ASIA SUD-ORIENTALE, Arte della

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

ASIA SUD-ORIENTALE, Arte della (v. vol. II, p. 104, s.v. Birmania·, vol. II, p. 281, s.v. Cambogia; vol. IV, p. 150, s.v. Indocina, Arte della·, vol. IV, p. 157, s.v. Indonesiana, Arte)

M. Spagnoli

vol. IV, p. 157, Gli inizî della storia dell'arte dell'A. sud-orientale si collegano al fenomeno della penetrazione della civiltà indiana in quelle regioni, iniziato a partire dai primi secoli d.C. e protrattosi con varia intensità, ma costantemente, per oltre un millennio.

Questo processo di espansione culturale, dalle caratteristiche pressoché uniche nella storia dell'umanità, se si considera che esso non fu motivato né da dominazioni politiche né - come sembra probabile - da fenomeni di colonizzazione, è stato oggetto di numerose indagini e discussioni che non sono riuscite, tuttavia, a chiarirne del tutto le cause e le modalità.

È indubbio, invece, che da esso trassero origine e forma entità politiche e culturali, alcune delle quali di modesta rilevanza, altre di potere e forza di espansione assai vasti, che convissero e si succedettero nell'A. sud-orientale continentale e insulare per molti secoli e, in taluni casi, fino ai giorni nostri. A questi stati, che traevano i propri fondamenti ideologici e religiosi, la struttura organizzativa, la lingua ufficiale, la scrittura, la letteratura, le forme artistiche dalla civiltà indiana, assunta globalmente e senza alterazioni profonde, sembra ben appropriarsi la denominazione di «regni indianizzati», con la quale vengono solitamente designati.

Va rilevato, però, che questa espressione può indurre a una valutazione inesatta e riduttiva del fenomeno, nell'ambito del quale si palesa anche la grande originalità creativa, in particolare nel campo delle arti figurative, delle civiltà germogliate dal ceppo culturale indiano. Esse, infatti, pur adottando modelli iconografici e norme iconometriche, formulazioni stilistiche e canoni estetici desunti dal grandioso patrimonio di precettistica e di esperienze artistiche dell'India, riuscirono a creare nuovi linguaggi formali, adeguati alle diverse esigenze e condizioni d'ambiente.

Tali espressioni non si pongono mai in contrasto con le norme strutturali della figuratività indiana, della quale sembrano cogliere i nuclei germinali e attuare, sovente, le potenzialità inespresse con procedimento parallelo, ma autonomo, rispetto agli stili dell'India, dei quali, talvolta, anticipano l'evoluzione.

Il termine «indianizzazione» è messo tuttavia in discussione negli studi più recenti. Si segnala, infatti, che questa definizione, usata in senso troppo generico, rischia di conferire al fenomeno un'importanza maggiore di quella che probabilmente ebbe nella fase più antica dei contatti con l'India. Questa critica si inquadra nella tendenza, diffusa nella ricerca odierna, a cercare cause locali cui attribuire almeno gli inizi dello sviluppo politico e culturale dei paesi dell'A. sud-orientale. Le indagini storiche e archeologiche finora effettuate non hanno dato, però, prove certe di ciò, mentre è innegabile l'azione degli influssi indiani fin da epoche notevolmente antiche.

La cultura indiana cominciò gradualmente a penetrare nelle terre dell'A. sud-orientale nei primi secoli dell'era cristiana. Probabilmente contatti sporadici fra le due aree si erano già verificati in epoca protostorica, ma rapporti diretti e frequenti si instaurarono solo in conseguenza dell'apertura delle grandi vie marittime che mettevano in comunicazione il Mediterraneo con l'India e quest'ultima con l'A. sud-orientale (v. vol. VI, p. 1010 ss., s.v. Romana, arte).

La spinta verso una più certa conoscenza di queste terre trasse origine, dunque, da ragioni di carattere commerciale, come testimonia il nome stesso di «Via delle Spezie», con il quale si suole indicare questa lunghissima rotta marina.

La principale fonte, alla quale possiamo attingere notizie su questo commercio, è costituita dal Periplo del Mare Eritreo, sorta di portolano in lingua greca, scritto, probabilmente verso la fine del I sec. d.C., da un anonimo capitano di lungo corso, che doveva aver personalmente toccato molti dei porti descritti. Le navi occidentali raggiungevano non solo le coste occidentali dell'India, ma doppiavano anche il Capo Comorin e si spingevano fino al Coromandel. Questo supplemento di viaggio doveva essere motivato dalla possibilità di trovare colà merci probabilmente reperibili, ma a prezzi assai più alti, anche nei porti del Malabar, ai quali venivano trasportate attraverso il passo di Coimbatore. Parte di questi prodotti giungevano dall'A. Sud-orientale.

L'autore del Periplo sa pochissimo di questo commercio, ma attesta che esso veniva effettuato su grandi navi indiane chiamate kolandiophonta. Fino al I sec. d.C., il mondo ellenistico non ha che una conoscenza assai vaga dell'A. sud-orientale. Si sa che a E delle regioni indiane esiste una «Terra dell'Oro» (Chrysè), nome probabilmente derivato dall'India stessa, ove quei paesi sono chiamati in sanscrito Suvarṇabhūmi («Terra dell'Oro»), denominazione che suggerisce l'idea di luoghi dalle enormi ricchezze. I dati relativi a queste terre si fanno, però, più abbondanti e precisi nella Geografia di Claudio Tolemeo, opera composta verso la metà del II sec. d.C.

Verso la metà del III sec. il flusso commerciale che toccava i porti dell'A. sud-orientale e, in particolare, della penisola indocinese doveva essere già notevolmente intenso. Lo testimoniano alcune storie dinastiche cinesi che riportano brani del resoconto di due osservatori, inviati dai Wu della Cina meridionale presso un regno chiamato Funan, che costituiva il polo principale al quale giungevano i commerci marittimi internazionali.

Il Funan. - La dislocazione del Funan, che fu il più antico e, per lungo tempo, il più potente stato dell'A. sud-orientale, è stata oggetto di discussione, ma è opinione quasi universalmente accettata che esso si estendesse lungo il corso inferiore e sul delta del Mekong. L'archeologia ha fornito sostegno a questa ipotesi: gli scavi effettuati fra il 1940 e il 1945 a Oc-éo, località della costa SO della penisola, hanno riportato alla luce i resti di un antico centro portuale, al quale confluiva un'ampia rete di commerci internazionali.

Gran parte del materiale ivi rinvenuto è di origine indiana, soprattutto gioielleria, ma anche glittica, sfragistica e scultura. Esso comprende, inoltre, plastica e specchi cinesi datati dal II al IV sec. d.C., medaglioni iranici insieme ad altri romani, effigiami Antonino Pio e forse Marco Aurelio, e a grylloi di fattura probabilmente alessandrina. La presenza di materiali provenienti dal mondo romano è attestata, oltre che dai reperti di Oc-éo, anche da esemplari rinvenuti in altre località dell'A. sud-orientale continentale. Il territorio thailandese ha restituito alcune di queste opere, tra le quali un'immagine bronzea di Posidone, di derivazione lisippea, da Trà-vinh, una lampada probabilmente alessandrina da P'ong Tük, un medaglione di bronzo di Massimino il Trace (235-238 d.C.), rinvenuto a Mĩ-tho. Il pregio che era attribuito agli oggetti di provenienza mediterranea sembra testimoniato a Oc-éo, soprattutto per quanto concerne la glittica, da una produzione locale che imitava modelli romani.

Ben più cospicuo è il fenomeno dell'imitazione relativamente al materiale indiano, costituito per la maggior parte da piccoli oggetti (esemplari di gioielleria e glittica) accompagnati sovente da brevi iscrizioni sanscrite, databili fra il III e il V sec. d.C., che indicano il nome del proprietario o esortano alla vigilanza.

A Oc-éo è attestata un'abbondante produzione di oggetti di stagno, che imitava modelli indiani e che sembra aver caratterizzato la fase più antica della cultura funanese. Questa attività, documentata anche dal rinvenimento di stampi, oltre a dimostrare il desiderio degli artigiani locali di appropriarsi di tecniche e di temi figurativi stranieri - certamente per soddisfare le richieste della clientela - indica uno dei modi in cui gli influssi artistici e linguistici indiani venivano assorbiti e moltiplicati.

Per quanto concerne in particolare il sanscrito, l'iscrizione di Vô-canh (Vietnam meridionale) attesta che già nel III e forse nel IV sec., secondo le diverse datazioni che al documento sono state attribuite, il sanscrito era divenuto la lingua ufficiale della cancelleria funanese.

Scarsi e di difficile interpretazione sono i resti dell'architettura dell'epoca che, a giudicare almeno dal c.d. «monumento K» di Oc-éo, doveva utilizzare insieme il granito e il mattone.

Pochi esemplari di coroplastica documentano la decorazione architettonica funanese, che mostra l'adozione di temi iconografici e di formule stilistiche proprie del periodo gupta nelle figure di siṃhamukha e kīrttimukha (maschere mostruose ispirate al leone o effigianti animali fantastici) e nei volti sorridenti di Núi Sam, che presentano, rispetto ai modelli indiani, caratteri di notevole originalità.

Nel complesso il materiale archeologico di Oc-éo, molto del quale di origine straniera, non riesce a fornirci che un'idea assai vaga delle caratteristiche e del tipo di organizzazione politica ed economica del Funan. Non è stato identificato con certezza neppure il luogo in cui sorgeva la capitale dello stato, situata, secondo E. Aymonier, ad Angkor Borei e, secondo G. Coedès, presso la collina di Bà Phnom, a SE di Phnom Penh.

Più valide informazioni sono state ottenute mediante l'uso della fotografia aerea, che ha mostrato l'esistenza di una vasta rete di canali artificiali i quali, oltre a costituire delle vie di comunicazione fra l'interno e la costa, servivano a drenare le basse terre del delta del Mekong e a renderle adatte alla coltivazione. D'altra parte, mancando elementi concreti che consentano di attribuire al Funan il carattere di potenza marittima, si deve ritenere che i commerci avessero soltanto una funzione integrativa rispetto all'economia del paese, che doveva essere basata sull'agricoltura.

Le opere di canalizzazione, certamente legate a entrambe le attività, appaiono come il risultato di una politica di vasto respiro, volta a modificare le caratteristiche naturali del territorio anche mediante l'impiego di tecniche di origine indiana.

Nonostante il notevole grado di sviluppo economico e di potere politico raggiunto dal Funan, non si hanno testimonianze dell'esistenza di una grande arte che desse espressione ai fondamenti ideali sui quali poggiava la cultura del paese, finché non si giunge al VI sec., periodo finale dell'esistenza del regno. La collina del Phnom Dà, presso Angkor Borei, sulla quale sorgevano santuari rupestri ed edifici di carattere religioso, ha restituito una notevole quantità di opere scultoree di varia epoca. L'analisi stilistica, ha consentito allo studioso francese P. Dupont di distinguere, nell'ambito del complesso, un gruppo di statue e di rilievi più antichi («stile A del Phnom Dà»), attribuibili alla prima metà del VI sec. e quindi al regno del Funan.

Si tratta di una produzione hindu, di carattere eminentemente visnuita, che comprende una statuaria caratterizzata dall'impiego di archi di sostegno e di staffe, destinati a dare stabilità alle figure. La scultura indiana contemporanea non utilizzava il tutto tondo completo e presentava le immagini divine soprattutto nella forma del rilievo e della stele. Gli scultori del Phnom Dà compiono invece uno sforzo ardito verso la liberazione della figura dal vincolo del piano di fondo e, se ancora devono servirsi di artifici tecnici per dare stabilità alle statue, riescono però a realizzare immagini delineate e plasmate dallo spazio che le avvolge.

