Artigianato [dir. comm.]

Diritto on line (2015)

Anna Genovese
Federica Pasquariello

Abstract

Il contributo analizza la disciplina dell'impresa artigiana sotto il profilo privatistico, con particolare riferimento alla normativa dettata dal codice civile e dalla legge quadro sull'artigianato (l. 8.8.1985, n. 443), riformata, in relazione alle società artigiane, nel 1997 e nel 2001. Si prende in considerazione altresì l'evoluzione della normativa fallimentare, secondo le riforme intervenute nel corso degli ultimi dieci anni sull'art. 1, co. 2, l. fall., in tema di requisiti soggettivi per la fallibilità, e per l’impatto sulla nozione e la fallibilità dell’impresa artigiana.

Introduzione

La nozione di impresa artigiana scaturisce da un percorso evolutivo nel quale si apprezza sia la sedimentazione, nel tempo, di ripetuti interventi riformatori, tanto nella legislazione generale come in quella specialistica; sia la sovrapposizione di fonti normative vuoi di grado costituzionale, vuoi di grado primario - di emanazione nazionale e regionale - vuoi di grado secondario.

Il sistema che ne risulta è stato nel tempo e resta orientato alla logica, fondata sui principi – costituzionalmente tutelati dall'art. 45 Cost. (Nigro, A., Rapporti economici. L'artigiano, in Comm. Cost. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1980, 51 ss.) – della valorizzazione di un patrimonio imprenditoriale che riveste un ruolo nevralgico nel tessuto economico del Paese; e, quindi, appare teso alla creazione di un regime normativo per svariati aspetti agevolativo e di favore.

Tuttavia, l'identità dell'impresa artigiana, invece di meglio delinearsi storicamente, si è andata progressivamente «decolorando» (così Bione, M., La nuova definizione di impresa artigiana, in Giur. comm., 1987, I, 709), a partire dal disegno codicistico e poi nel passaggio alla legge quadro sull'artigianato del 25.7.1956, n. 860, poi sostituita dalla legge quadro 8.8.1985, n. 443 oggi in vigore (d'ora in poi: l. quadro), e con gli ammodernamenti intervenuti nel 1997 (l. 20.5.1997, n. 133) e nel 2001 (l. 5.3.2001, n. 57), per avere perduto i tratti originari, espressi dalla natura «artistica o usuale» dei beni prodotti; dall'esclusione delle lavorazioni automatizzate; dall'attitudine a farsi estrinsecazione delle sole capacità e delle abilità personali del suo titolare. In altri termini: per avere visto accentuata la spersonalizzazione, in una con la dilatazione della nozione normativamente rilevante. E finendo per andare ricondotta, in ultima analisi, al riscontro di parametri numerici essenzialmente connessi all'aspetto di un'organizzazione aziendale cd. labour intensive, ossia, connotata dalla centralità del fattore lavoro (Denozza, F., Impresa artigiana e decentramento produttivo, in Giur. comm., 1976, I, 819).

D'altronde, la quasi totale scomparsa – nella realtà imprenditoriale, prima che nel panorama normativo – di una figura di bottega artigiana di iconografia tradizionale non deve suscitare né critica né rimpianto, se saranno sfruttate le potenzialità della nuova disciplina sull'artigiano: la sua capacità di intercettare più moderne formule organizzative, ora che la fruizione delle tecniche di limitazione delle responsabilità per il rischio di impresa, attraverso lo strumento societario, ha smesso di atteggiarsi come eccezionale, ma, viceversa, rappresenta la preminente modalità di accesso all'intrapresa di attività economiche. E se, contemporaneamente, sarà colta l'opportunità di assecondare il bisogno di dare valore, ancor più che ai capitalifisici, alle idee e agli assets aziendali intangibili, che proprio l'impresa artigiana può riuscire ad esprimere al meglio, in un’età storica di transizione dalle res alle new properties (Bertacchini, E., Impresa weightless e ragioni di credito nella new economy, in Contr. Impresa Europa, 2002, 126; De Angelis, L., Dal capitale leggero al capitale “sottile”, in Società, 2002, 1456).

L’impresa artigiana nella legge quadro

La materia dell'impresa artigiana forma oggetto di competenza concorrente tra Stato e Regioni, secondo il disegno dell'art. 117 Cost.: pertanto la normativa nazionale di riferimento assume il carattere di legge quadro, nell'ambito della quale le discipline di attuazione offrono variegata specificazione, peraltro non senza dare luogo a qualche discrasia interpretativa (Bin, M., La legge-quadro sull'artigianato: problemi interpretativi e competenze regionali, in Le Regioni, 1986, 90). Non è di queste discrasie che ci si potrà occupare in questa sede; bensì, del nucleo di norme degli artt. 2-5 l. quadro che, lungi dal rappresentare una mera cornice vuota, invece definiscono tratti indisponibili e caratterizzanti tutte le imprese artigiane italiane (Allegri, V., In tema di società artigiane, in Riv. dir. impr., 1997, 397).

