modo la magnifica voce, una cupezza di testa ben scandita, dove nonostante le radici calabresi si spegneva qualsiasi tentazione di accento dialettale, senza però la consueta deriva in una dizione ingessata e canonica, rischio prevalente del tirocinio presso la scuola D’Amico. Si considerava, come spesso puntualizzava, non un attore, ma un signore che recita. Da qui l’aplomb altoborghese, mescolato alle stimmate meridionali, che gli dettava uno stile anche fuori dal palcoscenico in cui si mostrava sempre pudìco e riservato, alla maniera calabrese per sua ammissione, e insieme abbigliato con cura.

Morì a Roma, nella notte del 28 dicembre 2006.

Ottantanovenne, si era ritirato dalle scene, ormai, da sette anni, con disincanto e amarezza per le tendenze dell’impresariato privato, suo regolare committente, e indispettito per le condizioni in cui versavano tanto il teatro quanto l’intera società italiana, preda di valori rovesciati e imposti dal nuovo sistema televisivo. A completare un quadro tanto depressivo si aggiunse la perdita della vista. Negli ultimi tempi, Sepe avrebbe voluto coinvolgerlo per un Finale di partita beckettiano, in cui il suo handicap reale poteva divenire simulazione artistica, ma l’attore non ne volle sapere.

Fonti e Bibl.: A. T., 50 anni di teatro, a cura di A. Panzarella, Corigliano 1989; A. Panzarella, A. T., una vita per lo spettacolo, Milano-Roma 2005; A. Testa, «Buonasera Aroldo, buonasera Giuliana». A. T. e Giuliana Lojodice: vita, carriera e scene da un matrimonio, Milano 2010 (con dvd).

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Questa sera si recita a soggetto

Pier maria rosso di san secondo

Accademia d’arte drammatica

Carlo ludovico bragaglia

Indagine psicoanalitica