ASTRONOMIA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Astronomia

Cesare Barbieri
Filippo Frontera

(V, p. 105; v. anche astrofisica, in questa Appendice)

I rapporti operativi stabilitisi nel corso degli anni tra l'a. e l'astrofisica hanno subito nel trascorrere del tempo notevoli evoluzioni. In particolare va osservato che nel periodo, all'incirca dagli anni Quaranta agli anni Settanta, in cui l'astrofisica si poneva come la scienza delle acquisizioni nuove sugli oggetti celesti, l'a. finì per essere intesa, anche se non esplicitamente, come limitata agli aspetti descrittivi dell'apparenza e della posizione degli astri sulla volta celeste. L'a. risultò cioè ristretta a poco più dell'astrometria o, come si usava dire, a. sferica, a prescindere da certe sottoclassificazioni a carattere interdisciplinare o applicativo, quali l'a. geodetica per certe necessità delle scienze della Terra e l'a. nautica per le necessità della navigazione. Questa tendenza, o quanto meno la sua presenza nell'a. italiana nel periodo suddetto, è ben documentata dal fatto che gli aggiornamenti sulle successive acquisizioni dell'a. sono stati accomunati con quelli astrofisici e posti sotto l'esponente astrofisica, e non a., nelle App. II (1, p. 293), III (1, p. 164) e IV (1, p. 182), le quali coprono appunto il periodo tra il 1938 e il 1978.  *

Sviluppi recenti

Tra i motivi che sono alla base dell'impressionante sviluppo delle conoscenze del 20° sec. sull'Universo e sui corpi che lo compongono sta la capacità di accedere a tutto lo spettro elettromagnetico, dal campo dei raggi gamma (γ) e X all'Ultravioletto (UV) e al visibile, all'infrarosso (IR), sino alle onde radio, dalle microonde alle onde di grande lunghezza d'onda: si cominciò dal campo radio negli anni dell'immediato secondo dopoguerra, dando luogo alla nascita della radioastronomia, per passare poi, dagli anni Sessanta in poi, ai campi infrarosso, ultravioletto, X e gamma, ai quali corrispondono, rispettivamente, l'a. infrarossa, l'a. ultravioletta, l'a. X (o X-astronomia), l'a. gamma (o gamma-astronomia), e decidendo di indicare come a. ottica la tradizionale a. nel campo delle radiazioni visibili. In questa voce si esporrà succintamente quanto è stato scoperto nelle regioni dai raggi γ sino al vicino IR, e si delineeranno alcune tematiche di sicuro sviluppo futuro. Per rimanere più aderenti al progredire storico viene trattata dapprima la zona dall'UV sino all'IR, e poi quella dei raggi γ e X. La regione spettrale, detta dell'Ultravioletto estremo (EUV), compresa tra circa 120 nm e 12 nm (inizio della regione X), non è ancora stata esplorata se non superficialmente, ma in essa già si sono osservate importanti righe spettrali di elementi molto ionizzati in varie sorgenti celesti, dai pianeti sino ai nuclei galattici attivi (AGN, dall'ingl. Active Galactic Nuclei); vi si accenna solo per completezza, dato che per il primo decennio del nuovo millennio è prevedibile il lancio di satelliti a essa dedicati (tra cui l'americano FUSE). In tale regione, la Via Lattea mostra una forte opacità dovuta alla ionizzazione dell'idrogeno da parte di fotoni con λ〈912 nm (il limite di Lyman), ma, data la natura non omogenea bensì a nubi del mezzo interstellare, rimane fortunatamente una buona trasparenza in varie direzioni (il Sole e il suo sistema sembrano essere in una cavità piuttosto trasparente per tali fotoni).

Si deve inoltre sottolineare la circostanza che l'a. del 20° sec. ha aperto altri importanti canali di informazione oltre a quello costituito dalla banda elettromagnetica: la materia (raccolta di gas, polveri, rocce), le cosiddette astroparticelle (raggi cosmici, neutrini solari ecc.) e le onde gravitazionali (v. oltre).

