ARTE E DIGITALE

XXI Secolo (2010)

Arte e digitale

Lorenzo Taiuti

Arte digitale e arte multimediale

L’impiego del computer in campo estetico ha comportato nell’ultimo ventennio la necessità di adottare denominazioni diverse: new media art, computer art, arte virtuale, arte immateriale, arte interattiva, arte telematica. Definizioni che non esprimono correnti espressive, come avviene nelle arti plastiche, ma piuttosto un uso preferenziale e significativo di tecnologie e software che si sono susseguiti vorticosamente negli ultimi anni. Ognuno di questi, modificando la realtà tecnologica e il paesaggio mediatico, ha permesso di indagare nuove possibilità tecniche di ricerca e di conseguenza nuovi paesaggi percettivi. Oggi due sembrano essere le definizioni più aggiornate, e cioè arte multimediale e arte digitale, che rimandano a due realtà forti. In primo luogo, il convergere dei linguaggi attraverso il medium digitale. In secondo luogo, l’accorpamento nel medium digitale di elementi concettuali e di linguaggi precedentemente espressi per mezzo di media diversi, prima attraverso un lungo processo sperimentale e ora improvvisamente collocati insieme nel medium digitale.

Suono e immagine, comunicazione e narrazione audiovisiva sono stati a mano a mano indagati riproponendo problemi fondamentali dell’arte moderna come il confronto con i mass media, la resa tecnologica dell’immagine, la produzione di suono e musica attraverso strumenti elettronici e strategie ‘casuali’, le possibilità offerte dai linguaggi narrativi al di là degli sviluppi ormai acquisiti di quelli schermici, cinema e video. Ma anche riconsiderando l’uscita dagli spazi canonici dell’arte, come musei e gallerie, per calarsi negli spazi urbani, oppure il coinvolgimento del pubblico in quanto attivo manipolatore dell’opera proposta dall’artista così come teorizzato nei movimenti radicali dell’arte contemporanea. Autori e opere contribuiscono a chiarire questa mappa delle strade percorse dalla ricerca estetica digitale degli ultimi anni in un continuo confronto e in un continuo tentativo di superamento dell’arte contemporanea.

L’arte della comunicazione: Jeffrey Shaw

In uno dei lavori di net art di maggior respiro prodotto negli ultimi anni, l’installazione Web of life, concepita nel 2002 dall’australiano Jeffrey Shaw (n. 1944), si affronta la problematica della comunicazione nella rete come terreno delle relazioni democratiche nella società e della percezione del rapporto fra individui e spazio relazionale. Questo tema, centrale nella net art fin dall’inizio, pone in modi ambiziosi e utopici l’utilizzazione del web come realizzazione di nuovi sviluppi di coscienza e rapporto fra esseri umani in uno spazio planetario globalizzato.

L’installazione si presenta come una ‘caverna elettronica’ dove uno scanner collegato alla rete permette al pubblico di lasciare un’impronta delle linee del palmo della mano. Su un grande schermo queste linee si uniscono ad altre e, collocate nella rete, si collegano con quelle lasciate in precedenza in una banca dati. Questo ‘patrimonio d’archivio’, di memoria e di storia, diventa un’opzione d’uso che mantiene il progetto iniziale sempre aperto e pronto a ulteriori interventi. Altre ‘stazioni’ mobili e strutturalmente più semplici sono collocate in Europa, Australia, Stati Uniti e Giappone. Secondo le idee di pedagogia sociale dell’arte digitale, il progetto possiede così un’estensione ideale nello spazio e nel tempo e numerosi sviluppi trasversali che richiamano le idee radicali dell’arte digitale degli anni Novanta e, precedentemente, le idee del Situazionismo e di Fluxus proprie degli anni Sessanta del secolo scorso. L’installazione è anche pensata alla maniera di un ambiente audiovisivo ideato come incrocio di proiezioni immersive, di immagini 3D in computer graphics e videoimmagini. Spazio, tempo reale e tempo della comunicazione sono rappresentati simbolicamente e concretamente per essere poi proiettati attraverso il pianeta via rete. L’installazione è anche acustica e attraverso la scansione della mano fornisce un pattern in codice, ossia un reticolato che forma uno schema compositivo per il suono. Tale schema accompagna le operazioni d’inserimento dei nuovi materiali creando una struttura musicale complessa, una ‘sinfonia’ delle identità nello spazio telematico. Oggi è collocata come opera permanente al ZKM (Zentrum für Kunst und Medientechnologie), il centro per l’arte e i media di Karlsruhe in Germania, un museo che si articola in varie sezioni tra cui un Museo di arte contemporanea e un Museo dei media.

Altre quattro e più leggere installazioni di Web of life sono destinate a viaggiare in manifestazioni d’arte contemporanea e progetti di expo su scala mondiale. L’uso delle varie installazioni crea un network che, attraverso la fruizione del pubblico, forma a sua volta una rete di relazioni simboliche basata sulla rilevazione di dati identitari e culturali. La complessa raccolta di codici visivi e sonori mostra le implicazioni strutturali di un lavoro che vuole superare i confini fra soggettività e oggettività, fra materiale e immateriale, fra arte e informazione.

Le caratteristiche di questa tipologia di lavori digitali sono state analizzate dal filosofo francese Pierre Lévy, che ha seguito lo sviluppo dei linguaggi digitali e, fra i primi, ha cercato di delineare le coordinate culturali ed estetiche osservando come «l’opera della cybercultura partecipa a questi rizomi, a questo piano d’immanenza del cyberspazio. Essa è dunque costantemente percorsa da tunnel o faglie che l’aprono su un esterno non assegnabile e si connette per natura (o in attesa di connessione) con persone e flussi di dati. Ecco l’ipertesto globale, il metamondo virtuale in perpetua metamorfosi, il fiume musicale o iconico in piena» (1997; trad. it. 2000, p. 45).

