SOLMI, Arrigo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SOLMI, Arrigo

Italo Birocchi

– Primo di dieci figli, nacque a Finale Emilia (Modena) il 27 gennaio 1873, da Angelo, segretario comunale, e da Amalia Stucci.

Fratello dell’appena più giovane Edmondo (1874-1912), che sarà storico della filosofia e cattedratico a Pavia, si laureò a Modena, con lode, il 28 giugno 1895 discutendo una tesi sui rapporti tra Stato e Chiesa. Vinto il concorso per sottobibliotecario reggente, fu destinato alla Biblioteca nazionale di Palermo (aprile 1898) con il modesto stipendio di cento lire mensili, ma immediatamente riuscì a ottenere il trasferimento presso la Biblioteca estense (d.m. 31 maggio 1898). Mirava comunque alla carriera accademica: dopo una breve esperienza di insegnamento a Modena, nel 1899 conseguì la libera docenza in storia del diritto italiano e l’incarico nell’Università di Camerino (ordinario dal 1901), mantenendo il posto all’Estense, sebbene con frequentissimi periodi di aspettativa. La situazione si fece tuttavia insostenibile tra le denunce del direttore e le proteste dei colleghi, tanto che il ministero lo trasferì alla Biblioteca governativa di Cremona (1° dicembre 1901). Il copione si ripeté però anche lì (in un anno prestò servizio solo due mesi), finché il problema dell’assenteismo si risolse allorché fu ternato al concorso di Cagliari e vi fu chiamato quale professore straordinario (a.a. 1902-03, stipendio d’ingresso 3000 lire annue).

Il 28 aprile 1900 sposò Ines Dallari, sorella del filosofo del diritto Gino, con il quale Solmi aveva condiviso la formazione liceale e il periodo di studentato nell’Ateneo modenese (si erano laureati nello stesso giorno) e più tardi la colleganza accademica a Siena, Parma, Pavia e Milano. Al cognato lo accomunava l’impostazione metodologica, di tipo sociologico-positivista; con lui lavorò spesso di sponda, nell’università e nell’attività politica e culturale.

La prima monografia (Le associazioni in Italia avanti le origini del comune. Saggio di storia economica e giuridica, Modena 1898) suscitò discussioni sia nelle sedi concorsuali, sia nel dibattito storiografico: pur apprezzata per la vasta conoscenza della letteratura (specialmente tedesca), sembrava sottovalutare l’‘elemento romano’ e dedicare poco spazio ai profili giuridici del tema trattato, votata com’era alla comprensione del diritto attraverso le interconnessioni con la struttura sociale.

Caratteristica di Solmi, già nelle opere giovanili, fu la visione di sintesi e la ricerca della chiave interpretativa dei fenomeni analizzati. Dopo alcuni lavori finalizzati ai concorsi e perciò corrispondenti ai gusti prevalenti nella disciplina (attenzione al problema delle origini, argomenti longobardistici), presto varcò i confini dell’Alto Medioevo e si dedicò a indagini su personaggi (Alberto Gandino, Baldo degli Ubaldi) espressivi di tematiche proiettate quasi al di là dell’età medievale (il processo e la questione delle falsificazioni; la produzione statutaria e il diritto nuovo). Il secondo lavoro monografico (Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlomagno fino al Concordato di Worms (800-1122). Studio storico e giuridico, Modena 1901), mentre accoglieva uno dei rilievi critici sollevati dall’opera precedente – la mancata rilevanza accordata al fattore religioso –, confermava gli interessi poco conformisti di Solmi, ora rivolti agli intrecci tra il diritto pubblico e la politica. A un certo disinteresse della storiografia giuridica per il libro fece riscontro il giudizio positivo di Francesco Ruffini, l’ecclesiasticista che veniva da una formazione storica.