Il tutto tondo non è, tuttavia, utilizzato per ottenere effetti più naturalistici, ché anzi, unito alla grandezza delle proporzioni, alla sobrietà del modellato, alla frontalità delle figure, dà luogo a forme maestose e solenni che sembrano vivere fuori dello spazio e del tempo.

Il numero delle braccia e gli attribuiti recati nelle mani da alcune immagini, soprattutto da quelle di Viṣṇu, indicano che si tratta della divinità sovrana del cosmo, simbolo della totalità e delle sue singole parti, forma visibile dell'ordine che regola lo spazio-tempo. A tale concezione sembra riferirsi anche la lucentezza, conferita a questa statuaria dalla doratura, che sovente la caratterizza e che ne sminuisce la consistenza materica non senza precisi intenti estetici e simbolici. In particolare nelle immagini di Viṣṇu e di Harihara, la divinità sincretistica che nella metà destra mostra i caratteri di Śiva e nella sinistra quelli di Viṣṇu, lo splendore dell'oro sembra accentuare il valore solare della figura e, perciò, ribadire l'idea della sovranità cosmica della quale il sole è il simbolo più evidente.

L'importanza attribuita alle speculazioni sulla regalità, che queste figure attestano, rende palese l'intento di ricavare dal pensiero indiano delle basi ideologico-religiose su cui fondare il potere politico, che si realizza ormai nella forma di una vasta organizzazione statale. Questa tendenza che, pur manifestandosi in modi diversi, è comune a tutti i paesi di cultura indiana dell'A. sud-orientale, dura nel tempo e, anzi, si intensifica, lasciando intuire la presenza costante di elementi disgregatori che spingevano verso il ripristino dell'antica frammentazione politica.

Quando, nella seconda metà del VI sec., la potenza funanese crollò sotto i colpi dei Khmer, si ruppe anche la vasta compagine politico-economica entro la quale lo stato indocinese aveva costretto i paesi confinanti con il proprio territorio e in posizione di particolare importanza per i suoi commerci. La supremazia del Funan si era estesa alle regioni sud-orientali della penisola, come dimostra l'iscrizione di Vô-canh che è la più antica, redatta in sanscrito, di tutta l'A. sud-orientale, e che deriva da uno stato vassallo della maggiore potenza.

Il Linyi. Secondo quanto riferiscono fonti storiche cinesi, verso la fine del II sec. d.C., sulle coste orientali della penisola indocinese, si era costituito il regno di Linyi, in conseguenza delle lotte delle popolazioni indigene contro le autorità cinesi che governavano la comanderia del Zhenan (fra Hoan-sön e il Colle delle Nuvole), estremo limite meridionale dell'impero.

Il Linyi confluì poi nel Champa, un regno di cultura indiana, che al momento della sua massima potenza doveva estendersi dalla Porta d'Annam alla regione di Phanrang (Paṇḍuraṅga). La data di questa fusione non può essere determinata con sicurezza; è certo però che agli inizi del VII sec. il fenomeno si era già verificato. Del periodo più antico restano alcune iscrizioni sanscrite, fatte redigere dal re Bhadravarman I verso la fine del IV sec., che attestano il culto di Śiva, designato con il nome di Bhadreśvarasvamin. Il dio era quasi certamente rappresentato da un liṅga, il suo simbolo fallico. Nessun cenno viene fatto all'esistenza di rappresentazioni antropomorfiche di divinità, ma una fonte cinese, la Storia dei Song, ci informa che statue di metalli preziosi vennero prese come bottino durante una spedizione militare inviata contro il Linyi nel 446. Assai scarse sono, comunque, le immagini superstiti anteriori al VII secolo. Tra quelle buddhiste particolare importanza, per imponenza e qualità estetiche, è da attribuirsi al Buddha di Dông-du'o'ng, presso Trà-Kiệu, datato fra la fine del IV e l'inizio del VI secolo. Si tratta di un'immagine stante, di bronzo, con ambo le braccia protese, nella quale un indumento di stoffa sottile (secondo J. Boisselier, l'uttarāsaṅga) sale a coprire la spalla sinistra. La veste aderisce al corpo, rivelandone le forme e disegnando sottili pieghe, ove spaziate e sinuose, ove addensate e ricadenti parallelamente alla figura.

Questo esemplare della statuaria buddhista non ci dà, tuttavia, alcuna indicazione sulle tendenze dell'arte locale, poiché esso appare direttamente importato dall'India o perfettamente imitante i modelli indiani. Come rileva però Boisselier, il Buddha di Dông-du'o'ng fa parte di una serie non numerosa, ma stilisticamente omogenea, che comprende alcune immagini thailandesi e giavanesi, oltre a una testa proveniente da Angkor Borei in Cambogia. I luoghi di ritrovamento di questi esemplari circoscrivono una vastissima area che risentì dell'influsso diretto di manufatti artistici indiani.

Fra il IV e il VI sec. viene datato anche un torso proveniente da Kuäng-khe, appartenente a una statua del Buddha con entrambe le spalle coperte, nella quale si coglie l'impronta dello stile gupta.

L'iconografia del Buddha meditante sul nāga (divinità-serpente), che assumerà notevole importanza più tardi, soprattutto nell'arte khmer, è documentata da un piccolo rilievo di Phuo'c-tinh, che mostra affinità con la produzione della scuola thailandese di Dvāravatī. Alla fine del VI sec. è attribuito un gruppo di opere, ritenute hindu, tra le quali alcuni busti di Phu-ninh che rappresentano personaggi nimbati con capigliature trattate a file di riccioli ricadenti sulle spalle, uno yakṣa, proveniente da Trà-Kiệu, e una divinità su nāga, probabilmente Viṣṇu, che mostra qualche tratto iconografico presente nell'arte di Amarāvatī. Le affinità, che legano alcune di tali sculture alla produzione di Dvāravatī, possono trovare spiegazione solo attraverso l'indagine del processo di sviluppo dell'area thailandese e la ricostruzione dei rapporti fra queste terre e il Funan.

L'area thailandese. - Il dominio del Funan si era esteso alle regioni costiere del golfo del Siam e, in particolare, alla parte settentrionale della penisola malese.

I commerci marittimi raggiungevano, infatti, la zona dell'istmo di Kra verso la quale si dirigevano le navi provenienti dal golfo del Bengala e da quello del Siam. Le merci venivano scaricate e trasportate per via di terra nel breve tratto che separa le due coste, indi reimbarcate per la prosecuzione del viaggio. Una via terrestre raggiungeva il bacino del Menam. Ciò spiega perché le regioni peninsulari divenissero centri di irradiazione degli influssi culturali indiani. Fonti storiche cinesi attestano l'esistenza di piccoli regni indianizzati in quest'area alla quale, già nel III sec., il Funan aveva imposto il proprio controllo politico.

Nel periodo precedente il sorgere della scuola di Dvāravatī, opere rinvenute in alcuni centri della Thailandia continentale e peninsulare documentano la presenza di modelli stilistici indiani di varia origine. Le tradizioni āndhra e singhalesi si manifestano in un bel Buddha bronzeo da Sungai Kolok e in un'analoga immagine da Kórât. Caratteristica particolare di queste opere, databili al V sec. e agli inizî del VI e stilisticamente affini al Buddha di Dông-du'o'ng, è la mano sinistra che tiene un lembo della veste, tratto non documentato nella produzione āndhra, ma presente in una statua rinvenuta a Badulla (Sri Lanka) e conservata al museo di Colombo. Figure di questo tipo venivano anche copiate da artisti locali, come dimostra un Buddha di bronzo rinvenuto a Nakhon Pathom, nel quale tale formula stilistica appare appesantita e raggelata.

Inoltre suggerimenti della tarda scuola gandharica e di quelle gupta e pāla raggiunsero la Thailandia peninsulare e il bacino del Menam senza suscitarvi echi immediati. La diffusione del brahmanesimo fu indubbiamente minore di quella del buddhismo. Una statuetta di Viṣṇu, proveniente da Chaiya e databile al IV sec., è da considerarsi una delle più antiche immagini brahmaniche dell'A. sudorientale. Interpretazione locale di una formula iconografica tipica dell'India meridionale, essa appare tuttavia collegabile ad alcuni Viṣṇu di Oc-éo e attesta quindi l'esistenza di legami fra i diversi centri artistici dell'epoca.

Birmania. - Per quanto concerne questo periodo, poco si può dire della Birmania ove i Pyu, una confederazione di tribù parlanti una lingua tibeto-birmana, avevano costituito uno stato nella bassa valle dell'Irrawaddy e, in particolare, nella regione di Prome. Nei dintorni di questo centro e, più precisamente, nel villaggio di Maungun, sono stati rinvenuti frammenti del Canone buddhista, redatto in pali, su lamine d'oro risalenti al V o al VI sec., e un reliquiario con le figure dei quattro Buddha e dei quattro discepoli.

Della capitale, Śrīkṣetra, si conservano i resti della cinta muraria, che formava una circonferenza irregolare dal diametro di c.a 4 km, e alcuni stūpa attribuibili al VI secolo. Contemporaneamente al regno di Śrīkṣetra, e forse da prima che esso venisse fondato, esisteva uno stato môn nelle regioni del delta dell'Irrawaddy. In misura anche maggiore dei Pyu, i Môn, che parlavano una lingua affine al khmer, avevano assorbito la cultura indiana.

La religione fra essi dominante era il buddhismo Theravāda, anche se l'induismo vi era rappresentato. Scarsi sono i resti archeologici attribuibili ai Môn occidentali, ma quelli riferibili al regno di Dvāravatī, cui avevano dato vita i Môn orientali nella bassa valle del Menam, rivelano influssi indiani degli stili tardo-gupta e post-gupta.

L'arcipelago indonesiano. - La spinta missionaria del buddhismo, cui sono legate le più antiche forme di penetrazione della civiltà indiana nella penisola malese e nelle regioni occidentali della penisola indocinese, agì ampiamente anche nelle isole dell'arcipelago indonesiano. Alcuni Buddha bronzei rinvenuti nella regione di Jember (Giava orientale) e a Sikendeng (Celebes), databili fra il IV e il VI sec., sembrano importati dall'India meridionale. Insieme ad altri esemplari indocinesi, già menzionati, essi attestano la vasta diffusione degli stili āndhra e singhalesi. Opera locale sembra essere invece un Buddha di granito, trovato sulla collina di Bukit Seguntang, a Palembang, che riproduce anch'esso la formula āndhra.

Vari reperti attestano che la diffusione dell'induismo fu di poco inferiore a quella del buddhismo nelle isole. Sette iscrizioni del re Mūlavarman, databili all'inizio del V sec., che sono state rinvenute nella regione di Kutei (Borneo orientale) provano che il sanscrito era usato per la redazione di documenti ufficiali. Particolare favore dovette godere il culto di Śiva al quale era probabilmente dedicato un santuario, menzionato nelle iscrizioni con il nome di Vaprakeśvara. Ulteriore testimonianza della diffusione dell'induismo costituiscono quattro iscrizioni di Giava occidentale, fatte redigere verso la metà del V sec. da un re Pūrṇavarman, che si dichiara seguace di quella religione. Una delle più antiche immagini dell'arcipelago è da considerarsi un Viṣṇu di Cibuaya (Giava occidentale), che appare legato alla più antica iconografia pallava (VI-VII sec.).