La rete come archivio di esperienza: Maurice Benayoun

In Emotional traffic (2005) il francese Maurice Benayoun (n. 1957) esplora gli umori e i sentimenti che circolano nello spazio telematico. Il lavoro, che prende la musica a modello e il materiale da Internet, usandola come banca dati, utilizza le interazioni alla stregua di un dato significativo che esprime il ‘sistema nervoso’ della rete. L’installazione consiste in un programma che scansiona e intercetta sul web i termini che si riferiscono a sentimenti, sia ‘positivi’ sia ‘negativi’; la loro accumulazione porta, nelle intenzioni dell’autore, a definire mappe dinamiche delle emozioni del pianeta. Emotional traffic si presenta anche come una mappa del pianeta che si costruisce in tempo reale attraverso le parole.

Su un grande schermo vengono proiettate le sovrapposizioni dei testi, mentre acusticamente si sovrappongono i suoni creati dal loro movimento: con il sommarsi delle parole, tali suoni si fanno più complessi e articolati, fino a comporre una vera e propria musica. La ricerca dei testi avviene attraverso una scansione visiva di cinque ‘mappe emozionali’ che vanno dalle paure alle soddisfazioni, rese evidenti attraverso un movimento circolare che rende graficamente l’azione dei motori di ricerca delle parole in rete. Con un altro feedback, una telecamera controlla i movimenti del pubblico davanti agli schermi e li traduce in ulteriori stimoli per il software musicale in modo da determinare un ulteriore arricchimento della musica. Nella stessa opera, in una performance dal vivo le varie componenti vengono controllate come su uno spartito musicale, in grado ogni volta di registrare nuovi umori e stimoli. Il lavoro di Benayoun come quello di Shaw costituiscono esempi di una progettualità ambiziosa, complessa, concettuale e tecnologica con cui gli artisti digitali cercano di affrontare temi molto vasti con strumenti articolati.

Ancora Benayoun utilizza lo spazio tridimensionale e navigabile della realtà virtuale nel lavoro interattivo War tourists, presentato all’Ars electronica festival di Linz del 1997 con il titolo World skin. A photo safari in the land of war, e nel 2008 rielaborato ed esposto con il nuovo titolo in una sua mostra personale a Liverpool. Forniti di macchine fotografiche, si naviga in un paesaggio tridimensionale realizzato in parte in digitale, in parte con immagini fotografiche. Il paesaggio che si vede è quello di una guerra, il campo è ingombro di macerie e di soldati, di carri armati e cannoni, di feriti e di cadaveri. Le immagini sono semplici foto ritagliate, collocate in un cupo paesaggio digitale che si ripropone all’infinito attraverso la navigazione del gruppo dei ‘turisti’ di guerra. Le immagini delle guerre provengono da tutto il mondo e i ‘turisti virtuali’ le fotografano come i normali turisti fotografano paesaggi ‘pittoreschi’. La macchina fotografica digitale utilizzata produce peraltro effetti particolari, come quello di ‘cancellare’ il settore dello schermo che si è fotografato.

Secondo le tesi sociologiche più diffuse, l’eccesso d’informazione visiva cui si è sottoposti attraverso i media finisce, in qualche modo, per autoeliminarsi. Allo stesso modo le nostre fotografie cancellano le drammatiche immagini riprese e lasciano al loro posto un’impronta vuota. Ogni foto viene poi stampata. Il prezzo del voyeurismo mediatico e della foto ottenuta è quindi la scomparsa della realtà. Metaforicamente e attraverso la condizione della guerra, ‘strappiamo’ la pelle al mondo. Tecnicamente la visione è articolata in uno spazio concavo, dove la proiezione copre tutte le pareti ed è visibile tridimensionalmente con occhiali speciali, ricreando in maniera immersiva lo spazio, obiettivo per eccellenza dei nuovi media.

L’istanza mimetica

La maggior parte dei lavori creativi nel campo dei nuovi media cerca di realizzare forme rappresentative credibili e riconoscibili. Sia nell’ideazione di viste 3D all’interno di spazi ricostruiti come musei, città e così via, sia nella creazione di spazi e persone non reali, le tecnoarti tendono per lo più a riprodurre forme figurative mimetiche che spesso si collocano al di là delle sintesi proposte dai linguaggi visivi della modernità, come, per es., il Cubismo, l’Astrattismo e le innumerevoli forme combinatorie e rappresentative dei principi concettuali artistici del Novecento. L’obiettivo della rappresentazione digitale è stato principalmente, come per molte tradizioni espressive del passato, la ‘mimesi’. O piuttosto una ‘mimesi perfetta’, cioè una particolare forma di rappresentazione che è stata al centro dell’arte occidentale per molti secoli. Tale mimesi cerca non solo di rappresentare in forma esatta la realtà in oggetto, ma anche di darle una valenza ‘sostitutiva’ a tutti gli effetti.

Dietro la locuzione realtà virtuale (concetto così diffuso da risultare talvolta fuorviante) è possibile leggere il proseguimento digitale di tutta questa tradizione, lo sviluppo estremo cioè della linea iconica e rappresentativa nell’arte. L’idea di rappresentazione ‘virtuale’ vuole con ogni evidenza portare all’estremo le possibilità già avviate dalla fotografia e dal cinema consentendo a una rappresentazione di essere esperita visivamente a 360°, passando dalla finzione del videogame alla percezione di uno spazio strutturato in maniera complessa e tale da essere percepito come ‘abitabile’.

L’idea di duplicato applicata ad ambienti e persone, rimanda alla fantasia del robot, sempre presente nelle arti digitali. Per il momento però, sia la riproduzione perfetta sia la realtà virtuale restano nell’ambito di una Pop art cibernetica, vicina per molti aspetti alla Pop art degli anni Sessanta del Novecento e alla citazione divertita delle forme kitsch del disegno digitale. Ma ci si aspetta ormai altri nuovi e sorprendenti salti nella qualità tecnologica del trattamento delle immagini, come, per es., la scansione tridimensionale di corpi o spazi, la motion capture e altre strategie di riproduzione, che passano attraverso i linguaggi cinematografici prima di essere strutturate e commercializzate come software.