Gli oggetti celesti (galassie, stelle, nebulose, pianeti) sono per lo spettroscopista sorgenti di luce in cui sono visibili righe atomiche e bande molecolari, sia in assorbimento (tipicamente le stelle, il materiale interstellare e i pianeti gassosi) che in emissione (le nebulose diffuse e planetarie, gli involucri di novae e supernovae, le binarie X, i nuclei galattici attivi), in particolarissime condizioni di temperatura, densità, composizione chimica, campo magnetico, ben difficilmente riproducibili in laboratorio. L'esistenza stessa di certi elementi quali l'He, di transizioni proibite tra livelli metastabili quali le righe aurorali dell'ossigeno, di transizioni tra livelli di atomi ionizzati in plasmi a temperatura del milione di gradi quali il ferro ionizzato 12 volte (Fe xiii) nella corona solare, e altro ancora, sono stati accertati prima negli spettri dei corpi celesti piuttosto che in laboratorio; due elementi radioattivi, tecnezio e promezio, si osservano solo su stelle fredde e non sulla Terra. Dal suo canto, la teoria quantistica ha consentito di interpretare correttamente le abbondanze chimiche in stelle e nebulose, di determinarne condizioni di temperatura, densità, campo magnetico, rotazione, microturbolenza ecc., aprendo infine la strada alla classificazione spettrale ed evolutiva degli astri e, di conseguenza, di tutto l'Universo. Si ricorda che le stelle si possono classificare in 7 tipi spettrali principali, denotati con le lettere O, B, A, F, G, K, M in funzione della temperatura superficiale, decrescente da circa 40.000 K delle stelle O sino a 2500 K delle M.

L'importanza dell'energia nucleare come sorgente primaria della luce del Sole e delle altre stelle fu accertata già nel 1938 (primi lavori di H. Bethe e C. von Weiszäcker). Il Sole è descrivibile come una sfera gassosa di massa M=2∙10³⁰ kg e raggio R=7∙10⁵ km, in equilibrio meccanico strutturale, con temperatura superficiale di circa 5900 K (tipo spettrale G2), composto essenzialmente di idrogeno con una piccola frazione di elio e tracce di altri elementi più pesanti quali C, O, N, Fe. Nella zona centrale a temperatura T=1,5∙10⁷ K, in cui gli elementi sono quasi completamente ionizzati (solo quelli più pesanti del Fe mantengono ancora qualche elettrone), avvengono reazioni di fusione termonucleare che trasmutano 4 nuclei di H, cioè 4 protoni (p), in un nucleo di He (detto anche particella α), con la liberazione di energia; questa si traduce in calore interno che sostiene la struttura e in calore irraggiato verso l'esterno dalla fotosfera. Si ha poi la perdita di un'altra piccola quantità di energia sotto forma di neutrini. La liberazione di calore è espressa dall'equazione di Einstein, che lega l'energia liberata E alla perdita di massa Δm tramite la velocità della luce nel vuoto c, E=c²Δm. Essendo la massa del nucleo di He inferiore per circa lo 0,7% alla somma delle masse di 4 p (com'era stato misurato da F.W. Aston nel 1917; la scoperta del neutrone avvenne nel 1932 a opera di J. Chadwick), l'efficienza energetica di questa reazione è 0,007. La temperatura richiesta per vincere la repulsione elettrostatica tra i protoni è di circa 10⁷ K (a tutto rigore, è necessario anche un effetto tunnel quantistico per superare la barriera di potenziale); la regione su cui si hanno le condizioni adatte va dal centro sino a circa il 20% del raggio. La massa di idrogeno ivi contenuta, un decimo del totale, è tale da assicurare al Sole un irraggiamento stabile di circa 10¹⁰ anni; infatti, come si può facilmente calcolare dalla suddetta relazione di Einstein e dall'efficienza di conversione, la riserva nucleare ammonta a 1,4∙10⁴⁴ J, mentre il tasso di perdita attuale dalla superficie solare è di circa 4∙10²⁶ J/s.

La nucleosintesi, cioè la sintesi di elementi pesanti a partire da elementi più leggeri, avviene dunque soprattutto nell'interno delle stelle. Vedremo più avanti che alcuni elementi leggeri (Li, Be, B) sono generati dall'interazione dei raggi cosmici con il mezzo interstellare, mentre altri (D, parte dell'He e del Li) richiedono un'origine primordiale nei primi istanti di vita dell'Universo.