Nascita ed evoluzione degli stili locali. Śrīvijaya. - La fine del regno del Funan aveva profondamente alterato l'equilibrio politico ed economico sul quale si erano fondati, per secoli, i rapporti della maggior parte dei paesi dell'A. sud-orientale. Ben presto il controllo del flusso commerciale, che attraversava queste regioni, fu assunto da una nuova potenza, il regno di Śrīvijaya, che dominò i mari del Sud fino al XIII secolo. Di questo stato non si conosce con certezza la collocazione geografica, in particolare per quanto concerne le origini. La maggior parte degli studiosi lo situa a Sumatra, ma vi è chi ritiene che esso avesse sede nella penisola malese e nella Thailandia meridionale. Poiché i viaggiatori arabi chiamano Śrīvijaya con il nome di Zābag, si è pensato anche che il regno occupasse la regione di Sabak, sulla costa occidentale di Borneo. Appare comunque certo che una rapida ascesa, compiuta nella seconda metà del VII sec. e nel corso dell'VIII, consentì a questo stato di esercitare il proprio potere su Sumatra e inoltre verso la penisola malese e verso la parte occidentale di Giava e, quindi, di ottenere il dominio degli stretti di Malacca e della Sonda attraverso i quali passavano i commerci marittimi.

Śrīvijaya era un regno buddhista, come attestano alcune iscrizioni in antico malese, rinvenute nelle isole di Sumatra e di Bangka, che recano date comprese fra il 683 e il 686 d.C., e come confermano vari pellegrini cinesi che vi soggiornarono durante i loro viaggi in India. Tra questi, in particolare Yijing testimonia che Palembang, ove probabilmente aveva sede la capitale in questo periodo, era un importante centro di cultura buddhista. Nel paese erano presenti sia il Piccolo Veicolo (Hīnayāna), sia il Grande Veicolo (Mahāyāna), quest'ultimo già decisamente orientato verso il tantrismo. Anche l'induismo, sebbene meno diffuso, contava seguaci.

Nonostante la potenza e la ricchezza di questo regno, i resti archeologici a esso riferibili sono piuttosto scarsi. La conoscenza dell'arte di Śrīvijaya è ostacolata, oltre che da tale carenza di documentazione, dalle stesse difficoltà che rendono lacunosa e incerta la ricostruzione della sua storia. Le vicende del regno appaiono sovente collegate a quelle di Giava, anche se in modo non del tutto chiaro. È certo però che nella seconda metà del IX sec. dominava su Sumatra un sovrano appartenente alla dinastia degli Śailendra che aveva regnato sulle regioni centrali di Giava a partire dall'VIII secolo.

La rivalità per il controllo degli stretti dovette spingere sovente i due stati al conflitto. Nel 992 un ambasciatore, inviato da Giava alla corte cinese, affermava che il suo paese era sempre in guerra con Śrīvijaya. Ma assai intensi dovettero essere anche i legami culturali fra i due regni, come dimostra il fatto che l'arte di tutta l'area, sulla quale si estendeva il dominio di Śrīvijaya, presenta caratteristiche simili a quelle delle opere giavanesi coeve. È questo il caso di una testa di Viṣṇu, scolpita in pietra, che proviene da Kota Kapur, nell'isola di Bangka, e che rivela, oltre all'influsso dello stile indiano dei Pallava, una notevole somiglianza con le immagini della stessa divinità, rinvenute a Cibuaya.

Agli stili dell'epoca degli Śailendra si collegano due opere pur assai diverse tra loro: un Buddha, che compie il gesto della rassicurazione con la mano destra e ha ambo le spalle coperte dal mantello, e un Avalokiteśvara a otto braccia (Amoghapāśa) che reca un'immagine di Amitābha nell'acconciatura del capo. I due bronzi, provenienti entrambi da Palembang, sono attribuibili quasi certamente ad artisti di Sumatra, come indica la non pedissequa imitazione dei modelli giavanesi. Rovine di santuari si trovano in varie località dell'isola, ma la zona più ricca di testimonianze archeologiche è quella di Padang Lawas, che alcuni studiosi identificano con Paṇṇai, sito menzionato in un'iscrizione dei sovrani Cōḷa di Tanjore, che ricorda l'invio di una spedizione navale contro Śrīvijaya. Resti di numerosi santuari costruiti in mattoni si trovano sulle rive del fiume Paṇṇai. Le sculture che li decoravano, assai danneggiate, testimoniano la pratica di culti tantrici. Importanti ritrovamenti di plastica buddhista sono stati effettuati a Kota Cina (Belavan), sulla costa orientale di Sumatra.

All'XI o al XII sec. risale il tempio di Muara Takus, nell'isola di Riau, costituito da un complesso di sei edifici costruiti in mattoni. Il meglio conservato di essi è lo stūpa di Maligai, che sorge su una piattaforma sagomata e ha pianta rotonda. Molte opere collegabili alla produzione di Śrīvijaya sono state rinvenute nella Thailandia meridionale, in particolare nella regione di Chaiya. La varietà dei reperti e la mancanza di riferimenti cronologici certi rende difficile qui - come anche altrove - ricostruire l'evoluzione di uno stile che alcuni studiosi preferiscono chiamare «śailendra» piuttosto che «di Śrīvijaya», perché tratto caratteristico di esso è l'affinità con le forme artistiche di Giava centrale.

Giava centrale. - Gli inizi dell'arte indo-giavanese sono probabilmente collegabili a una dinastia śivaita che regnava sul paese di Matarām (Giava centrale) nella prima metà dell'VIII secolo. A essa risale un'iscrizione, datata al 732, che commemora l'installazione di un liṅga. Ben presto questi re dovettero riconoscere l'autorità degli Śailendra. Si ignora quale fosse l'origine di questi ultimi e in che modo riuscissero a conquistare il potere. Il loro nome, che significa «re della montagna», sembra indicare che essi si collegavano, per vincoli di parentela o per motivi ideali, ai sovrani del Funan che avevano portato questo titolo. Alla dinastia di Matarām si devono probabilmente alcuni dei più antichi santuari del complesso situato sull'altopiano di Dieng, nella regione NO di Giava centrale. Si tratta di tempi śivaiti nei quali si palesa l'influsso di diversi stili architettonici indiani, ma anche la ricerca di forme nuove, più rispondenti al gusto locale.

Il santuario (caṇḍi) più tipico appare derivato dal tempio a cella indiano e, come quest'ultimo, è un edificio destinato a ospitare l'immagine della divinità, ma non costituisce un luogo di incontro per i fedeli. Generalmente esso è formato da una struttura cubica, innalzantesi su un basamento quadrangolare e preceduta da un portico. La schematica e massiccia volumetria dell'insieme, di cui sono esempi i caṇḍi Arjuna e Puntadeva, viene alleggerita e movimentata da modanature e da nicchie decorate con la figura del kāla-makara, che associa un volto mostruoso (kāla) e due animali fantastici di natura acquatica (makara) ed è simbolo del tempo e della morte.

La copertura, a ripiani digradanti, appare derivata dall'India meridionale e in particolare dall'architettura pallava. Questo tipo di struttura si articola, nel caṇḍi Bīma, in un succedersi di sporgenze e rientranze che, continuandosi nella copertura, danno all'insieme l'aspetto di una torre. In tal modo appaiono sintetizzati alcuni elementi caratteristici dello stile meridionale e di quello settentrionale dell'India, distinto, quest'ultimo, da un'alta sovrastruttura a torre (śikhara).

La statuaria è esemplificata da alcune immagini śivaite, di pregevole fattura, nelle quali, come in gran parte delle opere di Giava centrale, si segnala il contrasto fra la luminosità continua delle superfici dei corpi e i lavoratissimi monili che su di essi disegnano delicati arabeschi chiaroscurali.

All'ascesa degli Śailendra corrisponde un forte impulso alla diffusione del buddhismo del Grande Veicolo. Agli inizi della dinastia risalgono vari santuari buddhisti della piana di Kedu. Esempio cospicuo dello stile dell'epoca è il caṇḍi Mendut (c.a 800 d.C.), santuario che s'innalza su un alto basamento sagomato. L'ingresso è segnato da un avancorpo e da una scalinata con parapetti ricurvi, decorati da scene in rilievo e da teste di makara. Questo tipo di scala d'accesso costituisce uno dei motivi più caratteristici e originali dell'architettura giavanese, destinato a notevole sviluppo e a molteplici interpretazioni. Figure umane e di animali, eseguite in basso e morbido rilievo, contornate da volute vegetali, ornano la base del tempio, mentre, sui muri esterni, la decorazione si ripartisce in ampi pannelli con immagini di Bodhisattva e di divinità inserite in paesaggi celesti. La statuaria dell'epoca è ben rappresentata da tre grandi figure in trono, poste all'interno della cella: un Buddha che compie il gesto della predicazione (dharmacakramudrā), affiancato dai Bodhisattva Avalokiteśvara e Mañjuśrī. Se le tre immagini e la decorazione dei troni ricordano gli stili gupta e postgupta dell'India, originale espressione trova invece nei volti la spiritualità dei personaggi.

Due monumenti, il Borobuḍur e il Sevu, eretti a non grande distanza di tempo, costituiscono le massime realizzazioni dell'architettura buddhista dell'epoca. Benché diversi per forma e struttura, essi sono concepiti entrambi come dei cosmogrammi, cioè come rappresentazioni dell'universo e dell'ordine spazio-temporale dal quale esso è governato. Il Borobuḍur (c.a 800 o primo quarto del IX sec.), ideato come immagine della montagna cosmica (il Meru della tradizione indiana) è costituito da sei terrazze digradanti, sormontate da tre piattaforme rotonde. Sull'ultima di queste, che sono contornate ciascuna da stūpa traforati, sorge uno stūpa monumentale. Su ogni lato scale d'accesso conducono alle terrazze, intorno alle quali si doveva compiere la circumambulazione rituale (pradakṣiṇā), meditando e sperimentando, nell'ascesa, diversi livelli di coscienza. La decorazione scultorea è rappresentata dalle statue del Buddha, contenute nelle nicchie e negli stūpa traforati, ma soprattutto da un elevatissimo numero di bassorilievi che illustrano le diverse sfere dell'esistenza e le azioni che vi si compiono.

Gli inferni e il dolore della vita dominata dai sensi sono rappresentati nel piano inferiore, interrato e chiuso da un muro. A questo occultamento della decorazione sarebbe da attribuire, secondo alcuni studiosi, un significato esoterico, del resto non in contrasto con il carattere del monumento. Secondo altri, l'interramento sarebbe stato imposto da problemi statici, ben presto sorti a causa del peso della struttura, che richiedevano il rinforzo della base. Lungo le terrazze superiori sono raffigurati episodi delle innumerevoli vite attraverso le quali il futuro Buddha aveva conquistato gradi sempre più elevati di perfezione, fino a giungere alla sua esistenza estrema in cui aveva finalmente raggiunto la verità. Gli ultimi ripiani, che rappresentano la sfera più alta della realtà e della coscienza, libera ormai dall'illusione delle forme, non presentano decorazione scultorea a eccezione delle statue di Buddha, che si intravedono all'interno degli stūpa traforati.

Il Sevu, situato 2 km a Ν di Prambanam, è un complesso costituito da un tempio centrale, circondato da duecentoquaranta tempietti disposti a formare quattro quadrati concentrici. La pianta del santuario principale assume la forma di una croce greca per la presenza di un avancorpo e di una scalinata di accesso su tutti e quattro i lati. Sia i quadrati di tempietti, sia la pianta a croce dell'edificio centrale, ripropongono il tema della quadruplice partizione dello spazio e dell'ordine temporale, che a quello spaziale è indissolubilmente congiunto.

La decorazione scultorea è costituita da statue raffiguranti Buddha supremi e divinità, ma anche da esuberanti motivi vegetali in cui si esprime l'idea della pianta cosmica. Di elementi vegetali sono materiate anche le immagini di käla-makara a mostrare la sostanziale affinità delle figure mostruose e della pianta, immagine del mondo manifesto e della vita, ma insieme della morte.