Multimedialità

L’interazione fra suono e immagine è sicuramente quella che oggi chiarisce e definisce meglio la multimedialità propria dei mezzi digitali. Lo testimoniano i moltissimi lavori che collegano i linguaggi con ogni possibile modalità tecnica di trasmissione del suono. L’idea nasce da un interesse particolare per le ricerche di fonetica e di resa visiva del suono che appartiene alla musica contemporanea almeno a partire dai futuristi e dalla Sonate in Urlaten (Ursonate, 1916), opera del dadaista Kurt Schwitters.

Lo statunitense Golan Levin (n. 1972) nel 2003 ha realizzato Messa di voce, una performance audiovisiva in cui il parlato, le grida e i canti prodotti da due vocalisti sperimentali sono implementati in tempo reale da software preordinati che permettono l’interazione e la visualizzazione della performance sonora stessa. Ogni vocalismo, suono e parola sono pertanto tradotti in segni e forme diverse in sincrono con la loro controparte vocale e proiettati su grandi spazi dietro i performers. Il lavoro tocca temi come la comunicazione astratta e la multimedialità linguistica e, attraverso il ricorso all’animazione digitale, spettacolarizza le austere sperimentazioni della musica contemporanea.

I segni rappresentano le voci dei cantanti e servono anche come controllo del loro playback acustico in una sorta di diagramma che descrive le varianti sonore, creando così un ciclo interattivo che colloca i cantanti in un ambiente live completo di suono e immagini virtuali, mediante un processo in tempo reale. Messa di voce si colloca idealmente fra la sperimentazione sul corpo della Body art degli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso e il nuovo rapporto corpo-tecnologia. Il lavoro pone domande sul significato del linguaggio e sulle possibilità di aumentarne le potenzialità comunicative, ipotizzando uno ‘spazio immersivo’ della comunicazione.

Suono e materia

La ricerca sul suono è presente in quasi tutti i progetti d’arte digitale, diretta conseguenza della concezione di espressione multimediale come attivazione di tutti i linguaggi. Ma alcuni progetti sono più propriamente indirizzati al suono e alle possibilità di articolare i vari programmi e dispositivi in nuove sperimentazioni, così come accade per molta musica contemporanea.

È ancora di Levin (il MIT, Massachusetts Institute of Technology, da cui proviene, è stato sino a oggi il centro più attivo di sperimentazione digitale) l’opera Dialtones (a telesymphony) del 2001. Si tratta di un concerto-performance su larga scala i cui suoni sono prodotti attraverso telefoni cellulari, strutturati in una strategia di chiamate e risposte che coinvolgono gli spettatori stessi: il tutto viene ordinato in un’accurata coreografia. I vari numeri dei cellulari sono preregistrati in un programma digitale e poi richiamati singolarmente o in gruppo fino a sessanta contemporaneamente, creando un suono complesso e inedito, un fenomeno sonoro senza precedenti, una polifonia che rientra nella tradizione della ‘Musica concreta’, ma che ricorda anche il famoso concerto di Arseni Avraamov eseguito per la prima volta a Baku nel 1922 (Simfonija gudkov o Sinfonia delle sirene), utilizzando sirene di fabbriche e di navi, armi da fuoco, idrovolanti e così via, ‘orchestrati’ mediante segnalazioni a distanza.

La augmented reality è elemento centrale di molte operazioni realizzate nell’ambito della multimedialità. Richiamando la fascinazione dello sguardo interattivo e la fascinazione dei numeri, The secret lives of numbers, ancora un lavoro di Levin del 2002, consiste in una banca dati on-line e interattiva che raccoglie una ricerca sui numeri da zero a un milione più frequentemente utilizzati. La net art dimostra in questo caso la sua ingegnosità scientifica e la sua capacità di ricerca e di scoperta, caratteristiche queste che rappresentano, per l’arte digitale, l’equivalente degli esiti più esplicitamente estetici in altri linguaggi. La ricerca in rete dei numeri più frequentemente usati porta a una serie di pattern in grado di rappresentare culture, psicologie e società. L’uso quotidiano dei numeri a volte è legato a date storiche, altre volte a funzioni economiche, altre ancora a funzioni mnemoniche. Per es., alcuni numeri come 212, 486, 911, 1040, 1492, 1776, appaiono più frequentemente perché usati per definire numeri telefonici, mentre altri ricorrono perché indicano date importanti nella storia di un Paese. La ricerca come immagine di un ‘processo’ è una delle forme dell’arte contemporanea che qui si esprime come dato tecnologico, indagando le potenzialità della capacità di catalogazione del computer.

Décollage della rete

Gli statunitensi Mark Hansen e Ben Rubin sono coautori di uno dei lavori più interessanti degli ultimi anni: Listening post (2003). Si tratta di un ritratto digitale della comunicazione telematica visualizzata in una installazione dal forte fascino espressivo. Hansen è insegnante di statistica e la sua presenza in un contesto creativo riapre uno dei discorsi più problematici dell’arte digitale: la diversa operatività all’interno dell’area tecnologica di persone di formazione non classicamente estetica, ma legata al digitale in modi costruttivi e scientifici. È l’idea, presente nei nuovi media, di un ritorno concettuale alla techne della cultura greca, che, indicando insieme tecnica e arte, confonde i confini fra le due e privilegia il fare che contiene il pensiero e la qualità di un manufatto o di uno strumento considerato comunque espressione estetica complessa.

Riguardo alla sua attività Hansen dice di lavorare con dati complessi e con flusso continuo. Il suo lavoro è necessariamente collaborativo e si muove in campi diversi come quello della teoria dell’informazione, dell’analisi numerica, della scienza del computer e della media art. L’installazione Listening post esprime queste diverse realtà e questi contenuti. Duecento piccoli schermi digitali sono disposti separatamente in file, formando un più vasto schermo panoramico che richiama nella forma gli scanner dei segnali spaziali. Su ogni schermo scorrono testi filtrati dalla rete. L’installazione fa pensare contemporaneamente a una grande scultura minimalista, agli strumenti che esplorano i cieli alla ricerca di messaggi da altri pianeti e alla versione simbolica della ‘stele’ che compare nel film 2001: a space odissey (1968; 2001: Odissea nello spazio) di Stanley Kubrick. I messaggi appaiono sottratti alle loro strutture razionali e resi ‘poesia vivente’, enigmatica e inquietante come un testo surrealista. Il lavoro di Hansen e Rubin si discosta dalla pratica di rilevazione strutturale, finora usata dall’arte digitale, e accetta la progettazione espressiva in forme già inseribili nell’area dell’arte plastica contemporanea.

