SCHMITZ, Aron Hector

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 91 (2018)

SCHMITZ, Aron Hector (Italo Svevo). – Nacque a Trieste, in via dell’Acquedotto (ora viale XX Settembre 16)

Simona Costa

, il 19 dicembre 1861 da un’agiata famiglia ebraica, quinto degli otto figli, sopravvissuti su sedici, di Francesco, commerciante di vetrami che si era costruito da solo la sua fortuna, e di Allegra Moravia, figlia di Abramo, macellaio di origine friulana.

Con il fratello Adolfo (1860-1918), e poi anche con Elio (1863-1886), Ettore frequentò la scuola elementare israelitica tenuta dal rabbino maggiore di Trieste, poi la scuola privata commerciale di Emanuele Edeles, e infine nel 1874, il padre-patriarca – perché si perfezionassero nel commercio e nel tedesco – inviò lui e Adolfo, raggiunti nel 1876 da Elio, in un collegio presso Würzburg, il Brüssel’sche Institut di Segnitz am Main, diretto da Samuel Spier, con un passato impegno politico socialdemocratico. Ispirato a questo evento è l’incompiuto e anepigrafo racconto L’avvenire dei ricordi del 1925, dove due fratelli, condotti in collegio dai genitori, soffrono il trauma della separazione.

Come si legge nel Diario di Elio, per questi anni importante fonte di notizie biografiche, Ettore, cresciuto sui romanzi francesi, una volta partito per la Baviera, lasciando gli amati Trois mousquetaires tra le mani di Elio, si appassionò alla lettura di Goethe e Schiller, per lui «il più gran genio del mondo», ai quali aggiunse l’acquisto di Wilhelm Hauff, Karl Theodor Körner, Heinrich Heine e altri. Poi, in una lotteria fra compagni di scuola, Goethe fu sostituito da un’edizione tedesca di Shakespeare: e l’Amleto, letto nell’ottica goethiana di un personaggio oppresso da un peso per lui insostenibile (Ghidetti, 1980, p. 53), turbò tanto Ettore da indurre il direttore del collegio a sequestrargli il libro. Nel Profilo autobiografico, edito postumo nel 1929 e redatto dall’amico Giulio Cesari su notizie d’autore, probabile collaboratore alla stesura, affiorano inoltre il nome di Jean Paul e gli autori russi, in particolare Ivan Turgenev.

Dalla distruzione della biblioteca di Svevo, nel bombardamento alleato su Trieste del febbraio 1945, si è salvata un’edizione inglese di Shakespeare con la dedica e gli auguri della nipote di Samuel Spier, Anna Herz, che gli donava il poeta da lui prediletto. Ai 39 volumi della biblioteca sveviana messi in salvo dalla moglie e dalla figlia rifugiatesi nel 1943 ad Arcade, presso Treviso, si è aggiunto il ritrovamento di altri 71 volumi presenti nella biblioteca del genero, Antonio Fonda Savio, ma con firma di possesso Ettore o Ettore Schmitz (Volpato-Cepach, 2013).

Di ritorno a Trieste nel 1878, Ettore, desideroso, dato l’uso familiare del dialetto triestino, di perfezionare l’italiano a Firenze, fu invece a contraggenio iscritto dal padre all’istituto superiore commerciale Pasquale Revoltella che frequentò per due anni e in cui dal 1893 insegnò fino all’avvio del nuovo secolo. I suoi primi tentativi artistici, specie drammaturgici, furono seguiti, nelle pagine di quel Diario religiosamente conservato da Ettore ed edito nel 1973 a cura di Bruno Maier, dall’amato Elio, che con lui condivise la vivace vita teatrale triestina e che morì nel settembre del 1886 di nefrite. Oltre al susseguirsi di poesie, prose, farse, commedie, tutte destinate al fuoco, Elio qui annotò il passaggio del fratello al verismo, sotto l’influenza dello Zola di Le naturalisme au théâtre (1881), nonché il frammento di un’incompiuta commedia in incerti versi martelliani sull’Ariosto governatore, ricordata, insieme ad altre due (Stuonature d’un cuore e La rigenerazione), dallo stesso Ettore in un’autocritica Storia dei miei lavori inserita tra le righe di questo Diario. Gli interessi drammaturgici, testimoniati nel tempo anche dall’assidua frequentazione dei teatri di prosa non solo triestini, ma poi anche europei (e in una lettera alla moglie del 22 maggio 1898 definì August Strindberg «mio amico»: Epistolario, Opera omnia, I, a cura di B. Maier, 1966, p. 27), proseguirono, negli anni Ottanta-Novanta, con due Scherzi drammatici: Una commedia inedita, in un atto, dove una donna, attratta da un giovane drammaturgo verista, ne legge una commedia respingendola sdegnata, e Le teorie del conte Alberto, in due atti, discussione, tra Charles Darwin ed Émile Zola, sulla teoria dell’ereditarietà; Il ladro in casa, in quattro atti, sul potere del denaro all’interno di una famiglia borghese al pari di Le ire di Giuliano, in un atto. Allegato all’irredentista quotidiano triestino L’Indipendente, uscì nel 1891, sulla strenna annuale La Befana, un monologo teatrale, Prima del ballo, firmato E. Samigli. Sotto lo pseudonimo di Ettore Samigli, Ettore firmò infatti non solo questi primi testi teatrali, ma tutte le sue collaborazioni giornalistiche a L’Indipendente, avviate il 2 dicembre 1880, con Shylock, un articolo sulla rappresentazione dell’ebreo in The merchant of Venice, e protratte fino al novembre 1890 con interventi di critica letteraria e teatrale.

