Astrofisica

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Astrofisica

Enrico Maria Corsini

I temi verso cui si è indirizzata gran parte della ricerca astrofisica riguardano la struttura e l'attività del Sole, la vita delle stelle e la nascita dei loro sistemi planetari, la formazione e l'evoluzione delle galassie, le proprietà dei buchi neri stellari e di quelli supermassicci che si trovano al centro delle galassie e naturalmente lo studio dell'Universo nel suo insieme.

Dalla fine del 20° sec. l'osservazione dell'Universo ha ricevuto un impulso che non ha precedenti e riveste un ruolo trainante nei confronti della teoria in virtù dell'entrata in funzione di un numero considerevole di nuovi e potenti telescopi che, operando da terra o dallo spazio, permettono di indagare i fenomeni celesti in tutte le bande dello spettro elettromagnetico. A questo proposito vanno menzionati i grandi telescopi ottici con specchi del diametro fino a 10 m, tra cui il VLT (Very Large Telescope) e il LBT (Large Binocular Telescope) che sono stati realizzati grazie a un consistente contributo dell'Italia e gli ultimi telescopi messi in orbita dalla NASA (National Aeronautics and Space Administration) e dall'ESA (European Space Agency). Il telescopio spaziale Hubble (HST, Hubble Space Telescope), che ha rivoluzionato la nostra visione dell'Universo nelle regioni ultravioletta e visibile dello spettro elettromagnetico, è ora affiancato da Spitzer, che è stato progettato per compiere osservazioni infrarosse, da Chandra e Newton-XMM, che sono sensibili ai raggi X e da Swift e Integral che misurano la radiazione gamma.

Il Sole

Le predizioni teoriche sulla struttura interna del Sole sono verificate analizzando i moti che danno luogo alle oscillazioni che siverificano sulla superficie solare.

L'eliosismologia richiede osservazioni accurate e protratte nel tempo: a aprtire dal 1996 vengono condotte sia da terra sia dallo spazio. Ai dati raccolti dagli osservatori solari, che sono distribuiti tra i diversi fusi orari e vengono coordinati da consorzi come GONG (Global Oscillation Network Group), si aggiungono quelli del satellite SOHO (Solar and Heliospheric Observatory). SOHO nasce dalla collaborazione tra ESA e NASA ed è stato lanciato nel dicembre 1995. Orbitando attorno a L1, uno dei punti langragiani dove le forze di attrazione della Terra e del Sole sono in equilibrio, SOHO osserva ininterrottamente l'attività fotosferica, cromosferica e coronale del Sole. Il modello solare è tanto accurato che le predizioni sul flusso di neutrini emessi dalla nostra stella vengono adottate per mettere a punto gli esperimenti che si svolgono nei laboratori terrestri allo scopo di indagare la natura di queste particelle.

Il Sole è anche il laboratorio ideale per lo studio dei campi magnetici stellari. Il campo magnetico del Sole si genera dall'effetto combinato della rotazione solare e dei moti convettivi del gas che si trova nelle regioni esterne. Sotto la superficie solare le linee di forza del campo magnetico sono intrappolate nel gas, si muovono insieme a esso ed emergono in corrispondenza delle macchie solari. Al contrario, il gas della corona segue le variazioni del campo magnetico formando archi e protuberanze, che si allungano per centinaia di migliaia di chilometri. Quando strutture di polarità opposta collidono, il campo magnetico si riaggiusta liberando quantità enormi di energia che provocano i brillamenti, l'espulsione di materia coronale, l'accelerazione delle particelle del vento solare e il riscaldamento dell'atmosfera solare che si estende fino a lambire la Terra.

Durante i periodi di massima attività solare, che si ripetono con un periodo di 11 anni, il vento solare può scatenare nella magnetosfera terrestre delle tempeste elettromagnetiche così violente da influire negativamente sulle attività dell'uomo. Infatti sono dannose per la salute degli astronauti, mettono a rischio il funzionamento dei satelliti e disturbano sia le telecomunicazioni sia la distribuzione di energia elettrica. Per studiare e prevedere questi fenomeni si è sviluppata la meteorologia spaziale (space weather) che può contare anche sui dati raccolti dai 6 satelliti che l'ESA e la CNSA (China National Space Administration) hanno messo in orbita attorno alla Terra nel quadro delle missioni Cluster e Double Star.