Con tecnica normativa criticabile e criticata per una qualche ‘circolarità’ che scade nella tautologia (per tutti Spada, P., Imprenditore e impresa artigiana tra codice civile e legge speciale, in Giur. comm., 1987, I, 710), l'art. 2, l. quadro definisce «imprenditore artigiano» colui che esercita quella che dal successivo art. 3 è definita, appunto, «impresa artigiana», in quanto al primo imputabile. Sbrogliando questo intrico in un approccio di sintesi, potrà essere elaborato un dato: l'attività artigiana oggi risulta definibile incrociando tre requisiti, rispettivamente legati (i) alla natura dell'attività svolta; (ii) all'apporto del lavoro proprio dell'artigiano; (iii) al limite per il numero di dipendenti (Bione, M., La nuova definizione di impresa artigiana, cit., 703).

Viene così focalizzata la dimensione imprenditoriale dell’artigiano come variegata, ma sostanzialmente connotata dall'assenza del – pure ambiguo – requisito della ‘industrialità’, richiesto per le attività commerciali non piccole (art. 2195 c.c.). Resta implicito e viene inteso alla stregua di principio trasversale all'intera area della artigianalità l'estremo della prevalenza del fattore lavoro globalmente impiegato nell'impresa rispetto al capitale investito: questo ulteriore requisito non è indicato in relazione all'impresa artigiana tout court, ma è testualmente richiamato per le società artigiane dall' art. 3, co. 2, l. quadro e si ritiene debba valere come canone interpretativo generale (Bin, M., Impresa artigiana, in Contratto e impr., 1986, 237).

Innanzitutto, dunque, secondo l'art. 2 l. quadro, l'attività svolta deve consistere nella produzione di beni, anche semilavorati, e nella prestazione di servizi, senza espressa menzione per le lavorazioni «artistiche o usuali», già previste dalla l. quadro n. 860/1956; restano testualmente escluse le produzioni agricole, le intermediazioni nella circolazione di beni e servizi e le attività ausiliarie, nonché la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande. Il processo produttivo, sempre in base alla previsione richiamata, può svolgersi in via «non del tutto automatizzata» con ciò aprendo a quelle lavorazioni «meccanicizzate» che restavano escluse nel sistema storicamente datato della l. quadro n. 860/1956. È pleonasticamente ripetuto che l'attività vada esercitata «professionalmente», come già richiesto per ogni impresa dall'art. 2082 c.c., e in identico significato; altrettanto pleonastica e inutilmente ripetitiva di quanto si può affermare per qualsiasi imprenditore individuale, la precisazione che l'attività vada svolta «personalmente» (dall'artigiano persona fisica), in qualità di «titolare», «assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione». In proposito, mette conto anticipare ora, con riserva di riprendere il discorso, che simili connotati dell'attività artigiana, già riferiti all'impresa individuale, difficilmente riescono ad applicarsi ad impresa artigiana esercitata in forma societaria, e financo in forma societaria capitalistica, come interventi normativi successivi hanno consentito, non senza espressamente richiamare l'art. 2 l. quadro in discorso.

In secondo luogo occorre, ai fini della definizione dell'artigianalità, che questa attività sia svolta ed organizzata in modo da risentire in modo qualificante e decisivo dell'apporto impresso dal titolare: è richiesto dalla medesima previsione sopra citata che questi svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo; che il personale dipendente risulti personalmente diretto dall'artigiano; che quest'ultimo detenga i requisiti professionali richiesti dalla legge per l'esercizio di attività particolarmente qualificate; criteri aggiuntivi sono previsti per le società artigiane (v. infra § 4). È evidente che lo snodo interpretativo di maggiore difficoltà risiede nella corretta applicazione del criterio di «prevalenza» del lavoro dell'artigiano, che appare di incerto significato: potendo andare riferito tanto - come pare meglio - ad un impegno che rappresenti la principale occupazione lavorativa dell'artigiano (Cetra, A., Le categorie di impresa, in Cian, M., a cura di, Diritto commerciale, I, Torino, 2014, 61), quanto – con lettura che però pare riduttiva - alla funzione del suo lavoro nell'equilibrio del ciclo economico (Perassi, M., La nuova legge-quadro sull'artigianato, in Giur. comm., 1986, I, 1084). Si esclude invece che l'inciso sul carattere di questo apporto («anche manuale») possa essere letto in senso concessivo, come a tollerare quel contributo materiale e diretto, non limitato ad una mera supervisione, che costituisce, piuttosto, condizione necessaria della figura (Gualtierotti, P., L'impresa artigiana, Milano, 1977, 62) e dev’essere inteso, peraltro,in modo elastico, a seconda dell'oggetto dell'attività e delle tecniche produttive effettivamente applicate nel caso concreto.