La perdita di energia sotto forma di neutrini dipende dal processo dettagliato per cui idrogeno si trasmuta in elio (vi sono vari canali di reazione possibili, di cui il canale protone-protone p-p è quello principale in stelle con massa inferiore a circa 2 M, e altri che invece coinvolgono anche il C e l'N, che predominano in stelle più massicce); il neutrino è una particella elementare assai difficile da rivelare, non avendo carica elettrica e (almeno entro i limiti delle odierne conoscenze) nemmeno massa apprezzabile. Pur tuttavia alcune esperienze, tra cui importantissima quella detta LVD (Large Volume Detector) in corso nei laboratori del Gran Sasso a cura dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), hanno la capacità di misurarne il flusso. Al presente, le misure evidenziano un netto deficit di neutrini rispetto alle previsioni (ne mancano i 2/3), il che implica qualche tipo di imprecisione o delle teorie dell'interno solare o della fisica delle reazioni di fusione o infine della fisica stessa dei neutrini (possibili oscillazioni tra le tre specie associate rispettivamente all'elettrone, al muone e al tauone).

Rimanendo ancora nell'ambito della fisica fondamentale, si deve ricordare lo studio sistematico dei raggi cosmici, particelle elementari di alta energia che entrano nel Sistema solare provenendo da sorgenti ancora non ben conosciute. I raggi cosmici sono costituiti per il 90% da protoni, per circa il 9% da particelle α, e il resto è sotto forma di nuclei di elementi pesanti e di elettroni. L'energia dei raggi cosmici spazia su un amplissimo intervallo, da circa 10⁶ eV sino a oltre 10²⁰ eV, ma il loro numero decresce molto in fretta al crescere dell'energia, in modo tale che alle energie più alte gli eventi hanno la frequenza di poche unità al mese o all'anno su una superficie di 1 km²; non è possibile pertanto studiarli direttamente dallo spazio con satelliti ma solo tramite i prodotti secondari dell'interazione con l'atmosfera. Alla energie più basse, i raggi cosmici si mescolano alle particelle simili che escono dal Sole (vento solare); a quelle più alte essi eccedono di molti ordini di grandezza l'energia che è possibile generare nei grandi acceleratori terrestri, sicché la loro interazione con le molecole dell'atmosfera terrestre genera reazioni di estremo interesse per la fisica delle particelle elementari. Non è facile dire da dove i raggi cosmici provengano; indubbiamente vi è bisogno di fenomeni estremamente energetici, quali le esplosioni di supernovae, il collasso di materia entro buchi neri massicci, o la fusione di oggetti compatti (stelle di neutroni, buchi neri) che molto probabilmente dà origine ai lampi di raggi γ (v. oltre: Astronomia X e gamma). Ma la direzione di arrivo è assai incerta: essendo i raggi cosmici particelle elettricamente cariche, a causa della forza di Lorentz vengono deviati da ogni campo magnetico incontrato lungo il cammino. In effetti, il campo magnetico interplanetario, trascinato a grande distanza dal vento solare ionizzato, e il campo magnetico terrestre agiscono come un forte schermo deflettente nei confronti dei raggi cosmici di minor energia. Da un lato ciò ha effetti benefici, in quanto impedisce l'arrivo sulla Terra di un eccessivo flusso dannoso per la vita, dall'altro mette invalicabili limiti di selezione al loro studio. Anche i satelliti in orbita circumterrestre o sul piano dell'eclittica hanno forti limitazioni, superate in parte dalla sonda Ulysses (che naviga fuori dal piano), e dai due Voyager. I raggi cosmici di maggior energia (molto pochi come si è detto) passano però praticamente indisturbati, e incontrando l'atmosfera terrestre degradano in fasci di altre particelle elementari (pioni π, muoni μ, kaoni K) e in luce ultravioletta (luce Čerenkov). Recentemente l'INFN ha iniziato lo studio sistematico di tale luce Čerenkov con una stazione al Roque de los Muchachos (Isole Canarie), la stessa località cioè dov'è situato il Telescopio nazionale Galileo (TNG). Al di fuori del Sistema solare i protoni dei raggi cosmici possono interagire con atomi, ioni e molecole del gas interstellare, causando la produzione di pioni neutri (π⁰) che, decadendo, producono l'emissione di radiazione γ di fondo. Gli elettroni relativistici dei raggi cosmici, spiraleggiando nel campo magnetico interstellare, emettono, con meccanismo di sincrotrone, una radiazione diffusa di onde radio. Dunque i raggi cosmici, la cui densità energetica nella Via Lattea equivale a quella della radiazione elettromagnetica, costituiscono un importante fattore nell'equilibrio di ionizzazione del mezzo interstellare. È da ricordare la loro importanza per la produzione di elementi leggeri (Li, Be, B), la cui abbondanza, per quanto piccola, non può essere spiegata con la fusione nucleare all'interno delle stelle; si deve invece invocare un meccanismo di rottura di nuclei pesanti da parte di particelle molto energetiche, quali sono i protoni cosmici con E>10 MeV. Tale meccanismo è noto col termine inglese spallation (it. spallazione).

