ASDRUBALE

Enciclopedia Italiana (1929)

ASDRUBALE ('Ασδρούβας, Hasdrŭbal)

V. C.
G. D. S.

Nome di varî personaggi cartaginesi, fra i quali sono da ricordare:

1. - Figlio di Annone, fu inviato, insieme con Amilcare e Bostore, contro Regolo che aveva invaso l'Africa, nel 255 a. C., ma fu, insieme con i colleghi, sconfitto ad Adi (Adys) nelle vicinanze di Cartagine. Dopo il naufragio della flotta comandata da M. Emilio e Servio Fulvio, fu mandato in Sicilia, dove, soprattutto per opera del luogotenente Cartalone, sottomise Agrigento. Essendo poi caduta Panormo nelle mani dei Romani, l'anno seguente, nel 251 o 250, tentò di riprenderla, ma subì tale una sconfitta dal console Cecilio Metello, che questi s'impadronì di 60 elefanti e li mandò a Roma. Non si sa nulla delle conseguenze che ebbe per lui questa disfatta, né si hanno di lui altre notizie.

Fonti: Polibio, I, 30 e 40; Diodoro, XXIII, 22; Zonara, XIII, 14; Orosio, IV, 9, 14-15; Eutropio, II, 24.

Bibl.: K. Neumann e G. Faltin, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883, pp. 130-134; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, II, Berlino 1896, p. 113; J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., IV, i, Berlino 1925, pp. 657-658; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, p. 166 segg.

2. - Asdrubale, menzionato per la prima volta dopo la prima guerra punica, a proposito d'un processo intentato o minacciato ad Amilcare Barca (secondo Appiano, che è per questo particolare unica fonte, dopo la guerra dei Mercenarî, ma piuttosto, per quel che pare, subito dopo la prima punica). Da questo processo Amilcare si liberò unendosi strettamente con A. "il più demagogico dei capipartito". Dell'amicizia tra il capopartito e il provetto generale la cronaca cercò ragioni scandalose. Certo essa fu rinsaldata dal matrimonio di A. con la figlia di Amilcare e si attuò nel lavoro concorde per preparare la riscossa contro Roma, estendere l'impero spagnuolo e assicurare alla politica di guerra e d'impero il favore della maggioranza popolare. Si può ritenere che A. nascesse intorno al 270 a. C. Era quindi nel pieno vigore delle forze quando accompagnò il suocero nella Spagna (237) e imparò l'arte militare alla sua scuola. Da Amilcare fu spedito in Africa per domare una sollevazione dei Numidi, e riuscì di fatto a soffocarla. Pare che gli avversarî di lui e di Amilcare sospettassero che egli mirasse ad attuare in questa occasione un colpo di stato in Cartagine. Checché ne sia, sebbene non mancassero in Cartagine uomini che avversavano la politica dei Barcidi e ne vedevano con timore la potenza, la guerra civile fu evitata. Quando poi Amilcare venne a morte, non essendo ancora il figlio Annibale in grado di succedergli, ne prese il posto e lo tenne con pienezza di poteri A. (229), il quale fino alla morte consolidò e allargò il dominio cartaginese in Spagna, alternando a tal uopo le arti di pace e quelle di guerra. Vendicò prima di tutto, con l'aiuto di rinforzi venuti dall'Africa, la morte di Amilcare vincendo gli Oretani, e ci vien detto dalle fonti che soggiogò tutte le città dell'Iberia e che dagl'Iberi fu riconosciuto come duce. Il che include un'immensa esagerazione, perché una grandissima parte, almeno un terzo della penisola iberica, fu allora e poi, immune dal dominio cartaginese. Comunque, l'estendersi dell'impero cartaginese in Spagna cominciò a impensierire i Romani. Era riuscito ad Amilcare di tenere a bada con buone parole una prima ambasceria romana (231). Ma, tenuta desta la gelosia di Roma probabilmente dai Massalioti che cominciavano a temere per le proprie colonie a settentrione dell'Ebro e per i proprî commerci in Spagna, si venne nel 226 o 225 a un accordo conosciuto col nome di trattato di Asdrubale o dell'Ebro. Questo accordo, conchiuso direttamente dai Romani con A. senza che il governo cartaginese vi avesse parte, mostra quale fosse nella provincia spagnuola l'autorità dei Barcidi. Il trattato stabiliva che i Cartaginesi non avrebbero passato in armi l'Ebro e fissava così un confine alla loro sfera d'influenza. Non pare che obbligasse però i Cartaginesi a tenersi lontani dalle colonie greche; del resto colonie greche a sud dell'Ebro non ce n'erano più, ed è favola che fosse tale Sagunto. In compenso implicitamente tutta la zona a sud dell'Ebro era abbandonata ai Cartaginesi dai Romani, ma solo implicitamente. Nessun articolo, pare, vietava ai Romani di contrarre alleanza con città o tribù a sud di quel fiume, sicché si può domandare quale corrispettivo avesse nel patto A. per quella sua promessa di non oltrepassare l'Ebro. Il corrispettivo, anche se non scritto, era che per qualche anno i Romani non avrebbero intralciato l'espansione dei Cartaginesi a sud di quel fiume. Questi anni furono vigorosamente utilizzati dai Cartaginesi; ma non meno dai Romani, che se ne servirono per vincere le maggiori tribù celtiche della valle Padana, i Boi e gl'Insubri, per oltrepassare vittoriosamente il Po, per preparare la fondazione delle due colonie di Piacenza e di Cremona, saldi baluardi della latinità. È dubbio se Amilcare o Annibale, al posto di A., si sarebbero rassegnati a pagare a tale prezzo il tranquillo proseguimento dell'espansione cartaginese in Spagna; perché l'aver fiaccato i Celti dell'Italia settentrionale, anche se questi tornarono a sollevarsi, riuscì immensamente vantaggioso a Roma nel duello mortale della seconda punica. Ma certo A. non credette compiuta la preparazione militare e politica per la guerra risolutiva, e forse sperò che la vittoria sui Galli sarebbe riuscita ai Romani più difficile e più dura. Comunque, quando morì nel 221 a. C. nel fiore dell'età, dopo otto o nove anni di governo, assassinato, pare, per offese private, lasciò ad Annibale, che prese il suo posto, un'ottima situazione politico-militare in Spagna e relazioni di pace con Roma.

