ARVALI

Enciclopedia Italiana (1929)

ARVALI (fratres arvāles)

Gioacchino MANCINI
Massimo Lanchantin De Gubernatis

Antico collegio sacerdotale romano, di dodici membri, che secondo una remotissima tradizione rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e in cui i mitografi riconoscevano una raffigurazione dei dodici mesi dell'anno (Plin., Nat. Hist., XVIII, 6; Gell., VII, 7,8). Si dedicavano al culto della terra che nutrisce, invocandola sotto il nome di dea Dia, e il loro anno liturgico, che era anche l'anno di carica dei dignitarî del collegio, andava da una festa delle sementi all'altra (ex Saturnalibus primis ad Saturnalia secunda). È un sacerdozio arcaico, nato sul Palatino, e non è facile dire quando e perché spostò il suo centro di azione. Mentre i documenti letterarî di questo sacerdozio si restringono appena ad una breve menzione fattane incidentalmente da Varrone (De lingua latina, V, 8), e da Masurio Sabino (presso Gellio, VI, 7,8), nei monumenti scritti troviamo invece gran parte della storia e degli atti del collegio, dai primi tempi dell'impero fino alla metà del sec. III. Questi monumenti scritti, senza i quali il sodalizio degli Arvali avrebbe appena lasciato una traccia nella storia, consistono in una copiosa serie di documenti epigrafici, dovuti a ritrovamenti fortuiti e a scavi sistematici, iniziati nel sec. XVI, e compiuti nel secolo passato nel luogo ove si estendeva il lucus deae Diae, il bosco sacro, ove i fratelli Arvali si adunavano per compiere i loro maggiori sacrifici.

Questo luogo sacro era precisamente nella moderna vigna Ceccarelli, posta sulla destra della via Portuense (via Campana), oltrepassato di poco il quinto miglio. Ivi, nel 1570, si fecero le prime scoperte epigrafiche dei frammenti degli atti incisi sul marmo, e tornarono in luce le basi delle statue dedicate agl'imperatori nella loro qualità di fratelli Arvali. Quivi fu esplorato il terreno, a cura dell'Istituto germanico di corrispondenza archeologica di Roma, negli anni 1867-69, con scavi sistematici il cui felice risultato fu il ricupero di numerose preziose tavole scritte e il riconoscimento di cospicui ruderi degli antichi edifici arvalici. Altri frammenti tornarono in luce in scavi eseguiti dallo stesso Istituto nel 1882, e lento, ma continuo, è l'apporto del prezioso materiale epigrafico dalle scoperte fortuite avvenute in località di Roma anche lontane dal luogo di origine. Ad esempio è recente il ritrovamento di un insigne frammento di atti arvalici sotto la chiesa di S. Crisogono in Trastevere, e la scoperta di un altro frammento ricuperato nelle demolizioni fatte per l'isolamento del teatro di Marcello. Tale materiale è conservato in gran parte nel Museo Nazionale Romano delle Terme; ma cospicui frammenti sono anche nel Museo Vaticano. Si tratta in tutto di circa cento processi verbali di adunanze degli Arvali, che dànno ragguaglio degli atti dell'associazione dall'anno 14 all'anno 241 d. C.

Le origini degli Arvali si ricollegano con quella forma della primitiva religione che si riferisce alla coltura dei campi (arva), favorendola con cerimonie sacrificali. La dea Dia, che essi veneravano, era forse la stessa Cerere, e l'insegna propria dei membri del sodalizio era la corona di spighe con bianche bende. I solenni sacrifici dei fratelli Arvali si celebravano precisamente nei giorni delle antichissime Ambarvalia e nel sito medesimo che segnava il confine del primitivo territorio di Roma, cioè tra il V e il VI miglio della città (Strab., V, 3,2, p. 230). La circostanza che nelle rituali cerimonie era interdetto l'uso del ferro ed erano quasi in venerazione le rozze antiche olle fittili, nonché il testo del celebre carme arvalico (v. sotto) in lingua arcaica, divenuta incomprensibile agli stessi Romani dell'età imperiale, comprovano le remote origini del collegio arvalico. I sodali avevano la denominazione di fratres, esclusiva di questo collegio. Il loro numero legittimo era di dodici; ma nell'età imperiale invalse l'uso di cooptare nel collegio qualche personaggio oltre il numero normale. Fecero parte del collegio anche gl'imperatori ed i membri della famiglia imperiale. L'ammissione nel collegio arvalico (cooptatio) aveva luogo o per libera elezione del collegio o per rescritto imperiale (ex litteris imperatoris).

