Articolazione territoriale dello Stato

Libro dell'anno del Diritto 2014

Vedi Articolazione territoriale dello Stato dell'anno: 2014 - 2017

Articolazione territoriale dello Stato

Alfonso Celotto

Lo Stato italiano presenta una articolazione assai frastagliata, fondata su tre livelli di governo locale, a cui si affiancano una miriade di enti diversi a base comunque territoriale.

Negli ultimi decenni il legislatore, anche costituzionale, schizofrenicamente, ha prima cercato di rinforzare Province e Comuni, poi di trasformare lo Stato in un federalismo regionale e, da ultimo, si è orientato verso l’abolizione o quanto meno lo svuotamento delle Province e un forte accorpamento dei Comuni. Anche il regionalismo è in grande difficoltà, per i risultati scarsamente funzionali che ha mostrato la riforma federalista del 2001. Oggi il dibattito tende ad un profondo ripensamento della articolazione territoriale, in maniera da coniugare funzionalità, semplificazione e risparmio della spesa.

La ricognizione. L’evoluzione territoriale dello Stato italiano

All’esito del dibattito in Assemblea costituente il testo dell’art. 114 Cost. recitava: «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni». Rispetto all’esperienza statutaria, lo Stato non mutava la sua articolazione territoriale se non con l’aggiunta della Regione.

Dei due enti locali storicamente preesistenti, il Comune era quello che vantava la storia più antica, essendo riconducibile, sotto taluni profili, addirittura all’esperienza medioevale e, poi, dell’età comunale; diversamente, la nascita effettiva dell’ente Provincia risaliva all’editto albertino 27.11.1847, n. 659. Per entrambi, la legislazione del 1865 aveva stabilito un sistema di governo segnato da un’amministrazione centrale forte e da un auto-governo soltanto parziale, in forza del quale la natura autarchica prevaleva su quella autonoma degli enti locali territoriali.

Il principio autonomista risultò ulteriormente compresso a seguito delle riforme fasciste, allorché si accentuò significativamente il carattere funzionale di tutte le articolazioni territoriali dello Stato.

Fu solo con la Costituzione repubblicana del 1948, in parallelo con la ri-espansione del principio democratico, che le strutture territoriali dello Stato assunsero carattere autonomo. Tant’è che la descrizione dell’articolazione statale di cui al già citato art. 114 Cost. risultava fortemente connessa all’affermazione del principio autonomista per cui «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.).

Tuttavia, soltanto con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario a partire dal 1970 l’autonomia degli enti territoriali ricevette una concreta implementazione, dopo le prime esperienze delle Regioni a statuto speciale (di cui la Sicilia addirittura pre-costituzionale).

Per quanto concerne Comuni e Province, nell’ultimo decennio del XX secolo si è cercato un rafforzamento della loro autonomia, prima con la l. 8.6.1990, n. 142, che segnò una vera e propria riforma organica delle autonomie locali, completata con l’approvazione del d.lgs. 18.8.2000, n. 267 (t.u.e.l.), poi con il massiccio conferimento di funzioni attraverso la cd. riforma Bassanini (l. 15.3.1997, n. 59; d.lgs. 31.3.1998, n. 112).

Fu così che si sperimentò il cd. federalismo a Costituzione invariata: con una pluralità di leggi lo Stato cercò di conferire maggiori funzioni verso enti autonomi, scontrandosi, comunque, con il problematico sovrapporsi delle competenze tra i diversi livelli di governo.

In questo quadro, la spinta autonomista di alcune Regioni e la riforma dei sistemi elettorali degli enti locali (con l’introduzione dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia), unitamente all’espansione globale dei sistemi locali rafforzarono l’idea di caratterizzare le Regioni come legislatore, al pari dello Stato. Da qui le riforme costituzionali (e, prima ancora, legislative) che hanno inciso sulla forma di governo regionale (l. cost. 22.11.1999, n. 1, che ha introdotto, tra l’altro, l’elezione diretta del Presidente della Regione) e novellato il Titolo V della Costituzione (l. cost. 18.10.2001, n. 3), ridisegnando gli spazi dell’autonomia regionale e “ribaltando” il criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni.

Nonostante la novella del testo costituzionale, negli anni successivi la potestà legislativa statale è riuscita comunque a contenere gli effetti “regionalisti” del nuovo testo dell’art. 117 Cost. Ciò grazie, in particolare, a una giurisprudenza centralista e, talora, para-costituente della Corte costituzionale, incentrata sulla creazione di una sussidiarietà legislativa a ascensionale e delle cd. materie trasversali, nonché su una lettura espansiva delle competenze esclusive statali e i principi fondamentali nelle materie concorrenti.