Tod Machover, l’opera del futuro e i Music toys

Nel campo della produzione sonora, lo statunitense Tod Machover (n. 1953) ha realizzato diversi lavori in progress, ritenuti fra i più radicali. Un tempo direttore dell’IRCAM (Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) di Parigi, ha composto opere e sperimentato l’uso del suono in campo terapeutico, dirigendo oggi il settore Opera of the future/Hyperinstruments del MIT media lab. Già noto nel campo della musica elettronica, egli lavora da tempo sulle possibilità della produzione interattiva del suono e sulle linee di una fruizione-produzione che coinvolge pubblico di ogni età e di ogni livello culturale. I suoi Hyperinstruments sono dispositivi correlati a una tecnologia che usa computer e software in grado di aumentare le possibilità d’uso degli strumenti stessi.

Alla base del lavoro interattivo di Machover vi sono le idee e i concetti del compositore statunitense John Cage sulla musica come casualità e come gioco, ma anche come ‘pedagogia dell’ascolto’, apprendimento del mondo sonoro. I Music toys creati da Machover e dal suo gruppo per la Toy symphony sono strumenti insieme semplici e complessi disegnati per essere suonati da chiunque abbia voglia di fare musica e modellati su un pubblico estremamente giovane o, comunque, non in grado di produrre musica con strumenti classici. Usando le fantasiose strutture dei Music toys si possono definire le sequenze musicali più varie, creando varianti sonore sui programmi di base, attraverso manipolazioni di strumenti non necessariamente di tipo musicale in senso stretto. Oppure è possibile creare composizioni elettroniche attraverso processi grafici e software fonografici come, per es., Beatbugs, Shapers, Hyperscore e così via. I toys, come per es. l’Hyperviolin, sono quindi versioni meccanizzate di strumenti classici: ogni ‘giocattolo’ viene progettato con una specifica funzione musicale e pedagogica.

Una serie di questi strumenti è stata installata di recente nella Haus der Musik di Vienna, dove viene utilizzata da gruppi di visitatori e anche da scuole, dato che il loro uso risulta semplice e intuitivo. Dagli Hyperinstruments, infatti, si ottengono suoni manipolandoli come giochi qualsiasi, creando input in un circuito digitale di produzione acustica. Il suono e poi la musica sono così prodotti dal pubblico stesso attraverso operazioni ludiche, tecnicamente casuali. Nell’installazione presso la Haus der Musik, questi toys hanno appunto forma di giocattoli manipolabili, e invitano a essere usati toccando, parlando, muovendo elementi mobili. Tali azioni determinano varianti nei programmi musicali preordinati, trasformando i suoni prodotti dal visitatore in una serie strutturata. Questi strumenti sono stati sperimentati anche da musicisti molto diversi fra loro, come Yo-Yo Ma, Prince o Peter Gabriel, fungendo da collegamento tra mondi musicali lontani l’uno dall’altro.

Web e postproduzione, interattività in rete

Con il continuo moltiplicarsi di funzioni informative nella rete, tendono ad avere più rilievo forme legate a una maggiore gestione e presenza dell’immagine autonoma o collegata a strutture installative e visive complesse (come i lavori precedentemente citati di Shaw e Benayoun) o ancora ottenute rielaborando in fase di postproduzione l’immenso materiale testuale, sonoro e visivo a disposizione sul web.

Per esempio, Little sister (2000) dell’artista tedesca Andrea Zapp (n. 1964) è un collage di immagini derivanti in parte da live webcams installate autonomamente da persone diverse con l’obiettivo di ‘autoesporsi’, mostrando in diretta la propria vita; in parte da normali webcams di sorveglianza che riprendono banche, garage, luoghi pubblici. Tale composizione, fatta di flussi di immagini riprese in contemporanea da diverse realtà, crea una soap opera infinita, che sottolinea il mescolarsi di pubblico e privato in televisione come sulla rete estendendo la riproduzione (e la sorveglianza) del quotidiano senza limiti di tempo.

Nella serie di lavori di net art di Ingo Günther (n. 1957), World processor (1988-2005), l’elaborazione di diverse forme di rappresentazione della superficie del pianeta non segue le regole dell’osservazione geografica, ma piuttosto quelle delle rilevazioni e delle relative graficizzazioni di dati politici, economici, ecologici ripresi dalla rete. La rappresentazione di tali dati viene ulteriormente modificata nella lettura-risposta interattiva data dai visitatori del sito.

Un altro esempio significativo è offerto dal fotografo spagnolo Joan Fontcuberta (n. 1955), che nel 2005 ha composto la foto (Homeless) di un mendicante caduto a terra mediante un mosaico di immagini prese dalla rete, utilizzando come criterio di ricerca i nomi delle venticinque persone più ricche del mondo. I software impiegati in questa come in altre simili operazioni lavorano in maniera random, ossia raccogliendo casualmente nella rete il materiale fotografico.

Su contenuti dell’ambientalismo e della comunicazione spaziotemporale, il duo formato dall’austriaca Christa Sommerer (n. 1964) e dal francese Laurent Mignonneau (n. 1967) opera principalmente con installazioni interattive. Una di queste, Verbarium (1999), lavora sul text to form editor, cioè sulla trasformazione di codici. Scrivendo messaggi sulla rete, i fruitori attivano un processo di trasformazione dei testi interpretati come un codice genetico in forme tridimensionali. Un ‘giardino’ di parole, un herbarium digitale che cresce nel blog letterario che si viene a creare. Ogni forma così ottenuta dipende dalla complessità del testo o dalla sua semplicità. In questo modo si generano forme sempre nuove, basate sulla codificazione genetica dei testi che a loro volta creano un giardino immaginario: ‘cliccando’ sulle forme così ottenute, se ne ricavano nuovamente le parole che le hanno create. Forma e testo si confondono così in un lavoro che può essere utilizzato e modificato all’infinito.