Il collegamento tra a. e fisica delle particelle elementari è divenuto quindi sempre più importante, non solo per lo studio dei raggi cosmici in se stessi, ma anche per chiarire varie proprietà della Via Lattea e, infine, delle prime fasi evolutive dell'Universo (v. oltre).

Astronomia dall'ultravioletto all'infrarosso. - La banda spettrale con lunghezza d'onda λ tra circa 100 e circa 2500 nm, dal vicino UV al vicino IR, è quella che possiamo considerare ormai tradizionale per l'osservazione astronomica, pur se da terra è accessibile solo la zona con λ≥320 nm: le radiazioni con λ minori sono infatti assorbite dall'atmosfera terrestre e si osservano con razzi e satelliti.

Due satelliti hanno dominato la ricerca astronomica UV nell'ultimo ventennio: l'International Ultraviolet Explorer (IUE) e l'Hubble Space Telescope (HST). Il satellite IUE è stato realizzato e messo in operazione come un'impresa congiunta tra le Agenzie spaziali americana NASA, europea ESA e inglese SERC. Lanciato nel gennaio 1978, è rimasto operativo per oltre 18 anni, essendo stato spento nel settembre 1996 purtroppo per mancanza di fondi e non di interesse scientifico. L'IUE era un satellite spettroscopico, coprente la zona spettrale da 116 nm sino a 340 nm, cioè la zona propriamente detta del vicino UV, in pratica dalla riga Ly-α dell'idrogeno sino al blu. Nonostante le dimensioni dello specchio (appena 45 cm), la sua efficienza è stata altissima, anche in virtù di un'orbita geosincrona che permetteva lunghi tempi di integrazione del segnale sul rivelatore, di tipo televisivo a conteggio di fotoni; il satellite veniva controllato per 16 ore dal Goddard Space Flight Center negli USA, e per le altre 8 ore da Villafranca in Spagna. Circa 3000 astronomi di 25 paesi hanno così studiato 10.000 astri diversi, dai corpi del Sistema solare sino ai quasar, lasciando un archivio preziosissimo e liberamente consultabile di oltre 120.000 spettri. Moltissime le osservazioni effettuate dall'IUE per primo, quali quelle riguardanti lo zolfo sulle comete, le stelle calde compagne di variabili Cefeidi, le cospicue perdite di massa da vari tipi di stelle, l'identificazione della stella progenitrice della supernova 1987A, l'eccesso di UV nel nucleo di galassie ellittiche, la curva di luce ultravioletta di nuclei galattici attivi e la determinazione delle dimensioni della regione emettente.