Formazione ed evoluzione dei pianeti

A partire dal 1993 le osservazioni indirette di tipo astrometrico, spettroscopico, fotometrico e, successivamente, la fotografia diretta hanno permesso di identificare oltre 170 pianeti al di fuori del Sistema solare. Quasi tutti i pianeti extrasolari sono grandi come o più di Giove, orbitano a meno di 1 UA dal loro sole e hanno un periodo di rivoluzione di poche decine di giorni. La reciproca attrazione gravitazionale di un pianeta e della sua stella causa il moto di entrambi attorno al comune centro di massa. Se il sistema planetario si trova a meno di 100 pc di distanza dal Sole allora il moto della stella può essere misurato per via sia astrometrica sia spettroscopica. Dall'analisi delle oscillazioni della posizione e della velocità radiale della stella si deducono il valore minimo della massa del pianeta, il suo periodo di rivoluzione, il raggio e l'eccentricità della sua orbita. Le tecniche astrometriche e spettroscopiche favoriscono la scoperta dei pianeti più grandi e vicini alla loro stella proprio perché sono quelli che determinano le oscillazioni di maggior ampiezza e frequenza. Le osservazioni fotometriche, misurando le variazioni di luminosità delle stelle, permettono di individuare quei pianeti che, a causa della particolare orientazione della loro orbita, eclissano periodicamente il loro sole.

La fotometria viene anche usata per scoprire i pianeti che ruotano attorno a stelle relativamente vicine e che, attraversando la linea di vista, si interpongono tra l'osservatore e altre stelle più lontane. Il campo gravitazionale della stella vicina amplifica la luce di quella lontana attraverso un effetto di lente gravitazionale che viene modulato dalla presenza dei pianeti. Tutti questi metodi sono indiretti perché permettono di scoprire un pianeta sulla base delle perturbazioni che esso induce sul moto o sulla luminosità della stella attorno a cui ruota. Solo all'inizio del 21° sec. VLT e HST hanno ottenuto le prime immagini di un pianeta extrasolare. Si tratta di un corpo che ha una massa pari a 5 volte quella di Giove e che orbita a circa 55 UA da 2M1207A, una nana bruna distante 80 pc dal Sole.

Per spiegare la formazione e l'evoluzione del Sistema solare lo studio dei sistemi planetari extrasolari è complementare a quello dei dischi protoplanetari. La formazione dei pianeti avviene proprio in questi dischi di gas e polveri, il primo dei quali fu individuato nel 1983 attorno alla stella Beta Pictoris. Tra i numerosi dischi protoplanetari quello che circonda la stella Epsilon Eridani è particolarmente interessante. Infatti la sua forma ad anello e le sue dimensioni sono pressoché uguali a quelle della fascia di Kuiper che ospita i resti del disco protoplanetario solare. In questa regione, che si estende oltre l'orbita di Nettuno fino a circa 50 UA dal Sole, sono stati trovati dal 1992 a oggi circa 900 corpi, detti oggetti transnettuniani, con un diametro compreso tra 100 e 800 km. Si stima che nella fascia di Kuiper vi siano 10 miliardi di corpi più grandi di 1 km, di cui almeno 100.000 avrebbero un diametro superiore ai 100 km.