Il periodo cagliaritano lo segnalò tra i professori più promettenti della nuova generazione. Lo aprì con una prolusione (La funzione pratica della storia del diritto italiano nelle scienze giuridiche, 1903) che, pur ribadendo i capisaldi della metodologia sociologico-positivista, si incentrava sul concetto di svolgimento della storia giuridica e profilava una strada originale evitando le secche, da un lato, delle polemiche tra romanisti e germanisti e, dall’altro, di indagini meramente erudite. Utilizzando spesso fonti inedite e rivelando attitudini comparatistiche, studiò la costituzione fondiaria dell’isola (gli ademprivi, il feudo), le istituzioni (i giudicati, il Parlamento del 1355, il servaggio), le fonti (la carta de logu cagliaritana, i condaghi) oltre a proporre rassegne storiografiche e a fondare una rivista (Archivio storico sardo, 1905) che si attestò su un buon livello. L’esperienza giuridica isolana fu una sorta di laboratorio che non smise di frequentare anche successivamente, nel quale vide le forme di un diritto autoctono che, espressione connaturata alle condizioni socioeconomiche del territorio, nel corso dei secoli e grazie anche all’azione delle repubbliche di Pisa e Genova sarebbe andato confluendo nella tradizione delle genti italiche.

Partecipe della irrequietezza della generazione di giuristi postrisorgimentali che salivano alla ribalta nel tumultuoso periodo giolittiano, presto Solmi concepì l’attività scientifica in stretta connessione con l’impegno culturale e politico. Da qui l’attenzione crescente per lo studio del nucleo pratico del fenomeno giuridico, originatosi nel Tardo Antico (diritto volgare) e sviluppatosi poi come diritto comune nelle specifiche condizioni culturali e sociali dell’età comunale. L’interesse per Dante, certo stimolato dal colloquio con Dallari e con il fratello Edmondo, segnala appunto la ricerca di nessi tra figure essenziali del pensiero politico-letterario e l’esperienza giuridica fatta di dottrine, norme e istituzioni tipiche del genio italico (secondo una sua terminologia ricorrente). La civiltà comunale diventerà un centro fondante dei suoi interessi di studio perché coagulo di spirito associativo e di organizzazione sociale, che precipitavano in una forma istituzionale e in un diritto nuovo. Liberale e liberista, aveva un’idea forte di nazione, come soggetto che impersonava una tradizione di civiltà antica e che, mentre scontava l’incompiuta esperienza del Risorgimento, abbisognava di espandersi dopo i rovesci coloniali di fine secolo.

Tutto questo si precisò meglio nel prosieguo della sua attività. Passato all’ordinariato a Cagliari (dicembre 1905), vinse subito dopo il concorso a Siena, ove insegnò dal febbraio 1906 all’ottobre 1907 e maturò l’idea di preparare un manuale, la Storia del diritto italiano, che effettivamente pubblicò nel 1908, allorché era stato appena trasferito a Parma.

Nell’ambito storico-giuridico il genere manualistico vantava allora già una consistente sperimentazione che soddisfaceva alle esigenze didattiche e contribuiva a stabilire i contenuti e i confini specifici della materia accademica secondo le differenti impostazioni metodologiche presenti nella disciplina. In particolare il manuale di Solmi si proponeva come un testo essenziale, diretto a presentare lo svolgimento storico unitario del diritto italiano: nessuna esposizione specifica del diritto germanico o bizantino, bensì una visione ricostruttiva che guardava all’affermarsi in Italia degli istituti giuridici, quale che fosse la rispettiva origine. Dei quattro ‘elementi’ che il giurista emiliano riteneva concorrenti nella formazione di questo diritto – il romano, il germanico, l’ecclesiastico e l’italico o volgare – quest’ultimo era considerato assorbente perché prodotto ed espressione dei nuovi bisogni e quindi in grado di assimilare gli altri. Per cogliere le variazioni dello svolgimento del diritto, l’autore utilizzava le ‘ricerche comparative’, ovvero «l’esame dei fattori politici ed economici che determinarono i rivolgimenti giuridici» (prefazione, datata Siena, 22 agosto 1907). Di contro al metodo cronologico e a quello sistematico, Solmi adottava un sistema misto che definiva sincronistico o storico: suddivisa l’esposizione in tre grandi periodi (età romano-barbarica, 476-1100, del risorgimento, 1100-1748, moderna, 1748-1870), ognuno dei quali, tranne l’ultimo, si suddivideva in vari sottoperiodi, trattava partitamente lo svolgimento dei singoli istituti privatistici e pubblicistici.

