COLAUTTI, Arturo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

COLAUTTI, Arturo

Sergio Cella

Nacque il 9 ott. 1851 a Zara (Dalmazia) da Francesco e da Luisa Couarde, ultimo di quattro figli.

Il padre, ingegnere friulano, era un rigido funzionario del Catasto; la madre, francese d'Antibes, proveniva da una famiglia di tradizioni bonapartiste ed era molto religiosa.

Dopo un'infanzia difficile (per uno spavento restò per qualche tempo balbuziente), il C. si diede a letture accanite di storia e di geografia e fu un ottimo studente al ginnasio superiore di Zara. D'ingegno precoce, compose fin da ragazzo versi: venne rivelato al pubblico dalla lirica Perché piangete? (in morte d'una giovinetta), stampata su Il Dalmata (1867). Ribelle al padre, s'era accostato alla gioventù irredentistica e alternava agli studi le composizioni poetiche e le prove giornalistiche: compilò due foglietti, Il Progresso e La Leva, inviò articoli a La Difesa di Spalato e divenne collaboratore de Il Dalmata di Zara. Nel 1874 subì il primo processo per reato di stampa, mentre compiva i suoi studi universitari a Graz e a Vienna, dove si laureò in storia e geografia "cum maxima laude" (1877). Subito dopo assolse gli obblighi militari con il volontariato di un anno, durante il quale partecipò alla campagna per l'occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina nella brigata di montagna comandata dall'arciduca Giovanni Nepomuceno d'Asburgo; si dedicò agli studi militari e compilò un'operetta sulla Bosnia-Erzegovina (Spalato 1878) e un'altra su Dalmazia,Croazia e paesi balcanici (poi stampata a Milano nel 1881), ricca di spunti critici.

Poiché l'insegnamento gli era precluso dall'atteggiamento antigovernativo e i rapporti con la famiglia s'erano guastati per il precoce matrimonio cui era stato costretto, il C. accettò volentieri l'invito di A. Baiamonti a dirigere a Spalato il settimanale L'Avvenire. Lo rese assai combattivo nella difesa dell'italianità del comune, minacciata dal partito croato e dagli interventi statali; ma, avendo attaccato gli eccessi dei militari della guarnigione nel reprimere le manifestazioni dei sodalizi patriottici, venne perentoriamente invitato dal cap. Wallon a ritrattare; rifiutò e la notte del 20 sett. 1880 fu aggredito da una decina di soldati. Seriamente ferito, solo a stento riuscì a rifugiarsi nell'atrio del Grand Hotel, dove poi rimase a letto per quasi tre mesi. Il fatto suscitò indignazione e proteste, in seguito alle quali tre ufficiali del reggimento vennero trasferiti per punizione, ma il C., minacciato dagli avversari politici e da ben sette processi pendenti contro di lui, dovette decidere di porsi in salvo. Aiutato dallo zio G. Salvi, procuratore, lasciò Spalato per Antivari, dove s'imbarcò per Corfù e da qui per l'Italia.

Nel febbraio 1881 il C. sbarcò ad Ancona, raggiunto dal provvedimento di espulsione dall'Impero austriaco. La fama del suo passato politico non gli servì a introdursi nell'ambiente giornalistico di Milano, dove si trasferì e dove visse miseramente traducendo dal tedesco, dal francese e dal serbo-croato. Dopo la pubblicazione, d'una sua lirica, venne invitato da T. Moneta a tenere la rubrica di politica estera su Il Secolo, ma presto i suoi corsivi polemici, di tono antiaustriaco e irredentistico, suscitarono preoccupazioni nell'editore E. Treves, e per non piegarsi a compromessi il C. lasciò questo primo lavoro regolare. Lo soccorse l'invito dell'autore della biografia di Garibaldi, G. Guerzoni, professore all'università di Padova, il quale gli volle affidare la direzione del nuovo quotidiano monarchico-costituzionale L'Euganeo, che doveva riportare la concordia fra i liberali e impegnarsi contro i repubblicani e i clericali. Perseguendo questa linea, il C. portò al successo i suoi candidati nelle elezioni dell'82, durante le quali sostenne polemiche e duelli; nell'83 allargò gli orizzonti del giornale, dove pubblicò a puntate il suo primo romanzo di successo, Fidelia.