Recensì tra gli altri Max Nordau, Turgenev, Zola, l’autobiografia di Wagner, Georges Ohnet, Joséphin Péladan, Alphonse Daudet. Su L’Indipendente pubblicò anche due racconti: Una lotta (1888), che anticipa i temi dell’inettitudine e della precoce senilità poi dei romanzi, e L’assassinio di via Belpoggio (1890), ispirato tra l’altro alle pagine di Delitto e castigo.

La vita familiare aveva nel frattempo registrato bruschi cambiamenti: dalla morte, nel 1879, della sorella Noemi per un’infezione puerperale, al dissesto economico paterno, culminato nel 1883 nella chiusura della fabbrica. Il 27 settembre 1880 Ettore si impiegò presso la filiale triestina dell’Unionbank di Vienna, dove rimase diciotto anni: nelle ore libere frequentava la Biblioteca civica, leggendo i classici italiani, da Dante a Carducci e De Sanctis, ma anche inglesi e specie francesi. In una lettera del 23 aprile 1928 a Bice Rusconi Besso (Epistolario, cit., pp. 872 s.), Svevo ricordò, tra i suoi contatti culturali giovanili, l’erudito Attilio Hortis, direttore della Società di Minerva, Giuseppe Caprin, Riccardo Pitteri, Cesare Rossi, e poi Silvio Benco e Ferdinando Pasini. Nel dicembre del 1887, dopo aver composto un lungo saggio edito postumo, di influsso desanctisiano, Del sentimento in arte, in cui l’originalità del temperamento artistico era individuata nella sincerità e tra le cui righe Darwin era definito «l’eroe del pensiero moderno» (Teatro e saggi, a cura di F. Bertoni, 2004, p. 841), iniziò a scrivere il romanzo Un inetto. Il titolo fu poi cambiato in Una vita e pubblicato a proprie spese e con lo pseudonimo di Italo Svevo, qui apparso per la prima volta, in mille copie, presso la triestina Libreria editrice Ettore Vram, nell’autunno del 1892 ma con data 1893 (il 1º aprile era intanto morto il padre). Il romanzo passò pressoché inosservato, a parte una recensione di Domenico Oliva nel Corriere della sera dell’11 dicembre, in cui tuttavia, pur riconoscendo la cultura letteraria dell’autore, si evidenziavano vari difetti, dal titolo già di Guy de Maupassant (ma da Svevo, a suo dire, non conosciuto) fino all’immotivato suicidio finale.

Il romanzo narra, su un impianto naturalistico di analitica descrizione d’ambiente, un fallito caso di inurbamento e di ascesa sociale, nel contesto della ricca borghesia triestina, di un aspirante scrittore, Alfonso Nitti, la cui grigia esistenza impiegatizia alla banca Maller pare potersi riscattare grazie alla seduzione e a un matrimonio riparatore con Annetta, la figlia del principale. Una seduzione per via letteraria, se Alfonso ha intrapreso con Annetta la stesura di un romanzo a quattro mani, da lei tuttavia orientato verso un successo solo commerciale. Ma «chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più» (Romanzi e «Continuazioni», a cura di N. Palmieri - F. Vittorini, 2004, p. 104), come dice Macario, alter ego persuaso della bontà dell’azione e alla cui invidiata e «solida salute» Alfonso cerca vanamente di uniformarsi, complice anche quel tema del doppio suggeritogli da un autore come Jean Paul. Alfonso, «personificazione dell’affermazione schopenhaueriana della vita tanto vicina alla sua negazione» (Profilo autobiografico, in Racconti e scritti autobiografici, a cura di F. Bertoni, 2004, p. 801) e incarnazione, sempre schopenhaueriana, della figura del ‘sognatore’, ben lungi da ogni darwiniana struggle for life, si sottrae con la fuga e la regressione uterina (il paese di campagna legato alla figura materna) alle nozze borghesi, cui, al suo posto, si presterà Macario, cugino di Annetta. Di qui la finale risoluzione di «distruggere quell’organismo che [...] vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo» (Romanzi e «Continuazioni», cit., pp. 395 s.).