Formazione stellare

Le stelle si formano nelle nubi di gas e polveri che sono distribuite nel mezzo interstellare delle galassie. Il processo inizia dal collasso delle regioni più dense di queste nubi, quando l'attrazione gravitazionale supera le forze di pressione dovute all'agitazione termica, ai moti turbolenti del gas e all'azione del campo magnetico. Al centro della nube si forma una concentrazione di massa che prende il nome di protostella. Il resto del materiale si appiattisce in un disco a causa della rotazione della nube. Solo una parte di questo materiale si accresce sulla protostella o va a formare il disco protoplanetario, il resto viene espulso nell'ambiente circostante attraverso getti, che si propagano a velocità di centinaia di km/s fino a distanze di alcuni pc. Le protostelle con una massa inferiore a 1/10 di quella del Sole non riescono a diventare delle vere stelle ma si trasformano in nane brune, oggetti intermedi fra i pianeti più grandi e le stelle più piccole, con una vita di 100 miliardi di anni. Tutte le altre si trasformano in stelle nel momento in cui nel loro nucleo si innescano le reazioni di fusione termonucleare che, trasformando l'idrogeno e l'elio in elementi più pesanti, liberano grandi quantità di energia. Metà delle stelle, che compongono le galassie che possiamo vedere, si sono formate nei primi 5 miliardi di anni di vita dell'Universo. Da allora la formazione stellare è andata rapidamente scemando fino a limitarsi quasi alle sole galassie a spirale. La massa totale delle stelle che nascono ogni anno nella Via Lattea, una delle più grandi e massive galassie a spirale, equivale a 10 volte quella del Sole.

La nucleosintesi primordiale seguita al Big Bang ha prodotto idrogeno ed elio oltre a piccole quantità di deuterio e litio. Tutti gli altri elementi, che in astrofisica vengono genericamente indicati come metalli, sono stati sintetizzati nelle stelle e dispersi nell'ambiente attraverso fenomeni come i venti stellari e le esplosioni delle supernovae. In questo modo il materiale arricchito di metalli si è mescolato al resto del mezzo interstellare ed è servito per formare nuove stelle. Di conseguenza l'età e il contenuto di metalli delle diverse generazioni di stelle che si sono succedute nel corso del tempo permettono di caratterizzare le cosiddette popolazioni stellari. Le stelle più giovani e ricche di metalli sono dette stelle di popolazione i; la loro età è minore o circa uguale a quella del Sole e i metalli costituiscono il 5% della loro massa. Le stelle più vecchie e povere di metalli appartengono alla popolazione ii; queste stelle superano i 10 miliardi di anni d'età e hanno un contenuto di metalli inferiore allo 0,1% della loro massa. Infine le stelle completamente prive di metalli, che si formarono direttamente dall'idrogeno e dall'elio primordiali, vanno a costituire la popolazione iii; si tratta di stelle che si accesero circa 200 milioni di anni dopo il Big Bang e che ormai si sono completamente estinte.

All'inizio del 21° sec. un grande sforzo è stato compiuto per affinare la teoria della formazione stellare soprattutto attraverso lo studio delle stelle di popolazione iii, che non solo hanno una composizione più semplice delle stelle delle generazioni successive ma sono anche nate in un ambiente meno complesso. Parallelamente le osservazioni hanno beneficiato dei miglioramenti apportati alla strumentazione sensibile alla radiazione infrarossa, submillimetrica e millimetrica. Solo a queste lunghezze d'onda è possibile penetrare la polvere che avvolge le regioni di formazione stellare nella nostra galassia e nelle galassie vicine e investigare le proprietà delle galassie più giovani e lontane, in cui i processi di formazione stellare avvengono a ritmi che superano di migliaia di volte quello della Via Lattea.

Evoluzione stellare

La durata della vita e l'evoluzione di una stella dipendono dalla sua massa iniziale. La vita di una stella che alla nascita ha una massa 50 volte maggiore di quella del Sole è di 4 milioni di anni. Dopo aver convertito in elio tutto l'idrogeno del nucleo, la stella prima si espande in una supergigante rossa innescando le reazioni termonucleari che sintetizzano gli elementi più pesanti fino al ferro e poi esplode in una supernova di tipo ii. Il gas ricco di idrogeno degli strati esterni della stella viene proiettato nello spazio circostante a velocità che possono toccare i 20.000 km/s. Si forma una struttura, detta resto di supernova, che si espande fino a raggiungere un diametro di alcune decine di pc prima di disperdersi nel mezzo interstellare. Intanto il nucleo della stella collassa in un buco nero.