Il satellite HST è impresa NASA ma con forte partecipazione ESA. Il telescopio ha lo specchio primario di 2,4 m di diametro, in configurazione Ritchey-Chrétien con apertura relativa f/13. Il piano focale è accessibile a 6 strumenti che possono essere cambiati periodicamente. Infatti l'orbita dell'HST (pressoché circolare a 550 km) è sufficientemente bassa da poter essere raggiunta dalla navetta spaziale Shuttle: in tal modo ogni pochi anni vengono compiute visite umane di manutenzione ordinaria e straordinaria. Tra le operazioni più importanti compiute dopo il lancio, avvenuto nel 1991, si annoverano la sostituzione dei pannelli solari, l'installazione di un dispositivo per correggere il difetto di aberrazione sferica dello specchio primario, scoperto solo in orbita, il ripristino della quota originaria di volo che diminuisce lentamente per effetto dell'attrito con la sia pur tenue atmosfera terrestre, la sostituzione di vari strumenti e memorie di massa. Al 1997, la strumentazione di bordo comprendeva: il sistema di guida fine, con cui è possibile effettuare anche osservazioni di tipo astrometrico, una camera per immagini a CCD (v. oltre) di seconda generazione (WFC2; WFC = Wide Field Camera), la camera a conteggio di fotoni ESA per oggetti deboli FOC (Faint Object Camera), la camera per il vicino IR e spettrografo a molti oggetti NICMOS, lo spettrografo e camera per immagini STIS. Altra strumentazione è in fase di costruzione per rimpiazzare l'esistente con cadenza circa biennale. L'HST si caratterizza essenzialmente per la straordinaria qualità delle immagini, prossima al voluto limite teorico della diffrazione grazie alla citata correzione dell'aberrazione sferica: il telescopio è in grado di concentrare l'80% dell'energia luminosa di una sorgente puntiforme, all'infinito, in un dischetto di diametro circa 30 μm, mentre il sistema di guida mantiene l'asse ottico fisso in una data direzione a meglio di 0,007 secondi d'arco per un tempo continuativo sino a 10 ore. La vita utile dell'HST è prevista sino al 2010. È in fase di studio (1998) un telescopio spaziale di 8 m di diametro (Next Generation Space Telescope, NGST), con specchio segmentato a petali ripiegati in fase di lancio, dedicato all'IR per ricerche essenzialmente di tipo cosmologico e di planetologia al di fuori del Sistema solare, che potrebbe vedere la luce prima di tale data. Il NGST dovrebbe orbitare molto all'esterno dell'orbita terrestre, probabilmente nel punto lagrangiano esterno L2 del sistema Terra-Sole, in modo da minimizzare la luce diffusa dalla polvere interplanetaria.

Per quanto riguarda i telescopi terrestri, l'ultimo ventennio ha visto il completamento di una serie di telescopi di 4 m di diametro e l'avvio della costruzione di nuovi strumenti della classe da 8 a 10 m. I primi hanno aperto la strada a varie soluzioni innovative, tra cui lo sviluppo di tecniche per lavorare con eccellente precisione specchi asferici e di grande apertura. Segnaliamo in particolare il New Technology Telescope (NTT) dell'ESO (European Southern Observatory) a La Silla in Chile, con la prima applicazione dei concetti di ottica attiva, e il quasi gemello italiano TNG, già citato, entrambi con specchio primario di diametro 3,6 m e apertura f/2,2, e configurazione complessiva a 3 specchi Ritchey-Chrétien f/11. L'ottica attiva è divenuta patrimonio di quasi tutti i telescopi recenti; le caratteristiche principali sono le seguenti: lo specchio primario è reso sufficientemente flessibile da consentire la deformazione della sua configurazione, mentre lo specchio secondario (ed eventualmente il terziario) hanno dispositivi di movimentazione rispetto all'asse ottico del telescopio. In questo modo un analizzatore di fronte d'onda può minimizzare le aberrazioni (statiche, o lentamente variabili a seconda dell'orientamento del telescopio o delle condizioni ambientali) della configurazione, cioè sfuocamento, aberrazione sferica, coma, astigmatismo, disallineamento. Sui telescopi della classe 4 m si sono anche effettuate, con grande successo, le prime prove di correzione della turbolenza atmosferica (seeing). Con tale tecnica, detta di ottica adattiva, si interviene su un sistema di specchi di piccole dimensioni (tipicamente una decina di centimetri), movimentabili e deformabili a frequenze confrontabili con quelle della turbolenza stessa, cioè tra 10 e 1000 Hz. La bontà della correzione dipende da molti fattori, tra cui lo splendore di una stella di confronto, la qualità stessa del seeing di partenza e la lunghezza d'onda di osservazione. Nel vicino IR la correzione può fornire, almeno in prossimità dell'asse ottico del telescopio (cioè sul cosiddetto campo isoplanatico, la cui estensione può arrivare al primo d'arco) immagini al limite della diffrazione ottica e confrontabili con quelle dell'HST. Un altro modo di superare i limiti di turbolenza è quello di fare una serie di immagini di brevissima posa (qualche centesimo di secondo) attraverso filtri spettrali molto stretti e con telescopi di grande lunghezza focale. Questa tecnica è detta di interferometria speckle, dato che sfrutta l'interferenza sul piano focale di raggi che arrivano da ciascuna cella di seeing sull'apertura dello specchio primario. La stella produce in tal modo in ogni immagine un gran numero di macchioline luminose il cui diametro è quello della figura di diffrazione.