L'art. 4 l. quadro, ult. co., afferma che l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana: rintracciando in tale previsione una eccezione rispetto al principio di libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantito, si è proposta l'applicazione di criteri di strettissima interpretazione, ritenendo conforme alla qualità di artigiano la posizione di titolare di altre imprese non artigiane; ed anche la mera partecipazione come socio a società, artigiane o meno (Allegri, V., In tema di società artigiane, cit., 401; ma, in senso contrario, v. Pavone La Rosa, A., Artigiani, società artigiane e “statuto” dell'imprenditore commerciale, in Giur comm., 1997, I, 651). In effetti, in una lettura sinottica con la previsione delle incompatibilità previste in materia di s.r.l. unipersonale artigiana e di s.a.s. artigiana, a mente dell'art. 3, co. 3, l. quadro, sarebbe rinvenibile nel sistema questa ratio: il legislatore vuole che il modello organizzativo dell'impresa artigiana – sia unipersonale sia societario – possa essere fruito una sola volta, se non altro, per l'impegno assorbente richiesto (Zamperetti, G.M., La nuova legge sulle società artigiane: prime considerazioni, in Dir. fall., 1997, I, 1306).

Infine, la l. quadro, all'art. 4, dedica analitica attenzione alla determinazione di soglie occupazionali massime – non senza specifici riferimenti ai lavoratori a domicilio, agli apprendisti, ai soci, ai familiari ed ai portatori di handicap – compatibili con la natura artigianale dell'impresa, diverse in ragione del diverso settore di attività. In questa sede non pare opportuno intrattenersi su tali parametri numerici; nondimeno, osservando che, in una valutazione complessiva, il livello quantitativo dei dipendenti occupati risulta, in termini assoluti, tutt'altro che irrisorio, oltre che più che raddoppiato rispetto ai canoni della l. quadro n. 860/1956. Questa linea evolutiva risponde, evidentemente, all'istanza di assecondare la crescita delle minimali realtà artigiane, allo stesso tempo allontanando la definizione di artigiano da quel requisito di prevalenza del lavoro proprio e della famiglia (su quello altrui; oltre che sul capitale investito), che identifica la piccola impresa civilistica (v. infra § 3) .

Per gli imprenditori artigiani così definiti, è fatto obbligo, previo accertamento amministrativo dei requisiti artigiani dell'impresa, di iscriversi all'Albo provinciale delle imprese artigiane (art. 5 l. quadro). L’iscrizione è, per legge, «costitutiva e condizione» per la concessione delle agevolazioni legali: l'endiadi risulta inelegante, ma dirime un'incertezza, con l'abolizione dell'ambiguo riferimento «ad ogni effetto di legge» già contenuto nella l. quadro n. 860/1956. Dunque, non è più dato dubitare che l'iscrizione di cui si tratta spieghi efficacia costitutiva dello status di artigiano ai soli fini della medesima l. quadro, e, così, in ambito strettamente pubblicistico, in relazione all'accesso a regimi agevolativi, anche tributari, previdenziali e fiscali (C. Cost., 24.7.1996, n. 307, in Dir fall., 1996, II, 987; e v. una ricca e consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito: ex pluribus, Cass., 14.12.2004, n. 23299, in Mass. Giur. it., 2004). Evidentemente, la perdita dei requisiti artigiani comporta perciò cancellazione, anche d'ufficio, dall'Albo, ma non implica effetti disgregativi ed estintivi sull'organizzazione d'impresa, mono o plurisoggettiva che sia.

L’impresa artigiana nel codice civile

Nel sistema civilistico, la già rarefatta categoria dell'imprenditore tout court (art. 2082 c.c.) deve poi accogliere una sotto-distinzione in virtù del profilo dimensionale, al fine di delineare una disciplina sostanzialmente negativa o di esenzione per l'impresa minore (v. per tutti Ferro Luzzi, P., Alla ricerca del piccolo imprenditore, in Giur. comm., 1980, I, 37). Così, per vero, si giustifica l'opinione che sia solo per arbitrio del legislatore – oltre che per retaggio storico e culturale – che certa attività economica si trovi collocata, ma solo nominalmente, nell'alveo dell'impresa, in effetti ricevendo poi una disciplina priva dei connotati a quella caratteristici, e per di più non presentando alcuna soluzione di continuità rispetto alle fattispecie invece qualificate in termini di prestazione di lavoro autonomo, manuale o intellettuale (per tutti Spada, P., Impresa, in Dig. comm., VII, Torino, 1992, specialmente 48).