Al dicembre 1895, dopo la sofferta morte della madre il 4 ottobre, risale il fidanzamento con Livia Veneziani (1874-1957), di religione cattolica, figlia di Gioachino, proprietario di una rinomata fabbrica di vernici sottomarine, e di Olga Moravia, cugina della madre di Ettore e ostile all’unione della figlia con un impiegato, di tredici anni più vecchio e con velleità intellettuali. Ettore, scisso tra ironie antiborghesi e desiderio di approdo familiare, scrisse per Livia nel corso del 1896 un Diario per la fidanzata, edito nel 1962, pervaso da una gelosia ossessiva e ritmato dai propositi di smettere di fumare. Il matrimonio fu celebrato con rito civile il 30 luglio 1896 e con rito religioso nell’agosto del 1897, dopo l’abiura di Ettore all’ebraismo e il suo battesimo: gli sposi andarono ad abitare nella grande casa della famiglia di lei, villa Veneziani. Dal 12 agosto 1897 si avviò un primo bilancio familiare in una Cronaca della famiglia, dove la (fallita) educazione della moglie era perseguita tramite i libri di Arthur Schopenhauer, Karl Marx e Die Frau und der Sozialismus (La donna e il socialismo) di August Bebel. Il 20 settembre 1897 nacque l’unica loro figlia, Letizia, che sposò nel 1919 l’irredentista istriano Antonio Fonda Savio, da cui ebbe tre figli, tutti caduti in guerra.

Il 1° novembre 1897 uscì sulla Critica sociale di Filippo Turati un racconto, La tribù, testimonianza dell’orientamento socialista dell’autore. Fra il 15 giugno e il 16 settembre 1898 uscì a puntate su L’Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità, originariamente titolato Il carnevale di Emilio, edito subito dopo in volume, presso Ettore Vram, in mille copie, a spese dell’autore.

Di una senilità più psicologica che anagrafica è il trentacinquenne Emilio Brentani che, impiegato in una società di assicurazioni triestina e autore di un romanzo giovanile, non si sente «forte abbastanza per studiare la propria inettitudine e vincerla» (Romanzi e «Continuazioni», cit., p. 529). La struttura narrativa, più che su analisi ambientali, poggia su un oppositivo quanto complementare quadrilatero di caratteri: a Emilio e al suo doppio femminile, la sorella Amalia, a lui affine persino nel nome, si contrappongono l’amico scultore Stefano Balli, di cui si invaghisce l’intristita e negletta Amalia, e la bionda Angiolina Zarri, prototipo di «bella salute», entrambi alti, forti e dagli occhi azzurri. Se in Stefano precipitano alcuni tratti del pittore Umberto Veruda (1868-1904), grande amico di Svevo ed esponente della bohème triestina, dietro Angiolina è ravvisabile il profilo di Giuseppina Zergol, una ragazza del popolo, con cui lo scrittore ebbe una relazione nei primi anni Novanta e che, come raccontò la moglie Livia, finì cavallerizza in un circo. Accreditato, nel Profilo autobiografico, come romanzo a chiave, inizialmente ispirato dal pigmalionico intento di preparare l’educazione della ragazza, Senilità non registra tuttavia vincitori: se il vitalistico Balli si risarcisce del mancato successo con le numerose conquiste femminili, la bella Angiolina sparirà definitivamente di scena fuggendo con un cassiere macchiatosi di furto, ma tramutandosi negli anni, per l’ozioso letterato Emilio – in un finale che molto colpì Joyce – in un’immagine simbolo, la cui inalterata bellezza si arricchisce di tutte le qualità di Amalia, che, morta dopo aver cercato conforto nell’etere, in lei muore una seconda volta.