La tecnica per costruire specchi di 8÷10 m si è sviluppata in due direzioni, quella degli specchi monolitici e quella degli specchi segmentati. La prima strada a sua volta si è divisa in due, quella dell'ESO di costruire specchi estremamente sottili per i 4 telescopi di 8 m del Very Large Telescope (VLT), e quella del Large Binocular Telescope (LBT, 2 specchi di 8,2 m di apertura a f/1,4 installati in un'unica montatura meccanica; a tale impresa partecipa anche l'Italia insieme a università americane), di specchi a nido d'ape di maggior spessore, praticamente rigidi ma di basso peso. La tecnica degli specchi segmentati è stata applicata con grande successo nei due telescopi dell'Università di California denominati Keck, la cui apertura di 10 m è realizzata con 36 specchi esagonali di diagonale 1,8 m. Questi grandi telescopi presentano varie altre novità tecnologiche: per es., sul VLT sono utilizzati secondari leggerissimi di carburo di silicio; sul LBT è previsto uno specchio secondario totalmente adattivo su tutta la sua apertura. Citiamo anche l'uso di fibre ottiche per portare sulla fenditura dello spettrografo contemporaneamente un gran numero di oggetti presenti nel campo di vista.

I telescopi terrestri di 4÷8 m hanno significativi vantaggi sull'HST nelle bande accessibili da terra, in particolare per il maggior diametro D, che consente la raccolta di un numero assai più ampio di fotoni, essenziali per scopi spettroscopici. Inoltre, soprattutto nel vicino IR, la tecnica dell'ottica adattiva consente immagini di pari qualità ottica, dato che la dimensione angolare della figura di diffrazione è funzione di λ/D, con λ lunghezza d'onda. Infine, i telescopi terrestri possono anche essere utilizzati in configurazione interferometrica, combinando i fasci luminosi provenienti da più aperture distinte in un'unica immagine. Il vantaggio è di dare una risoluzione angolare determinata non dal diametro del singolo specchio ma dalla distanza tra i due o più specchi, purché si mantenga la coerenza dei diversi fasci di luce; il che è un requisito di estrema complessità tecnologica. È noto che le prime esperienze di interferometria astronomica furono effettuate da A.A. Michelson nei primi anni Venti; ne risultò la determinazione del diametro angolare, e quindi del raggio in km, conoscendo la distanza, di varie stelle giganti, tra cui Betelgeuse: questa ha tenuto il primato di stella più grande per oltre 75 anni, con diametro apparente di 0,044". Dal 1996 tale primato è passato alla gigante rossa R Doradus; le osservazioni sono state condotte coprendo lo specchio primario del NTT con una maschera producente 21 sistemi di frange interferometriche; da qui si è potuto misurare un diametro apparente di 0,057", che alla distanza della stella significa un raggio di 2,5∙10⁸ km. La configurazione interferometrica è già possibile per i due Keck, e sarà attuata in un prossimo futuro per i 4 telescopi VLT, con una base Δ di circa 100 m. I due specchi del LBT sono addirittura già in configurazione adatta, essendo montati su un'unica incastellatura meccanica con base di circa 20 m. Naturalmente si potranno costruire interferometri anche nello spazio, ma al momento non v'è ancora un progetto completamente approvato.

Oltre alla tecnica di costruzione degli specchi e all'adozione di ottiche attive e adattive, i telescopi moderni pongono un'estrema cura sia nella scelta del sito che nel controllo dell'ambiente entro la cupola e nello spazio immediatamente adiacente, per non aggiungere turbolenza a quella naturale dell'aria imperturbata. Alcuni vantaggi di una scelta oculata sono evidenti; altri sono più nascosti ed esigono un'analisi approfondita della propagazione dell'onda e della formazione dell'immagine in un mezzo turbolento qual è l'aria. Basti dire che la correzione fornita dall'ottica adattiva è migliore se già il seeing naturale è buono, e che aumenta con λ/⁵. La correzione si esegue mediante il confronto del fronte d'onda proveniente dall'oggetto in esame rispetto a quello di una stella vicina. Purtroppo in una data area di cielo il numero di stelle brillanti in grado di fornire un buon fronte di riferimento è sempre molto piccolo, e talvolta è proprio nullo; una soluzione scaturita da applicazioni militari è quella di crearsi una stella artificiale, che si muova in cielo assieme al puntamento del telescopio. In pratica si illumina per mezzo dello stesso telescopio, con un potente fascio laser alla lunghezza d'onda del doppietto giallo del sodio, lo strato di sodio atmosferico a quota di circa 90 km, producendo una stella artificiale gialla. Si può dimostrare che essendo tale 'stella' a distanza finita, a parità di altre condizioni la correzione del seeing è migliore su un telescopio di 4 m che su uno di 8 m. Questa soluzione laser è ancora alla frontiera della tecnologia esistente, dato che, per es., l'efficienza di conversione tra potenza elettrica e potenza ottica irraggiata non supera lo 0,1%, mentre sono necessarie decine di watt ottici per una buona stella artificiale. Tuttavia sono in corso notevolissimi sforzi in varie istituzioni (tra cui il TNG), per cui è pensabile che nei prossimi anni si ottengano risultati quasi di routine.