Della sagacia di A. è prova anche la fondazione di Cartagine Nuova (Cartagena) sulla sponda orientale della Spagna, in posizione felicissima per le relazioni tra Spagna e Libia, destinata a sostituire come capitale dell'impero spagnuolo la troppo meridionale Cadice. La fondazione mostra che egli, più dei due grandi Barcidi, teneva d'occhio le possibilità della guerra marittima.

Fonte principalissima per la storia di A. è Polibio, II, 1, 9, 13, 36; III, 18; poi Diodoro, XXV, 10-12; Cornelio Nepote, Hasdr., 3,2; Hann., 3,1; Appiano, Iberica, 4-8; Zonara, VIII, 18; Dione Cassio, fr. 46 Melber; Livio, XXI, 2. Chiarissimo è nelle nostre fonti l'influsso della doppia corrente di tradizione, la barcina e l'antibarcina (v. amilcare barca), quest'ultima più tarda e più inquinata, a tal segno che le sue falsificazioni sono state notate già da Polibio.

Bibl.: O. Gilbert, Rom und Karthago in ihren gegenseitigen Beziehungen, 510-536 u. c., Lipsia 1876, p. 117 segg.; K. Neumann e G. Faltin, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883, p. 249 segg.; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, II, Berlino 1896, p. 404 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, p. 409 segg.