Una stella con una massa pari a 10 volte quella del Sole si evolve in una supergigante rossa e in una supernova di tipo ii, ma vive 20 milioni di anni e genera una stella di neutroni. Le pulsar e le magnetar sono stelle di neutroni in rapida rotazione e dotate di elevatissimi campi magnetici. L'esplosione di una ipernova dovuta alla coalescenza di due stelle di neutroni è uno dei meccanismi proposti in questi anni per spiegare l'origine dei lampi gamma (gamma ray bursts), alla cui osservazione l'Agenzia spaziale italiana (ASI) ha contribuito attivamente con la costruzione e il lancio dei satelliti Beppo-SAX, che è stato operativo tra il 1996 e il 2002, e di Swift, che è stato messo in orbita nel novembre 2004.

Una stella come il Sole vive 10 miliardi di anni e diventa una gigante rossa. Gli strati esterni vengono espulsi e formano un inviluppo detto nebulosa planetaria che si disperde nello spazio nel giro di 50.000 anni. Il nucleo evolve in una nana bianca. Se la nana bianca si trova in un sistema binario con una stella di massa inferiore e quindi con un'evoluzione più lenta, allora può accrescersi attraendo gas dalla compagna. Questo processo innesca sulla superficie della nana bianca delle esplosioni che si ripetono periodicamente e rendono la stella visibile a grandi distanze sotto forma di stella nova. Quando le esplosioni sono tanto violente da raggiungere il nucleo e distruggere la nana bianca, allora si osserva una supernova di tipo ia che libera grandi quantità di metalli nel mezzo interstellare. Queste supernovae hanno destato un grande interesse dal punto di vista teorico e sperimentale, dal momento che oltre a essere le più luminose sono anche tutte molto simili tra di loro e possono essere adottate per misurare le distanze delle galassie più lontane.

Formazione ed evoluzione delle galassie

Le galassie si allontanano a causa dell'espansione dell'Universo. Le galassie più distanti si allontano più velocemente di quelle vicine e di conseguenza in virtù dell'effetto Doppler le loro righe spettrali risultano molto più spostate verso le lunghezze d'onda maggiori. Questo spostamento delle righe spettrali verso l'estremo rosso dello spettro prende il nome di redshift. Poiché la luce impiega più tempo a percorrere distanze maggiori allora a redshifts che sono via via più grandi corrispondono epoche sempre più remote. Pertanto misurando il redshift di una galassia è possibile determinarne la distanza e l'età. Le galassie più lontane che è stato possibile osservare hanno un'età di circa 13 miliardi di anni, questo significa che la loro luce è stata emessa quando l'Universo aveva meno di 1 miliardo di anni.

Non essendo soggetto ai limiti imposti dalla turbolenza atmosferica, HST è in grado di cogliere dettagli inaccessibili ai telescopi a terra, quindi molti dei suoi programmi di osservazione sono stati dedicati allo studio delle galassie più lontane e primordiali. Dal confronto delle loro proprietà con quelle di sistemi stellari più vicini ed evoluti è possibile comprendere come le galassie si siano formate e siano cambiate nel corso del tempo.

Tra le immagini più straordinarie ottenute da HST, spiccano quelle di tre zone di cielo, il cui diametro è circa 1/10 di quello apparente della Luna piena, fotografate rispettivamente nel 1995, nel 1998 e nel 2003. Le prime due regioni, ribattezzate Hubble Deep Field Nord (HDF-N) e Hubble Deep Field Sud (HDF-S), sono situate nelle costellazioni dell'Orsa Maggiore e del Tucano; la terza, nota come Hubble Ultra Deep Field (HUDF), si trova nella costellazione della Fornace. In questi tre campi stellari, che sono stati successivamente studiati da tutti gli altri telescopi spaziali oltre che dai più grandi telescopi a terra, sono stati raccolti molti dei dati fotometrici e spettroscopici su cui si basano le moderne teorie sulla formazione e l'evoluzione delle galassie. Si è trovato che le galassie primordiali sono più piccole e formano molte più stelle rispetto alle galassie dell'Universo locale. Inoltre mostrano una morfologia irregolare spesso disturbata dalla presenza di compagne vicine. Queste differenze tra galassie lontane e vicine sono state interpretate immaginando che le galassie più grandi si siano formate dalla graduale fusione di sistemi più piccoli.