Un altro notevole santuario di Giava centrale, situato nella pianura di Prambanam, è il caṇḍi Kalasan, presso il quale è stata rinvenuta un'iscrizione datata al 778.

Il monumento, nella sua forma attuale, sembra, però, essere più tardo. Dedicato alla dea Tārā, questo santuario assomiglia al Sevu per la pianta a forma di croce greca. La sovrastruttura, cruciforme nella parte più bassa, assume la forma di due ottagoni, di grandezza decrescente, al di sopra della cella. Di particolare pregio è la ricca decorazione scultorea, che annovera scene e motivi ornamentali tra i più belli di tutta l'arte di Giava centrale.

Un livello estetico assai elevato raggiungono anche i rilievi che adornano il complesso hindu di Loro Joṅg-grang (fine del IX sec.-inizi del X), situato nella stessa zona. Il monumento, chiamato anche caṇḍi Prambanam, sorge su una piattaforma a gradini, ciascuno dei quali circondato da muri. Il nucleo centrale comprende tre grandi templi, dedicati alle divinità maggiori dell'induismo, fronteggiati da altri tre templi minori, nei quali erano venerate le cavalcature di ciascuno degli dèi. Questi edifici sono circondati da duecentocinquantasei cappelle, disposte a formare quattro quadrati concentrici. La concezione generale ricorda quella caratteristica del Sevu ed entrambi i monumenti sembrano collegabili al tempio di Pāhārpur nel Bengala. I rilievi rappresentano episodi del Rāmāyaṇa, ma anche vivaci scene di musica e di danza. Fra la statuaria si segnalano le figure dei guardiani dei quattro quartieri dello spazio e una bella immagine di Śiva a quattro braccia, ritenuta da alcuni studiosi il ritratto del re Balitung, fondatore del complesso. A questa intensa fioritura artistica segue, agli inizi del X sec., un periodo di decadenza. Infine si verifica l'abbandono dei monumenti in conseguenza del trasferimento del potere politico nelle regioni orientali di Giava.

Giava orientale. - Per motivi non del tutto chiari verso il 930 la sede del potere viene trasferita nelle regioni orientali di Giava. Con questo monumento si suole far coincidere l'inizio di una nuova fase della cultura giavanese, caratterizzata dal riemergere di elementi propri del substrato culturale autoctono, che intervengono nel processo di rielaborazione dei modelli indiani, modificandone, in senso più originale lo sviluppo.

I monumenti dell'epoca sono prevalentemente mausolei e templi funerari, dedicati al culto dei sovrani divinizzati. Il re defunto viene idenficato con divinità del buddhismo e, soprattutto, dell'induismo, religioni permeate entrambe di elementi tantrici e ampiamente connotate da fenomeni di sincretismo. Il carattere rupestre dei mausolei, l'associazione del culto regale all'acqua e ai bagni rituali, testimoniata dalla costruzione di piscine, quali quelle di Jalatuṇḍa (fine del X sec.) e di Belahan (metà del XI sec.), mausoleo del re Erlangga, sul monte Penanggungan, appaiono inseribili in un contesto di tradizioni locali, nel quale ha ampio spazio il culto degli antenati. Fin da epoca assai antica tale culto era legato alla sacralità di alcuni luoghi ove montagna, pietra e acqua erano associate.

Forse all'inizio dell'XI sec. risalgono la piscina e la Grotta dell'Elefante (Goa Gajah), situate presso Bedulu, a Bali. L'esterno del santuario è decorato da rilievi che rappresentano un paesaggio montano, popolato da creature fantastiche, da uomini e da animali. L'ingresso è segnato da un volto mostruoso dalla bocca spalancata. Monumenti rupestri sono anche le tombe reali di Gunung Kavi, presso Tampaksiring, a Bali, che risalgono alla fine dell'XI sec. e sono costituite da nove caṇḍi allineati, scavati nella roccia.

Il riemergere di tradizioni religiose autoctone si palesa anche nella organizzazione spaziale dei santuari. Mentre nel periodo di Giava centrale si era affermata una concezione rigorosamente geometrica dello spazio, inteso come un maṇḍala, cioè un diagramma dell'universo traente origine e ordinamento a partire da un punto centrale, ora si manifesta una visione meno rigidamente determinata e quindi più suscettibile di variazioni - che, tuttavia, non è priva di una sua coerenza. Il complesso, che sovente sorge presso una montagna, è costituito da tre cortili e terrazzi, sui quali si innalzano vari edifici; il tempio principale è situato nella parte più interna dell'area sacra, che, di solito, è anche la più prossima al monte, ritenuto la vera dimora della divinità. Questa ambientazione influisce non poco sulla suddivisione dello spazio, ma essa stessa appare motivata, almeno in parte, da una più libera espressione di tendenze religiose locali.

Va notato, a tale proposito, che gli elementi derivanti dal substrato autoctono trovano modo di esprimersi soprattutto qualora essi presentino una formale e sostanziale analogia con il pensiero mitico e religioso indiano.

Se è vero, infatti, che nei mausolei regali di Jalatuṇḍa, di Belahan e di altre località l'accostamento del santuario alla montagna e all'acqua può essere collegato a tradizioni assai antiche dei popoli indonesiani, non va però dimenticato che il Penanggungan, sul quale essi sorgono, è l'equivalente giavanese del Meru, la montagna cosmica della mitologia indiana.

L'acqua che sgorga da entrambi questi monti è ritenuta donare l'immortalità. Appare evidente, dunque, che la presenza culturale indiana ha sempre un'importanza assai rilevante, il che non diminuisce, ma anzi mette in risalto il valore delle innovazioni.

Le caratteristiche dell'architettura di Giava orientale si manifestano con particolare chiarezza in due templi risalenti alla dinastia di Singhasāri (1222-1293), il caṇḍi Kidal e il caṇḍi Jago, risalenti al 1260, il primo, e al 1289, il secondo. La pianta quadrata è comune a entrambi i santuari, ma, per concezione e struttura, essi possono essere considerati come esponenti di due tipologie diverse fra le quali si ripartiscono i templi dell'epoca.

Il caṇḍi Kidal, situato presso Tumpang, è costituito da un basamento su cui poggia il corpo dell'edificio, una cella con ingresso sul lato O e tre false porte sugli altri lati, e infine un'alta copertura, nella quale si palesa la tendenza dell'architettura di Giava orientale verso un deciso slancio verticale. All'interno della sovrastruttura è ricavato un ambiente inaccessibile, situato sopra la cella, che probabilmente aveva lo scopo di diminuire il peso della parte superiore dell'edificio. La decorazione presenta motivi di notevole interesse come i leoni in funzione di cariatidi, già attestati nel periodo precedente (caṇḍi Ngaven), e le belle figure di garuḍa, che adornano il basamento, oltre alle consuete teste di Kāla, sovrastanti le porte.

Il caṇḍi Jago, un tempio buddhista dedicato al re Viṣṇuvardhana, morto nel 1268, dà espressione alla concezione spaziale più caratteristica del periodo di Giava orientale. Il santuario sorge, infatti, su tre terrazze digradanti sagomate, sporgenti in corrispondenza dell'ingresso, delle quali occupa l'estremità opposta a quella dalla quale si entra. Notevole è la decorazione scultorea, costituita da statue di divinità del pantheon buddhista e da rilievi che ornano i terrazzi e il corpo dell'edificio. Mentre le statue mostrano l'influsso dell'arte fiorita sotto la dinastia dei Pāla, nell'India nord-orientale, il rilievo manifesta caratteri stilistici del tutto diversi, che mal si inseriscono nel contesto artistico della fine del XIII secolo. Poiché il tempio sembra essere stato ampiamente rielaborato nel 1343, è possibile che i due tipi di decorazione risalgano a periodi diversi.

L'esempio più cospicuo della particolare organizzazione dello spazio sacro, affermantesi durante l'epoca di Giava orientale, sarà il caṇḍi Panataran, il complesso più vasto di questa fase artistica, che sorge sulle pendici del monte Kelut. Dedicato a Śiva, Signore della Montagna, questo santuario appare come l'esito di una lunga storia costruttiva, che copre il periodo intercorrente fra la fine del XII sec. e la metà del XV.

Birmania. - A partire dalla fine dell'VIII sec., i Birmani, popolazioni imparentate con i Pyu, erano scesi in direzione della pianura di Kyaukse, che fu il centro della loro espansione. Impadronitisi di Pagan, essi vennero a contatto con i Môn, che si erano ampiamente insediati nella regione, assorbirono la loro cultura e si convertirono al buddhismo Theravāda.

La storia della Birmania, per molti aspetti oscura per quanto concerne il periodo più antico, si fa più certa a iniziare dall'ascesa al trono di Anôratha (1044-1077). Il grande prestigio di cui godeva la cultura indiana è testimoniato dall'inizio di relazioni dirette con Ceylon, favorite dal fatto che entrambi i paesi erano seguaci del Piccolo Veicolo. La conquista del regno di Thatön (1057), da parte del sovrano, e l'utilizzazione dei monaci e degli artisti môn, condotti a Pagan, intensificò la diffusione di influssi indiani.

A quest'epoca si attribuiscono alcuni fra i più antichi monumenti del regno birmano, come lo stūpa di Shwesandô (1057) e la Biblioteca o Pitakat Taik a Pagan, i templi di Nan-payā e di Manuha (1059) a Myinkaba, lo stūpa di Lokānanda (1059) a Thiripyitsaya. L'architettura di tale periodo presenta già tipologie e tendenze stilistiche assai diverse. Gli stūpa (zedi, dal pāli chetiya) sono costruiti con mattoni, su terrazze digradanti di varia forma, e presentano un aspetto campaniforme con sovrastruttura ad anelli concentrici, sormontata da un alto pinnacolo.

Esempio dei templi più antichi è il Manuha, che prende il nome da quello del re môn di Thatön, che lo costruì, dopo essere stato condotto prigioniero a Pagan. Si tratta di un edificio di pianta quadrangolare, a due piani il secondo dei quali di proporzioni minori del primo - coperti da terrazze contornate da edifici in scala ridotta. L'interno è caratterizzato dalla presenza di un massiccio centrale di muratura, sui lati del quale sono collocate immagini del Buddha. Il tempio di Nan-payā, che sorge anch'esso a Myinkaba non lungi dal precedente, secondo la tradizione, fu la residenza del re Manuha. L'edificio, che ha pianta quadrata, presenta un avancorpo assai sporgente sul lato E, in corrispondenza dell'ingresso. Sulle pareti si aprono delle finestre a grata, sormontate da alti archi che incorniciano sculture. Il rilievo dell'epoca è esemplificato dalle figure di Brahmā sul loto cosmico, che adornano i quattro poderosi pilastri interni sostenenti la copertura. Queste immagini si segnalano per la morbidezza del modellato, per l'eleganza della linea, per il raffinato senso decorativo. La Biblioteca o Pitakat Taik, fatta costruire da Anôratha a Pagan perché vi fossero conservate le scritture buddhiste prese a Thatön, è un edificio quadrangolare con ingresso rivolto a E e copertura a cinque ripiani digradanti, che ricorda i templi pallava dell'India meridionale.

Al sovrano successe il figlio Kyanzittha (1084-1112), che portò a termine la costruzione dello stūpa di Shwezigon, a Nyaung-u, iniziata dal padre. Il monumento, nel quale si ritiene siano conservati un osso frontale e un dente di Śäkyamuni, sorge su tre terrazze quadrate. Su ognuno dei lati si trovano quattro piccoli santuari che ospitano un'immagine del Buddha stante di derivazione stilistica gupta. I templi, ascrivibili al regno di Kyanzittha e all'epoca immediatamente successiva, sono ancora del tipo môn, caratterizzato dalla presenza di una cella e di un massiccio centrale - circondati da un corridoio - e da una scarsa luminosità dell'interno, quale è consentita dalle finestre a grata.