Dunque, l'art. 2083 c.c. individua la categoria del «piccolo imprenditore», testualmente nominando l'artigiano, oltre al coltivatore diretto del fondo ed al piccolo commerciante, fattispecie tutte accomunate dal requisito di chiusura dello svolgimento dell'attività da parte dell'imprenditore con l'apporto «prevalentemente proprio e della propria famiglia»: ove il parametro della prevalenza, lungi dall'andare riferito ad una quarta categoria di piccoli imprenditori – aggiuntiva rispetto alle tre tipiche – pare teso alla «estrapolazione degli elementi comuni delle figure nominate» (così Cavazzuti, F., Le piccole imprese, in Tratt. dir. comm. Galgano, II, Padova, 1978, 571; e cfr. Capo, G., La piccola impresa, Torino, 2002, 48 ss.). La definizione è formulata con esplicito riferimento all'imprenditore-persona fisica e si pone in rapporto di evidente sfasatura rispetto al possibile assetto organizzativo delle imprese artigiane delineate dalla l. quadro, che possono contare su numeri di dipendenti (anche oltre i 40), tali da diluire il peso dell'apporto del titolare e dei suoi familiari. Il riferimento, comunque, non impedisce di escludere che l'ordinamento possa contenere due divergenti nozioni di piccola impresa, rispettivamente individuale e collettiva (Bonfante, G. – Cottino, G., L'imprenditore, in Tratt. Cottino, I, Padova, 2001, 504).

Questa nozione tipologica conduceva, nell'originaria logica del codice, alla sottrazione dal quadro di previsioni applicabili all’artigiano dell'intero statuto dell'imprenditore commerciale (non piccolo) e, per tradizione consolidata, ciò si traduceva nel favor dell'esenzione dal fallimento, dalla tenuta delle scritture contabili obbligatorie e dalla iscrizione alla Camera di Commercio con effetti legali dichiarativi (art. 2193 c.c.). Ma questo scalino normativo si è andato progressivamente erodendo: il profilo fallimentare resta oggi affidato alla disciplina specialistica dell'art. 1 l. fall. (v. infra, § 5). La previsione testuale di società artigiane comporta, poi, in questi casi, l'assoggettamento alla disciplina inderogabile del comparto societario, in relazione alla contabilità d'impresa ed al bilancio di esercizio. A tacere della interferenza spiegata dalla disciplina fallimentare, che, sanzionando penalmente per bancarotta l'irregolare tenuta della contabilità del fallito, crea un forte incentivo all'osservanza degli adempimenti contabili per tutte le imprese fallibili, a prescindere dalla connotazione civilistica (Gatti, S., Piccola impresa, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 760). Infine, sugli obblighi di registrazione si è sovrapposta la effettiva istituzione del Registro delle Imprese (Nigro, A., Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione: fattispecie e statuti, in Tratt. Rescigno, XV, t. 2, Torino, 2001), comprensivo di una sezione speciale ove vanno ‘annotate’ le imprese artigiane già iscritte all'Albo artigiano, con effetti di pubblicità-notizia (Alvaro, S., sub art. 19 d.p.r. 581/1995, in Nuove leggi civ., 1998, 964). Peraltro, in caso di superamento dei requisiti dell'art. 2083 c.c., l'iscrizione all'Albo non esime da quella nella sezione ordinaria (Marasà, G. – Ibba, C., Il registro delle imprese, Torino, 1997, 52), rendendo sovrabbondante ed inefficiente un cumulo tra annotazione in sezione speciale ed iscrizione in sezione ordinaria, anche considerato l'assorbimento nella seconda degli effetti della prima (Masi, P., “Piccola società” e statuto dell'imprenditore, in Scritti in onore di G. Cottino, Padova, 1997, I, 319). Vanno aggiunti i necessari adempimenti di iscrizione alla Camera di Commercio previsti con valore costitutivo per ogni società capitalistica – che sia artigiana o no.

Di contro, persiste invariata, dell'originario impianto codicistico, una duplice valenza della nozione di piccola impresa artigiana: l'applicazione del privilegio legale previsto dall'art. 2751 bis c.c. e la sottrazione alle regole specifiche sulla cd. rappresentanza commerciale. Su quest’ultimo aspetto, autorevole dottrina (Bigiavi, W., La piccola impresa, Milano, 1947, 38; Spada, P., Imprenditore e impresa artigiana, cit., 711; ma contra, v. Dalmartello, A., Artigianato, in Enc. Dir., III, Milano, 1958, 165) segnala che la preposizione institoria, oltre ad appartenere al cd. statuto dell'imprenditore commerciale, dal quale il ‘piccolo’ è esonerato, in ogni caso realizzerebbe nell'organizzazione aziendale un secondo livello di intermediazione gestionale che non si concilia col precetto della direzione personale dell'attività, proprio dell’impresa artigiana. Nondimeno l'artigiano – pure tale ai sensi della l. quadro – che supera i tetti della piccola impresa civilistica, come viene assoggettato agli obblighi di iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese, altrettanto accede alle regole sulla rappresentanza commerciale (artt. 2203-2213 c.c.).

