BENEDETTI MICHELANGELI, Arturo

Dizionario Biografico degli Italiani (2013)

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BENEDETTI MICHELANGELI, Arturo

Piero Rattalino

Pianista fra i più celebri, ammirati e mitizzati del Novecento, nacque a Brescia il 5 gennaio 1920, primogenito di Giuseppe e di Angela (detta Lina) Paparoni.

Fu battezzato il 29 gennaio con i nomi Arturo, Francesco, Andrea, Giovanni Maria. La madre, nata a Terni, è indicata nell’atto di battesimo del figlio come «casalinga con diploma di maestra»; il padre, nato a Foligno e laureatosi in giurisprudenza a Bologna, dopo aver contratto una malattia polmonare durante la permanenza al fronte nella prima guerra mondiale, aveva abbandonato la professione forense e, avendo studiato anche la musica, la insegnava privatamente. I genitori si erano trasferiti a Brescia, da Massa Marittima, il 22 dicembre 1919.

Formazione

Dopo le prime lezioni di pianoforte ricevute in casa il piccolo Arturo fu iscritto nell’Istituto musicale Antonio Venturi della sua città, allievo di Paolo Chimeri per il pianoforte e, per breve tempo, di Maria Francesconi Trentini per il violino. Verso il 1930 lasciò l’istituto cittadino e proseguì gli studi a Milano, privatamente, con Giovanni Anfossi, insegnante nel Collegio reale delle Fanciulle e titolare di una scuola di sua proprietà. Sostenne l’esame di patente di pianoforte nel Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano nella sessione autunnale dell’anno scolastico 1930-31; nello stesso conservatorio sostenne da privatista, il 12 giugno 1934, l’esame di diploma, ottenendo nelle diverse prove punteggi da 6 a 10, con una media di 8,50. Il programma della prova di esecuzione vera e propria, classificata con 10 e comprendente il primo libro delle Variazioni su un tema di Paganini op. 35 di Brahms e i Jeux d’eau di Ravel, dimostra che il quattordicenne Benedetti Michelangeli era un pianista completo. Questa, si può dire, era ed è in verità la norma per tutti i ragazzi in possesso di eccezionali doti naturali. Era ed è però consuetudine, se non vera e propria norma, che dopo una prova di questo genere il ragazzo iperdotato prosegua gli studi con un altro maestro. Nel 1933 era stato inaugurato nell’Accademia di S. Cecilia di Roma il corso di perfezionamento tenuto da Alfredo Casella, e a Tremezzo sul Lago di Como si svolgevano dal 1934 i corsi estivi tenuti da Artur Schnabel. Benedetti Michelangeli non approfittò di queste occasioni che gli erano offerte dalla non florida vita musicale italiana, e dopo il diploma continuò a studiare con Anfossi, che non era concertista e non aveva mai avuto allievi che si fossero affermati nel concertismo a livello internazionale, ma era uomo di vaste e altolocate relazioni sociali. Sotto la sua guida Benedetti Michelangeli intraprese la strada dei concorsi: si classificò secondo in due competizioni nazionali, a Genova nel 1936 e a Firenze nel 1937, e nel 1938 prese parte alla prima edizione del concorso di Bruxelles, patrocinato e finanziato dalla regina-madre Elisabetta del Belgio. Gli 84 concorrenti iscritti si ridussero nella finale a 12. Vinse Emil Gilels, Benedetti Michelangeli si classificò al settimo posto. Come sempre avviene in questi casi, non essendo possibile mettere in discussione la superiorità del ventiduenne Gilels, si disputò sulle altre posizioni. Parecchi critici ritennero che il diciottenne Benedetti Michelangeli fosse stato penalizzato, si insinuò anche che proprio il giurato italiano Carlo Zecchi avesse provveduto con un voto bassissimo all'insoddisfacente classificazione del connazionale. La seconda classificata, l’inglese Moura Lympany, racconta che Benedetti Michelangeli si trovò in gravi difficoltà con il Concerto n. 1 di Jean Absil, inedito, che i 12 finalisti dovettero eseguire dopo due settimane di studio (Moura: her autobiography, London 1991, p. 58). Arthur Rubinstein, che faceva parte della giuria, dice semplicemente che «Arturo Benedetti Michelangeli, il famoso artista italiano, offrì allora un’esecuzione insoddisfacente, sebbene mostrasse già di possedere una tecnica impeccabile» (Autobiografia. Gli anni della maturità, trad. di M.C. Vitale, Napoli 1991, p. 429). La regina Elisabetta, appassionata dilettante di violino, invitò Benedetti Michelangeli a corte e suonò con lui, ed è probabile che comunicasse le sue impressioni alla figlia Maria José, moglie dell’erede al trono italiano.