Nuclei galattici attivi

I nuclei galattici attivi includono un'ampia varietà di tipi di galassie, i cui nuclei emettono una grande quantità di energia. A questa classe appartengono le galassie di Seyfert, le radiogalassie, gli oggetti BL Lac, i blazar e i quasar, la cui attività nucleare è stata interpretata come frutto dell'accrescimento di materia su di un buco nero di massa compresa tra un milione e dieci miliardi di masse solari. Per la loro grande massa i buchi neri che si trovano nei nuclei delle galassie vengono comunemente indicati come buchi neri supermassicci. Poiché tutte le galassie hanno attraversato nel corso della loro evoluzione una fase di attività nucleare più o meno intensa, i buchi neri supermassicci costituiscono una componente fondamentale non solo delle galassie attive ma anche di quelle che sono quiescenti. Questo paradigma, che si fonda su considerazioni di natura teorica, ha trovato la sua conferma sperimentale con la scoperta della presenza di una concentrazione di massa, assimilabile a un buco nero, al centro di alcune decine di galassie attive e quiescenti. La stessa Via Lattea possiede un buco nero che è 3 milioni di volte più massiccio del Sole.

L'evoluzione di una galassia influenza la crescita del buco nero centrale. Infatti fenomeni come le fusioni con altre galassie, le interazioni mareali e alcuni processi dinamici sono in grado di convogliare gas verso il nucleo che alimenta il buco nero. A sua volta il buco nero influenza l'evoluzione della galassia ospite. Basti pensare che, quando diventa attivo, un quasar genera un vento tanto intenso da spazzare via il mezzo interstellare circostante, che viene proiettato nell'ambiente intergalattico. In assenza di gas sia la formazione stellare sia la crescita del buco nero subiscono una battuta d'arresto. I primi buchi neri potrebbero essersi formati dal collasso delle stelle più massicce di popolazione iii e sarebbero cresciuti al centro delle galassie attraverso successive fusioni in sistemi sempre più grandi.

Lo studio delle relazioni che legano le proprietà dei buchi neri a quelle delle galassie che li ospitano è cruciale per costruire un quadro coerente che ne spieghi la formazione e l'evoluzione congiunta. Questa reciproca influenza è alla base del concetto di coevoluzione, un termine che è stato mutuato dall'ecologia, dove indica una sequenza di cambiamenti evolutivi correlati tra specie interagenti e che solo successivamente è stato introdotto in astrofisica.

Evoluzione del mezzo interstellare

L'evoluzione delle galassie dipende molto dalle proprietà del loro mezzo interstellare, nonostante le polveri e il gas di cui esso è composto rappresentino una frazione molto piccola della massa di una galassia (solo il 2% nel caso della Via Lattea). Le polveri sono particelle di materiale solido, soprattutto grafite e silicati, che hanno dimensioni variabili tra alcune decine di nm e qualche centesimo di μm. Pur costituendo solo il 2% della massa delle nubi interstellari, le polveri oscurano in modo molto efficiente la luce visibile e ultravioletta delle stelle, rendendo opache le regioni più dense del mezzo interstellare.

Il gas è la componente dominante del mezzo interstellare. Esso è costituito soprattutto di idrogeno (71%) ed elio (27%). La maggior parte di questo idrogeno è in forma atomica allo stato neutro e si trova in nubi diffuse che hanno una massa da 1 a 100 volte quella solare, una temperatura di 50 K e una densità di 500 atomi/cm3. A causa dell'estrema rarefazione degli atomi di idrogeno e della rarità delle loro collisioni, l'idrogeno neutro emette una radiazione di 21 cm di lunghezza d'onda che viene rivelata da osservazioni radioastronomiche.