Public art e graffiti digitali

Come intervenire in questo spazio pubblico che diventa, grazie all’applicazione di sensori, ipertecnologico e ‘sensibile’? L’artista messicano Rafael Lozano-Hemmer (n. 1967) affronta il tema della socialità e della partecipazione in diversi suoi lavori e propone, fra le tante possibili definizioni, quella di architettura relazionale: un’idea che aggiorna le funzioni sociali cittadine, collegandole ai nuovi media. Le applicazioni dei nuovi media allo spazio pubblico urbano possono consistere in vaste proiezioni su edifici o in spazi esterni o interni. Luoghi che abbiano una possibile valenza d’attesa, d’incontro o semplicemente di transito, sufficienti quindi a creare relazioni percettive, comunicazioni, narrazioni visive. Tutto ciò fa pensare a una ‘città dell’immagine’ in cui i messaggi pubblicitari e informativi non sono più centrali, perché il tempo libero dà connotati nuovi allo spazio urbano, aprendolo a funzioni collegate alla cultura e alla creatività. Negli anni Ottanta del Novecento si erano fatte molte sperimentazioni sui grandi spazi pubblicitari; oggi l’utilizzazione del digitale permette d’ipotizzare una scala molto più vasta. Under scan (2005) è, per es., un progetto di Hemmer di vaste dimensioni che ha coinvolto alcune città industriali del Nord dell’Inghilterra, quali Derby, Leicester, Lincoln, Northampton. Centinaia di videoritratti degli abitanti di queste città venivano proiettati sulle grandi piazze, coperti dalla luce di fortissimi riflettori. Quando il pubblico, camminando, copriva con la propria ombra un videoritratto grazie a un comando a sensori, si attivava la proiezione durante la quale le persone riprese si rivolgevano direttamente al pubblico e raccontavano le loro storie. Quando l’ombra si ritirava, la proiezione aveva termine. Come in altri suoi lavori, Hemmer ha qui rappresentato la solitudine degli abitanti delle grandi aree metropolitane e al contempo ha dato vita a spazi concreti e simbolici per ricostruire il tessuto comunicativo della città.

L’uso di vasti ambienti urbani e l’interesse a collocarvi dispositivi coinvolgenti e proiezioni a vasto raggio in funzione di una comunicazione estetizzante coinvolge anche i protagonisti dell’espressione urbana come il graffitismo e la street art. Il gruppo Graffiti research lab di New York lavora, per es., sul trasferimento dei segni della street art in versione digitale, riportandoli come tags sulle facciate. Un’interessante tecnica che utilizza combinandoli luci laser e LED permette di proiettare giganteschi segni luminosi, partendo da un computer e da un mouse. I numerosi esperimenti compiuti in città come New York, Londra e Roma su grattacieli, ponti e fabbriche, rendono tali lavori, nel loro insieme, uno dei principali modi contemporanei di spettacolarizzare la città. D’altra parte, gli schermi video digitali stanno rapidamente superando i limiti imposti dalle dimensioni e dalla definizione; sempre più giganteschi, vengono collocati nei centri cittadini soprattutto con funzioni pubblicitarie, ma anche con finalità estetiche, come avviene nei festival di arte digitale. Un esempio interessante è costituito dal video d’arte The way things go di Peter Fischli & David Weiss proiettato nel 2008 su uno schermo di 500 m2 in piazza del Duomo a Milano. La proiezione di lavori con ambizioni estetiche e non soltanto di carattere pubblicitario, seppure in contesti dove la pubblicità è molto presente, crea un’affascinante contraddizione e lascia intravedere le possibilità ‘ipercomunicative’ delle strumentazioni digitali creativamente applicate allo spazio pubblico. Il gruppo Studio azzurro ha sperimentato a Roma proiezioni interattive notturne in occasione di diverse manifestazioni culturali: nel 2003 nella videoinstallazione interattiva Le piume del Campidoglio, per es., i movimenti degli spettatori colti dai sensori attivavano un’attraente rilettura in video della storia della Roma antica.

Videogame intelligenti, cinematografia e interattività

L’uso estetico del digitale investe ambiti di ricerca molto diversi fra loro. I videogame sono stati a lungo un modello attraente di interattività e di fascino ludico. Sono stati anche vissuti in chiave pop, come atto d’ingresso alla fruizione di massa. La stessa Second life, che da qualche anno occupa l’interesse di molti, è sostanzialmente una forma non sceneggiata di videogame, in cui si possono influenzare i comportamenti dei personaggi e inserire sequenze autonome o ridefinire quelle già presenti. Il gruppo 0100101110101101.org presenta su Second life una rivisitazione di famose performances di artisti concettuali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: le figure di Joseph Beuys, Vito Acconci e altri vengono riproposte e interpretate da avatar nel mondo virtuale con intenti ironici o critici. Si tratta di arte nella rete o di una rimessa in questione dell’arte contemporanea? Un’esperienza tenutasi nel 2002 allo ZKM, Future cinema. The cinematic imaginary after film, ha fatto il punto sulla situazione della sperimentazione digitale in campo cinematografico.

Il giapponese Masaki Fujihata (n. 1956) ha creato una narrazione spinta ai limiti in cui i confini delle cose e della loro visione vengono cercati anche fisicamente attraverso un lavoro interattivo, Field-works (iniziato nel 1992), dove un territorio viene esplorato spazialmente, attraverso sensori, e temporalmente, attraverso riprese video compiute simultaneamente. Non pochi lavori si sono rifatti a tecnologie storiche. Come, per es., Be now here (1995-2002) dello statunitense Michael Naimark (n. 1952) che, non diversamente da quanto avveniva in un vecchio ‘panorama’ ottocentesco, consente allo spettatore di visitare contemporaneamente diverse città del mondo. La statunitense Romy Achituv, nel lavoro Text rain, realizzato nel 1999 insieme a Camille Utterback, fa cadere sullo schermo una pioggia di lettere che formano parole e che si modellano in base ai movimenti degli spettatori, la cui ombra è proiettata sullo schermo. Nell’ancora più interessante BeNowHere interactive (1997) sempre di Achituv è possibile scorrere e ‘piegare’ sequenze video reali, con l’effetto innovativo di fondere il tempo e lo spazio della rappresentazione.