Gli anni di Parma furono un momento eccezionalmente vivo. In quel cenacolo che vide ruotare molti protagonisti ma che ebbe sempre come animatore Angelo Sraffa nel quindicennio (1898-1913) della sua permanenza – lavorarono insieme giuristi della levatura di Giuseppe Chiovenda e Alfredo Rocco, Agostino Berenini e Gino Segrè, Pietro Bonfante e Francesco Brandileone – Solmi si inserì attivamente, aprì gli orizzonti della sua cultura e cooperò, tra l’altro, a quell’autentico periodico d’avanguardia (la Rivista del diritto commerciale) che lo stesso Sraffa aveva fondato con Cesare Vivante. Lì pubblicò diversi saggi dicendo la sua nel dibattito sulle lacune nell’ordinamento e sull’interpretazione (innescato da un libro di Donato Donati del 1910), sul metodo (recensione e postilla a Giovanni Brunetti: Solmi sosteneva la non liceità di isolare «l’elemento formale nel diritto separandolo dai suoi complessi elementi informatori»: ibid., 1913, pt. I, p. 801) e occupandosi di storia del diritto commerciale (rassegne bibliografiche, considerazioni sulle origini dell’avallo).

Nell’ottobre del 1912 passò a Pavia a insegnare diritto ecclesiastico, in attesa che si liberasse la cattedra di storia del diritto italiano tenuta da Pasquale Del Giudice (il che avvenne nel 1917). Si intensificò intanto l’impegno politico-culturale. Frequentatore dei circoli nazionalisti, simpatizzò con le proposte di Giovanni Borelli e di Alberto Caroncini, quindi collaborò a L’Azione vicino alle posizioni di Paolo Arcari e, soprattutto, di Gioacchino Volpe, con cui iniziò un sodalizio di cooperazione storiografica e di condivisione ideale in un comune percorso che li portò all’adesione al fascismo. Nel clima successivo all’impresa libica, al pari di tanti altri letterati, storici e giuristi, si occupò della cultura e delle costumanze delle popolazioni africane (Lo stato e l’islamismo nelle nuove colonie italiane, in Rivista di diritto pubblico, I (1913), pp. 129-145; e La Tripolitania studiata nella vita sociale, in Patria e colonie, III (1914), 5, pp. 335-339). Acceso interventista e in prima fila nelle giornate del maggio 1915, Solmi pose sempre più al centro della sua storiografia la visione di un diritto italiano fieramente nazionale e largo dispensatore di civiltà giuridica alle popolazioni europee e in specie al legislatore napoleonico; sicché i calchi dei codici francesi recepiti poi in Italia sarebbero la continuazione di un autonomo svolgimento dell’ordinamento italico. Da qui l’interesse per la storia risorgimentale e per la politica internazionale, con opere spesso di carattere divulgativo. Abilitata dalla sua tradizione storica, quella nazione doveva espandersi sull’altra sponda dell’Adriatico – era la chiave di spiegazione dell’intervento nel 1915 – e ovviamente in Africa. Con altri giuristi sostenne l’entrata nel conflitto partecipando al volumetto La nostra guerra (Firenze 1915) con un contributo intitolato Necessità e ragioni della nuova guerra alla Turchia.

Nel 1919, Solmi riprese la militanza nei circoli liberal-nazionalisti di Milano, dove risiedeva, ma presto se ne distaccò, approvando l’impresa di Fiume. Nel 1920 fu eletto consigliere comunale in una lista che fece opposizione al governo socialista della città (ottenne pure un secondo mandato, fino al 1926). Uomo d’ordine, dai primi anni Venti vide nel partito di Benito Mussolini l’interprete della tradizione della civiltà italiana e la sola forza capace di soddisfare le esigenze della nazione: quelle espansive all’esterno e quelle di coesione interna, di contro ai conflitti sociali e di classe. Più tardi, nel 1931, egli stesso dipinse la sua militanza nazionalista come un pericoloso (e perciò meritorio) fiancheggiamento del fascismo.

