Ars dictaminis

Enciclopedia Dantesca (1970)

ars dictaminis

Mario Pazzaglia

La teoria letteraria di D. appare saldamente radicata alla tradizione retorica e dittatoria, che egli sembra avere assorbito, oltre che dal Tresor e dalla Rettorica di Brunetto, dallo studio dei testi di Guido Fava, di Bene da Firenze, di Bono da Lucca, e forse di Guizzardo da Bologna e di Giovanni del Virgilio: dei maestri, insomma, dello Studio bolognese. Con essi D. partecipa al rinnovamento dell'a.d. del pieno e tardo Duecento; allo svincolarsi di essa dall'applicazione prevalente al dettato giuridico e notarile (ancora evidente in Boncompagno da Signa) in corrispondenza con una nuova idea e un uso nuovo della retorica connesso alle esigenze politiche e culturali del comune. Anche se le partizioni della materia restano quelle tradizionali (definizione del dictamen; mezzi per conseguire la capacità letteraria, e cioè ars, imitatio, exercitatio; parti del dictamen, ossia inventio, dispositio, memoria, elocutio, pronuntiatio; carattere e compito dell'oratore; generi di cause, cioè demonstrativum, deliberativum, iudiciale; i tre stili, humilis, mediocris, sublimis; la teoria dell'elocutio, caratterizzata dallo studio dell'elegantia, dell'ornatus, della compositio, che comprende la suddivisione del periodo e il cursus), si ha ora una considerazione del fatto espressivo e un gusto che s'ispirano più direttamente al De Inventione e alla Rhetorica ad Herennium, in quella che è stata chiamata la prima reale rinascita di Cicerone.

Parallelo e complementare allo studio delle artes dictandi fu, per D., quello delle artes poeticae (di Matteo di Vendôme, di Goffredo di Vinsauf - la cui Poetria fu commentata da Guizzardo -, di Giovanni di Garlandia, forse di Gervasio di Melkley), strettamente connesse con le prime. Se, infatti, Giovanni (come, del resto, Gervasio) dedica, nella sua Poetria, un'ampia trattazione alla prosa epistolare e al cursus, le artes dictaminis partono dalla definizione delle quattro specie di dictamen, prosaico, metrico, ritmico e misto, o prosimetro, delineando una teoria completa dell'espressione letteraria e una stilistica generale che prescindono, nel loro piano formale, fenomenologico e operativo, dalla distinzione fra prosa e poesia. La compago del dictamen poetico è, sì, contraddistinta dall'uso dominante della digressio, della descriptio, della transumptio (la metafora, che è propria dell'ornatus difficilis) e dalla licenza del ‛ fingere ' (donde l'indicazione, nell'Epistola a Cangrande, dei modi fictivus, digressivus, descriptivus, transumptivus come propri della strutturazione poetica); ma questi procedimenti non possono essere del tutto esclusi dalla più ‛ sublime ' eloquenza dittatoria. Per questo D., in VE II VI 6, può offrire come modello del ‛ gradus constructionis excellentissimus ' del quale soltanto illustres cantiones inveniuntur contextae un esempio in prosa dettatoria, affiancato a canzoni dei più illustri poeti italiani, francesi e provenzali (detti, significativamente, ‛ dictatores '), e proporre all'imitatio del poeta non solo Virgilio, Ovidio, Orazio e Lucano, ma anche le " altissime prose " di Livio, Frontino, Plinio e Paolo Orosio. Non stupisce quindi che la canzone sia chiamata, in VE II XII 7, dictamen magnum, né l'uso del verbo ‛ dittare ' e di metafore relative all'a. d. in Pg XXIV 52-62, là dove D. definisce il proprio dolce stil novo.