3. - Asdrubale, figlio di Amilcare Barca. Nato intorno al 245 a. C., fratello secondogenito di Annibale, fu dal fratello designato ancora giovanissimo (218) al comando dell'esercito di Spagna, quando si iniziò la grande spedizione contro l'Italia. Pur disponendo di forze numerose e agguerrite, pur ricevendo da Cartagine notevoli soccorsi, A. non riuscì a fronteggiare le esigue forze (due legioni) dei fratelli Publio e Gneo Scipione. Essi nel 218, vincendo Annone, governatore cartaginese della provincia a nord dell'Ebro, si assicurarono subito una buona base nella Spagna settentrionale prima che potesse impedirlo A., il quale sopraggiunse nella regione a marce forzate dopo la disfatta di Annone. Egli riportò bensì di sorpresa presso Tarragona un piccolo successo sugli equipaggi delle navi romane, ma dovette ripiegare a prendere i quartieri d'inverno a sud del fiume. Tornato poi colà nel 217 per rinnovare l'offensiva con l'esercito e con la squadra navale, vide questa, sebbene superiore di forze, sconfitta presso la foce dell'Ebro dalla flotta dei Romani e dei Marsigliesi. Dopo una campagna senza risultati, A. tornò con l'esercito a prendere i quartieri d'inverno a sud dell'Ebro; poi, impiegato il 216 a vincere una ribellione di indigeni, ricevuti rinforzi, riprese l'offensiva nel 215 per liberare la città fedele di Ibera (Dertosa) sulla sinistra dell'Ebro assediata dai Romani. Venuto qui a battaglia, fu pienamente disfatto a non grande distanza dalla città, in una posizione che non sappiamo se fosse a nord o a sud dell'Ebro. I soccorsi da lui ricevuti impedirono per il momento ai Romani di profittare largamente della vittoria. Ma richiamato poi A. in Africa per combattere Siface, le soldatesche rimaste in Spagna non riuscirono più a frenare la vittoriosa avanzata degli Scipioni. Il ritorno di A. dopo sedata la ribellione dei Numidi capovolse nuovamente la situazione. I Romani che prendevano i quartieri d'inverno (212-11) nel cuore della Spagna (a Castulone l'esercito di Publio, a Ursone quello di Gneo) si trovarono isolati in paese nemico di fronte a forze preponderanti, comandate da tre generali cartaginesi, A., Asdrubale figlio di Gisgone e l'altro fratello di Annibale, Magone. Asdrubale di Gisgone e Magone, riunitisi, riuscirono a sorprendere Publio Scipione uscito dal campo per attaccare un reparto indigeno che veniva a rinforzare i Cartaginesi, lo batterono e l'uccisero, poi mossero subito contro il campo di Gneo Scipione e, avendo questi tentato di ritirarsi, essi insieme con l'esercito di A. lo circondarono e gli fecero subire la stessa sorte del fratello. Così le forze romane furono quasi per intero distrutte, salvo le riserve di là dall'Ebro e il presidio lasciato da Publio Scipione nel suo campo, che poté felicemente ripiegare nel territorio romano oltre quel fiume. Qui per il loro valore e per la scarsa energia e concordia degli avversarî, riuscì ai Romani di conservare le loro basi fino all'arrivo dei soccorsi che Gaio Claudio Nerone condusse da Capua in Tarragona. Con queste forze Nerone ridusse anzi in gravi distrette A. che operava oltre l'Ebro; egli però riuscì con punica scaltrezza a salvarsi. Ma della mancanza di spirito offensivo e di concordia tra i duci cartaginesi approfittò il giovane Publio Cornelio Scipione, succeduto nel comando a Claudio Nerone, per impadronirsi con una sorpresa di Cartagena, la capitale nemica della Spagna (209); poi nel 208 Scipione assalì A. che svernava presso Becula isolato dai colleghi, e prima che questi giungessero in soccorso lo costrinse a battaglia. A. sebbene battuto riuscì peraltro a salvare il grosso dell'esercito lasciando il campo al nemico. Ormai le sconfitte e il discredito dei Cartaginesi, la fortuna e la sagacia di Scipione e la sua perizia nel trattare con gl'Iberi, facevano sì che l'impero cartaginese della Spagna si andasse sgretolando a profitto di Roma. D'altra parte era urgente, se si voleva reintegrare la guerra e tentare di mutarne il corso, rincalzare Annibale che a sua volta era ormai ridotto all'impotenza nell'estremo mezzogiorno d'Italia. Così A. determinò di lasciare la difesa della Spagna, ove non era più possibile l'offensiva, agli altri generali e di muovere col suo esercito verso l'Italia per congiungersi col fratello. Queste nelle linee generali le vicende della guerra spagnuola di cui ci sfuggono quasi interamente i particolari (per la critica della tradizione assai scadente che ne abbiamo, per lo studio di queste campagne dal punto di vista strategico e per la valutazione delle battaglie di Ibera e di Becula, v. puniche, guerre, e becula).