Successo, modelli, peculiarità

La rivincita giunse nel luglio dell'anno dopo a Ginevra, nella prima edizione del concorso che avrebbe avuto una lunga vita. Alfred Cortot, membro della giuria, affermò che era nato un nuovo Liszt e con questo autorevolissimo viatico la carriera internazionale di Benedetti Michelangeli era ormai spalancata, ma in settembre scoppiò la guerra, e quindi le prospettive appena aperte si chiusero immediatamente. La vittoria nel concorso gli fruttò però la nomina per titoli a professore di pianoforte nel Conservatorio di Bologna, e il servizio militare gli fu reso il più blando possibile, si mormorò, per un sotterraneo intervento della Real Casa. Durante la guerra poté così suonare spesso in Italia (spessissimo alla Scala di Milano) e poté fare qualche puntatina all’estero (Berlino, Ginevra, Zurigo, Barcellona). Nel 1943 sposò una coetanea, allieva di suo padre, Giuliana Guidetti. Interrotta l’attività concertistica fra il giugno 1944 e il maggio 1945, e scampato ai rastrellamenti tedeschi nascondendosi in casa di amici, riprese a suonare in pubblico il 26 giugno 1945 alla Scala. Nel 1946 esordì a Londra, riannodando in pratica il filo che era stato interrotto nel 1939. Nel 1947 prese parte a una tournée dell’Orchestra della RAI di Torino che toccò la Svizzera, il Belgio e l’Inghilterra, nel 1948 esordì negli Stati Uniti e in Canada, nel 1949 in Argentina.

La registrazione live quasi completa del Primo Concerto di Liszt (Ginevra, 8 luglio 1939), le incisioni in studio del Concerto op. 16 di Grieg (9 febbraio 1942) e del Concerto op. 54 di Schumann (9 aprile 1942), nonché di alcune pagine per pianoforte solo, fra cui il Fantasque di André-François Marescotti (1941), i Reflets dans l’eau di Debussy (1941), la Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven (1941), la Berceuse di Chopin (1942), la Sonata K 96 di Domenico Scarlatti (1943), il Concerto italiano di Bach (1943) bastano a far capire quali fossero le caratteristiche del giovane, che si inseriva in modo sorprendentemente maturo nella tradizione dei pianisti-virtuosi. Cortot citava Liszt, interpretando in modo probabilmente esatto ciò che le cronache dell’Ottocento avevano detto di colui che aveva fondato il concertismo moderno. Esempi più vicini e più verificabili di questo tipo di virtuosismo trascendentale erano Moriz Rosenthal, nato nel 1862, e Vladimir Horowitz, nato nel 1903. Benedetti Michelangeli avrebbe avuto occasione di ascoltare a Milano sia Rosenthal (nel 1935) sia Horowitz (nel 1935 e nel 1936); nessun documento attesta che li abbia ascoltati davvero o che conoscesse per lo meno i loro dischi, ma alcune caratteristiche del suo pianismo sono riferibili sia all’uno sia all’altro, così come certe altre sono riferibili a Walter Gieseking (a Milano nel 1936, 1938 e 1939) e a Cortot.

Il virtuosismo di Benedetti Michelangeli, che non era fatto soltanto di velocità e potenza accoppiate ma, molto di più, di scienza trascendentale del tocco e di scienza trascendentale del pedale di risonanza, può essere colto molto bene nel Fantasque di Marescotti, proprio perché il pezzo non è affatto difficile meccanicamente. Nella parte centrale l’evento principale (la melodia) e l’evento secondario (l’accompagnamento) sono collocati, come avviene spesso in Debussy e in Ravel, nella stessa zona della tastiera, cosa che crea ardui problemi di tocco per il pianista. Nell'esecuzione di Benedetti Michelangeli la melodia è scolpita e l’accompagnamento è lontanissimo, mormorante, ma perfettamente udibile. La ‘cavata’ di Cortot e il flou impressionistico di Gieseking vengono accoppiati in modo da dare l’impressione di due eventi eseguiti da due pianoforti, non da uno solo. Nella Sonata K 96 di Scarlatti il confronto con l’esecuzione di Carlo Zecchi mette in piena luce il contrasto fra la superficie smaltata e lucente (Zecchi) e il gioco delle luci e delle ombre sulla tela (Benedetti Michelangeli), e – detto per inciso – fa anche capire perché si malignasse sulla gelosia di Zecchi nei confronti dell’astro nascente. Benedetti Michelangeli non solo domina in ogni situazione la gamma dinamica dal pianissimo al fortissimo, ma alla gamma dinamica affianca una gamma timbrica che richiede una tecnica del tocco quale rarissimamente si trova nel pianista e che fa appunto pensare, come modelli, a Rosenthal e a Horowitz o, per quanto risulta dalle descrizioni, a Liszt e a Busoni (il cui lascito discografico è troppo ristretto per poter essere probante).