Questa seconda forma apparisce dagli atti essere stata costante e normale. Come quasi tutti i collegi, anche gli Arvali avevano a capo un magister, il quale era eletto annualmente nel secondo giorno delle solenni feste del maggio, ma entrava in carica il 17 dicembre e vi rimaneva fino allo stesso giorno dell'anno seguente. Per lo stesso periodo di tempo era eletto un flamen, che assisteva il magister nei sacrifizî. Se il magister, assente o impedito, non poteva presiedere una delle riunioni del collegio, o compiere un sacrifizio, delegava a ciò uno dei colleghi, che assumeva, per quella volta tanto, il titolo di promagister.

Come in tutti gli altri collegi sacerdotali maggiori, i fratelli Arvali erano assistiti nelle cerimonie sacre da speciali ministri. Quattro nobili fanciulli, i cui genitori dovevano essere viventi (patrimi et matrimi) assistevano alle cerimonie triduane in onore della dea Dia, vestiti della pretesta fimbriata (ricinium). Considerati quali figli, come nelle antiche famiglie patriarcali, prendevano parte ai banchetti e recavano dalla mensa alle are le fruges libatae dei sacerdoti. Inoltre ciascuno dei membri del collegio aveva un calator addetto alla sua persona, che generalmente era un servo manomesso, destinato ad assistere l'arvale nelle sacre cerimonie. Nei sacrifici piacolari nel bosco arvalico, il calator agiva in luogo del magister cui era addetto. Alcuni fra i servi appartenenti allo stato (servi publici) erano destinati a prestare servizio agli Arvali, come addetti al collegio, non ai singoli sacerdoti. Potevano essere trasferiti ad altri uffici della pubblica amministrazione. V'era infine un aedituus, custode del tempio collegiale della dea Dia.

Il bosco sacro della dea (lucus deae Diae) si trovava al quinto miglio della via Campana, sull'alto di una collina; vi si accedeva per mezzo di un clivus che si distaccava dal lato destro della via stessa. Il principale edificio sacro che sorgeva nel bosco era il tempio della dea Dia, situato sul declivio del colle. Di esso rimangono cospicui ruderi, sui quali è costruito il villino della vigna attuale. Era di forma circolare, con la fronte volta ad oriente. Sul davanti del tempio una mensa teneva luogo di ara, e in essa gli Arvali compievano i sacri riti: avanti ad essa era un caespes, od ara formata da zolle di terra con cespugli. Ai piedi del colle, sul limitare del lucus, v'era un'ara, sulla quale s'immolavano le porciliae piacolari; presso ad essa era collocato il foculus, o tripode metallico per immolarvi la bianca vacca in onore della dea. Altro edificio importante era il Caesareum, dedicato agl'imperatori defunti e dichiarati divi, ove s'immolavano vittime in loro onore. Ivi si riunivano a banchetto gli Arvali nel secondo giorno delle feste ambarvali. Questo Caesareum, come il tempio della dea Dia, fu ricostruito nel secondo secolo dell'impero, o agl'inizî del terzo. Congiunto o vicino al Caesareum era il tetrastylum, entrambi ai piedi della collina, nel piano che si estende verso il Tevere, ove infatti furono trovate le statue imperiali che certamente decoravano l'interno del Caesareum. Nel tetrastylum, o portico a colonne rettangolari, erano i sabsellia su cui si adagiavano gli Arvali per banchettare. Riunirsi e riposarsi, e i posti erano protetti dal sole e dalla pioggia per mezzo di tende (papiliones). V'era anche un circus, ove, dopo le epulae, avevano luogo le corse.