Compiuti i suoi preparativi ancora nel 208, A. varcò l'Ebro nel coiso superiore, dove Scipione non poteva opporglisi senza grave pericolo, passò senza impedimenti i Pirenei occidentali e scese a svernare nell'Aquitania. Di qui, a primavera, senza alcun contrasto attraverso la Gallia meridionale e per il Monginevra scese in Italia procedendo fino al Po e tragittandolo a grande agio. Si trattenne ad assediare Piacenza, poi, tolto l'assedio, mosse verso l'Adriatico e procedette fino a Fano. Qui oltre il Metauro lo attendeva il console Marco Livio Salinatore col pretore Lucio Porcio Licino, ai quali presto si congiunse con rinforzi provenienti dall'Italia meridionale, l'altro console Gaio Claudio Nerone, che aveva lasciato il grosso del suo esercito a fronteggiare Annibale. Eludendo la sorveglianza degli avversarî A. cercò d'inoltrarsi per la via Flaminia verso l'Italia centrale; ma a una ventina di chilometri da Fano, prima d'aver attraversato il Metauro, fu raggiunto dalle avanguardie dell'esercito romano che, passato il fiume presso Fano, lo inseguiva a marcia forzata lungo la via Flaminia. Ivi sulla sinistra del Metauro avvenne tra Romani e Cartaginesi la battaglia decisiva che terminò con la completa disfatta dell'esercito cartaginese e la morte di A. (giugno-luglio 207; v. metauro: Battaglia, e per i particolari di questa campagna e per la sua valutazione tattica e strategica, puniche, guerre).

Quanto alla persona di A. la tradizione gli è in generale favorevole o almeno mite, nonostante le moltissime falsificazioni annalistiche ad maiorem gloriam Romanorum. E certo gli si deve riconoscere valore personale, tenacia, fedeltà inconcussa alla patria e al fratello, e si deve anche notare che pochi generali si sono trovati così giovani (non era ancora trentenne nel 218, come del resto non lo era il iratello Annibale) in posti di così grave difficoltà e responsabilità. Ma è giusto rilevare che A. nonostante le immense riserve umane e risorse finanziarie di cui disponeva, lasciandosi battere da generali mediocri e scarsi di uomini e di mezzi come i due Scipioni, dimostrò di non essere in alcun modo all'altezza dell'ufficio gravissimo affidatogli da Annibale. Ad A. si deve se dalla Spagna non vennero ad Annibale aiuti, quando aiuti considerevoli avrebbero potuto mutare in Italia le sorti della guerra, e se i Romani non furono posti innanzi al dilemma di abbandonare la Spagna o d'inviarvi forze tali da indebolire la difesa d'Italia contro Annibale. Quel successo che si sarebbe potuto riportare nel 218 o 217 non venne che nel 211 e anche allora A. non seppe profittanne né per recidere le radici della potenza romana in Spagna, né per muovere immediatamente in aiuto del fratello, le cui condizioni in Italia si facevano di giorno in giorno più gravi. E se egli si mostrò inabile di fronte a generali mediocri come i due Scipioni, quando poi ebbe a fronte un duce veramente geniale come il giovane Publio si lasciò pietosamente sorprendere e sconfiggere, e vide sgretolarsi sotto i suoi occhi, senza saperlo impedire con le sue forze preponderanti, il magnifico impero di Amilcare Barca. Quando finalmente egli si decise all'impresa d'Italia, per gl'immensi armamenti dei Romani e per la condizione d'impotenza cui era ridotto ormai Annibale, il tentativo era pressoché disperato e avrebbe richiesto, per riuscire, la genialità di Annibale stesso o di Scipione. Ma in questo stesso tentativo, per quanto le nostre informazioni siano scarse, sembra innegabile che ritardi ed errori abbiano aumentato le difficoltà già gravi dell'impresa e affrettato il disastro