Nel 1091 il sovrano costruì il tempio di Ānanda a Pagan, una delle opere più significative dell'architettura birmana, dedicato alla Infinita Sapienza (Ananta Pañña) del Buddha. Il santuario, che presenta notevoli somiglianze con quello di Pāhārpur, nel Bengala, è costituito da un nucleo centrale a pianta quadrata, un blocco di muratura massiccio, all'interno del quale gli spazi agibili sono rappresentati da due gallerie concentriche, collegate da corridoi. La presenza di avancorpi di notevoli proporzioni, all'esterno di ciascun lato, fa sì che la pianta assuma la forma di una croce greca. La copertura è costituita da terrazze digradanti. La torre di coronamento, imitante gli śikhara dei templi dell'India settentrionale, insiste sul massiccio centrale ed è sormontata da un'alta guglia dorata. Nelle quattro cappelle, collocate in fondo ai corridoi che congiungono le gallerie, sono venerate le immagini stanti di tre Buddha del passato e di Gotama. Ai lati della cappella occidentale trovano posto le statue di Kyanzittha e di Shin Arahan, maestro spirituale del re. L'edificio principale e le terrazze sono decorati da mattonelle di terracotta dipinta, effigiami scene delle vite precedenti e dell'ultima esistenza del Buddha. La galleria più esterna ospita una serie di ottanta rilievi che narrano episodi della vita di Śākyamuni dalla nascita al Parinirvāṇa.

Alla sposa del sovrano, Abeyadana, si deve la costruzione del tempio omonimo a Myinkaba, un edificio a pianta quadrata con ampio portico a tre ingressi, rivolto a N, e con copertura a ripiani digradanti, sormontata da uno stūpa. Di particolare interesse sono le pitture decoranti l'interno, che raffigurano divinità mahayaniche e scene di jātaka.

La presenza dell'induismo è testimoniata, a Pagan, dal tempio di Nat-hlaung-kyaung, che risale probabilmente all'XI sec. ed è dedicato a Viṣṇu. L'edificio si adorna, sui muri esterni, delle immagini dei dieci avatāra del dio. L'interno, decorato da dipinti murali, è caratterizzato dalla presenza di un pilastro centrale che sorregge la copertura a ripiani digradanti e śikhara. All'XI sec. è attribuibile anche il bianco stūpa di Bupaya, di forma cilindrica, innalzantesi su terrazzi merlati in riva all'Irrawaddy, a Pagan. Il tipo singalese è rappresentato dallo stūpa di Sapada, a Nyaung-u, costruito nel XII sec., la cui caratteristica distintiva è il reliquiario cubico, sovrastante la struttura campaniforme.

Uno dei più bei templi di Pagan è quello di Thatbyinnyu, dedicato alla Onniscienza del Buddha, che fu fatto costruire nel 1144 dal re Alaungsithu, successore di Kyanzittha. Per struttura il monumento è simile all'Ānanda, ma la sua pianta si diversifica da quella del tempio più antico per la presenza di un solo portico assai sporgente sul lato orientale. Costruito su un basamento a tre ripiani digradanti, il Thatbyinnyu include un massiccio di muratura quadrangolare, sul quale poggia il santuario centrale con copertura a gradini e śikhara. Per la prima volta nell'architettura birmana il tempio fuoriesce dal massiccio, che costituisce il cuore del complesso, sovrapponendosi a esso. Questa caratteristica prelude allo stile del secondo periodo di Pagan, distinto dallo svincolamento del santuario dalla massa del piano inferiore, dalla maggiore luminosità degli ambienti e da uno snellimento dello śikhara.

Se nel complesso il monumento appare derivato dall'Ānanda, il tempio centrale sembra riproporre lo schema di un santuario minore, quello di Shwegugyi, costruito dallo stesso Alaungsithu nel 1131. L'edificio, notevole per l'armonia delle proporzioni e per le belle decorazioni in stucco, poggia su una piattaforma di mattoni e ha anch'esso la caratteristica copertura a ripiani, sormontata dallo śikhara. Un portico sul lato Ν ne costituisce l'ingresso principale, mentre tre accessi secondari si aprono sugli altri lati.

Quanto si è detto per il Thatbyinnyu vale anche per i santuari centrali dei templi di Sulamani, presso il villaggio di Minnanthu, di Gôdôpalin e di Htilominle, a Pagan, che per pianta hanno caratteristiche simili allo Shwegugyi e che furono eretti, i primi due, dal re Narapatisithu (1173-1120) e, il terzo, da Zeyatheinhka (1210-1234) nel 1218.

Al regno di quest'ultimo sovrano risale anche il tempio della Mahābodhi di Pagan, costruito a imitazione di quello omonimo di Bodh Gayā, nel Bihār. Il monumento è costituito da una struttura quadrangolare, al centro della quale si erge un alto śikhara a forma di piramide tronca, ripetuto, in proporzioni minori, tutt'intorno al terrazzo di copertura dell'edificio.

I templi e gli stūpa del periodo successivo, che termina con la presa di Pagan da parte dei Mongoli (1287), rivelano una reviviscenza di forme tipiche del periodo più antico.

Thailandia. - La scuola che segna l'inizio di una produzione artistica originale e stilistica omogenea in Thailandia prende il nome dal regno di Dvāravatī, che si formò probabilmente verso la fine del VI sec. e protrasse la propria esistenza fino al XII. Incerti sono l'estensione territoriale e il luogo della capitale dello stato, che si ritiene situabile a Û-thòng o a Nakhon Pathom. Dvāravatī fu un regno buddhista, seguace del Piccolo Veicolo, ma anche il Mahāyāna e l'induismo vi erano presenti. I centri urbani a esso attribuibili sono caratterizzati da una pianta di forma ovoidale e sono cinti da un fossato, semplice o doppio. I monumenti superstiti, generalmente assai deteriorati, sono costruiti con mattoni e rivestiti di stucco e, talvolta, di terrecotte.

Gli stūpa sorgono su un'alta base e presentano corpo cilindrico o a pianta ottagonale, sormontato da un elemento a guglia. Un diverso tipo si innalza su una base a gradini e ha il corpo a forma di ciotola rovesciata, con elemento terminale formato da dischi sovrapposti di diametro decrescente.

Nell'VIII e nel IX sec. l'architettura subisce influssi provenienti da Śrīvijaya. Nella scultura si afferma un'immagine stante del Buddha, destinata a un'ampia diffusione e a una lunga fortuna, che presenta entrambe le spalle coperte dal mantello monastico e le mani nel gesto dell'argomentazione (vitarkamudrā), abituale, ma non unico nell'arte di Dvāravatī. La caratteristica di far compiere a entrambe le mani lo stesso gesto sembra desunta dall'iconografia dell'India meridionale. Dal punto di vista stilistico queste immagini mostrano chiara la derivazione dai tipi gupta, modificati da tratti che ricordano l'arte pala, ma che sembrano il risultato di un'evoluzione figurativa autonoma della scuola thailandese. Il rilievo superstite, prevalentemente in stucco, rivela gusto della semplicità, delicata espressione di sentimenti e, insieme, vigore, soprattutto nelle decorazioni del Vat Chula Paton di Nakhon Pathom e a Ku Bua. Quest'ultima località ha restituito anche un gruppo di terrecotte di notevole valore estetico.

Quasi contemporaneamente alla scuola di Dvāravatī si sviluppa una corrente artistica legata alla produzione di Śrīvijaya. A questo stile, affermatosi nella Thailandia peninsulare, ma poi diffusosi ampiamente nelle regioni centrali del paese, si è già fatto cenno. Va ricordato, tuttavia, che esso ebbe lunga durata e che l'epoca della sua fioritura (VIII-XIII sec.) coincide con quella dell'espansione politica e culturale della grande potenza marittima.

La produzione di questa scuola è legata prevalentemente al buddhismo Mahāyāna, del quale sono espressione le immagini del Bodhisattva Avalokiteśvara. Influssi dell'arte dei Pallava e dei Cōḷa dell'India meridionale si palesano, in particolare, nelle opere brahmaniche. Lo stile, in prossimità del suo termine, produce alcune figure ispirantesi ai tipi khmer dell'epoca del Bàyon, non senza originalità. Una sintesi delle tendenze, proprie delle scuole di Dvāravatī, di Śrīvijaya e di Lopburî, si realizza nella produzione di immagini brahmaniche di Sî-tép (VIII-IX sec.). Di eccezionale pregio estetico sono alcuni Viṣṇu, caratterizzati dalla piena libertà della figura nello spazio e da un perfetto equilibrio fra linea e volume.

Con il nome di stile di Lopburî si suole indicare una produzione artistica, caratterizzata dall'imitazione delle formule figurative cambogiane, che si sviluppò fra l'XI e il XIII sec., cioè nel periodo in cui i Khmer estesero il proprio dominio sulle regioni nord-occidentali e centrali della Thailandia. Le città dell'epoca presentano pianta quadrata a imitazione di quelle khmer e anche i santuari, per concezione, struttura e decorazione, appaiono fortemente legati ai modelli del Cambogia. Tuttavia si colgono in essi alcuni tratti originali, che si svilupperanno nelle epoche successive. Le torri (prāṇg) si distinguono, talvolta, da quelle khmer per una maggiore articolazione delle masse murarie e per la presenza di una decorazione in stucco intorno alla base.

Tra i più importanti monumenti di questo periodo si pongono il Vat Mahathat e il Prāṇg Sâm Yòt (Monastero delle Tre Cime) di Lopburî e il Pràsàt Pimâi di Amphoe Pimâi (provincia di Nakhon Ratchasima).

L'influsso khmer, insieme a quelli delle scuole di Dvāravatī e di Śrīvijaya, è percepibile nella fase più antica (VII-IX sec.) della scultura di Lopburî, rappresentata soprattutto da un notevole complesso di bronzi mahayanici, rinvenuti sull'altopiano di Kórât e nella provincia di Buriram. Il periodo, che va dal X sec. all'inizio del XIII, è caratterizzato da una più stretta adesione ai modelli cambogiani, in particolare nella statuaria, che annovera immagini di Buddha dagli ornamenti regali e dai volti che esprimono una serena dolcezza. Dopo un periodo contrassegnato da un affievolirsi dell'inventiva e delle tradizioni locali, coincidente con il momento di massima estensione del dominio khmer in Thailandia fra la fine del XII sec. e i primi decenni del XIII, si delineano tendenze più autonome che accolgono suggerimenti stilistici di varia origine.

La fine della dominazione khmer si verificò, probabilmente, verso la metà del XIII sec., quando i Thai, una popolazione penetrata dalla Cina sud-orientale nella Thailandia settentrionale e centrale, riuscirono ad affermare la propria indipendenza. Ebbe inizio allora, con la scuola di Sukhothai animata dallo spirito del buddhismo Theravāda - un periodo di appena due secoli, che è considerato l'epoca d'oro dell'arte thailandese.

Cambogia. - Nella penisola indocinese, a partire dalla fine del V sec., si era grandemente esteso il potere dei Khmer che avevano ampliato il proprio territorio, originariamente situato nelle regioni del medio Mekong, a spese dei Cham e soprattutto, verso meridione, con la conquista del Funan. Il nome del regno non ci è noto. Sappiamo soltanto che i Cinesi lo chiamavano Zhenla. La fioritura dell'arte, che contraddistingue questo periodo di accresciuta potenza dei Khmer, è testimoniata principalmente dai resti della capitale Saṃbór Prei Kŭk (Iśānapura). La città, che presenta un tracciato quadrangolare, era circondata da una cinta-fossato ed era provvista di un bacino idrico. I santuari (pràsàt), che vi si ergono, erano costituiti da torri isolate e da complessi di edifici racchiusi entro mura. Le costruzioni erano realizzate in mattoni che venivano intonacati.