L’altro inconfondibile elemento dello stile di Benedetti Michelangeli in questa fase della carriera è il cantabile. Le melodie vengono rese in modo nettamente vocalistico, con attese, sospensioni (cioè prese di fiato), smorzature, sbalzi di dinamica, accelerazioni in vicinanza del punto culminante e successive, distensive decelerazioni. In questo caso non si pensa più ai pianisti ma ai cantanti italiani del tempo, a Beniamino Gigli, a Tito Schipa. E per questo aspetto dello stile sembra probabile che per Benedetti Michelangeli avesse contato molto l’insegnamento di Chimeri, maestro di coro e direttore d’orchestra in diverse stagioni d’opera in provincia. Da qui deriva la concezione del tempo, che può essere organizzato in modo serrato nei brani ‘motorici’ (per esempio, nei movimenti mossi del Concerto italiano di Bach e della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven) oppure, a seconda delle esigenze del cantabile, può essere portato in qualche momento fino al limite dell’informale (per esempio nella Berceuse di Chopin). Tutti questi caratteri stilistici sono riscontrabili al massimo grado, come in un campionario, in Reflets dans l’eau di Debussy. Ma il ricordo di un’esecuzione del Concerto in Sol di Ravel, ascoltata alla radio durante la guerra, fa pensare che la chiave attraverso la quale Benedetti Michelangeli entrava nel multiforme mondo della letteratura pianistica, il catalizzatore di tutte le impressioni ricevute dall’insegnamento e dalla vita musicale, dovesse essere il manierismo di Ravel, la poetica del miroir, dello specchio.

Una personalità ispida

I dischi degli anni di guerra permettono dunque di capire lo stile di Benedetti Michelangeli, la sua originalità e il suo rapporto con la tradizione, e la genialità delle sue soluzioni. Più difficile, o quasi impossibile, è capire davvero il personaggio. Qualche elemento consente tuttavia di fare per lo meno delle ipotesi.

Innanzitutto, il rapporto con i genitori e con i coetanei. Non frequentò nessuna scuola pubblica: all’educazione del piccolo ‘Ciro’ – così era chiamato in casa – provvide soltanto la madre. Dice, della suocera, la moglie di Benedetti Michelangeli: «Alta, slanciata come il figlio, a lui molto assomigliava. Autoritaria, intelligente, esercitò notevole influenza sullo sviluppo artistico del figlio che, pur amandola, la temeva»; se «Ciro provava soggezione verso sua madre, essa nutriva considerazione per suo figlio, in cui già vedeva stagliarsi la figura del futuro artista. Questi stati d’animo non rivelati, ma tenuti chiusi nell’anima, facevano sì che tra madre e figlio non sbocciasse quella confidenziale comunicativa che, invece, correva tra padre e figlio. Ciro ha indubbiamente avvertito la tensione e ha provato un senso di mancanza per l’assenza di comunicativa con sua madre che, pure, ripeto, amava con tutto il suo cuore» (G. Benedetti Michelangeli 1997, pp. 18 s.). Sembra probabile che dal difficile rapporto con la madre nascesse il desiderio oscuro di una maternità sostitutiva, che venne trovata dapprima nella signora Maria Lentati di Milano, di cui fu ospite molto spesso negli anni Trenta e Quaranta e che gli regalò il suo primo pianoforte a coda, e, dopo una drammatica rottura con costei, con la signora Amalia Lanzerotti di Catania. Il padre era «di temperamento dolcissimo, accentuato forse dalla fragile salute» (ibid., p. 19). Orfano in tenera età di entrambi i genitori, aveva avuto come tutore un diplomatico sudamericano che lo aveva portato con sé nei vari paesi in cui prestava servizio. Un elemento di turbativa per Benedetti Michelangeli, se ne fu a conoscenza, poté essere il fatto che al momento della sua nascita i genitori non fossero ancora sposati.