Fonti principalissime per la storia di A. Barca sono Polibio, in varî luoghi del lib. III e nei frammenti del X e dell'XI (da vedere soprattutto il giudizio in XI, 2), e Livio nella terza deca e in particolare nel libro XXVII, in cui è narrata la spedizione in Italia e la battaglia del Metauro. Delle altre fonti è principalmente da consultare Appiano, Hiberica e Hannibalica. La tradizione è sotto l'influsso di Polibio, sebbene vi abbondino anche le falsificazioni annalistiche.

Bibl.: K. Neumann e G. Faltin, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883, p. 435 segg.; O. Meltzer e U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, III, Berlino 1913, passim; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, III, i, Berlino 1907, p. 424 segg.; I. Frantz, Die Kriege der Scipionen in Spanien, Monaco di Bav. 1883; M. Jumpertz, Der römisch-karthagische Krieg in Spanien, 211-206, Berlino 1892; Götzfried, Annalen der röm. Provinzen beider Spanien, 218-254, Earleng 1907; R. Oehler, Der letzte Feldzug des Barkiden Hasdrubal u. d. Schlach am Metaurus, Berlino-Lipsia 1897 (Berliner Studien, II); K. Lehmann, Die Angriffe der drei Barkiden auf Italien, Lipsia 1905, p. 150 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, passim.

4. - Asdrubale figlio di Gisgone. - Suo padre era probabilmente quel Gisgone che ebbe un comando sullo scorcio della prima Punica e fu ucciso poco dopo dai mercenarî cartaginesi. Di ricca e ragguardevole famiglia, amico dei Barcidi, fu mandato a comandare le forze cartaginesi in Spagna (214), quando Asdrubale Barca dovette andare in Africa per combattere la ribellione di Siface. In Spagna fu replicatamente battuto (per quanto non tante volte quante dice la tradizione annalistica), finché tornò a risollevare le sorti della guerra spagnola il figlio di Amilcare. A. partecipò con lui alla distruzione degli eserciti dei due Scipioni e condivise con lui la responsabilità dell'insufficiente sfruttamento di questa vittoria e poi dell'inetta difensiva contro Publio Scipione. Allorché Asdrubale figlio di Amilcare dopo la rotta di Becula mosse verso l'Italia, A. di Gisgone rimase al comando della Spagna insieme con Magone di Amilcare. Battuto nel 207 ad Ilipa, dopo un ripiegamento disastroso, fuggì a Cadice lasciando a Magone il comando delle ultime reliquie della provincia cartaginese perduta in gran parte per effetto dei suoi insuccessi militari e dell'avarizia con cui si era reso odioso agl'indigeni. In Africa conservò, nonostante la disfatta, grande autorità, anzi pare fosse in quegli anni il più importante uomo politico di Cartagine. Cooperò alla pacificazione defimtiva di Cartagine con Siface, cui diede in sposa la propria figlia Sofonisba. Quando Scipione sbarcò in Africa (204), congiuntosi con Siface mosse contro i Romani che, lasciando l'assedio di Utica, svernarono nei Castra Cornelia. Ivi presso svernarono A. e Siface lasciandosi addormentare dalle trattative fallaci che Scipione tirava in lungo, finché egli profittò della fiducia e della trascuranza degli avversarî per sorprendere e incendiare il loro campo, infliggendo loro gravissime perdite (203). Senza perdersi d'animo A. e Siface raccolsero un nuovo esercito nella pianura dei Campi Magni sul Bagrada a un centinaio di km. da Utica. Ma Scipione mosse rapidamente contro di loro prima che avessero bene riorganizzate le loro forze e li sbaragliò. A. sconfitto non osò tornare in patria finché Annibale reduce dall'Italia non l'ebbe fatto richiamare. Ma poi fu accusato di tradimento e, temendo l'ira popolare, si avvelenò e il popolo fece scempio del suo cadavere. L'accusa di tradimento era senza dubbio ingiusta. Ma l'inettitudine del generale che sciupò le occasioni favorevoli e si fece regolarmente battere da avversarî abili e inabili è, fuori di ogni contestazione, una delle ragioni per cui i Cartaginesi perdettero la seconda guerra Punica.