La narrazione - che ebbe parecchie edizioni e redazioni successive - è un tipico documento della moda letteraria dell'epoca, di transizione fra romanticismo e positivismo. Espone la vicenda d'un medico scienziato, che sposa per salvarla dalla miseria e dalla morte la figlia d'un garibaldino, malata di tisi. Egli la cura da medico e l'ama da fratello, attendendo la guarigione per farla sua. Fidelia sospetta invece nel marito frigidità e impotenza, giunge a odiarlo e a disprezzarlo, tanto da concedersi a un forestiero, incontrato per caso. Quando questi sta per passare a nozze, ella sente la sua vergogna e muore di schianto; il marito, intuendo il tradimento, scopre dall'autopsia la maternità. Nel romanzo è pure il quadro delle clientele politiche provinciali e compaiono vigorose figure di donne.

A Padova il C., mal sostenuto dalla parte moderata nelle polemiche con gli studenti repubblicani, pensò di lasciare L'Euganeo inizialmente diretto con tanto entusiasmo. All'inizio del 1884 annunciò la sua decisione e concluse l'attività con un forte articolo su Gli Italiani di Dalmazia, dimenticati dai fratelli della penisola, rinnegati dal governo regio, destinati a soccombere nell'impari lotta contro la sopraffazione austro-croata (24 genn. 1884). Il C. ritornò a Milano, dove assunse la direzione dell'Italia su invito di L. Pullè; vi restò pochi mesi, attratto a Roma nel nuovo giornale di A. Sommaruga il Nabab, per curarvi i servizi d'informazione. Alcuni suoi articoli di successo gli valsero l'incarico di inviato speciale a Vienna (febbraio 1885), ma qui, dopo aver spedito un primo brillante articolo, egli ritrovò vecchi amici politici, come L. Lapenna e M. Bonda, e fu al centro di animate riunioni di studenti irredenti. Il soggiorno divenne per lui pericoloso e il C. s'indusse a rientrare a Roma, dove redasse ancora poche note per il Nabab, che concluse presto la sua vita. Rimasto senza risorse, accettò di dirigere a Perugia il periodico elettorale Unione liberale, che portò al successo i candidati C. Fani, L. Franchetti e D. Pamphili.

Finalmente, da Napoli, gli giunse l'offerta di M. Schilizzi di dirigere il Corriere del mattino, il quotidiano più diffuso del Mezzogiorno. Si mise all'opera con impegno, accattivandosi il favore dei lettori, mentre il rapporto con l'editore si guastò presto. Un articolo ironico provocò la rottura, dopo la quale il C. si trasferì a Venezia, per pochi mesi alla direzione del quotidiano Venezia (1888). Ma da Napoli alcuni amici lo richiamarono, questa volta a pilotare il Corriere di Napoli (luglio 1889). Su questo giornale del pomeriggio egli trattò questioni politiche e militari e, spesso, la critica musicale, con le firme di Fram, Claudio Frollo, Doremi. Incominciò per lui un fervido periodo di attività, contrassegnato ancora da forti polemiche (ne ebbe con i repubblicani M. R. Imbriani e G. Bovio, come con i socialisti), ma ricco di calore e di amicizie contratte nel mondo artistico e letterario napoletano. La rappresentazione della sua commedia L'Altro (1889) incontrò un incerto successo, maggiori consensi riscossero i romanzi Nihil (Milano 1890) e Il figlio (ibid. 1901), suscitarono discussioni e apprezzamento i Cantivirili (ibid. 1896 e molte perplessità l'ampio poema d'imitazione dantesca Il terzo peccato (ibid. 1902).

Larga fu l'operosità per il teatro del C., autore di libretti d'opera: Doña Flor,Colomba,Fortunio e Cimbelino per N. van Westerhout, Fedora per U. Giordano, Adriana Lecouvreur per F. Cilea, Smeralda per M. Zanon, Fior di neve per P. La Rotella, Morgana per R. De Miero, Paolo e Francesca per L. Mancinelli.

Wagneriano convinto, il C. partecipò a memorabili serate musicali; monarchico, africanista e nazionalista, incontrò spesso fiere opposizioni politiche. Durante gli anni napoletani egli tenne pure, per brevi periodi, la direzione di fogli elettorali a Padova, Verona e Parma. Nel 1902 i suoi duri, ripetuti attacchi al governo Zanardelli-Giolitti provocarono la fine del Corriere di Napoli; un gruppo di azionisti filogovernativi acquistò il giornale per fonderlo con il Corriere del mattino e il C. fu costretto ad andarsene. Si trasferì nuovamente a Milano, dove continuò la sua campagna antigovernativa e antisocialista con L'Alba, da lui fondata con D. Oliva, G. Borelli e G. A. Cesareo.