Anche in ragione della mancata creazione di un Senato federale, si è quindi di fronte, oggi, a un “federalismo incompiuto”, giacché i titoli intervento dello Stato rimangono ancora solidi e capaci di ridurre l’autonomia delle Regioni, anche sotto il profilo finanziario.

A quest’ultimo riguardo, sebbene la ratio dell’art. 119 Cost. fosse quella di costruire un sistema di multilevel governance caratterizzato da una stretta corrispondenza fra attività normativa e amministrativa e forme di finanziamento, il controllo della spesa pubblica (anche in ragione dell’appartenenza all’Unione europea e alla crisi economica globale) ha reso necessario mantenere in capo allo Stato il coordinamento finanziario, come dimostra il processo (peraltro parziale) di attuazione del federalismo fiscale (l. 5.5.2009, n. 42 e successivi d.lgs.).

Può trarre quindi in inganno il testo vigente dell’art. 114 Cost. che stigmatizza un’accresciuta autonomia costituzionale degli enti territoriali autonomi. Il testo, come riformato nel 2001, prevede: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Si tratta di un testo ben diverso da quello originario secondo il quale «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni». Una differenza, questa, che non ha certamente segnato un’espansione delle autonomie territoriali, ma che nei fatti ha visto soffocare il principio costituzionale dell’art. 5 Cost.

La focalizzazione. Le spinte di riorganizzazione

Troppe Regioni, troppe Province, troppi Comuni. Costosi e spesso poco efficaci, senza voler qui affrontare l’altrettanto complessa questione della riorganizzazione degli enti non territoriali (quali comunità montane, consorzi di bonifica, ecc.).

Per superare la inefficace frammentazione del sistema, negli ultimi il legislatore statale ha tentato, in più occasioni, di riordinare il sistema degli enti locali. La Costituzione riserva difatti al legislatore nazionale la disciplina esclusiva in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, co. 2, lett. p) e di mutazioni territoriali delle Province (su iniziativa dei Comuni e sentite le Regioni, art. 133).

Un primo ambito è quello delle Province.

Nel 2011 il Governo, sotto la spinta della crisi finanziaria, ha deciso di affrontare il problema del riordino territoriale della Repubblica affrontando il tema della riforma delle 117 Province (escluse le Province autonome di Trento e Bolzano).

Nate come mero territorio di decentramento dell’amministrazione statale (prefetture, ispettorati, consigli, ecc.), le Province sono state via via destinatarie di competenze non più soltanto statali, ma anche regionali, in particolare dopo la citata riforma costituzionale del 2001 che ha ampliato le competenze legislative regionali.

Con il d.l. 6.12.2011, n. 201 (cd. Salva Italia) il Governo ha tentato un’operazione di “svuotamento” del bagaglio di competenze provinciali, accompagnato dalla trasformazione dell’ente con un’elezione di secondo grado (e non più a suffragio universale e diretto). Riforma, questa, affiancata da un ulteriore intervento governativo (d.l. 6.7.2012, n. 95, cd. spending review) con il quale lo Stato ha provato a ridurre anche il numero delle Province attraverso la fissazione di criteri territoriali e demografici minimi (350.000 abitanti e 2.500 km quadrati). Entrambi i tentativi – che hanno portato al progressivo commissariamento delle Province a mandato elettivo – sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale (sent. 19.7.2013, n. 220), in ragione del fatto che per una riforma così incisiva fosse stato ingiustificatamente utilizzato lo strumento della decretazione d’urgenza. Detta pronuncia non ha però frenato la volontà statale di riforma delle province, tant’è che il Governo Letta nel corso del 2013 ha adottato sia un disegno di legge costituzionale di soppressione dell’ente Provincia dalla Carta costituzionale (A.C. 1543) sia un disegno di legge ordinaria che ripropone i contenuti del primo decreto-legge già annullato dalla Corte costituzionale (A.C. 1542). In particolare, con la riforma costituzionale è proposta la soppressione della parola «Provincia» dal testo costituzionale, così perseguendo l’estinzione dell’ente, mentre con il disegno di legge ordinaria, in attesa della riforma costituzionale, si vorrebbero ridurre le competenze delle Province e trasformarle in enti espressione dei Comuni.