Anche la metricologia dantesca sembra ispirata, piuttosto che al praticismo delle artes metricae o rithmicae, alla teoria della compositio dittatoria, che riguarda, oltre al cursus, la suddivisione del periodo in cola e commata, ispirata a principi di eufonia e di consonantia armonica. Così in VE II V 3 l'endecasillabo, il carmen superbius, è definito non in base agli accenti e alle cesure, ma secondo la capacitas sententiae, constructionis et vocabulorum, e soprattutto la temporis occupatio, cioè una misura temporale, una durata che si fonde armonicamente con altre nell'oratio perfecta che è la strofa, come quella dei cola nel periodo prosastico; se non che per la poesia D. postula una regolarità di misure (numero e tempo regolato: Cv IV II 12), capace di realizzare una proportio più complessa e quindi un'armonia più autentica. Ma anche Giovanni del Virgilio nella sua a. d. parla di una " cursuum melodia ", risultante " ex varietate distinctionis et dictionis ", e Gervasio di Melkley di " melodia " della prosa, secondo principi che possono essere fatti risalire, oltre che alla Rhetorica ad Herennium, a Quintiliano, al suo concetto della " vocalitas " o εὐφωνία delle singole parole e della loro compositio o struttura e a quello dell'intima connessione di ‛ gramatica ' e ‛ musica ' (Inst. I X 9-11, 17, 22-23, ed. Rademacher). Su questa via D. sviluppa originalmente l'insegnamento dell'a. d., giungendo all'intuizione del carattere fonosimbolico del linguaggio poetico. L'indicazione dei grandiosa vocabula dello stile tragico di VE II vir non va ricondotta, per le metafore con cui vengono definiti, tratte dall'arte della lana (pexa, yrsuta), soltanto al testo, affine, di Matteo di Vendôme (ma esempi di vocaboli eletti sono in molte artes dictandi, ad es. in Bene da Firenze), bensì anche alla definizione della " musica optime morata " di Boezio (Instit. musica, ed. Friedlein 181); senza contare che mentre gli altri trattatisti parlano essenzialmente di aggettivi (in -aris, -alis, -osus, ecc.) come " gemme vicarie " o forma di ornatus che si può far risalire in sostanza alla conversio, D. indica dei sostantivi che, mentre alludono col loro significato ai magnalia, argomento dell'alta poesia, evocano, con la loro purezza e musicalità di sillabe e accenti, quella superiore armonia dello spirito che è condizione necessaria alla celebrazione di più alti valori umani.

Un altro tema dell'a. d. che D. sviluppa originalmente, volendo elevare il volgare a lingua letteraria ‛ regulata ', è quello dell'elegantia, o scelta lessicale, grammaticale e sintattica; e cioè della locutio congrua, priva di solecismi e barbarismi, e della explanatio, che riguarda la purezza e proprietà del lessico. La ‛ venatio ' di VE I XI-XIX culmina nel ritrovamento di un volgare egregium, extricatum, perfectum, urbanum (e l'urbanitas è l'ideale linguistico della retorica classica e mediolatina), che rifiuta i rudia vocabula, le perplexae constructiones, le defectivae prolationes, i rusticani accentus (I XVII 3). A essa fa riscontro l'esaltazione del volgare del sì, nel primo libro del Convivio, per la sua espressività e bellezza (prescindendo dalle ‛ accidentali adornezze ' di rima, ritmo e numero regolato, proprie della struttura poetica), che si manifesta nell'agevolezza de le sue sillabe, nelle proprietadi de le sue costruzioni e nelle soavi orazioni che di lui si fanno (Cv I X 12-13).

La dominante preoccupazione di D. per l'impianto linguistico, sintattico e strutturale lo porta a sorvolare, nelle sue formulazioni teoriche, sulla minuta precettistica dei colores, tipica delle artes, e a subordinarla a esso. Si pensi a Cv II XI 9, dove la bellezza di una canzone è fatta dipendere dalla construzione, la quale si pertiene a li gramatici, dall'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, dal numero de le sue parti, che si pertiene a li musici: in sostanza, dall'elegantia e dalla compositio e dalla strutturazione sintattica in senso lato, mentre la dignitas dell'ornatus sembra lasciata volutamente in ombra. A questo corrisponde, nella pratica stilistica, un gusto più misurato e sobrio, che rifugge dall'esasperato retoricismo, riscontrabile, ad es., in Guittone e nella sua scuola. Decisiva in tal senso fu la personale meditazione dei classici, a cominciare da Boezio, Cicerone e Virgilio; una lettura che potrà essere chiamata preumanistica soltanto con molte cautele, legata com'è a convenzioni letterarie e a metodi esegetici tipicamente medievali, ma tuttavia fondata su di una personale imitatio e fruizione dei testi, lontana da quella, tutta intesa a ricavare modelli di flores verborum et sententiarum, propugnata dalle artes. Lo conferma VE II VI 7, dove all'enunciazione di regole relative allo stile sublime o ‛ tragico ' è sostituito il richiamo diretto all'esperienza stilistica complessiva degli auctores latini e romanzi: Nec mireris, lector, de tot reductis autoribus ad memoriam; non enim hanc quam supremam vocamus constructionem nisi per huiusmodi exempla possumus indicare.