Pur essendo stimato come letterato da poeti come Carducci e D'Annunzio, egli poté rientrare nel grande giornalismo solo come esperto militare, iniziando una regolare collaborazione al Corriere della sera durante la guerra russo-giapponese e continuandola - con lo pseudonimo di Fram - durante le guerre ispano-americana e greco-turca. Perennemente privo d'una casa e d'una famiglia, egli passava il suo tempo nelle redazioni, nei caffè o nei ristoranti, negli alberghi, nei teatri e ai concerti che l'appassionavano. La figlia adottiva Ofelia incominciò a comparire in sua compagnia.

Con la fondazione del Partito nazionalista, il C. vi entrò fra i primi e fu tra i protagonisti del 1º congresso (Firenze 1910) assieme con E. Corradini, L. Federzoni, D. Oliva, incitando al riarmo militare italiano e alla rivendicazione di Trento e di Trieste. In questo periodo pubblicò l'inno I Bersaglieri, rappresentò a Torino il dramma storico Daria Sommer (teatro Carignano, 9 nov. 1908), poi il dramma in versi Camicia rossa (successivamente musicato da R. Leoncavallo) e ancora la cantica La nave di Dante.

Poeta di forme classiche e di robusti accenti, egli viveva in sdegnoso isolamento, confortato da pochi amici e consenzienti: G. Antona Traversi, F. T. Marinetti, A. Oriani. Scarsa risonanza ebbero le onoranze tributategli in maniera affrettata e convenzionale per il suo giubileo letterario (1911), a iniziativa dell'Associazione nazionale per Trento e Trieste di Milano (presidente G. Visconti di Modrone). Più gli riuscivano gradite le attestazioni d'affetto che gli venivano frequentemente dalla Dalmazia e dagli italiani d'America.

Anche negli ultimi anni alternando il soggiorno fra Milano e la Liguria, il C. si dedicò alla poesia. La guerra di Libia gli ispirò i canti dell'armi intitolati Fiamme, poi, per la musica di G. Ottolenghi, egli compose il libretto di Rudello e iniziò un dramma filosofico, Il figlio di Faust. Guardato ancora con ostilità dal governo austriaco e sospetto al governo di Giolitti, respinse ai primi d'aprile del 1913 l'offerta di due finanzieri tedeschi a dirigere un nuovo quotidiano milanese, che sarebbe riuscito lontano dalle sue posizioni anti triplicistiche. Partecipò invece con rinnovato impegno ai convegni della "Trento e Trieste" e della "Dante Alighieri". Poi i disturbi cardiaci si acuirono e vi si aggiunse la nefrite; alle cure costose sopperì generosamente un vecchio compagno di scuola, il dalmata C. Modric, che sollecitò pure a suo favore una sottoscrizione di amici. All'inizio del 1914 il C. si era ripreso e aveva preparato una serie d'articoli politici di rilievo, che comparvero sul Giornale d'Italia. Con giovanile entusiasmo abbozzò un nuovo romanzo e due canti Alla Polonia e Dalmazia mia! Il 16 maggio partecipò al III congresso nazionalista a Milano e vi tenne un vibrante discorso, in qualche modo profetico dell'imminente conflitto.

Respinti i suoi articoli dal Corriere della sera, si dedicò in ogni occasione alla propaganda per l'intervento con la parola; il 20 settembre si trovò coinvolto in una tumultuosa dimostrazione in Galleria.

Alla fine di settembre il C. si trasferì a Roma, rientrò nell'Associazione nazionalista, di cui aveva disapprovato recenti atteggiamenti, partecipò ancora a riunioni politiche ed ebbe un lungo colloquio col gen. L. Cadorna. Con febbrile trepidazione egli seguiva le discussioni politiche e lamentava l'indecisione governativa; la fatica e l'ansia aggravarono le sue condizioni di salute. Si mise a letto in albergo e ancora ricevette le visite di C. Battisti, di G. Giuriati e di V. Morello. Le cure dei medici poco gli giovarono e nelle prime ore del 9 nov. 1914 a Roma, invocando la sua Zara e l'intervento italiano in guerra, spirò. I suoi funerali riuscirono un'imponente manifestazione interventistica.

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