Un tema, dunque, quello del destino dell’ente “Provincia” non ancora definito e sul quale la Corte costituzionale con la già citata pronuncia n. 220 non ha peraltro fornito le indicazioni di merito attese: è legittimo costruire Province con organi non eletti a suffragio universale e diretto? È possibile impedire alle Regioni (come prevede l’art. 118 Cost.) di continuare a conferire competenze alle Province prescindendo dal tentativo di riforma statale?

Secondo ambito è quello delle Città metropolitane. Previste per la prima volta nella l. n. 142/1990 e poi costituzionalizzate nel 2001, non sono ancora mai stati istituiti questi enti locali di governo dell’area vasta, immaginati per la governance delle realtà urbane più densamente popolate e il cui tessuto sociale ed economico non è confinabile al territorio del Comune capoluogo.

A seguito dell’incremento dei processi di urbanizzazione, l’economia e la vita sociale di alcuni territori vanno progressivamente polarizzandosi su centri abitati dei Comuni capoluogo ai quali risulta connesso (talvolta in senso addirittura fisico) il territorio dei Comuni limitrofi. Da qui la necessità di costituire strumenti di governo sovracomunali e subregionali più incisivi del semplice governo provinciale.

In tutto il mondo si sperimentano forme di governo delle città divenute punti di snodo di un network globale che spesso vede gran parte dei territori nazionali meramente attraversato dai flussi globali e solo alcune realtà giocare il ruolo di snodi e sedi dei processi economici e sociali. Così il governo delle aree metropolitane cerca ancora, in Italia, un modello adeguato che riesca a collocarsi nel panel delle diverse esperienze straniere.

Ad oggi sono stati molteplici i tentativi (infruttuosi) di istituire le Città metropolitane, anche alla luce della difficoltà riscontrata nello sciogliere alcuni nodi politici e istituzionali: elezione a suffragio universale e diretto o elezione di secondo grado? Estensione ampia del territorio ovvero limitazione ai Comuni più strettamente connessi al capoluogo?

Ad ogni modo, il recente disegno di legge governativo prevede l’istituzione (nel gennaio 2014) delle Città metropolitane, pur con molti profili ancora da definire (A.C. 1542).

In quest’ambito, una nota particolare merita la governance di Roma, che l’art. 114, co. 3, Cost. definisce come Capitale, assegnando contemporaneamente alla legge dello Stato la disciplina del suo ordinamento.

Proprio in ragione degli oneri derivanti dal suo ruolo di Capitale, lo Stato ha provato a costruire un modello di governance ad hoc per Roma. Si tratta però di un’esigenza che non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Fin dalla l. n. 42/2009 si è posto il problema di conferire a Roma maggiori funzioni e risorse per svolgere al meglio il suo ruolo di Capitale; al tempo stesso ci si è presto resi conto quanto fosse limitativo conferire poteri al solo Comune piuttosto che costituire un ente di governo dell’area vasta.

Per quanto attiene, invece, agli 8.092 Comuni, il legislatore statale – anche in ragione degli obblighi di contenimento della spesa pubblica – ha incentivato (e addirittura obbligato) forme di collaborazioni orizzontali per costringere i Comuni (la gran parte dei quali è sotto i 5.000 abitanti) a svolgere insieme le proprie funzioni fondamentali (d.l. 31.5.2010, n. 78; d.l. 6.12.2011, n. 201; d.l. 6.7.2012, n. 95).

Se è vero che le attuali delimitazioni comunali rispondono raramente ai più elementari criteri di efficienza amministrativa e programmatica, il criterio da seguire dovrebbe rispondere all’esigenza di ampliare lo spazio di prossimità, della mobilità giornaliera per lavoro, studio e consumo. In questa direzione, è stato proposto di promuovere l’intercomunalità, con l’accortezza di fornire indicazioni di contenuto funzionale: non solo in rapporto alle soglie demografiche, ma anche rispetto ai Sistemi Locali del Lavoro (SLL) e ad analoghe elaborazioni, svolte a livello regionale, tese all’individuazione di livelli e di bacini ottimali di servizi o di aree intercomunali di programmazione territoriale o sanitaria, piuttosto che relativi a rifiuti o altri servizi (ATO).

Oltre a tali interventi con i quali lo Stato ha inteso incentivare le forme di cooperazione tra i Comuni, in alcune realtà regionali sopravvivono le Comunità montane, enti territoriali autonomi la cui disciplina è di esclusiva competenza delle Regioni (ex multis, Corte cost., sent. 24.7.2009, n. 237), caratterizzate dal governo delle aree montane e, quindi, dotate di caratteristiche peculiari.