Le idee sullo spazio-tempo di Masaki Fujihata e quelle sullo spazio-forma di Achituv esemplificano alcuni problemi fondamentali dei nuovi media. Come viene trasformato l’uso dell’immagine, anche il rapporto spazio-tempo cinematografico può essere rimesso in questione combinando e rimontando gli infiniti processi di riproduzione. Il russo Lev Manovich analizzando i rapporti fra i codici cinematografici e i nuovi software d’immagine scrive: «Oggi stiamo osservando il livello successivo di questo processo, il trasferimento della grammatica cinematografica di punti di vista dentro software e hardware. Come la cinematografia di Hollywood viene trasferita in algoritmi e chips di computer, le sue convenzioni linguistiche diventano il metodo ‘default’ di interazione di ogni dato soggetto a spazializzazione» (Manovich 2001; trad. it. 2002, p. 242).

Il cinema dopo il ‘grande schermo’ diventa ‘altro’. Il luogo della visione può mutare radicalmente, come, per es., nel caso del minischermo del cellulare, grazie al quale è possibile confrontarsi con un tipo di video-arte in cui si indagano le possibilità estetiche dell’estremamente piccolo: ne sono un esempio i brevissimi video scaricabili dal 2005 dal sito di Nokia, opera di artisti quali Nam June Paik e molti altri.

Spettacoli tecnologici

Si definiscono così le forme che utilizzano situazioni live per coinvolgere uno o più spettatori in rappresentazioni in cui sono stati sostituiti gli elementi classici dello spettacolo con elementi d’immersione percettiva, azione interattiva, utilizzazione di collegamenti con la rete, proiezioni interattive e altre forme atipiche rispetto al teatro classico. Le grandi possibilità interattive dei media digitali trovano possibilità di riscontro in molte idee della performance contemporanea nei campi della danza, del teatro e delle arti plastiche. La possibilità di compiere azioni corporee espressive ha così corrispondenza nel filtro distanziante, ma diversamente coinvolgente, delle tecnologie digitali.

Usa strategie complesse il gruppo Palindrome, che propone una danza intrecciata con proiezioni visive e varianti sonore ricavate attraverso elementi interattivi. Lavorando sull’interazione fra media e corpi, Palindrome sviluppa numerosi programmi e strategie d’uso che permettono ai danzatori, e in alcuni casi agli spettatori, di controllare attraverso la mediazione dei loro movimenti le luci, la musica, il suono e le proiezioni video-digitali, nella convinzione che il maggiore potenziale artistico del computer non sia tanto la sua funzione di strumento di lavoro o il suo ruolo mediatico, ma risieda piuttosto nella facilità e rapidità di collegare fra loro forme d’espressione che sono state a lungo separate e, di conseguenza, nella capacità di rinnovare sia le forme di comunicazione funzionale sia quelle di comunicazione estetica.

Il performer spagnolo Marce.lí Antúnez Roca recita monologhi con il corpo coperto di sensori che gli permettono di attivare sequenze video, effetti digitali e varianti luminose, unendo il ruolo recitativo con quello direttivo della definizione dell’immagine complessiva.

Il gruppo italiano AIEP (Avventure In Elicottero Prodotti) lavora da tempo sulla coreografia del corpo intrecciata a quella degli strumenti digitali, ottenendo sincronie fra movimenti e ritmi di forme, testi e colori proiettati nello spazio scenico. Alcuni lavori indagano il rapporto parola-corpo-movimento, altri il rapporto fra corpo e rappresentazione digitale o un ‘doppio corporeo’ con cui i danzatori dialogano.

Le applicazioni tecnologiche nel mondo dello spettacolo hanno origine dagli orientamenti dell’arte plastica contemporanea, diretti a propiziare la partecipazione del pubblico o il suo coinvolgimento in modi che tengano conto dello scenario mediatico in cui viviamo. Ma anche dal prendere atto delle nuove ricerche scientifiche, come dicono gli olandesi Joke Brouwer e Arjen Mulder: «Recenti studi di biologia ci hanno dimostrato che nessun atto è strettamente razionale. […] L’arte interattiva cerca di generare ‘effetti emozionali’ nei suoi fruitori, ma anche di creare uno spazio di riflessione sull’irrazionalità di ogni atto spontaneo» (Brouwer, Mulder 2004, p. 5).

Quale arte in quali musei?

Se i media digitali diventano estetica, in quali musei o in quali altre strutture culturali vanno conservati? Alcuni possibili esempi sono costituiti dal già citato ZKM di Karlsruhe o dall’Ars electronica center di Linz (una struttura nata come centro culturale e laboratorio di sperimentazione digitale). Musei di arte digitale che cercano di superare l’idea tradizionale e di attivare un’area di contatti telematici e relazionali in grado di rappresentare le effettive potenzialità dei media.

Un ulteriore problema è costituito dall’uso dei nuovi media e dalle loro continue trasformazioni. I problemi aperti sono molti: fra questi, per es., come si può comunicare un’opera mediante la rete. L’opera digitale ha una natura interattiva e ha necessità di sviluppare rapporti con i fruitori. Si rendono necessari nuovi strumenti culturali e progettuali in grado di comunicare tali forme di creatività a livello planetario attraverso la rete e disponibili a inserire il pubblico come agente attivo nel processo estetico. Sulle possibili alternative al tradizionale museo si giocano, evidentemente, anche le possibilità di ridefinizione dell’arte legata ai nuovi media.