L'esempio più flagrante dell'adesione di D. all'insegnamento dell'a. d. è offerto, nella pratica, dalle opere latine: dalle Epistole, in primo luogo, e dal De vulgari Eloquentia, e, in misura minore, dalla Monarchia e dalla Quaestio, ove prevale l'esposizione scolastica e dialettica, tranne che nei proemi e nelle parti parenetiche. Riguardo all'elegantia va rilevata, innanzitutto, l'appartenenza del lessico dantesco al vocabolario mediolatino e la contaminazione con esso anche delle fonti classiche più dirette. Sull'inventio di nova verba ci si deve limitare a indicazioni sommarie, non essendo ancora stata avviata una seria ricognizione del latino di D.; è tuttavia evidente il gusto di termini rari e ricercati, presi magari dai lessici come quello di Uguccione, e soprattutto il procedimento della conversio, sul quale insiste Goffredo di Vinsauf, e della parallela amplificatio (VE II I 1 Sollicitantes iterum celeritatem ingenii nostri et ad calamum frugi operis redeuntes), cui fa riscontro, spesso, l'opposta ricerca di brevitas concettosa. La compositio resta fedele ai tre tipi di cursus raccomandati dalle artes italiane, velox, tardus, planus, con una spiccata ma non esagerata preferenza per il primo. Per la dignitas, ricordiamo la struttura dei prologi secondo le regole dell'epistolografia, con gl'inizi costituiti preferibilmente da una sententia o un proverbium, e l'uso frequentissimo di schemata, figure e tropi con netta preferenza per l'ornatus difficilis. Si è parlato, per questo, di stile isidoriano (al quale apparterrebbe anche il modello di constructio sapida, venusta e insieme excelsa di VE II VI 5), per l'uso frequente di procedimenti quali l'allitterazione, l'omoioteleuto, la ripetizione, la paronomasia, la figura etimologica, l'anafora, la consonantia delle clausole che però solo raramente, secondo l'insegnamento dei maestri italiani, opposto a quello della scuola d'Orléans, si tramuta in rima vera e propria. D. però non adotta quasi mai il cursus isidoriano e se usa con una certa frequenza, nelle opere latine e italiane, le suddette forme ricorrenti di questo stile, lo fa con una misura ignota, ad es., al Guittone delle Lettere. Sembra dunque più esatto considerare lo stile isidoriano come una delle componenti, non come l'ideale, del dictamen dantesco, nel quale, soprattutto nelle Epistole, si dovrà riscontrare anche l'influenza delle artes praedicandi e di una tradizione di eloquenza che risale a s. Agostino.

Il magistero dell'a. d. si avverte anche nella prosa italiana di D.: nell'uso dell'ornatus (qui, però, in prevalenza facilis) e nelle suddivisioni ritmiche del periodo. Frequenti sono, nella prosa della Vita Nuova, i versi, ora in funzione di cola, ora come clausole (ma a tratti subentra il cursus vero e proprio); e la ricerca di musicalità suggestiva si manifesta anche in altre figure di suono, come l'allitterazione, la ripetizione, la paronomasia. Nel Convivio si ha invece una riduzione drastica di questi modi e la tendenza risoluta a una sintassi sintetica, emula della latina, con un interesse dominante per i fattori logici e sintattici della costruzione del periodo, quasi del tutto trascurati dalle artes. Nella poesia, dalla primitiva assimilazione, sulle orme della Rettorica di Brunetto, della canzone alla ‛ tencione ' e all'epistola (si pensi a una canzone come La dispietata mente, così evidentemente ordinata secondo i moduli dell'eloquenza epistolare), D. giunge alla scoperta, con le nove rime, della profonda autonomia delle ragioni poetiche, pur sempre connesse al genus demonstrativum, e, in seguito, al forte impeto etico e meditativo dei magnalia e alla fusione di bellezza e di ‛ bontade ' perseguita dal Cantor Rectitudinis e alla concezione dello stile come manifestatio di una superiore misura intellettuale e spirituale (ma anche qui un impulso può essere venuto dai maestri dell'a. d., da certi spunti anagogici, ad es., di Bene da Firenze, che in Candelabrum I i fa assurgere la parola ornata dell'uomo a simbolo del Verbum divino). Infine, la dottrina dantesca degli stili è connessa piuttosto alla problematica svolta dalle artes poeticae che a quella, in genere sommariamente enunciata, delle artes dictaminis; va però ricordato che queste raccomandavano, nel genus demonstrativum, lo stile alto " in laudem " e quello umile " in vituperium ", con un'indicazione che D. tenne certo presente nella sua definizione di stile tragico e di stile comico.

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