Conobbe Mussolini, che lo stimò al punto di appoggiarne personalmente la candidatura nel listone alle elezioni del 1924 (fu puntualmente eletto). Intanto nel 1922 cominciò una lunga e intensa collaborazione con la Gerarchia, mentre nel 1923 il governo lo nominò rettore dell’Università di Pavia, dopo il rifiuto dell’incarico da parte di Giorgio Errera (sarà uno dei 12 professori che rifiutarono il giuramento del 1931). Per Solmi furono forse gli anni più intensi della vita, con il doppio impegno di consigliere comunale e di parlamentare e soprattutto con il compito di fascistizzare l’Ateneo pavese. Era del resto in conflitto d’interessi come consigliere della città che fortemente voleva fondare la propria università e come rettore dell’Ateneo ticinese, che resisteva non volendo perdere prestigio e risorse economiche. A Pavia fu altresì protagonista della istituzione della Scuola di scienze politiche, poi (1926) facoltà, nella quale teneva per incarico il corso di diplomazia e storia dei trattati: una materia in cui in quegli anni diede forse il meglio di sé, con indagini fondate su una buona esplorazione di documenti. Ebbe anche diversi allievi, alcuni destinati a larga fama (Mario Toscano, Rodolfo Mosca).

Nel destreggiarsi sul piano locale Solmi non parve all’altezza dei compiti. Attaccato dalle gerarchie pavesi del Partito nazionale fascista (si era iscritto nell’ottobre 1925) come dagli ambienti universitari che gli rimproverarono la debolezza nella vicenda dell’istituzione dell’Ateneo milanese, diede le dimissioni da rettore nel 1926, prima della scadenza del mandato. Ma aveva perso anche forza propositiva nel suo campo primario della storia del diritto. L’agile libretto su La storia del diritto italiano (Roma 1922), pur utile a fini divulgativi, proponeva una panoramica priva di guizzi innovativi e solo si fa notare per l’ammissione che il legislatore ottocentesco italiano nel redigere i codici aveva ceduto alla suggestione imitativa del modello francese (leggi: i diritti individuali sanciti dall’Ottantanove). Occorreva dunque ripristinare il genuino spirito italico e procedere alle riforme (pp. 44 s.), secondo la linea che apparterrà al programma della codificazione fascista nel ventennio (lui stesso da guardasigilli la riprese nel 1939: L’idea fascista nel nuovo codice civile, nella raccolta di saggi dallo stesso titolo, Roma 1940, pp. 22 s., 27). Quanto al manuale, ebbe due ulteriori edizioni (1918 e 1930), senza rinnovare l’impianto originario, ricalcato pedissequamente anche nei saggi d’occasione. Così nel 1929 pubblicò Gli elementi costitutivi del diritto civile italiano (ora nella raccolta Contributi alla storia del diritto comune, Roma 1937, pp. 45-67), in cui riproponeva le quattro componenti storiche dell’ordinamento nazionale. La stessa silloge ora citata era una mera riedizione di scritti precedenti e non risentiva del vivace dibattito sul diritto comune che dal 1932 aveva visto protagonisti Salvatore Riccobono e Francesco Calasso, Giuseppe Ermini ed Emilio Bussi. Questo declino nella produzione storico-giuridica – peraltro abbondantissima – fu velatamente riconosciuto persino da un allievo che pure verso di lui nutriva gratitudine e rispetto, Gian Piero Bognetti (altro importante discepolo fu Carlo Guido Mor).

Rieletto in Parlamento nel 1929 (e ancora nel 1934 e 1939) e sempre più proiettato nella vita politica, fu chiamato alla Statale di Milano sulla cattedra di scienza politica (decorrenza 1° dicembre 1931: tagliente il commento di Arturo Carlo Jemolo in Lettere a Mario Falco, II, Milano 2009, p. 200) e, dal 1936, di diritto comune. Ma l’impegno a Roma era assorbente, tanto più che nel 1932 fu nominato sottosegretario all’Educazione nazionale e poi, nel gennaio 1935, guardasigilli. I corsi erano perciò gestiti da supplenti (per ben cinque anni su sette dal cognato Dallari, persino per l’insegnamento di diritto comune, per altri due da Enrico Besta). Era giunto il suo momento: mai stato un movimentista, Solmi saliva ai vertici dello Stato fascista nella fase della stabilizzazione del regime. La facoltà giuridica della Sapienza nel 1935 irritualmente ne evocò la futura chiamata, non appena libero dal ministero.