Digitale e bioarte

La rete di concetti modernisti su cui si è fondata la tecnoarte tende a far uscire l’arte dalle sue funzioni simboliche, dalla metafora espressiva, per rifondarne i significati come ‘processi di estetizzazione’ ridistribuibili fra individuo e società, fra artista e pubblico, fra autore-creatore e una nuova figura di pubblico-autore senza precedenti sociali e culturali. Se da una parte l’arte vuole essere ‘certezza operativa’ nella manipolazione della realtà attraverso la tecnologia, dall’altra, contraddittoriamente, emerge con potenza il corpo come interlocutore e ispiratore di pratiche non razionali, di rapporto corpo-realtà che fa riferimento alla logica biologica: un corpo interlocutore declinato nel senso vasto, laico e policentrico con cui lo si immagina o lo si percepisce oggi.

La promessa d’innesti cibernetici per implementare la comunicazione, la gestione dell’ambiente, per consentire l’estensione illimitata e desiderabile della vita umana, pone davanti a due forti e contrapposte influenze: quella dell’innesto artificiale sul corpo in funzione migliorativa – l’ipotesi del cyborg presente trasversalmente in molte aree dell’immaginario contemporaneo, dal cinema di fantascienza all’arte – e quella di un bisogno crescente di controllare l’artificialità dei processi di sperimentazione biogenetica che, privi di un controllo etico, proiettano ombre e pericoli reali.

Il corpo sognante

Le biotecnologie aprono altri terreni di indagine a quella forma di ricerca di tipo scientifico-creativo che è l’arte digitale. Il corpo viene percepito come un territorio aperto all’esplorazione di nuove forme di applicazione scientifica e di ridefinizione d’uso. Se da una parte è la realtà stessa che attraverso la falsificazione artificiale investe il corpo con una serie di richieste che lo mettono in allarme (la clonazione, gli elementi transgenici ecc.), dall’altra è il corpo stesso, con propri tentacoli sensoriali, a percepire l’ampliamento e le estensioni d’esperienza che il digitale mette a disposizione. La biogenetica può quindi essere usata come forma espressiva e la sua manipolazione secondo mezzi digitali può diventare un campo di analisi, in base a nuovi criteri culturali.

Il brasiliano Eduardo Kac (n. 1962) ha debuttato nel campo estetico come performer, si è spostato a Chicago entrando in contatto con atmosfere sature di nuove tecnologie e all’interno di queste ha sviluppato una propria esperienza sui diversi aspetti legati alle nuove dimensioni tecnologiche. Attraverso le pratiche proprie delle comunicazioni a distanza in costante aumento negli anni della crescita digitale, la ricerca di Kac sembra interessata ai processi prima che agli esiti visivi. Il concetto di ‘immateriale’, così presente nel dibattito di questi anni, diventa chiarificatore nei processi scelti da Kac come medium espressivo.

Biogenetica

La biogenetica è insieme una problematica contemporanea e una frontiera avanzata su uno dei punti più controversi della scienza. Kac, che si definisce artista transgenico, interviene con lavori di forte impatto polemico in un ambito ‘biopolitico’. Dopo essersi inserito un chip in una gamba come si fa per gli studi sul comportamento animale (Time capsule, 1997), ha impiegato l’ingegneria genetica nell’ambito del suo progetto GFP bunny (2000) che prende il nome dalla Green Fluorescent Protein utilizzata per ottenere Alba, un coniglio con il pelo dai riflessi verdi fluorescenti. In Move 36 (2004) ha modificato il codice genetico di una pianta attraverso un processo digitale. Il titolo dell’operazione è stato ripreso dalla mossa del gioco degli scacchi con cui il computer Deep blue riuscì a vincere contro Garri Kasparov. La pianta così creata ha caratteristiche non esistenti in natura, ma il punto centrale del lavoro non sono gli aspetti visivi di tale mutamento, quanto piuttosto il mutamento stesso del codice genetico e la sua matrice concettuale: spostare il problema sul confronto fra tecnologie e natura, coinvolgendo nel riferimento alla vittoria del computer quegli scenari culturali che vanno valutati e integrati nel nostro paesaggio psicologico.

Lavora su queste linee anche la portoghese Marta de Menezes (n. 1975) che, con interventi chirurgici produce mutamenti sulle ali di alcune farfalle, determinando macchie atipiche (Nature?, 2007).

L’artista australiano Stelarc (n. 1946) ha realizzato l’innesto sul suo corpo di un orecchio aggiuntivo (Ear on arm, 2003-2006), come è stato fatto di recente in un laboratorio scientifico su una cavia da laboratorio. Ancora una volta si ripropone la necessità di aggiornare il concetto di opera estetica. L’arte digitale, attraverso la biogenetica, si interessa ai nuovi e straordinari sviluppi delle tecnoscienze interrogandoli con progetti che testano la validità etica in questo campo, mimando le operazioni scientifiche e trasformandole in pratica d’esperienza.

In Autopoiesis (2000) dello statunitense Ken Rinaldo (n. 1958) smisurate braccia meccaniche scendono dal soffitto attratte dal calore corporeo del pubblico, ciecamente minacciose come individui alieni. Ma dentro la struttura di metallo sono stati inseriti incongruamente rami di vite; le stesse braccia assumono caratteristiche contraddittorie di organicità, intelligenza e vita con cui ci si trova improvvisamente a dialogare. Come nelle foreste antropomorfe delle fiabe, tali braccia tecnorganiche si muovono in maniera enigmatica, forse per contattarci e comunicare, forse per aggredire. I movimenti provocano suoni che vengono remixati e rielaborati via computer. La foresta di Alice’s adventures in wonderland si muove e suona. E si prefigurano scenari futuribili nel campo della robotica, una nuova attenzione alla commistione fra elementi biologici e meccanici.