Lo studio analitico della decorazione, concentrata sugli architravi e sulle colonnette, ha consentito di rintracciare l'evoluzione di tre diversi stili, che si erano susseguiti e in parte anche sovrapposti nel corso del VII e dell'VIII secolo. Nello stile di Saṃbór Prei Kŭk, che è il più antico, gli architravi sono decorati da una sorta di ramo che fuoriesce dalle fauci di due makara. È questo un tema figurativo di origine indiana, mediante il quale si esprime simbolicamente la cosmogonia. In questo primo stile il ramo è ondeggiante e si adorna di tre medaglioni con figure di divinità collegate al processo cosmogonico. In quello successivo di Prei Kmeng elementi floreali decorano l'arco che talvolta è inserito tra due figure umane.

Uno sviluppo straordinario assume l'elemento vegetale nella più tarda delle tre fasi artistiche, quella di Koṃpong Práh, nella quale una massa di fogliame dall'aspetto fiammeggiante invade tutto il campo dell'architrave, espellendone ogni altro elemento figurativo. Quest'ultimo stile coincide con un periodo di crisi politica del regno Khmer che si scinde in due parti, chiamate dalle fonti storiche cinesi Zhenla di Terra e Zhenla d'Acqua.

La statuaria dell'epoca preangkoriana (così chiamata perché precedente al trasferimento della capitale nella regione di Angkor) rappresenta figure maschili e femminili eseguite con una tecnica non dissimile da quella usata nelle opere del Phnom Dà. Il panneggio è sovente indicato da linee incise, soprattutto nelle vesti dei personaggi femminili, il cui capo si adorna di un'acconciatura cilindrica. Nelle immagini maschili la veste corta (sampot) presenta un drappeggio che forma una sorta di tasca sul fianco sinistro.

Le maggiori realizzazioni di questo periodo appartengono allo stile di Pràsàt Andèt, rappresentato solo nella statuaria. La più alta espressione di quest'arte è un Harihara, conservato al Museo Nazionale di Phnom Penh, nel quale la cura del modellato e un certo interesse per l'anatomia animano la figura, peraltro frontale e ieratica, conferendole vita.

Dopo un periodo oscuro, durante il quale il Cambogia dovette probabilmente riconoscere la sovranità degli Śailendra di Giava, l'unità del regno fu ricostituita da Jayavarman II (770-834), che pose la capitale nella piana di Angkor. Egli istituì il culto del devarāja (dio-re), rappresentato da un liṅga, nel quale l'essenza della regalità di Śiva si fondeva con quella del sovrano. Il culto doveva essere celebrato su una montagna, naturale o simbolica, che rappresentava il cosmo. Nacque così l'uso di erigere templi-montagna, seguito con costanza dai sovrani khmer. Jayavarman II fece costruire il Kruḥ Preaḥ Àràm Rông Chĕn, costituito da quattro terrazze sovrapposte di grandezza decrescente. La decorazione del monumento utilizza motivi cham e giavanesi.

La statuaria, che giunge alfine a liberarsi dall'arco di sostegno, mostra figure alquanto solenni e rigide, ma in alcune opere si realizza un perfetto equilibrio tra ieraticità e vita, senso del volume e della linea.

Un'evoluzione del tempio-montagna si manifesta nel Bakòng, fatto erigere da Indravarman I (877-889), sovrano cui va attribuito il merito di una funzionale organizzazione della città angkoriana. La piramide, che sorge al centro di uno spazio delimitato da cinte di mura e da fossati, è circondata da otto santuari principali e da otto edifici minori. Nell'organizzazione del complesso, inteso come una rappresentazione dell'universo nelle sue dimensioni spazio-temporali, si riflette il pensiero cosmologico indiano. Prima del Bakòng, che segna il culmine della sua attività edificatoria, Indravarman aveva eretto il tempio di Preaḥ Kô in onore degli antenati e aveva fatto scavare il bacino idrico di Lolĕi. A questo tipo di opere, rivolto sia all'adempimento di doveri religiosi, sia alla pubblica utilità, sarà dedicata anche ih seguito l'attività dei sovrani khmer che adotteranno, sovente, anche l'ordine di successione stabilito da Indravarman per l'esecuzione delle diverse imprese. Il rilievo decorativo dell'epoca (stile di Preaḥ Kô) è caratterizzato da vivacità e dinamismo straordinari, che si manifestano soprattutto negli architravi, ritenuti i più significativi di tutta l'arte khmer.

Nell'ultimo decennio del IX sec. il re Yasóvarman (889900) fonda una nuova capitale, Yaśodharapura, nella piana di Angkor. Con lo stesso «ritmo» del predecessore dedica, dapprima, un tempio degli antenati nella vecchia capitale, quindi fa scavare il Bàray orientale, un bacino quattro volte maggiore di quello di Lolĕi, per l'alimentazione idrica della nuova città, infine, al centro di essa, fa erigere il Bàkheng. È questo un tempio-montagna costituito da una piramide a cinque gradini; sull'ultimo di essi si innalzano cinque torri, quattro delle quali situate agli angoli e una al centro (disposizione a quinconce). Nel monumento appaiono unite le due strutture fondamentali dell'architettura khmer, la piramide a gradini e la torresantuario, elemento, quest'ultimo, che invade ora anche i diversi ripiani del tempio.

La somma (centonove) e la distribuzione delle torri (dodici per gradino, quarantaquattro intorno alla base, cinque sulla sommità) esprimono, attraverso simbolismi numerici, propri delle concezioni cosmologiche e astronomiche indiane, il carattere cosmico del monumento. La scultura decorativa dello stile del Bàkheng rivela una diminuzione dell'inventiva e una certa staticità di forme, che restano sostanzialmente quelle dell'epoca precedente. Nella statuaria si notano proporzioni più massicce, ma anche una più accentuata tendenza alla stilizzazione.

Lo stile di Kòḥ Ker, che fiorisce nella prima metà del X sec., prende il nome dalla nuova capitale, fatta costruire da Jayavarman IV (921-941). Caratteristica di questo periodo è l'imponenza e l'originalità dei monumenti.

A una concezione diversa da quella che si manifestava nei santuari precedenti, si ispira il Pràsàt Thom, nel quale l'alta piramide a gradini si colloca al termine di un lungo percorso di avvicinamento, non privo di significati simbolicoreligiosi. Il complesso segna una tappa fondamentale nello sviluppo dell'architettura khmer, perché in esso si sperimenta la pianta assiale che verrà riutilizzata in altri grandi santuari successivi. Nel Pràsàt Thom cominciano, inoltre, ad apparire le gallerie, strutture destinate ad assumere un'importanza notevole nei monumenti khmer.

La statuaria, dando piena espressione a una tendenza manifestatasi già nel secolo precedente, crea immagini caratterizzate da un senso di forza e di maestà, che talvolta produce un'impressione di freddezza.

Il regno di Rājendravarman II (944-968) segna un'altra tappa importante per l'evoluzione dell'architettura khmer. Dopo aver terminato la costruzione del Bàksĕi Chăṃkrong (948), un piccolo tempio-montagna probabilmente iniziato da Harṣavarman I (900-921), il sovrano fa costruire altri due santuari, il Mébon orientale (952) e il Prè Rup (961), che sono entrambi dei templi-montagna a due gradini, sormontati da una terrazza sulla quale si ergono cinque torri disposte a quinconce. La concezione che torna ad affermarsi è quella tipica del Bàkheng.

Il Mébon, che sorge al centro del Bàray orientale, il bacino realizzato da Yaśovarman dal quale Rājendravarman discendeva, assume il valore di un tempio degli antenati. Ciò spiega forse perché il sovrano ponesse mano a un secondo tempio-montagna, il Prè Rup, una slanciata piramide di laterite rossastra, dedicata al culto del liṅga Rājendrabhadreśvara, che era venerato nel pràsàt centrale della sommità. Tutt'intorno alla base di questo monumento si allineano degli edifici ravvicinati, secondo un uso già inaugurato nel complesso principale del Pràsàt Thom. Queste strutture danno luogo a una galleria continua con copertura a vòlta nel Tà Kèv, tempio-montagna successivo al Prè Rup, nel quale il pràsàt centrale della quinconce presenta una pianta a croce greca per la presenza di avancorpi su tutti e quattro i lati. Tale caratteristica si ritrova anche nell'unico pràsàt posto alla sommità del Phĭmeanàkàs, tempio che sorge sull'area del palazzo reale. Il Tà Kèv e il Phĭmeanàkàs si collocano nel periodo che intercorre fra il regno di Rājendravarman e quello di Sūryavarman I (1011-1050). Caratteristica dell'architettura del X sec. è il vasto impiego della laterite, che sostituisce in parte il mattone e il grès, utilizzati negli edifici più antichi.

Il rilievo raggiunge i suoi risultati migliori nella decorazione del Banteay Srĕi. I timpani ospitano complesse scene mitologiche, trattate con notevole abilità compositiva e raffinato senso decorativo. Questo stile è, inoltre, impreziosito da tratti arcaizzanti, percepibili soprattutto nei particolari dell'abbigliamento dei personaggi raffigurati.

Nella prima metà del sec. XI Sūryavarman I guarda con favore al buddhismo; persiste, tuttavia, il culto del devarāja, alla venerazione del quale il successore, Udayātityavarman II (1050-1066) dedica il Bàphûon, innalzato al centro del Barày occidentale, il bacino che questo sovrano stesso aveva fatto scavare. Tale santuario rivela una ulteriore evoluzione dello schema del tempio-montagna. I tre gradini della piramide, ognuno dei quali doppio, sono circondati da gallerie con torri agli angoli. Caratteristica di questo complesso è la lunga via d'accesso sopraelevata, che trova continuazione all'interno del primo gradino nei passaggi sui pilastrini, colleganti il gopura (portale) al secondo gradino e alle c.d. biblioteche, due edifici posti ai lati dell'ingresso.

La prima metà del XII sec., dominata dalla personalità e dall'azione politica di Sūryavarman II (1113-1150), è contrassegnata da mutamenti notevoli nell'ambito del culto regale. Il sovrano guerriero, che condusse gli eserciti khmer più lontano di chiunque altro, come rileva G. Coedès, rivolgeva la propria devozione a Viṣṇu. Il tempio di Angkor Văt, massimo capolavoro dell'arte khmer, fu da lui eretto e dedicato a questa divinità, ivi presente nella forma di una statua cui il sovrano aveva prestato i propri tratti. In tal modo egli, ancora in vita, aveva predisposto la propria divinizzazione e creato le premesse per un culto postumo da rivolgere alla sua persona. Da ciò ha tratto argomento il dibattito sulla funzione del monumento, inteso da alcuni studiosi come un tempio-montagna, da altri come tempio funerario.

Il santuario si sviluppa su tre terrazze, circondate da gallerie a vòlta, con gopura in corrispondenza dei punti cardinali e torri d'angolo. La particolarità del tempio è costituita dal fatto che alcune gallerie sono sorrette, in parte, da pilastri. Il minor peso, che esse esercitano, consente di accrescerne il numero e l'altezza. Queste strutture, inoltre, si incrociano, dando vita agli elementi più tipici e innovativi del santuario, come il chiostro cruciforme, che occupa il lato O subito dopo l'ingresso principale. Per la qualità estetica e per il valore simbolico grande importanza assume la via d'accesso al monumento, fiancheggiata da balaustre con mancorrenti costituiti da nāga che, a ciascuna estremità, ergono il cappuccio policefalo riccamente decorato, disegnando eleganti curve nello spazio.