Le tavole marmoree, sulle quali venivano di anno in anno incisi i fasti del collegio, furono dapprima poste sullo stilobate del tempio della dea Dia: mancato quivi il posto, per essere tutto occupato, si misero a profitto gli spazî rimasti lisci nella parte inferiore di alcune tavole, poi si incominciò ad incidere gli atti sugli altri monumenti arvalici, e perfino sui sedili. La redazione degli atti arvalici non è sempre uniforme. Più sobria nei primi tempi, da Augusto a Domiziano, diviene poi più ricca di particolari nella relazione delle feste del culto arvalico e delle cerimonie sacre. Fu sotto Gordiano III o poco dopo (circa a metà del sec. III) che cessò l'incisione delle memorie annuali degli Arvali. Per ciascun atto registrato sono indicati i nomi dei fratelli Arvali presenti alla seduta o alla cerimonia sacra. Dopo l'abbandono del bosco arvalico, avvenuto sul cadere del sec. IV, le tavole scritte andarono disperse. Ma poiché fu più a lungo rispettato il tempio, in confronto agli altri edifici minori, le tavole scritte fuori dell'imbasamento del tempio, e cioè posteriori agli Antonini (fine del sec. II), furono le prime ad andare disperse e a servire da materiale da costruzione nei luoghi più disparati di Roma e immediate vicinanze. Fra le altre tavole marmoree scritte ne furono trovate, negli scavi degli anni 1867-1869, alcune contenenti parte del calendario romano e della serie dei consoli e dei pretori che furono in carica tra gli anni 2 a. C. e 37 d. C.

Ogni anno, nel mese di gennaio, si promulgavano i giorni nei quali doveva aver luogo la festa solenne annuale della dea Dia. I tre giorni delle feste arvaliche erano o il 17, 19, 20 o il 27, 29, 30 di maggio; i primi negli anni pari dell'era verroniana, i secondi nei dispari. Nel primo di quei giorni le feste si celebravano in città, nel secondo parte nel bosco sacro e parte in città, nel terzo in città. Nel primo giorno aveva luogo un sacrificio in casa del magister, talvolta sul Palatino in aede divorum. In questa cerimonia si consacravano le messi aride e le verdi, cioè quelle dell'anno precedente e quelle della stagione; seguiva un banchetto. Nel secondo giorno si compievano tre cerimonie nel bosco sacro della via Campana, e una in città, in casa del magister. Nel bosco sacro s'immolavano due porciliae piacolari, in espiazione preventiva di ogni trasgressione alla sacra inviolabilità del luogo; seguiva il solenne sacrificio di una vacca bianca, fatto dal magister, quindi gli Arvali scendevano nel tetrastilo per riunirsi a banchetto. La cerimonia del pomeriggio era la più solenne, e di essa abbiamo una descrizione con i più minuti particolari nelle due tavole contenenti la relazione della festa per gli anni 218 e 219. Si sacrificava una agna opima nel tempio della dea, poi si faceva l'offerta dei thesauri o dei doni personali degli Arvali alla dea, e si prestava il culto alle ollae. Questo rito aveva origine dalla più remota antichità, quando l'uso dei metalli non era ancora introdotto nel Lazio. Quindi i soli sacerdoti, chiusi nel tempio, leggevano cantando e danzando in ritmo di 3/4 (tripodatio) il celebre carme arvalico, che possediamo trascritto per intiero nella tavola dell'anno 218 (v. oltre). Seguiva un'altra refezione nel tetrastilo e poi avevano luogo le corse dei cavalli nel circo annesso al bosco sacro. Gli Arvali sul tramonto facevano ritorno in città e chiudevano la giornata con un terzo banchetto nella casa del magister. Nel terzo giorno gli Arvali si radunavano ugualmente in casa del magister per una cena destinata a consumare il sacrificio offerto il giorno innanzi alla dea Dia. Si distribuivano infine le sportulae o gettoni di presenza in denaro ai singoli intervenuti.