La presenza della polvere facilita la formazione di idrogeno molecolare, che si addensa nelle cosiddette nubi molecolari giganti. Queste nubi hanno una forma irregolare e dimensioni tipiche di 50 pc e contengono fino a 1 milione di masse solari di idrogeno molecolare che si trova a una temperatura di 20 K e a una densità di 200 molecole/cm3. All'interno delle nubi molecolari vi sono dei nuclei compatti (meno di 1 pc di raggio) più densi (fino a un miliardo di molecole/cm3) e più caldi (fino a 100 K) di massa compresa tra 10 e 1000 masse solari. Proprio questi nuclei più densi insieme ai globuli di Bok, piccole nubi caratterizzate da una più bassa temperatura (10 K), sono le regioni in cui si formano le protostelle. L'idrogeno molecolare non ha righe di emissione o assorbimento nelle regioni visibile e infrarossa dello spettro elettromagnetico e viene studiato attraverso la radiazione emessa nelle bande submillimetriche e millimetriche dalle altre molecole a cui si accompagna. Nel mezzo interstellare sono state scoperte oltre 100 specie molecolari, alcune delle quali composte da decine di atomi.

L'idrogeno può trovarsi anche in forma ionizzata nelle regioni Hii che circondano le stelle molte calde. Queste stelle emettono della radiazione ultravioletta in grado di ionizzare l'idrogeno neutro entro un raggio che dipende dalla temperatura della stella e dalla densità del mezzo interstellare. In queste regioni, dette anche sfere di Stroemgren, la temperatura raggiunge 10.000 K e la densità è di 1000 atomi/cm3.

Le galassie sono avvolte da un alone di gas scaldato dalle esplosioni delle supernovae fino a temperature di qualche milione di K che viene osservato nella banda X. Tutto il mezzo interstellare è attraversato da raggi cosmici e permeato da campi magnetici. Parte del mezzo interstellare può essere espulsa nel mezzo intergalattico dalle esplosioni delle supernovae e parte viene catturata dall'ambiente circostante la galassia o da altre galassie a essa vicine in seguito a fenomeni di acquisizione e di interazione.

Evoluzione dell'Universo

L'espansione dell'Universo iniziata con il Big Bang viene misurata dal redshift delle galassie e delle supernovae lontane. Quanto più grande è il redshift di un oggetto, tanto più l'Universo si è espanso a partire dall'istante in cui la radiazione è stata emessa da quell'oggetto. L'intervallo di tempo trascorso da quell'istante dipende dal modello cosmologico adottato. La velocità di espansione dell'Universo viene espressa dalla costante di Hubble (72 km/s/Mpc), che permette anche di convertire i redshifts in distanze. Dalla fine del 20° sec., soprattutto grazie alle osservazioni di HST, le distanze di alcune decine di galassie sono state misurate con grande precisione fino all'ammasso della Vergine a 20 Mpc dal Sole. Dalla distanza e dal redshift di queste galassie è stato possibile determinare il valore della costante di Hubble con una accuratezza superiore al 10%. Se la velocità di espansione dell'Universo fosse rimasta invariata, allora la sua età corrisponderebbe al tempo di Hubble, cioè all'inverso della costante di Hubble. Per stabilire l'età dell'Universo è quindi necessario conoscere come la velocità di espansione sia variata nel tempo, il che dipende strettamente dalla densità totale di materia e di energia dell'Universo. Questi parametri determinano la geometria e il destino del Cosmo in quanto dalla loro misurazione è possibile stabilire se l'Universo è piatto oppure curvo e se è destinato a espandersi indefinitamente o a ricollassare su sé stesso.