Nonostante la grandiosità della concezione, la complessità della pianta e la molteplicità delle strutture, Angkor Văt mantiene, nell'insieme, un perfetto equilibrio delle proporzioni e la piena fruibilità del suo disegno dai più vari punti di vista, grazie anche a correzioni empiricamente ma efficacemente apportate alle misure di alcune parti, perché la visione d'insieme non venisse alterata dalla distanza. Di grande pregio artistico è la ricchissima decorazione scultorea che adorna il monumento, costituita da scene tratte dalla mitologia e dall'epica indiana, da motivi puramente ornamentali e da figure a tutto tondo. Le scene mitologiche ed epiche trovano posto nei timpani e sulle pareti interne delle gallerie perimetrali della prima terrazza. Esse narrano i grandi eventi cosmogonici del mito di Viṣṇu e le storie dei personaggi che rappresentano incarnazioni del dio, quali Rāma e Kṛṣṇa. Le fonti sono costituite dai poemi epici indiani (Mahābhārata, Rāmāyana, Harivaṁśa). Tema prediletto è quello dello «Scotimento del Mare di Latte». Il motivo di tale preferenza va ricercato soprattutto nel significato cosmogonico dell'evento. I testi narrano infatti come gli dèi ottenessero la bevanda dell'immortalità frullando l'oceano di latte. L'impresa si realizzò per intervento di Viṣṇu e non senza l'aiuto di tutti gli dèi e dei demoni (asura), che usarono come zangola il monte Mandara e come corda il serpente Vāsuki. Della decorazione scultorea fanno parte, altresì, alcune scene di cui è protagonista lo stesso re Sūryavarman. Il sovrano, che era probabilmente già defunto, vi è effigiato nell'atto di cavalcare un elefante in testa a un corteo e nelle vesti del dio dei Morti, Yama, mentre giudica i defunti e li destina ai Cieli e agli Inferi.

Il carattere viṣṇuita del tempio di Angkor Văt rivela che dei mutamenti si stavano verificando nell'ambito del culto regale, preludio di più profonde trasformazioni che caratterizzeranno l'epoca di Jayavarman VII (i 181-1219).

Questo sovrano, che ottenne la regalità per aver saputo fronteggiare l'invasione dei Cham (1177), culminata nel sacco di Angkor, fu seguace del buddhismo. A partire dall'epoca di Sūryavarman I, cioè dalla prima metà dell'XI sec., la dottrina buddhista aveva goduto di una certa fortuna, come testimoniano i soggetti di alcune opere scultoree. Ma all'epoca di Jayavarman VII il buddhismo, oltre a ispirare tutta l'intensa attività edilizia del sovrano, penetra nella sfera del culto regale, sostituendo al devarāja rappresentato dal liṅga, il Buddharāja, un'immagine del Buddha cui il sovrano prestava la propria effigie.

Lo spirito di compassione verso tutti gli esseri, proprio della fede buddhista, permea l'azione del re, indirizzandola verso la realizzazione di imprese di alto valore sociale, oltre che religioso. Come testimoniano i documenti epigrafici, alla costruzione dei santuari si accompagna, infatti, l'esecuzione di una serie di opere edilizie minori - ospedali, asili per pellegrini e viaggiatori (case del fuoco) - nelle quali sembra di poter cogliere ancora, nella forma di un più provvido e immediato soccorso del bisognoso e del sofferente, quell'interesse per le imprese di pubblica utilità, caratteristico dei sovrani precedenti e mai spento.

Lo stile dell'epoca prende il nome dal Bàyon, il santuario che sorge al centro di Angkor Thom, nel quale culmina, ma non si esaurisce, l'attività edilizia di Jayavarman VII. Alla prima fase di questo stile appartengono i due templi di Tà Prohm (consacrato nel 1186) e di Preaḥ Khan (consacrato nel 1191), dedicati dal re, rispettivamente, alla madre e al padre, assimilati alla Prajñāpāramitā (divinità che rappresenta la «Perfezione della Sapienza»), la prima, a Lokeśvara, il secondo. A questi santuari si aggiunge quello di Banteay Kdĕi, nel quale era probabilmente venerato il Buddha.

Caratteristica essenziale dei templi di questo periodo è la semplicità della pianta che si sviluppa su un unico piano. Il complesso è costituito da un santuario centrale, collegato da un passaggio alla galleria quadrangolare che lo circonda. La seconda fase, che dovette prendere avvio da un'evoluzione del pensiero religioso di Jayavarman VII, è contrassegnata da nuovi interventi nei monumenti già realizzati, che complicano le piante con l'aggiunta di nuovi ambienti, mentre le aree sacre vengono delimitate da cinte murarie con gopura, sormontati da torri che recano scolpiti volti di Bodhisattva e figure di garuḍa stanti.

A questa fase risale la costruzione della cinta muraria di Angkor Thom, la sola realizzata in materiali durevoli, con cinque gopura monumentali, sormontati da tre torri congiunte, cui è conferita la forma di quattro volti di Bodhisattva, rivolti verso i punti cardinali. Ai portali conducono vie d'accesso fiancheggiate da file di deva e di asura che sostengono nāga, motivo probabilmente legato all'identificazione del santuario centrale con il monte Mandara, usato per frullare il Mare di Latte. A questo periodo risale anche il primo stadio della costruzione del Bàyon. Il tempio primitivo fu poi inglobato in un complesso più vasto, realizzato nella terza fase dello stile.

Fra i grandi templi del secondo periodo, iniziato probabilmente poco dopo il 1191, va annoverato il Banteay Chmàr, un santuario caratterizzato dalla disposizione assiale delle strutture centrali. Il fatto che in esso si trovino terrazze decorate da figure umane e leonine in funzione di atlanti alati, nonché da rilievi, dimostra che la costruzione del complesso giunse fino alle soglie della terza e ultima fase dello stile, della quale queste costruzioni sono caratteristiche. In tale periodo, da porsi approssimativamente fra l'inizio del XIII sec. e la fine del regno di Jayavarman, l'attività edilizia sembra concentrarsi quasi esclusivamente sul Bàyon.

Nonostante l'ampliamento e le modifiche apportate alla pianta originaria, il santuario appare come un'opera stilisticamente unitaria, di grande suggestività e bellezza. I volti sorridenti del Bodhisattva Lokeśvara, cui probabilmente il sovrano aveva prestato la propria effigie, ripetuti ovunque, irradiano da questo monumento, centro della città e del regno, la onnipervadente protezione e il compassionevole sguardo del Bodhisattva e del re.

Ma il Bàyon non era soltanto il tempio-montagna dedicato al nuovo culto regale; esso costituiva anche il santuario per eccellenza, il luogo nel quale erano rappresentate tutte le divinità venerate nelle diverse regioni del regno. In questo pantheon un posto particolare sembra essere stato occupato da Hevajra, figura divina tipica del buddhismo tantrico.

Contemporanea alla fine dei lavori del Bàyon, e immediatamente successiva, dovette essere la costruzione delle terrazze dette «del re lebbroso», «degli elefanti» e «d'onore», poste dinanzi all'ingresso del palazzo reale.

Nello stile del Bàyon il rilievo e la statuaria raggiungono sovente livelli estetici altissimi. Meno vincolata dell'architettura, cui è assegnato il compito di dar forma a precise immagini cosmologiche, la scultura può narrare con immediatezza, disciplinata soltanto dalla norma stilistica, drammatiche vicende storiche come la guerra contro i Cham, illustrata nei rilievi del Preaḥ Khan di Angkor, del Banteay Chmàr, nonché dalle scene di preparativi bellici e di battaglie del Bàyon. In quest'ultimo monumento sono raffigurati, per la prima volta, episodi di vita quotidiana narrati con freschezza e vivacità non priva di qualche nota caricaturale.

Sul mondo della storia e della quotidianità domina il sorriso dei grandi volti di Bodhisattva, nei quali si manifesta il superamento della contingenza e il raggiungimento di una suprema, indefettibile serenità. Esprimere il possesso di questa vagheggiata condizione è l'ideale che ispira la statuaria.

Le immagini ritratto di Jayavarman e delle sue spose si pongono tra i capolavori dell'arte di tutti i tempi per la straordinaria capacità di rivelare l'interiorità dei personaggi, che sembrano contemplare la realtà più profonda dell'essere ed entrare, per questo tramite, in comunicazione con tutte le creature.

Come rileva Ph. Stern, il Bàyon è il canto del cigno dell'arte khmer. Dopo di esso sarà la decadenza di quella che fu una delle più splendide manifestazioni artistiche di tutta l'A. Sud-orientale.

Champa. - Documenti epigrafici del VII sec. ci informano che la dinastia regnante nel Champa era imparentata con quella del Zhenla e che nel paese si praticava un culto degli antenati, collegato con quello della divinità tutelare dello stato cham, Śiva, venerato nella forma di un liṅga (Śaṃbhubadreśvara). Anche il visnuismo era seguito, sebbene in misura minore.

Il più antico stile del Champa (VII-VIII sec.) è attestato dai resti del santuario di Mĩ-so'n E1 -dal quale prende il nome -che ha restituito un frontone decorato da un'immagine di Viṣṇu recumbente sul serpente Śeṣa. Il paragone con raffigurazioni dello stesso tema, presenti in architravi khmer di epoca preangkoriana, ha consentito di datare il pezzo intorno alla metà del VII sec. e ha dimostrato l'esistenza di legami fra le scuole artistiche cham e khmer. Di qualità eccezionale sono le sculture che decorano un piedistallo rinvenuto nello stesso santuario. Le immagini di suonatori, di danzatori, di asceti, sono caratterizzate da una naturalezza e da un dinamismo straordinari.

Per quanto concerne la statuaria, rappresentata da pochi esemplari, è da segnalare una bella immagine del dio Gaṇeša da Mĩ-so'n E5, che è la sola statua cham veramente realizzata a tutto tondo.

A partire da poco dopo la metà dell'VIII sec. il centro del potere si sposta al Sud, verso le regioni di Kauṭhāra e Paṇḍuraṅga, ma la nuova dinastia, che vi regna, estende il suo potere su tutto il Champa, come si deduce dal fatto che due spedizioni vennero condotte, agli inizi del IX sec., contro le provincie cinesi a N. La divinità più venerata è ancora Śiva, rappresentato da un mukhaliṅga ( liṅga sul quale è raffigurata l'immagine del dio), che aveva sede a Po Nagar, il culto del quale si accompagnava a quello di una dea (Bhagavatī). I documenti epigrafici attestano che anche il viṣṇuismo e il buddhismo contavano seguaci.

L'arte delle regioni meridionali, documentata da una serie di santuari e da alcune opere scultoree, rivela collegamenti con la produzione khmer e con quella giavanese, ma mostra anche una notevole originalità nell'iconografia e nelle tecniche usate.

Alla fine dell'epoca, contrassegnata dal predominio delle province meridionali, risale lo stile di Hoà-lai, al quale appartiene un gruppo di templi eretti in questa località nella seconda metà del IX secolo. Essi presentano la forma tipicamente cham della torre-santuario (kalan) che, in questo sito, è caratterizzata da elementi particolari quali la colonna ottagonale, adorna di motivi decorativi a fasce, e un fregio situato al di sotto dei cornicioni. Nell'ultimo quarto del IX sec. la sede del potere viene di nuovo spostata a N.