Anche in questo caso l’eco fu molto circoscritta, con scarse recensioni, tra cui quella di Silvio Benco su L’Indipendente (12 ottobre 1898). Il 1899, come scrisse Livia nella Vita di mio marito, fu anno decisivo, con il passaggio, nel maggio, dalla banca alla ditta del suocero, con un consistente aumento di stipendio. Cominciarono così anche i suoi viaggi di affari, in Francia, Germania e Inghilterra, dove la ditta Veneziani aprì nel 1903 una filiale a Charlton, vicino a Londra. Fu l’addio, come sancì in pagine di diario del dicembre 1902, a «quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura» (Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 733). Rimase il violino, una passione già del fratello Elio, che lo accompagnò nei suoi viaggi e che continuò a coltivare a Trieste, in un quartetto di amici. Ma rimasero anche le letture notturne e la scrittura di pagine lasciate nel cassetto.

Tra l’avvio del nuovo secolo e la guerra compose opere teatrali come L’avventura di Maria, in tre atti al pari di un altro testo, Un marito, influenzato da Henrik Ibsen e August Strindberg, e atti unici come La parola, poi rielaborata in La verità, Terzetto spezzato e Atto unico, in dialetto triestino; racconti (tra cui una trilogia sulla vita operaia a Murano, Marianno, Cimutti, In Serenella); saggi, come un frammento su L’uomo e la teoria darwiniana, databile circa al 1907; favole, appunti e pagine diaristiche. Tra i racconti completa è solo la stesura di Lo specifico del dottor Menghi, probabilmente del 1904, in cui, tra fantascienza e polemica antipositivistica, si narra del fallimento di un siero destinato a ringiovanire: tematica dell’esecrata vecchiaia poi cara all’ultimo Svevo. Lavori occultati, per cui Mario Lavagetto ha parlato di «scrittore in fuga» (v. Cronologia, in Romanzi e «Continuazioni», cit., p. CXIII) e di «falsificazione apotropaica » (p. CXII), in analogia con la famosa «ultima sigaretta» già del Diario per la fidanzata e poi emblema dello Zeno della Coscienza.

Per la sua attività commerciale, Svevo iniziò, nel 1907, a prendere lezioni private di inglese da un irlandese venticinquenne giunto a Trieste nell’ottobre 1904 per insegnare alla Berlitz School e che gli fu sicuramente guida anche a una migliore conoscenza della letteratura inglese, a cominciare da Laurence Sterne (Mazzacurati, 1998): James Joyce, con cui nacque un’amicizia e una stima basata anche sullo scambio dei reciproci lavori e di cui resta testimonianza un residuo carteggio.

Altro fondamentale evento fu la conoscenza delle opere di Sigmund Freud, che l’autore fece risalire al 1908-10 in un abbozzo di conferenza probabilmente del 1926, per il milanese circolo Il Convegno di Enzo Ferrieri: Soggiorno londinese, in cui tra l’altro troviamo uno dei pochi rimandi sveviani a Friedrich Nietzsche, pur filosofo a lui ben presente e di cui lamentò il fraintendimento superomistico italiano. In cura da Freud fu, a partire dal 1911, anche il cognato di Svevo, Bruno Veneziani, che tuttavia invano proseguì la terapia anche con altri psicanalisti, come il triestino Edoardo Weiss, laureatosi a Vienna con Freud. Se Svevo dunque maturò un ripudio terapeutico della psicanalisi, nella convinzione che fosse pericoloso spiegare all’uomo come era fatto, tuttavia non la abbandonò in funzione narrativa: nello stesso 1911, in estate a Bad Ischl conobbe anche Wilhelm Stekel, inquieto allievo di Freud e autore di due recenti libri sulla psicologia dell’artista e dell’opera d’arte e sulla lingua dei sogni.

In un viaggio dell’agosto-settembre 1914 per una Germania persuasa di avere la vittoria in tasca, Hector (come si firmava nelle missive in tedesco alla moglie), accreditò senz’altro la vittoria a una Germania dalla grande potenza, regolata da ordine, calma e volontà di lavoro e sacrificio (Epistolario, cit., pp. 694 s., 709 s.). Con l’entrata in guerra dell’Italia, la famiglia Veneziani si disperse, tra l’Inghilterra, Firenze e Zurigo; rimasero Ettore, cittadino austriaco, e Livia a guardia di una fabbrica a passo ridotto, sottoposta a controlli e spoliazioni austriache. La pausa della guerra riportò pienamente Svevo alla letteratura e alla scrittura.