La mancata frequenza della scuola pubblica – le lezioni di pianoforte e di violino nell’Istituto Venturi di Brescia non erano, ovviamente, collettive – non sviluppò nel fanciullo il senso della socializzazione: fu per tutta la vita uomo di poche e tenaci amicizie con persone che riconoscevano in ogni circostanza la sua superiorità, e non ebbe significative relazioni sul piano sociale e intellettuale se non una, col direttore d’orchestra Sergiu Celibidache. Nella formazione della sua personalità ebbero inoltre un ruolo importante anche la nascita nel 1924 di un fratellino, che provocò in lui sentimenti di gelosia, e nel 1926 di una sorellina che morì a 7 anni, «lasciando genitori e fratelli in una disperazione che durò tutta la vita» (ibid., p. 17).

Questi sparsi elementi, considerati nel loro insieme, danno forse ragione del ‘romanzo familiare’ (per usare l’espressione di Maynard Solomon a proposito di Beethoven) che Benedetti Michelangeli creò su due distinti registri. Primo registro: la discendenza da un’antica schiatta, che riscattava la grigia realtà di una famiglia piccolo-borghese con padre e madre che non esercitavano alcuna professione e dotati limitati mezzi economici: «Il papà di Ciro discendeva da un casato antico, risalendo fino a Jacopone Benedetti, detto da Todi, l’autore presunto della sequenza dello Stabat mater e che fu pure frate. Abbracciò lo stato monacale dopo che sua moglie, Vanna, morì tragicamente durante una festa. Sposò, quindi, una nobile fanciulla, la cui famiglia vantava antichissime origini: era una contessina Michelagnoli. Il cognome, poi, nei secoli, fu trasformato in Michelangeli. [...] Quindi Arturo, a tutti gli effetti, era Benedetti dei conti Michelangeli. Ci teneva al suo titolo, anche se non usava parlarne» (ibid., pp. 8 s.). Questa fantasiosa ricostruzione araldica – Vanna, moglie di Iacopo dei Benedetti, era figlia di Guidone dei conti di Coldimezzo – soddisfaceva evidentemente per Benedetti Michelangeli il bisogno profondo di collegare sé stesso con un grande poeta del Duecento. E nel 1942 Benedetti Michelangeli, con alcuni amici, volle idealmente far rivivere la seicentesca Accademia degli Erranti, «costituita da una dolce e amorevole compagnia di virtù fondata perché si avesse modo di passare, con qualche virtuoso et honorato intrattenimento, quelle hore che da molti, al dannoso e biasimevole ozio e all’oblio del viver possente dar si sogliono, dismemori dei cieli, dell’ondoso pulsare oceanico e della volubile terra» (cit. in Sabatucci, 1996, p. 170). Sembra evidente che la creazione simulata di un’accademia (con tanto di ritrattino su pergamena degli accademici, in abiti medievali), al di là del gioco arcaicizzante ed estetizzante, sveli un atteggiamento psicologico bramoso di elitarismo. Senza voler trarre conclusioni affrettate da elementi non abbastanza ampi, sembra di poter dire che questo aspetto del romanzo familiare spieghi il tono di medievale favola cavalleresca che si nota nell’interpretazione del 1939 del Primo Concerto di Liszt e che ritorna spesso nelle incisioni degli anni di guerra e del primo dopoguerra fino all’incirca al 1952.

L’altro «ramo» del romanzo familiare è degli anni Settanta, dopo che Benedetti Michelangeli aveva sdegnosamente abbandonato l’Italia a seguito di un’intricata vicenda di cui si tratterà più avanti. In alcune interviste egli dichiarò allora che la famiglia era di origine tedesca, Benedikter, e che una nonna lo aveva portato in giro per l’Europa facendogli studiare il pianoforte con (innominati) maestri austriaci. E disse di essere stato durante la guerra pilota di un bombardiere. Sembra evidente che in questo caso Benedetti Michelangeli si ‘appropriasse’ dei vagabondaggi del padre al seguito del diplomatico sudamericano e che rendesse realistico un suo sogno di gloria militare. Questo secondo registro del romanzo familiare può dar ragione del carattere ‘eroico’ delle interpretazioni degli anni Sessanta e Settanta.

Virtuosismo e cantabilità

Le incisioni in studio degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra (Variazioni su un tema di Paganini op. 35 di Brahms e Ciaccona di Bach-Busoni, entrambe del 1948) consentono di cogliere la natura del virtuosismo di Benedetti Michelangeli, ma soltanto per quanto riguarda tre aspetti: il gioco, l’illusionismo, la magia. Una certa prudenza, il timore di perdere il controllo nell’incisione di dischi a 78 giri, della durata di circa 5 minuti per facciata, non correggibili in caso di errore, dovettero frenare l’altro aspetto del virtuosismo, la bravura, che richiede l’assunzione di forti rischi.