L'inizio di questo periodo è contrassegnato da una notevole affermazione del buddhismo Mahāyāna, testimoniata dai resti del santuario di Lakṣmīndralokeśvara a Dông-du'o'ng. Il tempio, caratterizzato da uno sviluppo assiale, rivela una complessità di concezione del tutto eccezionale nell'architettura cham. Lo stile di Dông-du'o'ng (c.a 875-915) segna l'affermarsi di un gusto più genuinamente cham, manifestantesi nei tratti fisionomici delle figure e in una grande esuberanza decorativa che rinnova i temi di origine indiana, in particolare per quanto concerne i motivi vegetali.

La statuaria dell'epoca comprende immagini buddhiste e hindu, sovente dotate di notevole potenza espressiva, che mostrano una decisa caratterizzazione etnica nei volti dal naso largo e dalle labbre carnose, talvolta sormontate da piccoli baffi.

Il X sec., periodo assai agitato della storia del Champa, è contrassegnato da un'invasione khmer (c.a 950 d.C.) e, soprattutto, dagli scontri con il regno del Dại Cô Việt, divenuto stato sovrano, che causeranno lo spostamento della capitale a Vijaya, nella regione del Bình-ḍinh (1000 d.C.). Lo stile dell'epoca prende il nome di Mĩ-so'n A1, esemplificato soprattutto dagli imponenti santuari del sito di Mĩ-so'n e di quello di Khuong-mỹ. In quest'ultima località la decorazione sembra attestare la prima fase dello stile, caratterizzata, nei volti, da un addolcimento dei tratti pesanti, tipici della fase precedente. L'influsso khmer, prima, e quello giavanese, poi, si manifestano nella decorazione che utilizza il motivo del kāla-makara. Le immagini buddhiste scompaiono. Le sculture di Trà-kiệu documentano lo stile nel momento del suo pieno sviluppo. Di particolare interesse è un piedistallo, decorato nella parte superiore da una fila di seni femminili e inoltre da rilievi che illustrano un testo viṣṇuita. Un altro piedistallo, con figure di musici e danzatori, è considerato uno dei più alti esempi della scultura cham per l'eleganza delle forme e la bellezza serena dei volti. Lo stile del Bìnhdịnh, che prende il nome dalla regione in cui fu trasferita la capitale, si estende per un periodo assai lungo (XI-XIII sec.), caratterizzato dalle lotte contro il Dại Việt, che provocarono la perdita delle province settentrionali del Champa, e dalla rivalità continua con il Cambogia. Una grande, ma effimera vittoria fu conseguita dai Cham con la conquista della capitale khmer nel 1177; ben presto, infatti, il Cambogia riuscì ad annettersi il Champa sul quale esercitò il proprio dominio dal 1203 al 1220.

I santuari di quest'epoca, tra i quali si segnalano quelli di Thü-thiện e di Bình-lâm e, inoltre, le Torri d'Argento, le Torri di Bronzo e le Torri d'Oro, mostrano caratteristiche particolari, come le coperture dagli angoli smussati, che conferiscono alle sovrastrutture una linea ogivale, simile a quella propria dei santuari khmer. Altro tratto distintivo dello stile è l'arco a cuspide di lancia con decorazione di foglie.

La scultura rivela un certo inaridimento delle forme, che non presentano più la vivacità e la scioltezza propria dello stile precedente. Fatta eccezione per le immagini di Buddha e di dvārapāla, che sono a tutto tondo, tutte le altre figure sono presentate nella forma della stele. Vari influssi stranieri si palesano in queste opere. I motivi giavanesi, tuttavia, si diradano, mentre si accrescono quelli khmer e sino-vietnamiti.

Vietnam. - Nella varia fenomenologia artistica dell'A. sud-orientale, cui l'onnipervadente influsso della civiltà indiana fa da elemento unificatore, l'area vietnamita presenta caratteristiche del tutto particolari.

La storia culturale del Vietnam reca anch'essa l'impronta profonda della civiltà di un paese straniero, che però non è l'India, bensì la Cina. Nonostante il peso esercitato da questa presenza, che non si limitò ad agire come influsso culturale, ma si concretizzò nella forma di una millenaria dominazione politica (in a.C.-939 d.C.), l'arte del Vietnam presenta caratteri di notevole originalità e vitalità. Anche se al paese fu imposto per lungo tempo il modello organizzativo cinese, sopravvisse, infatti, un fondo culturale autoctono da cui trasse origine un costante processo di rielaborazione degli elementi derivati dalla civiltà dominante.

I resti archeologici, relativi al periodo più antico, sono alquanto scarsi. Essi sono rappresentati principalmente dalle tombe cinesi risalenti all'epoca degli Han posteriori (25-220 d.C.), delle Sei Dinastie (222-589), dei Tang (618-907), dei Song (960-1279). Le necropoli più importanti sono quelle di Lạch-tru'ò'ng, di Thanh-hoá e di Nghi-vệso'n (Bằc-ninh). A eccezione delle tombe di epoca Song, consistenti in semplici fosse, i monumenti sepolcrali più antichi sono costituiti da tumuli che ricoprono una o più stanze a vòlta, costruite con mattoni. La pianta è varia; solitamente uno o più vestiboli rettangolari immettono in una sala centrale, anch'essa rettangolare o quadrata. Talvolta questo schema è arricchito dalla presenza di piccole stanze o nicchie ai lati degli ambienti principali.

Nell'epoca Tang, pur restando sostanzialmente invariata la concezione della tomba, gli spazi si riducono sensibilmente. La suppellettile funeraria è costituita da ceramica e bronzi ispirantisi agli stili cinesi dei periodi cui appartengono le tombe. Alcune ceramiche mostrano una sintesi di motivi cinesi e di elementi decorativi tipici della cultura di Dông-so'n. Sovente si trovano riproduzioni di oggetti di uso comune come i forni da cucina, i modelli di abitazioni, i pozzi, i granai. I bronzi sono costituiti generalmente da vasi, ma comprendono anche specchi, assai importanti per la datazione delle tombe, e lampade. Fra queste ultime particolarmente interessante è un esemplare, rinvenuto nella tomba 3 di Lạch-tru'ò'ng e databile al III-IV sec., che è formato da una figura maschile inginocchiata, con un vassoio nelle mani e dei piccoli personaggi sulle cosce, sulle anche e sulle braccia. L'aspetto «indonesiano» dell'immagine qualifica l'oggetto come una produzione locale e sembra mostrare la sopravvivenza di forme collegabili alla cultura di Dông-so'n, che si era estesa sia sull'area vietnamita, sia sulle isole dell'Arcipelago. D'altra parte, non solo nell'ambito dei bronzi, ma anche nella ceramica si può riconoscere una produzione vietnamita, la cui esistenza è confermata dal ritrovamento di forni per la cottura.

Nulla rimane dell'architettura dell'epoca, che doveva utilizzare materiali deperibili. Ce ne forniscono, tuttavia, un'immagine i modelli in terracotta di edifici, presenti nelle tombe del periodo Han e delle Sei Dinastie. Si tratta di case sopraelevate, talvolta a due piani, che sorgono nella parte più interna di un cortile cinto da mura, sulle quali poggiano delle tettoie. La porta d'ingresso immette, in alcuni casi, in un atrio sormontato da un padiglione. Maggiore complessità presenta un esemplare, rinvenuto in una tomba di Nghi-vệ-so'n, che riproduce una residenza fortificata e una cittadella.

A partire dalla fine del IX sec. incominciano a delinearsi degli stili locali. I più antichi risalgono all'epoca detta di Dại-la (IX-XI sec.), dal nome della città che fu capitale del Tonkino fino al 939, cioè fino a quando Nghô-Quyên, battuti i Cinesi, si proclamò re e portò la capitale a Cô-loa. Non ci sono rimaste testimonianze dell'architettura dell'epoca. I caratteri della scultura si possono, invece, desumere dai resti della decorazione di monumenti di varie località.

In generale si può dire che l'arte di Dại-la, quale è documentata dai frammenti di terracotta decorata, provenienti dalla zona a NE di Hanoi, doveva essere caratterizzata da un forte influsso cinese. Varie, tuttavia, appaiono le fonti alle quali si ispirava il più antico stile dell'epoca, quello di Phật-tich, attestate soprattutto da uno stūpa, che il generale cinese Gao Pian edificò tra gli anni 867 e 870, nel villaggio da cui prende il nome lo stile. A questo monumento dovevano appartenere le figure di lokapāla (divinità guardiane), di Vajrapāṇi (divinità buddhista) e di kinnarī (essere mitico metà donna e metà uccello), rinvenute nel luogo, che mostrano, oltre all'indubbia impronta dell'arte Tang, forti influssi centroasiatici. Caratteristica di questo stile è la decorazione a fiori delle vesti e delle acconciature del capo, che si incontra frequentemente nelle pitture dell'Asia centrale. L'iconografia, di origine indiana, appare modificata dal gusto centroasiatico e dall'utilizzazione di motivi derivati dall'arte Tang, riscontrabili soprattutto in alcuni elementi del costume dei guerrieri (Vajrapāṇi, lokapāla).

Allo stile di Phật-tich appartengono anche le immagini di musici e danzatori che adornano le basi di alcune colonne della pagoda (stūpa) del villaggio omonimo, risalenti anch'esse alla fine del IX secolo. Tema caratteristico dello stile è quello costituito da rami che formano volute, all'interno delle quali è inserito un fiore di loto o un crisantemo. Le volute contigue sono tenute insieme da piccoli personaggi nudi, coricati. Questo motivo compare anche nei bordi dei pannelli ai quali sono addossate le figure di Vajrapāṇi (Kim-cu'o'ng), che adornano i muri della pagoda di Long-dôi-so'n (provincia idi Hà-nam). Le indubbie somiglianze con il Vajrapāṇi di Phật-tich e la presenza del motivo sopra descritto inducono ad assegnare queste opere allo stile omonimo. Una decorazione analoga, a volute e fiori, è presente anche su un frammento di piedistallo, rinvenuto nella stessa località, che mostra inoltre una figura di garuḍa sulla quale sembra aver agito l'influsso delle analoghe immagini cham. Altri motivi decorativi, attestati nel periodo di Dại-la, sono quelle costituite dal dragone - inserito in un elemento detto «a lacrima» - e quello delle montagne emergenti dall'acqua, entrambi i quali si trasmetteranno, non senza evolversi, alle epoche successive.

Il secondo stile del periodo di Dại-la, che prende il nome dalla dinastia dei Ly (1009-1225), sotto la quale in gran parte si sviluppò, va dal secolo X al primo quarto del XII. A esso appartengono due monumenti databili con certezza: lo stūpa eretto dal re Ly Thân-tông nel 1057 a Phật-tich e quello di Long-dôi-so'n, fatto costruire da Ly Nho'n-tông nel 1121.

Di questi monumenti ci sono pervenuti numerosi resti che, aggiunti a quelli di altre località, tra cui Dông-vien, Chùa Coi e Da-gia, ci consentono di delineare le caratteristiche generali dello stile. Le opere del periodo dei Ly non si discostano molto da quelle dell'epoca precedente, ma gli elementi decorativi denunciano un'evoluzione dei motivi che è tipica di questa fase artistica. Il tema del drago continua a essere trattato, ma la «lacrima», nella quale è inserito, si moltiplica formando un fregio continuo.

Il ramo fiorito è ancora rappresentato, ma le foglie, dapprima indicate da una semplice linea curva, divengono lanceolate, mentre scompaiono i personaggi nudi che congiungevano le volute. Appare, infine, nella torre-stūpa di Bình-so'n, presso Việt-trì, un nuovo motivo decorativo, costituito da un medaglione circondato da una perlatura e da elementi decorativi, probabilmente foglie stilizzate.

Lo stile successivo, detto dei Trân (metà del XII fine del XIV sec.) continuerà, in generale, a utilizzare i motivi decorativi propri dell'epoca precedente, che perderanno tuttavia la leggiadra linearità che li distingueva, divenendo più corposi e compatti.

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