Lesse in quegli anni testi di Freud e nel 1918 con il nipote Aurelio Finzi lavorò alla traduzione del freudiano Über den Traum (Sul sogno). Ma tra i suoi libri vi è anche l’edizione 1921 del testo di Charles Baudouin, Suggestion et autosuggestion (Palmieri, 1994), di quella scuola di Nancy che Svevo suggerì a Valerio Jahier nella seconda delle due celebri lettere sulla psicanalisi (del 10 e 27 dicembre 1927: cfr. Epistolario, cit., pp. 857-860) a lui indirizzate e in cui Freud è giudicato più utile ai romanzieri che agli ammalati. Nel 1919 concluse un progetto di pace mondiale, ispirato al pacifismo dell’austriaco Alfred Hermann Fried (insignito del premio Nobel per la pace nel 1911) e del tedesco Walter Schücking, ma dai molteplici modelli, tra cui anche Dante e il Kant di Zum ewigen Frieden (Per la pace perpetua). I materiali del saggio, pubblicati negli anni Cinquanta con il titolo Sulla teoria della pace, sono stati riediti nel 2015 con l’originario titolo La Lega delle Nazioni, sulla scia delle teorie di Woodrow Wilson che avevano anche ispirato il socialista triestino Edmondo Puecher e la sua rivista La Lega delle Nazioni.

Nel 1919 avviò la collaborazione al quotidiano triestino La Nazione, diretto da Silvio Benco e Giulio Cesari, in cui pubblicò articoli letterari, politici e di costume e nel 1921-22 scrisse un atto unico, Inferiorità, basato sull’ambiguo rapporto di potere servo-padrone. Nel 1919 iniziò anche la stesura di un nuovo romanzo, La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923 sempre a proprie spese in millecinquecento copie dall’editore Cappelli di Bologna che ne affidò la revisione linguistica ad Attilio Frescura.

Romanzo, a differenza dei precedenti, in prima persona, La coscienza di Zeno è basato sulla cura psicanalitica che il protagonista, il cinquantasettenne commerciante triestino Zeno Cosini, ha intrapreso con il dottor S. che lo ha indotto a scrivere i suoi ricordi. Nella Prefazione da lui firmata, il Dottor S. spiega di aver deciso di pubblicare «per vendetta» il memoriale, avendo il paziente interrotto la cura. Dopo un Preambolo in cui liquida un impossibile recupero della propria infanzia, Zeno organizza i suoi ricordi non cronologicamente ma per temi: in una lettera da Parigi del 30 gennaio 1924, Joyce si dichiarò infatti subito interessato al «trattamento del tempo» (Carteggio con James Joyce..., a cura di B. Maier, 1978, p. 29). In una serie di capitoli sono dunque liberamente rielaborati alcuni nodi esistenziali: Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale e Psico-analisi: quest’ultimo, diaristicamente impostato, dal 3 maggio 1915 al 24 marzo 1916, segna l’interruzione della cura e il sopraggiungere della guerra. Autobiografo ironico e ammiccante alla propria inaffidabilità, Zeno ripercorre i vani reiterati tentativi di liberarsi dal vizio del fumo, i sensi di colpa maturati alla morte del padre, il suo matrimonio di ripiego con la sbiadita e strabica Augusta, dopo esser stato respinto dalle altre due sorelle, Ada e Alberta, la relazione con Carla e i rapporti d’affari con il cognato-rivale Guido Speier, marito di Ada, bello, elegante, disinvolto e violinista ben più provetto di Zeno. Ma, strada facendo, le carte cambiano di mano: era Augusta, rassicurante moglie-madre, e non la bella Ada, poi colpita dal morbo di Basedow, la vera detentrice di una perfetta salute. Il successo finanziario spetterà all’anomalo inetto Zeno e non al brillante Guido, i cui errati investimenti lo condurranno a un accidentale suicidio, originariamente inscenato per finta. L’ultima carta è data dall’evento bellico, in cui Zeno saprà costruire la sua fortuna di profittatore di guerra. Malato omologato a una società di malati, ambivalente personaggio di tragico buffone e di sciocco-saggio, Zeno approderà all’apocalittica visione, in parte mutuata dal racconto di uno dei suoi autori prediletti, Jean Paul (Des Feldpredigers Schmelzle Reise nach Flätz, Viaggio a Flätz del cappellano militare Schmelzle), di una folle deflagrazione che renderà la terra finalmente libera da parassiti e malattie.