A livello di dibattito costituzionale, va infine rammentato che da ormai almeno venti anni si discute di un ri-disegno dei territori delle Regioni, per realizzare sinergie (si pensi alle otto macro-regioni proposte già nel 1992 dalla Fondazione Agnelli) o per rispondere a spinte secessioniste (come il caso del Salento in Puglia).

Il dibattito ha trovato un primo ostacolo attuativo nella definizione delle procedure da seguire, visto che la Costituzione disciplina l’istituzione di nuove Regioni e pone il limite demografico del milione di abitanti.

Non è un caso che sinora l’elenco delle Regioni previsto dall’art. 131 Cost. sia stato ampliato unicamente con la nascita del Molise (1963).

e le ipotesi di macroregioni non hanno mai trovato concretizzazione. Il tema infatti non è solo quello di superare il carattere identitario di alcune aree del Paese, quanto, piuttosto, quello di definire i criteri della ricomposizione territoriale.

Rimane comunque evidente che la fusione delle Regioni non rappresenta l’unico strumento di governo delle dinamiche interregionali, visto che l’art. 117, co. 8, Cost. prevede la possibilità che le Regioni tra loro adottino intese (ratificate con legge) per il migliore esercizio delle funzioni, anche attraverso l’istituzione di organi comuni.

I profili problematici. Un assetto instabile

Negli ultimi decenni in diversi Paesi l’organizzazione del potere pubblico ha accentuato i profili di differenzazione territoriale: la riforma federale in Germania, la riforma delle Regioni in Francia, la devolution nel Regno Unito hanno palesato anche in Stati di tradizione centralista l’esigenza di adeguare l’esercizio del potere pubblico alle specifiche condizioni del territorio nazionale. Le esperienze regionaliste e federaliste hanno via via caratterizzato un numero crescente di Stati e, in questo senso, anche l’Italia è stata investita da un processo di cambiamento tuttora in atto e del quale tuttavia non si vede l’approdo definitivo.

A oltre dieci anni dalla riforma costituzionale del 1999 e del 2001, le Regioni e gli enti locali sono ancora alla ricerca di un assestamento. Non solo a causa delle scelte del legislatore statale e della Corte costituzionale, spesso inclini a riconoscere ampi spazi di intervento allo Stato. Ma anche considerato il fatto che – va detto – le Regioni non hanno sempre “sfruttato” quegli spazi di autonomia che, almeno sulla Carta, le riforme di inizio millennio gli avevo conferito. Ciò non toglie che il regionalismo italiano risulti tuttora pervaso da spinte riformatrici, che ora chiedono maggiori forme di autonomia, ora l’istituzione di nuove Regioni, anche se talora influenzate da visioni “proprietarie” del territorio.

D’altronde, in maniera crescente negli ultimi anni, il territorio degli enti autonomi ha rappresentato uno degli elementi di maggior dinamismo del sistema delle autonomie.

Al crescente numero dei Comuni che hanno mutato Regione – sia per entrare a far parte di una Regione a statuto speciale sia per spostarsi da una Regione ordinaria ad un’altra (le Marche e l’Emilia Romagna in primis, ma anche il Lazio) – si è affiancato un consistente processo di ri-articolazione territoriale dei Comuni (come per la Lombardia). Parallelamente, mentre la politica e le istituzioni discutono ipotesi di riduzione, trasformazione (con elezione secondaria) o, addirittura, cancellazione delle Province, negli ultimi anni ne sono sorte di nuove, sia nella Regione speciale Sardegna sia nelle Regioni ordinarie Lombardia e Abruzzo. A ciò si aggiungano le esperienze del Lazio e della Puglia, dove le Province di Frosinone e Latina, da un lato, e le Province del Salento, dall’altro, hanno in più occasioni formalizzato l’intenzione di costituirsi in Regione.

Si tratta di fenomeni che, pur collocati su diversi gradini della multilevel governance, palesano la profonda esigenza delle diverse realtà territoriali di assumere adeguate forme di autonomia e di rappresentanza di interessi delle proprie comunità.

Unico punto sicuramente fermo è l’esigenza di intervenire, non risultando più adeguata la attuale articolazione territoriale dello Stato, per molti versi sovrabbondante e spesso vista solo come ostacolo al reale buon funzionamento della forma di stato e della forma di governo.

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