Uno degli sviluppi più eccitanti della cosmologia è stato la scoperta dell'energia oscura, una forza che pervade l'Universo e ne accelera l'espansione. Questa conclusione si basa sull'osservazione delle supernovae lontane di tipo i a. Dopo l'esplosione, queste supernovae raggiungono tutte la medesima luminosità massima prima di affievolirsi e diventare invisibili: calibrando il valore assoluto della luminosità massima e misurandone il valore apparente è possibile stabilire la loro distanza, che risulta sistematicamente maggiore di quanto viene previsto nel caso in cui l'espansione dell'Universo avvenga a velocità costante. Parallelamente la teoria e le misure della radiazione del fondo cosmico di microonde suggeriscono che la geometria dell'Universo è piatta. Questo implica che la densità totale di materia ed energia dell'Universo corrisponde al cosiddetto valore critico (10−26 kg/m3). All'energia oscura compete più del 70% della densità critica perché, stando alle stime sulla massa totale degli ammassi di galassie, la materia vi contribuisce per meno del 30%.

Da questi valori e dalla costante di Hubble si deduce che l'Universo ha una età di circa 13,7 miliardi di anni. Questo dato concorda con le datazioni ottenute dallo studio dei decadimenti radioattivi e con quelle basate sulla determinazione dell'età delle stelle degli ammassi globulari più vecchi.

Composizione dell'Universo

Le osservazioni indicano che la densità totale di materia e di energia dell'Universo è prossima al valore critico che lo rende piatto. La materia contribuisce al 27% della densità critica, ma solo il 4% corrisponde alla materia ordinaria stando ai limiti fissati dalla nucleosintesi primordiale. La materia ordinaria viene anche indicata come materia barionica, perché la sua massa corrisponde essenzialmente a quella dei barioni, cioè protoni e neutroni, di cui è costituita insieme agli elettroni.

La maggior parte della materia è dunque fatta di particelle non barioniche, di cui si occupa la fisica delle astroparticelle, che coniuga i metodi della cosmologia con quelli della fisica delle particelle.

Solo l'1% della densità critica è dovuto a materia che risiede nelle stelle e che quindi viene detta materia luminosa. Il resto della materia non può essere osservato direttamente attraverso la radiazione che emette ma viene rivelato grazie agli effetti gravitazionali che induce sulla materia luminosa: si tratta della materia oscura, che può essere barionica e non barionica. I MACHO (Massive Astronomical Compact Halo Objects) rappresentano una possibile forma di materia oscura barionica: essi sono oggetti compatti (nane brune oppure buchi neri) che si trovano nell'alone delle galassie e hanno masse di poco inferiori a quella del Sole. Tra le particelle di materia oscura non barionica, che vengono collettivamente indicate come WIMP (Weakly Interactive Massive Particles), l'assione e il neutralino sono i due candidati di maggior interesse. Queste particelle non sono ancora state osservate ma la loro esistenza è richiesta dalle teorie della grande unificazione (grand unified theories), che si propongono di dare una descrizione completa di tutte particelle elementari e delle interazioni a cui sono soggette. Sebbene siano state predette masse molto diverse per gli assioni (un miliardesimo della massa del protone) e i neutralini (100 volte la massa del protone), entrambi sarebbero emersi dal Big Bang viaggiando a una velocità molto inferiore a quella della luce. Questa proprietà caratterizza la materia oscura fredda ed è cruciale per la formazione delle strutture su grande scala che oggi osserviamo nell'Universo. La materia oscura fredda tende infatti ad agglomerarsi e ad attrarre la materia barionica costruendo sistemi che diventano sempre più grandi con il passare del tempo attraverso un processo di aggregazione gerarchica. A differenza dei WIMP, i neutrini si muovono a una velocità vicina a quella della luce. Diversi esperimenti hanno mostrato che la loro massa è compresa tra 0,5 e 5 eV. Questo significa che i neutrini potrebbero contribuire tra lo 0,1% e il 5% della densità critica dell'Universo, una quantità confrontabile al più con quella della materia barionica ma comunque insufficiente per rendere conto di tutta la materia non barionica.