Il vezzo autoassolutorio che ha pervaso la dottrina giuridica del dopoguerra ha influenzato anche recenti biografie, che tacciono del profilo politico del giurista. Conviene invece ricordarlo. Uomo di fiducia del dittatore – che per la carica di guardasigilli pensò sempre a personaggi dalla cultura robusta in grado di costruire e di raffrontarsi con il complesso mondo della scienza giuridica – e incline al culto della personalità (Monzali, 1994, p. 451), Solmi fu del tutto inserito nell’apparato del potere fascista.

Nel valutare l’attività ministeriale non decisive appaiono le denunce anonime di debolezza dell’uomo, che sarebbe stato in mano a consiglieri e all’onnipresente Dallari (è vero comunque che il guardasigilli inopinatamente inserì l’altro suo cognato Guido Dallari, avvocato a Modena, nella commissione incaricata del progetto di codice di procedura civile). Si tratta di accuse legate alla lotta interna tra i faccendieri del regime. Spesso definita inconcludente, in realtà la sua gestione del ministero appare tale solo se si usa come parametro l’attività di Alfredo Rocco o se si contano i codici realizzati da Dino Grandi. Sono almeno tre i settori in cui il guardasigilli Solmi lasciò tracce significative. Innanzi tutto l’abbandono del progetto italo-francese sulle obbligazioni e il riavvio dei lavori sul codice civile. Nel I libro (vigente dal 1° luglio 1939) «il marchio razzista era impresso nel suo primo articolo», che niente meno prevedeva deroghe per ragione di razza al principio di uguaglianza nella capacità di diritto; altri precetti discriminatori riguardavano poi tutti gli istituti familiari (Treggiari, 2013, p. 105). In secondo luogo l’approvazione delle leggi razziali, per le quali le indagini recenti hanno definitivamente accertato la responsabilità del giurista emiliano (soprattutto Gentile, 2013 e Acerbi, 2014), di contro a benevole interpretazioni (Monzali, 1994, pp. 466 s.): del resto in numerose occasioni Solmi, che firmò un pezzo nel primo numero di La difesa della razza (1938) e che compare quale membro del comitato scientifico di Il diritto razzista (come Santi Romano, Pier Silverio Leicht, Giangastone Bolla e Fulvio Maroi), ribadì ex professo le aberranti tesi a tutela della stirpe ariana e la concezione di un ordinamento avente «la funzione di conservare la stirpe e di renderla capace di opere civili» (Prefazione a H. Frank, Fondamento giuridico dello Stato nazionalsocialista, Milano 1939, p. 8, e si veda inoltre Da Roma a noi: unità di storia, unità di popolo, in Politica fascista della razza, Roma 1940, in partic. p. 36). Infine il progetto di codice di procedura civile, sul quale la storiografia è divisa tra ‘revisionisti’, che lo indicano come un testo autoritario di marca fascista, e ‘negazionisti’, che non rinvengono tale carattere ideologico al di là delle frasi a effetto usate dal ministro stesso e dai giuristi del tempo per compiacere il regime.

Non sembra comunque questione di etichette definitorie. Solmi teneva particolarmente al codice di rito perché il processo era avvertito come farragine e sequenza di manovre dilatorie delle parti, sicché dalla sua riforma dipendeva la percezione di un salto di qualità nell’amministrazione della giustizia. Insediò una commissione di giuristi pratici – faceva eccezione la presenza di Enrico Redenti, autore solitario del progetto precedente – da lui stesso presieduta e con un sistema diretto a coinvolgere gli operatori del diritto nella discussione di un testo preliminare (1937). Nel merito il codice accentuava la posizione del giudice ‘signore della causa’ (poteva disporre prove d’ufficio, interrogare liberamente le parti, sanzionare le condotte ‘abusive’), contemplava l’obbligo di verità per le parti, prevedeva il giudice monocratico nei tribunali: affermava insomma il ruolo preminente dello Stato (Cipriani, 2006, pp. 360 s.; Ansanelli, 2017, pp. 260 s.).