Fonti principali sono come sempre Livio che ne discorre passim dal lib. XXIV al XXX, e Polibio di cui abbiamo varî frammenti concernenti A. in particolare nel lib. IX e nel XIV. Inoltre varî luoghi di Appiano, Libyca e Hiberica, e di Zonara, IX, 13.

Bibl.: K. Neumann e G. Faltin, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883, passim; O. Meltzer e U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, III, Berlino 1913, passim; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, ii, Torino 1917, c. IX; St. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord, III, Parigi 1918, c. VI.

5. - Questo Asdrubale appare nella storia circa il 150 a. C. come capo del partito rigidamente nazionale, cioè avverso non meno a Roma che ad una intesa col vicino regno numidico. Quell'anno avendo il re di Numidia, Massinissa, învaso il territorio cartaginese già tanto ridotto dalle sue precedenti usurpazioni e assediato una città di ignota postura di nome Oroscopa, i Cartaginesi invece di ricorrere alla mediazione del senato romano, la quale non aveva fatto fino allora che far guadagnare terreno ai Numidi, inviarono al soccorso A. con un esercito. Dopo che con lui si fu congiunto un forte nerbo di Numidi dissidenti da Massinissa, ebbe luogo una battaglia lunga e accanitissima della quale i Numidi si ascrissero la vittoria. I Cartaginesi a ogni modo si ritrassero nel loro campo donde non osarono più uscire a combattere; finché tormentati dalla fame e da un'epidemia dovettero capitolare a condizioni gravissime, ottenendo bensì libera uscita, ma consegnando tutti i ribelli Numidi. I patti furono poi violati dal figlio di Massinissa Gulussa, che attaccò i Cartaginesi di ritorno in patria e ne distrusse gran parte. Peggio fu che il senato romano dichiarò violato così da Cartagine il trattato del 201 il quale vietava di muovere guerra agli alleati di Roma. I Cartaginesi cercarono di soddisfare i Romani condannando a morte A., il quale dopo la rotta non aveva osato tornare in patria e aveva raccolto attorno a sé bande di fuorusciti e di malcontenti odiatori a oltranza di Roma, coi quali combatteva il govern0 filoromano di Cartagine. Altrove sarà narrato (v. puniche, guerre) l'ulteriore svolgersi delle trattative fino al momento in cui i consoli Manilio e Censorino, sbarcati in Africa con 4 legioni e fattisi consegnare dai Cartaginesi le armi, intimarono ad essi (149) di sgomberare la città e di stabilirsi a dieci miglia dal mare. I Cartaginesi risposero trucidando i capi del partito romano e gli Italici residenti in Cartagine, richiamando A. e invitandolo ad assumere la difesa della città come generale in capo insieme con un altro Asdrubale figlio di una figlia di Massinissa e capo fino allora del partito numidico. A., mentre la città apprestava armi e soldati, la appoggiava dal di fuori contro i Romani accampando in forte posizione a Nepheris a circa 30 km. a SE. di Tunisi. Qui il console Manilio, dopo l'insuccesso dei suoi attacchi contro Cartagine, andò ad assalirlo sullo scorcio di quell'anno 149 e riportò in campo aperto un qualche vantaggio; ma dovette ripiegare per le difficoltà del vettovagliamento, e nel ripiegamento soffeme perdite non lievi. Esito non diverso, sebbene meno disastroso, ebbe un altro tentativo che Manilio fece contro il campo di A. nella primavera dell'anno seguente. A. incoraggiato dall'inazione del nuovo console del 148 Lucio Calpurnio Pisone, lasciò il comando a Nepheris a un suo subordinato e venne egli stesso a Cartagine, dove, dopo aver mosso non sappiamo se a ragione o a torto un'accusa di tradimento contro il suo collega omonimo, che fu trucidato in pieno senato, assunse egli stesso il comando supremo con la pienezza di poteri di un dittatore o di un tiranno. Per impedire che la città venisse dai Romani asserragliata dalla parte di terra, pose un campo fortificato sull'istmo che collegava Cartagine col continente. Ma le sorti della guerra mutarono quando l'anno successivo 147 il comando dell'esercito assediante fu assunto dal nuovo console Publio Cornelio Scipione Emiliano. Un tentativo di sorpresa fatto da Scipione nella parte settentrionale della città verso il quartiere di Megara terminò bensì con un completo insuccesso, essendo accorso con tutte le forze dal suo campo A., che riuscì a respingere gli assalitori. Ma il campo sull'istmo, nudato di difensori, cadde in mano dei Romani, che così poterono chiudere completamente la città anche dalla parte di terra. Si imziò così l'agonia di Cartagine e A. stesso eliminò ogni speranza di ricorrere alla clemenza dei vincitori facendo massacrare fra i tormenti i prigionieri romani caduti in suo potere. Forse fu rappresaglia per crudeltà usate dai Romani alla popolazione di Megara nel momento della sorpresa. Certo fu atto inconsulto che fa oscuro contrasto con la pietà da A. dimostrata in altra occasione verso i caduti Romani.