L’ulteriore profilo di disciplina generale da considerare è il già menzionato privilegio generale previsto in favore dell'impresa artigiana dall'art. 2751 bis n. 5, c.c., che non dipende dalla causa del credito, ma si fonda su di una qualifica giuridica del creditore. Di qui qualche incertezza se tale presupposto soggettivo vada riscontrato secondo le previsioni speciali della l. quadro ovvero, secondo quelle civilistiche dell'art. 2083 c.c. La prassi è orientata nel senso di prescindere dal dato dell'iscrizione all'Albo, per valorizzare, invece, la funzione preminente del lavoro sul capitale nell'ambito dell'organizzazione e la qualificazione dell'attività svolta dall'imprenditore titolare, «tale da costituire il connotato essenziale dell'impresa» (Cass., 31.5.2011, n. 12013, in Giur. it., 2012, 621; v. altresì Cass., 8.11.2006, n. 23795, in Mass. Giur. It., 2006); o, anche, la prevalenza dell'apporto di membri della famiglia (Trib. Milano, 15.3.2011, in Fallimento, 2011, 751).

Questa soluzione merita di essere condivisa: sia perché rispondente all'intenzione del legislatore di favorire crediti che scaturiscono, in via esclusiva o prevalente, dall'impiego di risorse fisiche o intellettuali del titolare, senza risultare imputabili ad altri fattori della produzione (Bione, M., Piccolo imprenditore, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006, 7); sia perché coerente con una logica di chiusura del sistema civilistico, che contiene tanto la definizione sostanziale dell'artigiano, quanto la statuizione sul privilegio del suo credito (Spada, P., Imprenditore e impresa artigiana, cit., 713).

Le società artigiane

Una riflessione sulle società artigiane chiama in causa il tema della progressiva espansione dello strumento societario, impiegato in modo crescente nelle dimensioni organizzative plurisoggettive di diritto privato, anche per il superamento del timore di una spersonalizzazione nell’esercizio di attività per le quali sono essenziali i requisiti di identità e l’apporto diretto del titolare. Tralasciando, qui, l'evoluzione culturale – oltre che normativa – che ha condotto, dapprima, alla abolizione del divieto di costituire società tra professionisti, e poi anche alla relativa regolazione positiva (l. 12.11.2011, n. 183), occorre considerare, piuttosto, che anche la dimensione societaria dell'impresa artigiana risulta ben significativa nell'ambito di questo percorso. Percorso che ha visto in una prima fase (l. quadro) la possibilità di adottare i soli modelli della s.n.c. e soc. coop., dove tutti i soci «dovevano poter fare gli artigiani e la maggioranza doveva esserlo» (Mosco, G.D., La nuova s.r.l. artigiana: prime considerazioni, in Giur. comm., 2001, I, 661); ha aggiunto in seguito, la apertura a s.a.s. e s.r.l. unipersonale (l. n. 133/1997) ed infine, anche alla s.r.l. pluripersonale (l. n. 57/2001), col definitivo superamento delle remore ad applicare modelli a più accentuata vocazione capitalistica per imprese di carattere artigianale, con la sola persistente esclusione dei tipi azionari.

Complessivamente, le regole sulla società artigiana meritano l'unanime critica verso un assetto normativo che, dopo il processo di stratificazione che lo ha caratterizzato, appare oggi ingiustificabilmente diversificato tra disciplina delle s.a.s. e s.r.l. unipersonali, da un lato, e s.n.c., coop. e s.r.l. pluripersonali dall'altro (Aprile, F., Società artigiana e fallimento: percorrendo antichi e nuovi sentieri esegetici , in Giur. comm. 2004, I, 1030). A tacere che l'interprete è messo alla prova da improprietà lessicali e improvvisazioni sintattiche tanto più imperdonabili quanto più cariche di ricadute applicative.

Se ne potrà incominciare la rassegna rilevando che, poiché la società artigiana va «costituita ed esercitata» fruendo di uno dei modelli tipici ammessi, a rigore si giungerebbe all'assurdo di ritenere per implicito escluso che a tale modello si possa successivamente pervenire, migrando da un tipo azionario, mediante trasformazione o altra operazione straordinaria più complessa. Questa lettura risulterebbe talmente irrazionale da costringere a tollerare una prima imprecisione, ed arrivare ad intendere che il momento ‘costitutivo’ rilevante sia quello al quale al fine si perviene, anche provenendo da modelli e soluzioni estranee all'impresa artigiana.

Nell'ordinamento attuale è comunque definita artigiana la società che abbia come «scopo» (rectius: come oggetto, anzi, ‘oggetto esclusivo’) un'attività artigiana secondo l' art. 3 l. quadro; che resta contenuta nei livelli massimi occupazionali dell'art. 4 l. quadro; e che sia organizzata in modo tale che «nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale». Occorre anche che la maggioranza dei soci – o almeno uno dei due soci – siano persone fisiche e soci artigiani secondo i requisiti previsti dall'art. 3 l. quadro per le imprese individuali ( quindi svolgano «in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo»). Il riferimento a un criterio di maggioranza che, in caso di due soci, resta soddisfatto ove almeno uno sia socio artigiano, sgombera il campo da ogni incertezza se si tratti di criterio per capita ovvero plutocratico: la maggioranza, dunque, si computa certamente per teste. E, si aggiunga, deve tenere conto dei soci che partecipano al lavoro non nel modo meramente esecutivo e subalterno del lavoratore dipendente (Allegri, V., Impresa artigiana e capitalismo “controllato”. Le società artigiane dopo la l. 20 maggio 1997, n. 133, in Riv. dir. impresa, 1998, 209).