La bravura di Benedetti Michelangeli spicca invece nelle registrazioni dal vivo del Quinto Concerto di Beethoven (Milano, La Scala, 24 novembre 1947) e del Concerto op. 54 di Schumann (New York, Carnegie Hall, 21 novembre 1948). La tensione virtuosistica è molto forte nel Concerto di Beethoven ed è addirittura spasmodica nel Concerto di Schumann, fors’anche perché il direttore è un ‘dionisiaco’ come Dimitri Mitropoulos. I passi più ardui del Concerto di Schumann, scritti da un non-pianista e perciò non perfettamente idiomatici, vennero risolti da Benedetti Michelangeli con una facilità e una spavalderia tali da lasciare attonita la gente del mestiere. Si metteva in concorrenza con Horowitz, dominatore insieme con Rubinstein della scena statunitense, e reggeva il paragone sotto l’aspetto sia del virtuosismo di bravura sia del lirismo, con una declamazione da melodramma italiano che metteva i brividi. Che metteva sì i brividi al pubblico ma che fu giudicata impropria dalla maggior parte dei critici, tanto che la tournée non fu trionfale: talché, dopo una seconda e più breve tournée nel 1950, Benedetti Michelangeli non tornò più negli Stati Uniti fino al 1966.

Un che di parzialmente nuovo nella cantabilità di Benedetti Michelangeli si nota nell’esecuzione del Concerto K 466 di Mozart registrata dal vivo a Firenze il 17 giugno 1953. Si ritrovano qui gli slittamenti nel tempo e nella dinamica e le smorzature del suono e il gusto delle mezze voci che sono tipici dello stile vocale del melodramma italiano. Ma rispetto al passato si avverte la svolta riformatrice che era stata impressa alla vocalità dall’apparizione di Maria Callas: vocalità non più genericamente ‘lirica’ ma, se così si può dire, neoprotoromantica (Norma e Puritani di Bellini, e Medea di Cherubini, ‘rivisitate’ dalla Callas fra il 1951 e il 1953). L’altra importante esecuzione live è quella della Sonata op. 35 di Chopin (Arezzo, 12 febbraio 1952): sonorità spesso al limite dell’audibilità, fortissimi contrasti tematici, sbalzi di tempo ed episodi condotti ad andature talmente lente da far perdere la percezione della misura senza però far mancare la tensione ritmica, con una Marcia funebre di una cupezza, di un fatalismo impressionanti, e con un altrettanto impressionante finale, pienamente rispondente alla simbologia del 'vento fra le tombe' risalente al romantico Anton Rubinštejn.

Negli anni Cinquanta, periodo di attività concertistica molto intensa salvo la parentesi del 1954, quando Benedetti Michelangeli fu costretto a un assoluto riposo per motivi di salute (sintomi di tisi), si nota l’esclusione dal repertorio di molti autori toccati negli anni precedenti e la focalizzazione dell’interesse su Mozart, Chopin, Debussy e Ravel. Rinunciò alle composizioni più spettacolari (per esempio, alla Rapsodia ungherese n. 12 di Liszt e a Islamey di Balakirev, di cui non si hanno né incisioni né registrazioni) e mostrò invece un certo interesse per la musica contemporanea (Ballade di Frank Martin, Concerto di Mario Peragallo, Kinderkonzert di Franco Margola, Concerto n. 4 di Rachmaninov, Suburbis di Frederic Mompou), ma non riprese le composizioni di Schönberg (Klavierstücke op. 11 e op. 19, Suite op. 25) che aveva eseguito prima della guerra come esempi musicali in conferenze tenute da Luigi Rognoni. Più tardi avrebbe studiato, ma mai presentato in pubblico, tre Preludi e fuga dall’op. 87 di Šostakovič.