Il Parco d’arte vivente

Piero Gilardi (n. 1942), uno degli artisti italiani più significativi del settore, lavora da tempo sulle nuove possibilità delle tecnologie digitali e ha sempre interrogato in modi diversi i temi dell’ambiente, dell’ecologia, dei rapporti interpersonali e delle problematiche sociali. Del Parco d’arte vivente (PAV, 2006) di cui è ideatore, Gilardi dice: «Nel futuro PAV, ma già adesso nel primo settore operativo, avrà un ruolo centrale l’attività dei laboratori artistici; oltre a svolgere un’attività propedeutica alle nuove forme di bioespressione artistica, essi saranno anche la base operativa per gli artisti che proporranno dei progetti sperimentali e interattivi sulle tematiche del Bioma costituito dal PAV e dalle sue propaggini nel tessuto urbano» (in Dalla land art alla bioarte, 2007, p. 32). Si tratta di un progetto che intende ricreare relazioni sociali attraverso la sperimentazione artistica, digitale ed ecologica, utilizzando una discarica di materiali da costruzione in un quartiere industriale di Torino, presso il Lingotto, come un’area verde. Lo spazio è pensato alla stregua di un insieme di costruzioni realizzate con materiali ed elementi naturali, e con un sotterraneo dedicato alle installazioni digitali attraverso le quali poter effettuare didattica ambientale rivolta agli adulti e alle scuole. Nell’ottica di un centro di sperimentazione culturale (e non di un classico museo), la struttura, denominata Bioma, varierà nel tempo contenuti e pratiche.

Gli elementi fondanti del progetto sono dunque da una parte il connubio di arte, ecologia e biologia, dall’altra la partecipazione attiva dei visitatori alle esperienze artistiche; la sua caratterizzazione dal punto di vista architettonico è quella di un progetto contraddistinto da criteri di mutamento, trasformazione, adattabilità e flessibilità. Franco Torriani, uno dei critici che seguono il progetto, sottolinea: «È verosimile che, in particolare dalla tarda seconda metà del Novecento, il rapporto creativo e produttivo fra arti, tecnologie, tecno-scienze, media, reti, abbia molto contribuito alle questioni sul vivente, sui rapporti artificiale/naturale, organico/inorganico […]. Lo spostamento ulteriore avviene quando l’azione sulla vita reale produce esseri ‘semi-viventi’ ovvero sistemi viventi concepiti artificialmente che necessitano di un intervento umano per iniziare a vivere» (in Dalla land art alla bioarte, 2007, p. 61).

Arte digitale vs arte contemporanea e altre culture

A vent’anni e più dalla sua nascita ‘ufficiale’, l’arte digitale si confronta oggi con una serie di trasformazioni, mutamenti e ampliamenti. Negli anni Duemila i computer hanno fatto un salto qualitativo e quantitativo impensabile alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Il loro uso ha creato una multimedialità digitale nel quotidiano che modifica lo scenario percettivo dell’azione estetica. Qualche anno fa era vero che mentre la tecnocultura cresceva vertiginosamente nel pensiero scientifico, produttivo, didattico ed economico, l’arte contemporanea iniziava le pratiche di integrazione delle frange eretiche della Tecnoarte, finora attive in aree separate, più aperte alla collaborazione con le università che non con le gallerie e i musei, più attente alle fiere di prodotti informatici che non alle fiere dell’arte. Ma oggi, a distanza di qualche anno, l’arte digitale è certamente meglio integrata nel corpo più vasto dell’arte contemporanea, più presente e attiva anche nei circuiti consacrati della comunicazione estetica. L’idea di utilizzare le comunicazioni estetiche come un linguaggio in grado di valicare confini e creare contesti interculturali è stata ampiamente enunciata e praticata dall’arte moderna (un esempio storico fra i mille, l’arte africana con cui Pablo Picasso dialogava in Les demoiselles d’Avignon, 1907) e si viene concretizzando attraverso i media in nuovi contatti fra l’Occidente e il resto del mondo.

Se in passato il contributo dei Paesi non occidentali alla scena artistica planetaria veniva filtrato attraverso la tradizione pittorica occidentale, oggi, attraverso il digitale, sono le tecniche di riproduzione tecnologica, enormemente semplificate e diffuse, a permettere un confronto paritario fra artisti di culture diverse. Nell’America Latina si sta sviluppando un forte interesse per le pratiche video e digitali con preferenze nei confronti dell’uso del video e della rete e si stanno creando centri di ricerca.

Nato a Taipei nel 1963, Shu Min Lin in Glass ceil-ing (realizzato dal 1997) ha mappato con alcuni sensori una pedana composta da monitor. Quando lo spettatore vi cammina, appaiono i volti di persone diverse per età ed etnia che lo guardano tesi, ripresi dall’alto. L’installazione pone interrogativi relazionali e sociali attraverso una semplice struttura-metafora basata sul problema del relazionarsi con gli altri.

Il cinese Feng Mengbo (n. 1966) utilizza a più riprese elementi presi dal mondo dei videogame e dei siti web. Ha realizzato un’installazione interattiva a ‘pedana sensorizzata’ dove muovendosi si attivano dei comandi: tutti i personaggi del violento gioco di ruolo hanno il volto dell’artista che rappresenta con autoironia il bisogno di essere protagonisti e l’ambiguità del suo ruolo.

Gruppi di artisti e attivisti si sono collegati in rete, creando progetti comuni fra situazioni distanti e diverse come, per es., fra Paesi Bassi e India, come avviene nella collaborazione fra il centro Waag di Amsterdam e il collettivo Raqs e il gruppo Sarai media lab, operanti a Nuova Delhi. Il forte sviluppo delle tecnologie digitali in India ha innescato processi di crescita e d’interesse verso i media digitali. I lavori di questi gruppi si sviluppano in un arco che va dalla comunicazione sociale allo studio dei linguaggi audiovisivi, a progetti in rete come Ectropy index. Sono i primi segnali di futuri sviluppi da cui sono usciti esiti come il lavoro di Ashok Sukuraman Park view hotel (2007) legato alla tematica del controllo e della telesorveglianza, dove un cannocchiale puntato verso l’interno di un caseggiato provoca (via sensori e web) l’accendersi o lo spegnersi di una luce e il variare della luce stessa.

Bibliografia

P. Lévy, Cyberculture, Paris 1997 (trad. it. Milano 2000).

L. Manovich, The language of new media, Cambridge (Mass.) 2001 (trad. it. Milano 2002).

L. Taiuti, Corpi sognanti. L’arte nell’epoca delle tecnologie digitali, Milano 2001.

J. Brouwer, A. Mulder, Feelings are always local, Rotterdam 2004.

Dalla land art alla bioarte, a cura di I. Mulatero, Torino 2007.