Di nuovo nell’indifferenza della critica italiana, eccetto una recensione di Silvio Benco sul Piccolo della sera del 5 giugno 1923, fu grazie a Joyce, che aveva pubblicato nel 1922 Ulysses, e alle sue amicizie parigine, che si avviò il successo francese di Svevo. Su Le Navire d’argent del 1º febbraio 1926 Benjamin Crémieux pubblicò il suo saggio su Italo Svevo e brani da lui tradotti della Coscienza, cui si aggiunse un passo di Senilità tradotto da Valery Larbaud. Il 14 marzo 1928 Svevo fu festeggiato a Parigi al Pen Club insieme a Isaak Babel´ e Ion Pillat. Ma a precorrere il successo critico fu Eugenio Montale che, nel periodico milanese L’Esame (novembre-dicembre 1925), pubblicò un Omaggio a Italo Svevo, scoperta e consacrazione di un autore su cui il poeta-critico tornò sia nel 1926 sia a più riprese lungo gli anni. Sul milanese L’Ambrosiano apparve l’8 febbraio 1926 un intervento di Giuseppe Prezzolini dal titolo Rivelazioni: Italo Svevo e nell’aprile del 1927 Anton Giulio Bragaglia rappresentò a Roma, al teatro degli Indipendenti, l’atto unico Terzetto spezzato, tuttavia con mediocre successo. Riconoscimenti che non fecero comunque tacere le voci dissidenti, come dimostrò, per tutti, la stroncatura di Guido Piovene (Narratori, in La Parola e il libro, 1927, n. 9-10, p. 253). Del resto, il successo, che pur molto gratificò l’ultrasessantenne Svevo, rimase elitario: la nuova edizione di Senilità, il cui italiano era stato rivisto con l’ausilio del professor Marino de Szombathely e probabilmente del genero Antonio Fonda Savio, fu rifiutata da più editori, come Treves e Mondadori e uscì in tremila copie nel 1927 presso il milanese Morreale grazie, ancora una volta, al sostegno economico dell’autore. Così il traduttore francese della Coscienza, Paul-Henri Michel, fu compensato direttamente dallo scrittore che accettò anche alcuni tagli al romanzo. «Il vento è mutato», disse Montale nel 1949 (Corriere della sera, 30 dicembre), così accreditando un nuovo corso critico su Svevo, scevro anche da pregiudizi linguistici: ma fu subito polemica (con Enrico Falqui).

La vena creativa di Svevo si riaprì comunque con una nuova, ricca stagione novellistica e la stesura di saggi e ulteriori commedie: Con la penna d’oro, in quattro atti (1926) e i tre atti di La rigenerazione (1927-28), in cui un ultrasettantenne protagonista persegue un possibile ringiovanimento tramite un’operazione. Dopo aver recensito il 1° maggio 1926 su Il Popolo di Trieste la traduzione francese dei Dubliners, Svevo tenne l’8 marzo 1927 al circolo Il Convegno una conferenza su Joyce, la ricostruzione del cui testo ha causato una contrastata questione filologica. Nell’occasione della conferenza la germanista Lavinia Mazzucchetti gli fece il nome di Franz Kafka, che fu, a detta della moglie, «l’ultimo suo amore letterario» (Veneziani Svevo, 1950, 1976, p. 145). Rifiutata nel giugno 1927 l’offerta da parte di Solaria di pubblicare una raccolta di racconti, mediatori Leo Ferrero e soprattutto Montale, e dopo un’ulteriore proposta editoriale dei torinesi fratelli Ribet, tramite Mario Gromo, lo scrittore, pochi giorni prima della morte, in un incontro a Bormio il 6 settembre 1928, concluse con l’editore Giuseppe Morreale un accordo per la pubblicazione di una raccolta di novelle e di un quarto romanzo (Tortora, 2003).

Tra i vari racconti, non tutti compiuti e di non sempre sicura datazione, sono almeno da ricordare Una burla riuscita, pubblicato in Solaria (febbraio 1928), Corto viaggio sentimentale (che aggiunse corto a un titolo già di Sterne), Vino generoso, apparso nella Fiera letteraria (28 agosto 1927), e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla. Sono racconti legati al tema della vecchiaia, della scrittura, dell’eros e della morte, con protagonisti dai tratti autobiografici: dal pacifista e quasi sessantenne Mario Samigli (eco dello pseudonimo già sveviano) di Una burla riuscita, dalle giovanili e conculcate ambizioni letterarie, fino al «buon vecchio» sessantenne, un arricchito di guerra, sedotto e seduttore di una ventenne figlia di quel popolo in guerra sacrificato.