L'intervento normativo della l. n. 133/1997 ha inserito all'art. 3 l. quadro un terzo comma, legato ai primi da un «altresì», che sul piano strettamente letterale di per sé non aiuta a chiarire se vengano in considerazione requisiti autonomi (v. Guerrieri, G., La società in accomandita semplice artigiana, in Nuove leggi civ., 1998, 1008) ovvero requisiti ulteriori, che si cumulano ai primi, in relazione alle due nuove fattispecie societarie che di seguito la norma elenca. Vale a dire: (i) s.r.l. unipersonale artigiana: occorre che l'unico socio non sia pure socio di altra s.r.l. o di s.a.s.; (ii) s.a.s. artigiana: sono tutti e soli gli accomandatari a dovere rivestire la qualifica di soci artigiani; e gli stessi non possono essere soci di altra s.r.l. o di s.a.s.; in quest'ultimo caso, senza peraltro precisare se si intenda in posizione di accomandante, oltre che, come pare scontato, di accomandatario. Sulla scorta di rilievi sistematici, è ragionevole sposare la tesi del cumulo, che, con l'aggiunta di regole ulteriormente prudenziali per s.a.s. e s.r.l. unipersonali, lascia salvo un identico nucleo di norme regolatrici tutte le società artigiane; e in tale nucleo spicca il precetto, qui più volte ricordato, che «nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale» (art. 3, co. 2, l. quadro).

La comprensione del contenuto effettivo e del senso delle preclusioni in discorso può giovarsi di un coordinamento sistematico con le incompatibilità fissate dall'art. 3, ult. co., l. quadro, per l'imprenditore artigiano (v. supra, § 2) così da riferirsi all'imprenditore artigiano–società e non già ai soci di questa (Guerrieri, G., La società in accomandita semplice artigiana, cit., 1021). Pare corretto ritenere che la legge minus dixit quam voluit (Zamperetti, G.M., La nuova legge sulle società artigiane: prime considerazioni, cit., 1315). Non sarebbe quindi consentito al socio artigiano di rivestire reiteratamente la qualità di socio in (qualsiasi) altra società a propria volta artigiana. Mentre non sarebbe vietata l'assunzione della qualità di socio, anche socio investitore o risparmiatore, in società estranee all'area dell'artigianalità; e nemmeno il cumulo tra l'essere imprenditore individuale artigiano e socio non artigiano.

L'ulteriore riferimento al «trasferimento per atto tra vivi della titolarità della società», con espressione dal vago sentore aziendalistico (Rossi, A., La s.r.l. unipersonale “artigiana”, in Nuove leggi civ., 1998, 1018), deve più tecnicamente essere intesa come riferita ad una cessione (integrale) della quota. In ogni caso, e come è ovvio, la qualità di impresa artigiana persiste ove pure persista in capo all'acquirente ogni requisito soggettivo artigiano già dell'alienante. Il tema della circolazione ‘della società’ (meglio: delle quote di quella) viene trattato facendo inspiegabilmente riferimento alle sole società di cui al co. 3, art. 3 l. quadro: le s.a.s. e le s.r.l. unipersonali.

In seguito la novella del 2001 ha realizzato l’apertura alle s.r.l. pluripersonali artigiane, con ciò eliminando un'esclusione non più giustificabile, dopo l'ammissione di s.r.l. artigiane a socio unico; e tuttavia accomunando le s.r.l. ai modelli più disomogenei del precedente secondo comma – s.n.c. e società coop. –, senza che le previsioni specifiche del terzo comma, viciniori perché relative alle s.r.l. unipersonali, si possano riferire ad esse.

Per le s.r.l. artigiane pluripersonali si è però inserito all'art. 5 l. quadro il requisito aggiuntivo che la maggioranza dei soci, ovvero uno dei due soci «detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società». Questo riferimento agli «organi deliberanti della società», già di per sé vago nel rimandare all'organo assembleare ovvero a quello amministrativo o ad entrambi (Mosco, G.D., La nuova s.r.l. artigiana: prime considerazioni, cit., 670), risulta a maggior ragione improprio, dopo che la riforma societaria capitalistica del 2003 ha ridefinito il tipo s.r.l. secondo regole e principi tutt'altro che irrilevanti nel discorso, anche per effetto dell'apertura a variazioni statutarie di opt in.