Il collegio degli Arvali, quale collegio sacerdotale, compiva anche altri sacrifici, riferentisi principalmente al culto degl'imperatori e della famiglia imperiale. Il natalizio di Augusto si celebrava nei giorni 23 e 24 di settembre e i sacrifici erano offerti una volta sul Campidoglio e una volta sul Palatino. I sacrifici anniversarî per il natale degl'imperatori viventi e per i membri della famiglia imperiale avevano luogo nel massimo tempio capitolino. Altri sacrifici votivi straordinarî si celebravano dagli Arvali in occasione di avvenimenti speciali, quali le consecrationes degl'imperatori e delle imperatrici, il felice ritorno d'un imperatore da una lontana spedizione e simili. Gli Arvali solevano anche fare solenni promesse votive, o annualmente per determinate ragioni, o straordinariamente per cause speciali. Ordinariamente il 3 gennaio si soleva celebrare sul Campidoglio una cerimonia nella quale si scioglievano i voti fatti precedentemente e se ne promettevano nuovi per l'anno cominciato. Tali sacrifici votivi si facevano alle tre divinità capitoline per la salute dell'imperatore e per la felicità ed incolumità dello stato. In caso di morte d'un imperatore durante l'anno, i voti fatti per l'imperatore defunto al principio dell'anno erano rinnovati per la salute del nuovo principe dopo la sua assunzione al trono. Tali voti, oltre che alle tre maggiori divinità capitoline, erano fatti alla Salus publica, a Marte, alla Vittoria, a Vesta, a Nettuno e ad Ercole.

Il collegio arvalico celebrava anche sacrifici espiatorî (piacula) nel bosco sacro, ogniqualvolta si doveva compiere un atto reputato contrario alla tradizionale rigidità dei loro riti. Nel secondo giorno delle feste annuali, prima d'incominciare i sacrifici in onore della dea Dia, si potavano gli alberi e si faceva la pulizia di tutto il bosco. Poiché per siffatto lavoro si dovevano mettere le mani sulle piante sacre ed intangibili, e si dovevano adoperare strumenti di ferro, contrariamente alle antiche prescrizioni rituali, gli Arvali espiavano questa temerità, come si è già detto, con un sacrificio, consistente nell'immolazione di due porchette (porciliae), le cui carni servivano poi di refezione ai sacerdoti. Altri sacrifici espiatorî erano fatti quando si incidevano col ferro sul marmo gli atti del compiuto anno del magistero, e ogniqualvolta fosse caduto un albero del bosco o per vecchiezza o perché abbattuto dal vento o dal fulmine. Il legno degli alberi e dei rami abbattuti serviva per fare il fuoco nei sacrifici arvalici. Altri sacrifici espiatorî si facevano nel bosco in casi straordinarî, o per la caduta di un fulmine, o per essere caduta qualche parte di uno degli edifici sacri, o per altre cause diverse. Questi sacrifici si facevano con l'immolazione di una porca, di una pecora e di un toro (suovetaurilia), seguita dall'uccisione di due vacche in onore della dea Dia e di due animali ovini per ciascuna delle diverse deità venerate nel bosco sacro. Infine si immolavano altrettanti animali (verbeces), quanti erano gl'imperatori e le imperatrici divinizzati, venerati nel Caesareum.

Il collegio arvalico, a cominciare dalla metà del sec. III andò sempre più declinando, fino a sparire, insieme con tutti gli altri culti nazionali pagani, alla fine del sec. IV.

Il Carme Arvale. - Gli atti del collegio degli Arvali del 218 d. C., scoperti nel 1778 a Roma in una tavola marmorea, conservano, come si è detto, l'antichissimo carme rituale:

Enos Lases iuuate

neue lue rue Marmar sins (sers) incurrere in pleores

satur fu, fere Mars, limen sali, sia berber.

semunis alternei aduocapit conctos.

enos Marmor iuuato

triumpe, triumpe, triumpe, trium(pe tri)umpe.