Del progettato quarto romanzo, Il vegliardo, avviato secondo anche le testimonianze epistolari tra aprile e maggio 1928, rimangono cinque spezzoni narrativi (in Romanzi e «Continuazioni»: Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio e Prefazione), cui si legano altri frammenti, in un insieme di materiali suscettibile di divergenti interpretazioni: se Mario Lavagetto l’ha considerato una congerie irriducibile a unità, da etichettare come continuazioni della Coscienza, d’altra parte Giuseppe Langella, sulla scia di Bruno Maier e Gianfranco Contini, vi ha visto, con un occhio al ciceroniano De senectute, una nuova stagione, incompiuta ma attuata, della poetica sveviana (linea, questa, in cui si inserisce anche la valutazione dell’ultima fase novellistica operata da Massimiliano Tortora). Il vegliardo ripropone quale voce narrante il personaggio di Zeno, ora settantenne, soppiantato nella gestione dell’azienda dal figlio del suo antico amministratore e di cui si seguono i rapporti con i figli, con il nipote Umbertino e con un’ultima amante, dal significativo nome di Felicita, ricercata in funzione terapeutica.

Il 12 settembre 1928 un incidente di macchina, al ritorno a Trieste dalle terme di Bormio, gli causò la rottura di un femore: trasportato all’ospedale di Motta di Livenza, morì il 13 settembre a causa di un enfisema polmonare e fu sepolto nel cimitero triestino di Sant’Anna.

Nel 1929 uscirono gli omaggi a Svevo della rivista Il Convegno con, tra l’altro, il saggio di Giacomo Debenedetti Svevo e Schmitz e di Solaria, con numerosi interventi, tra cui quelli di Crémieux, Joyce, Larbaud, Montale, Palazzeschi, Saba, Sergio Solmi e Giani Stuparich. Sempre nel 1929 l’editore Morreale pubblicò, oltre al Profilo autobiografico, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla e altri scritti, con una nota introduttiva di Montale.

Opere. Per un’edizione complessiva delle opere di Italo Svevo, dopo quella curata da Bruno Maier per il milanese dall’Oglio (I, Epistolario, 1966; II, Romanzi, 1969; III, Racconti, saggi, pagine sparse, 1968; IV, Commedie, con introduzione e note di U. Apollonio, 1969), e dopo l’edizione critica curata sempre da Maier per Studio Tesi di Pordenone, ma fermatasi ai romanzi (Una vita, 1985; La coscienza di Zeno, 1985; Senilità, 1986; Il vegliardo, 1987), abbiamo, diretta da Mario Lavagetto e datata 2004, l’edizione critica nei Meridiani Mondadori, in tre volumi, tutti con saggio introduttivo e cronologia di Lavagetto: Romanzi e «Continuazioni», a cura di N. Palmieri - F. Vittorini; Racconti e scritti autobiografici e Teatro e saggi, entrambi a cura di F. Bertoni. Del Vegliardo è stata approntata anche un’edizione critica, a cura di G. Langella (Milano 1995), che distingue tra i materiali due diversi progetti narrativi. È in corso l’Edizione nazionale per le Edizioni di storia e letteratura di Roma, in nove volumi, di cui sono finora usciti: La coscienza di Zeno, a cura di B. Stasi (2008); Commedie, a cura di G. Lucchini (I-II, 2011); Una vita, a cura di S. Ticciati (2012); Senilità, a cura di R. Rabboni (I-II, 2016; che pubblica le due edizioni Vram 1898 e Morreale 1927). Per la Letteratura italiana Ricciardi è infine apparso il volume delle Opere, a cura di S. Calabrese (Milano-Napoli 2015). Per la riedizione del saggio titolato da Umbro Apollonio Sulla teoria della pace, si veda I. Svevo, La Lega delle Nazioni [Sulla teoria della pace], a cura di S. Buttò - R. Cepach (Trieste 2015).

Fonti e Bibl.: Grazie alla donazione di carte e oggetti (tra cui il violino) dello scrittore da parte della figlia Letizia alla Biblioteca civica Attilio Hortis del Comune di Trieste, è stato inaugurato, il 19 dicembre 1997, il Museo sveviano che conserva, oltre alle lettere e alle foto di famiglia, gli autografi della maggior parte delle opere di Svevo, con l’esclusione di quelli dei tre romanzi, andati perduti.

Del frammentato epistolario sveviano, in attesa di una necessaria, complessiva edizione critica, si vedano almeno, oltre al citato volume dell’Epistolario dell’Opera omnia: Lettere a Italo Svevo. Diario di Elio Schmitz, a cura di B. Maier, Milano 1973; I. Svevo - E. Montale, Carteggio, con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di G. Zampa, Milano 1976; Carteggio con James Joyce, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Marie Anne Comnène, Eugenio Montale, Valerio Jahier, a cura di B. Maier, Milano 1978; «Faccio meglio di restare nell’ombra». Il carteggio inedito con Ferrieri seguito dall’edizione critica della conferenza su Joyce, a cura di G. Palmieri, Milano-Lecce 1995; M. Tortora, Appendice, in Id., Svevo novelliere, Pisa 2003, pp. 121-172.