Il rimanente 73% della densità critica dell'Universo è dato dall'energia oscura. A questa forma di energia, la cui natura ci è del tutto ignota, si attribuisce una sorta di effetto antigravitazionale che a grandi distanze prevale sull'attrazione gravitazionale della materia ed è responsabile dell'espansione accelerata dell'Universo.

Evoluzione delle strutture cosmiche

Quasi tutte le galassie appartengono a gruppi oppure ad ammassi. I gruppi di galassie sono strutture che possono contenere qualche decina di membri entro un Mpc di diametro. Gli ammassi di galassie contano fino a qualche migliaio di oggetti e hanno un diametro di alcuni Mpc. A loro volta gli ammassi si aggregano in strutture ancora più grandi, di frequente appiattite o filamentari, soprannominate superammassi di galassie. I superammassi hanno dimensioni dell'ordine dei 100 Mpc e raccolgono decine di migliaia di galassie. Tra i superammassi vi sono regioni del diametro di 100 Mpc che sono praticamente prive di galassie e che perciò vengono chiamate grandi vuoti.

Uno straordinario progresso nello studio delle strutture su grande scala si è avuto con l'entrata in funzione di nuovi spettrografi in grado di misurare simultaneamente i redshifts di centinaia di galassie. Ciò ha reso possibile la cartografia di vaste porzioni di Universo, come nel caso della Two Degree Field Redshift Survey (2dFRS) e della Sloan Digital Sky Survey (SDSS), che hanno analizzato un volume di circa 30 Mpc3. La 2dFRS è stata completata tra il 1997 e il 2002 e raccoglie i redshifts di 220.000 galassie. La SDSS è iniziata nel 2000 e dovrebbe arrivare a collezionare entro la fine del 2005 i redshifts di ben 700.000 galassie. La VIRMOS-VLT Deep Survey (VVDS) è invece una delle mappe più profonde mai realizzate. Per essa sono stati misurati i redshifts di 150.000 galassie, molte delle quali sono così lontane da tracciare l'evoluzione degli ammassi fino a un'epoca in cui l'Universo aveva appena 2 miliardi di anni di età. La realizzazione di questi e di altri progetti analoghi è il risultato di grandi collaborazioni internazionali che coinvolgono centinaia di scienziati. Questo è uno degli sviluppi a cui è andata incontro una parte della ricerca astrofisica, come era già avvenuto in passato per altri settori della fisica.

Le strutture a grande scala che si osservano nell'Universo sono una versione amplificata di quelle trovate nella radiazione del fondo cosmico di microonde, che ci fornisce una visione dell'Universo di 380.000 anni dopo il Big Bang. A quell'epoca la temperatura dell'Universo era di circa 6000 K. Questa temperatura si è successivamente abbassata a causa dell'espansione fino a raggiungere il valore di 2,73 K, tanto da poter essere misurata nella banda radio delle microonde. La prima mappa completa della radiazione cosmica di fondo è stata ottenuta nel 1992 dal satellite COBE (Cosmic Background Explorer), che ha evidenziato la presenza di piccole variazioni di temperatura, dette anisotropie, dell'ordine di 1 parte su 100.000. Queste fluttuazioni sono state poi rimisurate con sempre maggior precisione in oltre 20 esperimenti condotti sia da terra sia dallo spazio. Tra le osservazioni da terra vanno menzionate quelle condotte nel 1998 e nel 2003 nell'ambito dell'esperimento italiano BOOMERANG (Baloon Observation of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics). Successivamente è diventato operativo il satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe), la cui missione si concluderà nel 2007.

Grazie all'uso di simulazioni numeriche al calcolatore è possibile seguire l'evoluzione delle strutture cosmiche variando sia i parametri cosmologici sia le condizioni iniziali e confrontando il risultato con le osservazioni. In questo modo vengono posti dei vincoli tanto sulla geometria quanto sul contenuto di materia e di energia dell'Universo e si esclude la presenza di sola materia oscura calda (cioè costituita soltanto di neutrini) o di sola materia oscura barionica così come quella di sola materia oscura fredda nel caso di un Universo piatto.

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