Ogni saturnio, salvo l'ultimo, era ripetuto tre volte. L'interpretazione, data l'oscurità del testo, non è che approssimativa: "O Lari aiutateci! Non permettere, o Marte, che la morte e la rovina piombino sul popolo! Sii sazio, fiero Marte! Salta sulla soglia! Fermati, o barbaro (??)! Egli (Marte o il magister fratrum) invocherà alternativamente tutti i Semoni. O Marte, aiutaci! Triumphe...". Nel v. 1 enos = nos (cfr. ἐμοί, μοί), ma v'è chi pensa ad enom (cfr. umbr. enom = tum). Lases = Lares è forma anteriore al rotacismo. Nel v. 2 lue, rue = luem, ruem (ruinam). Marmar è raddoppiamento di Mars. Sins = sinas (la terza volta si ha sers = seiris, siris, siveris). In pleores = in plures. Nel v. 3 fu è imper. della rad. *bhu- (cfr. fui, forem). Berber vien confrontato con βόρβορος, βεβρός, βάρβαρος. Nel v. 4 semunis = Semones, divinità della sementa. Alternei = vicissim. Aduocapit (scil. Mars o magister fratrum) = aduocabit (cfr. falisco cupa = cubat), futuro singolare: il Marx (Lucili carmina, II, ad v. 1322) intende cunctos aduocapit, facendo del nom. cunctos l'equivalente di quisque. Nel v. 5 Marmor è dittologia di Marmar. Nel v. 6 triumpe, senza aspirazione, è esclamazione trionfale.

Bibl.: Sul collegio degli Arvali: G. Marini, Gli atti e monumenti dei fratelli Arvali, Roma 1795; E. Hoffmann, Die Arvalenbrüder, Breslavia 1858; M. St. De Rossi, in Giornale Arcadico, LVIII (1868), p. 136, tav. IV; H. Oldenberg, De sacris fratrum Arvalium quaestiones, in Dissertationes, Berlino 1875, p. 42 segg.; Corpus Inscr. Lat., VI, p. 459 segg., nn. 2023-2119, 32338-32398; W. Warde Fowler, The religious experience of the Roman people, Londra 1911, p. 489 segg.; G. Howe, Fasti sacerdotum, Lipsia 1904, p. 54 segg.; G. B. De Rossi, Roma sotterranea, III, Roma 1880, p. 690; F. Bücheler, in Arch. f. lat. Lexikogr. I (1884), p. 109 segg.; G. Gatti, Arvales, in Dizionario epigrafico di antichità romane di E. De Ruggiero, I (1886), p. 682 segg.; E. Hübner, Exempla scripturae epigraphicae, Berlino 1885, pp. 343-358; D. Vaglieri, in Notizie degli scavi, 1892, p. 267 segg., 1897, p. 309; Ch. Hülsen, in Bullettino d. comm. archeol. comunale di Roma, XXII (1894), p. 312 segg.; G. Wissowa, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 1463 segg.; Ch. Hülsen, in Klio, II (1902), p. 276; id., in Ephemeris epigraphica, VIII, p. 316 segg.; R. Engelmann, in Berl. philol. Wochenschrift, 1908, p. 861; S. Eitrem, Hermes und die Toten, in Videnskab. Selskabs Forhandl., 1909, p. 57; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 561 segg.; G. Mancini e O. Marucchi, in Notizie degli scavi, 1914, p. 464 segg.; G. Vaccai, Le feste de Roma antica, 2ª ed., Torino 1927, p. 103 segg.

Sul Carme Arvale: G. Henzen, Acta fratrum Arvalium quae supersunt, Berlino 1874; Corp. Inscr. Lat., 2ª ed., I, p. 369; VI, n. 2104; F. Bücheler, Carmina latina epigraphica, I, n. i; H. Dessau, Inscriptiones latinae selectae, II, n. 5039; E. Cocchia, in Riv. indo-greco-ital., I (1917), pp. 1-22; M. Schanz, Geschichte der röm. Litt., I, 4ª ed., § 8 b, con ricca bibliografia.

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