Tra le biografie: L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, stesura di L. Galli, Trieste 1950 (poi, con prefazione di E. Montale, Milano 1976); E. Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, Roma 1980 e 2006; G.A. Camerino, Italo Svevo, Torino 1981; J. Gatt-Rutter, Italo Svevo. A double life, Oxford 1988 (trad. it., Alias Italo Svevo. Vita di Ettore Schmitz, scrittore triestino, Siena 1991); F. Anzellotti, La villa di Zeno, Pordenone 1991; M. Marchi, Vita scritta di Italo Svevo, Firenze 1998.

Per la bibliografia della critica, si vedano: Il caso Svevo. Guida storica e critica, a cura di E. Ghidetti, Roma-Bari 1984 e 1993; M. Tortora, Il punto su Svevo (1994-2004), in Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura, VI (2004), 2, pp. 169-185; Repertorio bibliografico ragionato su Italo Svevo (1994-2004), a cura di E. Dei et al., ibid., pp. 187-246. Nell’ampia bibliografia critica sveviana, oltre agli interventi di Montale nel citato Carteggio e a quelli di G. Debenedetti, raccolti nei suoi Saggi critici, s. 2, Roma 1945 (poi Milano 1971, pp. 47-113), e nel suo Il romanzo del Novecento, Milano 1971, pp. 516-616, ci si limita a segnalare: M. Guglielminetti, Il monologo di Svevo, in Id., Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Milano 1964, pp. 121-155; R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Milano 1972; G.A. Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Firenze 1974 (edizione ampliata e rivista, Napoli 2002); R. Rimini, La morte nel salotto. Guida al teatro d’Italo Svevo, Firenze 1974; M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino 1975; E. Saccone, Il poeta travestito. Otto scritti su Svevo, Pisa 1977; E. Gioanola, Un killer dolcissimo. Indagine psicanalitica sull’opera di Italo Svevo, Genova 1979 (poi Milano 1995); G. Contini, Il quarto romanzo di Svevo, Torino 1980; A. Guidotti, Zeno e i suoi doppi. Le commedie di Svevo, Pisa 1986; G. Luti, L’ora di Mefistofele. Studi sveviani vecchi e nuovi (1960-1987), Firenze 1990; L. Curti, Svevo e Schopenhauer. Rilettura di “Una vita”, Pisa 1992 e 2016; G. Palmieri, Schmitz, Svevo, Zeno. Storia di due ‘biblioteche’, Milano 1994; G. Langella, Il tempo cristallizzato. Introduzione al testamento letterario di Svevo, Napoli 1995; G. Mazzacurati, Stagioni dell’Apocalisse. Verga Pirandello Svevo, Torino 1998; B. Moloney, Italo Svevo narratore. Lezioni triestine, Gorizia 1998; M. Tortora, Svevo novelliere, cit.; C. Benussi, La forma delle forme. Il teatro di Italo Svevo, Trieste 2007; S. Carrai, Il caso clinico di Zeno e altri studi di filologia e critica sveviana, Pisa 2010; L. Curti, Svevo romanziere. Ottimismo, pseudo-Weininger, inettitudine, Pisa 2012; B. Stasi, Svevo e «Zéno». Tagli e varianti d’autore per l’edizione francese della “Coscienza”, Roma 2012; G. Tellini, Svevo, Roma 2013; S. Volpato - R. Cepach, Alla peggio andrò in biblioteca. I libri ritrovati di Italo Svevo, a cura di M. Gatta, prefazione di M. Sechi, postfazione di P. Innocenti, Macerata 2013; G. Palmieri, Svevo, Zeno e oltre, Ravenna 2016; M. Sechi, Una saggezza selvaggia. Italo Svevo e la cultura europea nel vortice della «Krisis», Roma 2016; S. Calabrese, La letteratura e la mente. Svevo cognitivista, Milano 2017; M. Graziano, Italo Svevo, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, Roma 2018, pp. 588-596. Numerosi inoltre i cataloghi di mostre e gli atti di Convegni. Dal 1997 esce la rivista Aghios. Quaderni di studi sveviani, diretta da G.A. Camerino ed E. Guagnini.

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