Difficile e tuttavia necessario si profila il coordinamento fra le disposizioni in tema di società artigiana e l'art. 2 l. quadro, che ad ogni artigiano richiede di essere «titolare» dell'impresa, «assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione». Per le società artigiane, infatti, da un lato il profilo della titolarità dell'impresa non può che andare ricondotto alla società stessa costituita per il suo esercizio, e non al socio artigiano, che mai può essere titolare dell'impresa; d'altro lato, l’assunzione della piena responsabilità non può venire intesa in chiave di responsabilità patrimoniale per i debiti, e dunque deve essere interpretata nel senso di imporre al socio artigiano l’acquisizione di una potestà di direzione ed indirizzo sulla società, in ottica gestionale, e quindi, attraverso la necessaria assunzione della carica di amministratore, e di amministratore unico nelle s.r.l. unipersonali (Rossi, A., La società a responsabilità limitata unipersonale “artigiana”, cit., 1031); o perlomeno, attraverso le prerogative in ambito amministrativo che al socio di s.r.l. possono spettare in forza dell'art. 2468 c.c. Sicché l'attribuzione dei poteri amministrativi anche a soggetti esterni ai soci, oggi consentita per legge (art. 2475 c.c.), non pare incompatibile con l'artigianalità della s.r.l., a condizione che la guida tecnico-operativa dell'attività resti in mano a (la maggioranza dei) soci artigiani.

La fallibilità dell'impresa artigiana

Il tema della fallibilità dell'impresa artigiana ha impegnato gli interpreti in un dibattito pluridecennale, alimentato vuoi da certi dubbi sulla collocazione dell'artigiano nell'area dell'impresa commerciale e, dunque, fallibile, vuoi da altrettanti dubbi sulla collocazione dell'artigiano nell'ambito dell'impresa civilisticamente non piccola e, dunque, pure fallibile (Gallesio Piuma, M.E., Artigiano, in Dig comm., I, Torino, 1997, 252).

La natura imprenditoriale dell’attività artigiana già poteva fondarsi sul riscontro della sussistenza di ogni presupposto contenuto nella definizione dell'art. 2082 c.c. (Spada, P., Impresa, cit., 32); ivi compresi quegli elementi anche minimi di eterorganizzazione, ossia di coordinamento tra mezzi di produzione, idonei a tenerla distinta dalla fattispecie del lavoratore autonomo, auto-organizzato, ossia pianificatore del solo agire proprio (art. 2222 c.c.). In ogni caso, l'appartenenza alla fattispecie-impresa non pare più seriamente questionabile, dopo che l'ordinamento ne ha testualmente previsto l'iscrizione al Registro delle Imprese, sebbene in sezione speciale.

Quanto al tema della commercialità dell'impresa artigiana (Dalmartello, A., Artigianato, cit., 162), merita accoglimento la lettura di gran lunga più accreditata in letteratura, che supera l'ostacolo del difetto del requisito della «industrialità» prescritto in generale per le imprese commerciali dall'art. 2195 c.c., rilevando che tale requisito interferisce con le modalità e non già con l'oggetto dell'attività. Di tal ché, per svariate ragioni sulle quali non è dato qui soffermarsi, non resterebbe spazio alcuno per la ricostruzione di un tertium genus atipico di impresa – cd. ‘civile’ – , oltre a quella agricola ed a quella commerciale (Gallesio Piuma, M.E., Impresa artigiana, in Dig. comm, IV, Torino, 1992, 143). Pertanto, risulta corretto classificare quella artigiana nel quadro dell'impresa in generale, e dell'impresa commerciale in particolare; con ciò arrivando a soddisfare i presupposti soggettivi di fallibilità dell'art. 1, co. 1, l. fall.

Si fa quindi determinante il profilo dimensionale, pure rilevante ai fini dell'assoggettamento al fallimento: in proposito, va menzionato il lavorio di quell'insegnamento giurisprudenziale, consolidatosi e dominante negli anni Novanta del secolo scorso, che si era affaticato sulla distinzione tra piccole imprese artigianali non fallibili e imprese artigianali non piccole e pertanto fallibili, ove l'artigiano «per l'organizzazione e l'espansione dell'impresa, industrializzi la sua produzione, conferendo al suo guadagno, di regola modesto, i caratteri del profitto», caratteristico dell'intermediazione speculativa (così per tutte Cass., 5.3.1987, n. 2310, in Fallimento, 1987, 938). Questo sforzo ricostruttivo scaturiva da un quadro normativo segnato dalla coesistenza della previsione speciale dell'art. 1 l. fall. con la statuizione dell'art. 2221, c.c., di esenzione dal fallimento per le piccole imprese (Bigiavi, W., La piccola impresa, cit., 121). La tormentata questione esegetica si era ulteriormente complicata per il vuoto normativo provocato dal progressivo smantellamento del contenuto del previgente art. 1, co. 2, l. fall., prima per effetto della abrogazione dell'imposta di ricchezza mobile, già elevata a indicatore di riferimento, poi per gli interventi della Corte Costituzionale, nell'interpretazione abrogante dell'art. 1, co. 2, l. fall., sulla intrinseca dimensione – mai ‘piccola’ – delle società commerciali (C. Cost., 22.12.1989, n. 570, in Foro it., 1990, I, 1132; C. Cost. 21.12.2002, n. 18235, in Foro it., 2003, I, 764; C. Cost., 23.7.1991, n. 368, in Giur. comm.,1993, II, 5).