Altrove saranno narrate le ultime vicende dell'assedio di Cartagine. Qui basterà notare che, fallito il tentativo dei Cartaginesi di rompere il blocco per mare, caduto in mano di Lelio il campo di Nepheris, mentre la fame e le epidemie facevano strage dei difensori e si attendeva l'assalto generale a cui sarebbe stato impossibile resistere, A. iniziò trattative per la capitolazione, e da Scipione gli furono offerti buoni patti per lui ed i congiunti, ma la resa a discrezione per gli altri. A. rifiutò e continuò la lotta impari. Quando, caduta la città e la rocca della Byrsa e arresisi ai Romani od uccisi gli ultimi difensori, non rimanevano in armi che i disertori italici trincerati nel tempio di Eshmun, i quali, consci dell'impossibilità di salvezza, preferivano di morire tra le rovine del tempio dato alle fiamme, A. si arrese mentre la consorte imprecando alla sua viltà si gettò tra le fiamme coi figlioletti. Scipione allora gli donò la vita, che chiuse poi confinato in una città italica. La tradizione pervenutaci sotto l'influsso di Polibio è assai sfavorevole allo sfortunato generale. Che A. abbia fatto il possibile con mirabile tenacia e non senza genialità per ritardare la caduta di Cartagine e per farla pagare a caro prezzo dal nemico, dobbiamo a ogni modo riconoscere; e non è certo sua colpa, data l'immensa sproporzione delle forze, se non riuscì a impedire che si compisse l'inevitabile. La sua resa, quando egli aveva fatto tutto ciò che poteva farsi per la patria, dovrà essere giudicata più umanamente che non facesse Polibio. E la stessa crudeltà di cui diede prova sia verso i nemici, sia verso i veri o pretesi traditori, dev'essere valutata tenendo conto della ferocia e disperatezza di quella guerra. Come politico è suo merito l'avere riconosciuto, e sia pure invano, l'inevitabilità della guerra e la necessità di prepararvisi per cadere, se non altro, con onore.

Fonte principalissima è Appiano, Libyca, 69-132, che ci dà il solo resoconto un po' diffuso della terza Punica. Esso è desunto dalle storie di Polibio, testimone oculare dei fatti, p. es. della resa di A., delle quali ci rimane qualche importantissimo frammento concernente A. (libro XXXVIII). Cfr. anche Diodoro, XXXII e Zonara, X, 26, 29, 30. Di non grande importanza sono i resti della tradizione liviana, anch'essa sotto l'influsso preponderante di Polibio. Per la critica delle fonti v. soprattutto Kahrstedt, op. sotto cit., p. 620 segg.

Bibl.: J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, III, ii, p. 705 segg.; O. Meltzer e U. Kahrstedt, Geschichte der Karthager, III, Berlino 1913, p. 638 segg.; St. Gsell, Histoire anc. de l'Afrique du nord, III, ii, Parigi 1918, p. 323 seguenti.

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