La svolta del 1955

Lo stile di Benedetti Michelangeli subì una sensibile evoluzione dopo la ripresa dell’attività nel 1955. Forse a questa svolta non furono estranee le riserve della critica statunitense e la stroncatura della sua arte pronunciata da Beniamino Dal Fabbro nel Crepuscolo del pianoforte (Torino 1951, pp. 203-207). La sosta di un anno per motivi di salute potrebbe averlo indotto a riconsiderare la propria collocazione nel panorama del pianismo contemporaneo e, in particolare, a rivedere la propria posizione nei confronti del neoclassicismo e del problema, antistorico ma vivissimo nel dibattito culturale del dopoguerra, del ‘classico’. Le esecuzioni della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven, documentate dal 1941 al 1987, e del Quinto Concerto dello stesso Beethoven, documentate dal 1947 al 1983, sono la dimostrazione di un lento processo di rinuncia al virtuosismo, allo scintillio come all’impalpabilità sonora, e della ricerca di una maggior regolarità nella scansione del tempo e di una maggior pacatezza nella declamazione o, in sintesi, di una forte tensione verso l’oggettività dell’interpretazione. Ma questo processo di oggettivazione e di eroicizzazione investe anche i romantici e investe Debussy e Ravel, come è dimostrato dalle esecuzioni delle Images del primo, documentate al completo – dopo i Reflets dans l’eau del 1941 – dal 1962 al 1993, e del Gaspard de la nuit del secondo, documentate dal 1959 al 1987. Le interpretazioni storicamente più rilevanti, oltre a quelle già citate, riguardano le registrazioni in studio del Concerto in Sol di Ravel e del Quarto Concerto di Rachmaninov (1957), che rappresentano ancor oggi due modelli assoluti, e di un vasto gruppo di composizioni di Scarlatti, Galuppi, Beethoven, Chopin, Debussy (in video per la RAI di Torino, 1962), nonché i live del Carnaval e del Faschingsschwank aus Wien di Schumann (1957), della Sonata D 537 di Schubert (1975) e delle Ballate op. 10 di Brahms (1973).

Traversie legali ed espatrio

Negli anni Sessanta Benedetti Michelangeli fondò con due amici (Giuseppe Boccanegra e Nicola Filiberto di Matteo) la casa discografica BDM, impegnandosi a consegnare dieci nastri da lui registrati. Ne consegnò uno solo e l’azienda entrò in crisi. Nel 1968 fu messa in liquidazione. Il curatore fallimentare, ritenendo che la mancata consegna di nove nastri fosse stata la causa prima del dissesto, chiese e ottenne il sequestro cautelativo dei beni di Benedetti Michelangeli. L’ufficiale giudiziario si presentò il 13 giugno 1968 nel teatro Novelli di Rimini, dove l’artista stava tenendo un concerto, per notificargli il sequestro dell’onorario e delle due baite che possedeva a Rabbi in provincia di Trento con i relativi arredi, fra cui due pianoforti a coda. L’azione giudiziaria era dovuta, ma il sequestro era discrezionale e la procedura per notificarlo era stata scelta in modo che la notizia divenisse facilmente di dominio pubblico. Benedetti Michelangeli si sentì oltraggiato e dichiarò che non avrebbe più suonato in Italia. L’iter giudiziario si trascinò per 12 anni e si concluse con un concordato senza che Benedetti Michelangeli dovesse sborsare alcuna somma. Ma il danno d’immagine era stato fatto e l’offesa era stata bruciante: Benedetti Michelangeli non recedette mai dalla sua decisione, neppure dopo gli interventi pacificatori del primo ministro Aldo Moro e del presidente della Repubblica Sandro Pertini. In un primo momento si stabilì nel Canton Zurigo, ma poco più tardi, grazie all’interessamento di alcuni ammiratori, ottenne il permesso di soggiorno nella Svizzera italiana che in un primo momento gli era stato negato. Abitò fino al 1979 a Riva San Vitale sul lago di Lugano, poi a Pura nell’entroterra luganese, mantenendo tuttavia la cittadinanza italiana e il domicilio a Bolzano (dove era stato docente al Conservatorio).

Nel 1965 Agostino Orizio fondò il Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo Arturo Benedetti Michelangeli. Nel 1968 Benedetti Michelangeli ritirò il suo nome ma il festival proseguì la propria attività. Nel 1980, con la causa del fallimento della BDM ormai in fase di risoluzione, vennero annunciati tre recital di Benedetti Michelangeli a Brescia nell’ambito del Festival e il 24 maggio il Corriere della sera uscì con la notizia «Arturo Benedetti Michelangeli torna a suonare in Italia». Il 30 maggio il giornale milanese pubblicò con un titolo ironico – «Benedetti Michelangeli suona a Brescia “ma non rientra in Italia”» – la smentita che era pervenuta dall’avvocato dell’artista, il quale annunciava che ci sarebbe bensì stato a Brescia un recital, ma soltanto come omaggio alla memoria del papa bresciano Paolo VI. L’ironia del Corriere non era in verità gratuita, ma Benedetti Michelangeli, uomo tutto d’un pezzo, fu al solito irremovibile.