A seguito della riformulazione della legge fallimentare – che, in parte qua, risale alle riforme degli anni 2006/2007 – questa incertezza deve ritenersi superata: non potendosi dubitare che la nuova disciplina, non solo successiva nel tempo rispetto al codice civile, ma anche speciale sulla materia, abbia inteso delineare ed in effetti, abbia l'attitudine a delineare i contorni dell'area della fallibilità in via esclusiva, mercé un criterio squisitamente numerico e quantitativo.

Tale è l’esito ottenuto formulando in termini positivi le condizioni dimensionali per la fallibilità e sgombrando quindi il campo dalle incertezze sulla fallibilità o no dell'impresa artigiana, in un rinnovato sistema nel quale, indipendentemente dalla connotazione qualitativa dell'impresa – nonché dalla sua veste giuridica, se societaria o no – la soggezione al fallimento dipende esclusivamente dal superamento della soglia dimensionale individuata dall'art. 1, co. 2, l. fall. (Bione, M., Piccolo imprenditore, cit., 5; Cavalli, G., La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in Ambrosini, S., a cura di, La riforma della legge fallimentare, Bologna, 2006, 8; Fortunato, S., Commento all'art. 1, in Jorio, A. – Fabiani, M., diretto e coord. da., Il nuovo diritto fallimentare, I, Bologna, 2006, 56; Vitiello, M., I presupposti del fallimento, in Ambrosini, S., a cura di, Le nuove procedure concorsuali, Bologna2008, 6; cnf. Cass., 1.2.2008, n. 2455, in Fallimento, 2008, 463).

Il dato di diritto positivo, in una con gli indici provenienti dall'interpretazione storico-evolutiva e con un corretto lavoro di raccordo delle fonti, escludono ogni spazio al sindacato giudiziale in relazione alle imprese sopra soglia dimensionale, nel tentativo di esentarle da fallimento ove intrinsecamente riconducibili alla categoria civilistica della ‘piccola impresa’, in forza dell'applicazione del mai abrogato art. 2221 c.c. (ma in tal senso v. Ferri, G. jr., In tema di piccola impresa tra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2007, 736).

Occorre tuttavia rifuggire dalla semplificazione di bollare l'attuale opzione normativa come grossolanamente volta a tracciare una linea di demarcazione che, pure efficiente dal punto di vista della certezza del diritto, sacrifica ogni più sofisticato profilo definitorio in nome di mere esigenze deflattive di economia processuale. Preferibile ritenere la nuova impostazione apprezzabile, in quanto capace di selezionare i casi nei quali l'allarme sociale provocato dall'insolvenza debba comportare la soluzione fallimentare, peraltro percorribile anche coattivamente. Rendendo a questi fini irrilevante, e persino fuorviante, distinguere a seconda di profili – la veste giuridica societaria o no; l'artigianalità/industrialità dell'attività svolta – che non solo non interferiscono con la logica prescelta; ma che, anzi, avevano condotto, in passato, e non senza opinabili acrobazie interpretative, secondo itinerari tormentati e contraddittori, ad assetti di diritto vivente quantomeno irrazionali, quali, su tutti, l'assioma della generale fallibilità di ogni società commerciale, seppure imprenditorialmente modestissima (C. Cost., 14.11.2005, n. 421, in Foro it., 2006, I, 652, con nota critica di Fabiani, M., Appunti sulla società-piccolo imprenditore nella legge fallimentare riformata; Cass. 21.12.2002, n. 18235, in Fallimento, 2003, 763).

Mette conto peraltro ricordare che più recenti suggestioni comparatistiche, non disgiunte da valutazioni di opportunità sull'estensione del trattamento concorsuale a tutte le situazioni di insolvenza – financo civili e riconducibili al ‘consumatore’ – hanno condotto all'introduzione, pure nell'ordinamento italiano, di procedure concorsuali di gestione del ‘sovraindebitamento’ fruibili da tutti i soggetti non fallibili, secondo le previsioni della l. 27.1.2012, n. 3 ( Maffei Alberti, A., Commentario breve alla l. fall., Padova, 2013, 2027 ss.); procedure che, dunque, risultano accessibili anche all'impresa artigiana sotto soglia di fallibilità e permettono alla stessa di conseguire effetti liberatori dei debiti pregressi, nella prospettiva di un cd. fresh start che la immetta nuovamente nel circuito delle attività economiche produttive.

Fonti normative

Artt. 45, 117 Cost.; artt. 2083, 2202, 2214, 2221, 2751 bis c.c.; art. 1 l. fall.; l. 8.8.1985, n. 443.

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