Discusso in alcune sue parti, il progetto appare certamente esprimere lo spirito del fascismo al potere, di cui Solmi fu puntuale esecutore e divulgatore. Emblematico il suo affresco in La crisi dello Stato democratico (1937, tradotto in francese, inglese e tedesco) che spiegava sul terreno storico, sociale e istituzionale i benefici dello Stato fascista in opposizione alla ineluttabile degenerazione dei regimi democratici (decadenza della civiltà e della razza: già nel 1937).

Se il duce decise che occorreva dare nuovo impulso al ministero (non inusuale l’improvviso esautoramento dalle funzioni di guardasigilli, l’11 luglio 1939), Solmi ottenne però immediata udienza presso Mussolini: segno della stima perdurante di cui godeva o, più probabilmente, del potere contrattuale di cui disponeva. Come chiedeva, fu trasferito a Roma, senza chiamata della facoltà (1939: non memorabile la prolusione di inaugurazione del corso di diritto comune, che si concludeva con un inno alle conquiste del fascismo) e, seduta stante (12 luglio), ottenne la nomina a senatore nonché vari benefici economici e di status. Numerose ancora le sue pubblicazioni sul diritto fascista (alcuni saggi, per esempio, furono raccolti in L’idea fascista nel nuovo codice civile, cit.). La sua fortuna però declinava. Il mondo universitario gli dedicò due volumi (Studi di storia e diritto in onore di Arrigo Solmi, Milano 1941, che contengono anche una bibliografia dei suoi scritti fino al 1941: I, pp. XV-XXVII), ma Solmi dovette subire la decisione di conferire la cattedra di diritto civile alla Sapienza al suo successore quale guardasigilli, Grandi, che nessuna esperienza o titolo accademico poteva vantare per meritarla.

In pensione dal 29 ottobre 1943, ormai vedovo si divideva tra la casa di Grottaferrata e la residenza romana di via de’ Cavalieri 11. A breve distanza di tempo dalla madre morì il 5 marzo 1944 a Grottaferrata, giusto tre mesi prima della liberazione della città dal nazifascismo.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale Istruzione superiore, Miscellanea di Direzioni diverse (I-II-III; 1929-1945), b. 58, f. Solmi Arrigo; Ministero di Grazia e Giustizia, Gabinetto affari diversi, Ministro Solmi, n. 2; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 93, f. Solmi Arrigo; Archivio storico Università degli studi La Sapienza, 505, f. Solmi Arrigo; E. Rota, A. S. nella sua opera di storico e di politico, in Annali di scienze politiche, VII (1934), 2, pp. 1-68; G.P. Bognetti, L’opera storico-giuridica di A. S. e il problema dell’oggetto e del metodo della storiografia del diritto italiano, in Rivista di storia del diritto italiano, XVII-XX (1944-1947), pp. 171-199; L. Monzali, A. S. storico delle relazioni internazionali, in Il Politico, LIX (1994), pp. 439-467; E. Signori, Minerva a Pavia. L’Ateneo e la città tra guerre e fascismo, Milano 2002, ad nomen; F. Cipriani, Scritti in onore dei patres, Milano 2006, ad nomen; S. Gentile, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945), Torino 2013, ad nomen; A. Mattone, S. A., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1889-1892; F. Treggiari, Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigrafica, in Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano. Razza diritto esperienze, a cura di G. Speciale, Bologna 2013, pp. 105-122; G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, Milano 2014, pp. 129-132; M. Lucchesi, «Fedele seguace del PNF almeno dal novembre del 1920». A proposito dell’iscrizione di A. S. al Partito fascista, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi - L. Loschiavo, Roma 2015, pp. 237-265; V. Ansanelli, Contributo allo studio della trattazione nel processo, Torino 2017, pp. 255-273.

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