La sua carriera, dopo aver raggiunto il culmine negli anni Sessanta con l’esordio nell’Unione Sovietica (1964) e in Giappone (1965) e col ritorno negli Stati Uniti a partire dal 1966, e dopo uno splendido periodo negli anni Settanta, si fece progressivamente meno intensa negli anni Ottanta. Il 17 ottobre 1988 a Bordeaux, durante un recital per beneficenza, ebbe un grave attacco cardiaco e rimase 9 ore sotto i ferri per una difficile operazione all’aorta. Riprese a suonare nel 1989 e tornò anche in Giappone nel 1992. Ma ormai le sue apparizioni in sala di concerto si ridussero a poche ogni anno. L’ultimo recital ebbe luogo ad Amburgo il 7 maggio 1993, con un programma interamente dedicato a Debussy.

Avvisaglie di un ‘tardo stile’

A partire dal 1970, bicentenario della nascita di Beethoven, ampliò il proprio repertorio beethoveniano (Concerti op. 15 e op. 37, Sonate op. 7, op. 22, op. 26) e suonò, nuovi, il primo e il secondo libro dei Préludes di Debussy, la Sonata op. 7 n. 2 di Clementi e la Sonata D 537 di Schubert. Negli anni Ottanta eseguì musiche di soli 13 compositori, e negli ultimi tre anni di soli 7 compositori (erano stati 35 negli anni Quaranta). Negli ultimi vent’anni di carriera Benedetti Michelangeli aggiunse quindi al proprio repertorio poche composizioni e si rimisurò invece costantemente col proprio passato, ritornando sistematicamente sui vecchi cavalli di battaglia. Si può sostenere che gli ulteriori approfondimenti interpretativi di testi lungamente meditati non pareggiassero ciò che veniva perduto in magnificenza della visione, cioè che il prevalere del pensiero speculativo e la rinuncia al gioco e al virtuosismo non rappresentassero un sostanziale arricchimento delle interpretazioni. È però importante cercar di capire se in Benedetti Michelangeli si possano riscontrare i segni di un’ulteriore evoluzione stilistica, di un ‘tardo stile’, quei segni che si riscontrano molto bene in pianisti longevi come Wilhelm Backhaus, Arthur Rubinstein, Claudio Arrau, Vladimir Horowitz, Svjatoslav Richter. Benedetti Michelangeli suonò in pubblico fino a 73 anni, i pianisti or ora citati furono attivi fin oltre gli ottanta. Ma le interpretazioni di Benedetti Michelangeli del Valzer op. 34 n. 2 e dello Scherzo op. 20 di Chopin, alla fine degli anni Ottanta, erano stilisticamente diverse da quelle di altre composizioni chopiniane come la Ballata op. 23, lo Scherzo op. 31, la Fantasia op. 49, che rimanevano pressoché immutabili da una ventina d’anni. Ciò non significa che nelle interpretazioni di queste pagine non si trovasse qualche marginale ritocco. Nel caso dello Scherzo op. 20 e del Valzer op. 34 n. 2 si trattava però di composizioni che Benedetti Michelangeli non aveva ripreso da moltissimo tempo e che in qualche caso (così il Valzer) non aveva forse mai eseguito prima in concerto. Questo particolare appare significativo, perché il pubblico non aveva in questi casi – e Benedetti Michelangeli lo sapeva – un modello d’interpretazione del proprio idolo con cui paragonare ciò che ascoltava in quel momento: perciò, e non per una particolare natura dello Scherzo e del Valzer, le caratteristiche stilistiche di quelle esecuzioni risultarono così singolari e così sorprendenti e, in realtà, così vicine a ciò che, in fatto di scansione ritmica e di ‘aura’, Benedetti Michelangeli aveva fatto in Chopin e non solo in Chopin negli anni della giovinezza.

Stilisticamente non dissimili dal Valzer e dallo Scherzo suonano due Mazurche di Chopin, l’op. 67 n. 2 e l’op. 33 n. 4, eseguite a Monaco di Baviera il 5 giugno 1992 come bis dopo il Concerto in Sol di Ravel. Osserva Gian Paolo Minardi (Variazione continua, in Il suono ritrovato… 1999, p. 35): «le ultime riprese di alcune mazurche, della Berceuse, di quell’Andante spianato che rappresentava la cifra più decantata del melos di Michelangeli risultavano persino sgomentanti nel mostrare quanto la forma musicale fosse divenuta una larva impalpabile nella sua estrema duttilità di una più intensa ragione espressiva, pur conservando sempre la sua necessità». Bisogna dunque pensare che si fosse messo in moto, per Benedetti Michelangeli, un processo di revisione stilistica e poetica dell’interpretazione di Chopin che avrebbe potuto investire altri autori, e magari nuovi autori (come Reger, al cui Tagebuch, secondo la testimonianza di un amico, era vivamente interessato), o vecchi autori, come lo Schönberg dell’op. 11 e dell’op. 19, ripescati nei recessi della memoria. Sembra, secondo la testimonianza dell’accordatore di fiducia Angelo Fabbrini, che Benedetti Michelangeli avesse intenzione di registrare dischi nell’autunno del 1995, l’anno della morte, e che anzi volesse «rifare tutto». Non sappiamo in verità come si sarebbe comportato Benedetti Michelangeli e non sappiamo nemmeno se avrebbe mantenuto o no il proposito manifestato a Fabbrini. Ma possiamo dire che quando morì ancora interrogava e si interrogava. Nel tramonto della vita uno sprazzo di luce abbagliante – i nove accordi dissonanti alla fine dello Scherzo op. 20 di Chopin, urlo disumano in una notte di tregenda – rivela come possibile, ultima svolta di Benedetti Michelangeli, non concretizzatasi se non in parte, la riscoperta abbagliante dei fili abbandonati dopo la svolta del 1955.

La morte per crisi cardiaca, avvenuta a Lugano l’11 giugno 1995, impedì il dispiegarsi pieno di un ‘tardo stile’ che avrebbe potuto aprire un nuovo capitolo nella sua arte.

Il docente

Resta ancora da spendere qualche parola sull’attività didattica di Benedetti Michelangeli. Nominato professore nel Conservatorio di Bologna nel 1939, trasferito nel Conservatorio di Venezia nel 1945 e nel Conservatorio di Bolzano nel 1950, insegnò negli istituti pubblici, per quanto glielo permettevano gli impegni concertistici, fino al 1959. Il direttore del Conservatorio di Bolzano, Cesare Nordio, chiese al Ministero della Pubblica Istruzione di istituire per Benedetti Michelangeli un corso di perfezionamento, sganciato dalle pastoie burocratiche e dagli orari scolastici. L’autorizzazione arrivò l’8 gennaio 1960, ma Benedetti Michelangeli, ritenendo che la pratica fosse stata volutamente tirata troppo in lungo, rassegnò le dimissioni. Durante la permanenza a Bolzano tenne corsi nel castello di Appiano. Nel 1952 e dal 1956 al 1965 ripeté quest’esperienza ad Arezzo e nel 1960 a Moncalieri, ma anche ad Arezzo la pratica burocratica per trasformare un corso libero in un corso istituzionale sotto l’egida del Ministero non arrivò in porto in tempo utile.

Insegnò ancora a Lugano nel 1969, nel 1970 e nel 1971. Negli anni successivi diede solo, saltuariamente, lezioni a qualche allievo. Walter Klien, Jörg Demus, Martha Argerich e Maurizio Pollini sono i più noti fra i molti giovani pianisti che fruirono dei suoi consigli, ma non si può dire che il suo insegnamento creasse una vera e propria ‘scuola’.

Concesse poche interviste e non lasciò né memorie né pubblicazioni didattiche. Appassionato di montagna, armonizzò con grande competenza e sensibilità, per il coro della SAT (Società degli alpinisti tridentini), 19 canti popolari del Trentino.

Fonti e bibliografia

R. Cotroneo, Presto con fuoco. Romanzo, Milano 1995; A. B.M.: Il grembo del suono, a cura di A. Sabatucci, Milano 1996, con cd allegato; A. B.M., allegato speciale ad Amadeus, n. 3, maggio 1997; G. Benedetti Michelangeli, Vita con Ciro, a cura di M. Rossi, Bologna 1997; Il suono ritrovato di B.M., Milano 1999, con 2 cd allegati; L. Kozubek, A. B.M. jakim go znałam, Katowice 1999 (trad. it., A. B.M. come l’ho conosciuto, Palermo 2003); C. Garben, A. B.M. Gratwanderungen mit einem Genie, Hamburg 2002 (trad. it., A. B.M. In bilico con un genio, Varese 2004), con cd allegato; La perfezione si fa musica: A. B.M., a cura di M. Vitale, Azzano S. Paolo 2005; Omaggio ad A. B.M. London, May 26th, 2005, a cura di S. Biosa - M. Bizzarini, Montichiari 2005; P. Rattalino, A. B.M., l’asceta, Varese 2006 (con repertorio, discografia e videografia analitici); A. Torno, A. B.M. Un incontro, Brescia 2007; H. Stuppner, Musik und Gesellschaft in Südtirol. Bozen 1800 - 2000, Bozen 2009, pp. 500-514.

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