I siti migliori a terra sono sul versante ovest della Cordigliera delle Ande, in Chile (vari siti, tutti a quota sui 2400 m e a poche decine di km entroterra, sfruttati da europei e americani, quali La Silla, Cerro Tololo, Cerro Pachón, Cerro Paranal); sulla sommità del vulcano spento di Mauna Kea (Hawaii), a 4200 m di quota, ove sono situati molti telescopi americani e europei e il giapponese Subaru; nelle Isole Canarie (Spagna), ove sul Roque de los Muchachos (isola di La Palma) a 2400 m di quota sono situati i telescopi inglesi e l'italiano TNG, mentre a Izaña (isola di Tenerife) sono situati altri telescopi, in prevalenza solari, tra cui l'italo-francese Themis.

Per quanto riguarda i rivelatori dell'a. tradizionale, dall'UV sino a circa 1000 nm, il dispositivo di elezione è divenuto il Charge Coupled Device (CCD), che ha soppiantato le emulsioni fotografiche, i fotomoltiplicatori e gli intensificatori di immagini. Il CCD è all'atto pratico una matrice bidimensionale definita su un substrato di silicio (cioè un chip) con elementi di immagine (pixel), le cui dimensioni lineari sono tipicamente attorno a 20 μm e il cui numero può essere di 1000×1000, o maggiore. I vantaggi del CCD sono l'eccellente linearità di risposta alla luce su varie decadi, l'efficienza quantica, che soprattutto nella zona del visibile-rosso arriva all'80%, il rumore di lettura equivalente a pochi fotoni a pixel, la discreta facilità di uso. Vi sono anche svantaggi: innanzitutto le piccole dimensioni dell'area sensibile, cui si può ovviare entro certi limiti mediante composizione a mosaico di vari chip; per es., sul TNG si usa un mosaico di 2×2 chip da 2024×2024 pixel di 15 μm; tuttavia sui telescopi di tipo Schmidt le emulsioni fotografiche sono ancora insostituibili. Poi la lettura seriale, che impone tempi lunghi per visualizzare l'immagine (tipicamente servono vari microsecondi per pixel per avere basso rumore); la necessità di raffreddare il dispositivo per abbassare il rumore termico intrinseco sui lunghi tempi di posa; una difficile e non sempre affidabile tecnologia di sensibilizzazione nel blu e UV, che si ottiene assottigliando il chip e illuminandolo dal retro, oppure depositandovi uno strato superficiale di composti fosforosi. Talvolta si ricorre all'artificio di accoppiare CCD a intensificatori di immagine frontali. A lunghezze d'onda λ>1000 nm i chip al silicio non risultano sensibili e si ricorre a substrati diversi, tipo il HgCdTe, sempre divisi in una struttura a pixel di numero e dimensioni confrontabili con quelli dei CCD. Anche la modalità di lettura e il raffreddamento necessari al funzionamento sono all'atto pratico molto simili.

La banda dell'IR vero e proprio inizia a λ≥2500 nm, dove l'emissione termica e le bande molecolari di assorbimento dell'atmosfera terrestre causano notevoli problemi o addirittura l'impossibilità di osservare gli astri. È interessante rilevare che nella zona tra 9 e 20 μm la quantità di luce solare riflessa dalla Terra supera quella di Giove nonostante diametro assai minore, causa la differente composizione delle rispettive atmosfere; un ipotetico osservatore esterno vedrebbe pertanto in tale banda meglio la Terra che Giove. A parte qualche finestra trasparente ma accessibile solo da siti particolari ad alta quota, le osservazioni IR si devono pertanto compiere da palloni aerostatici o, soprattutto, da satelliti. Di questi descriviamo qui solo il recente Infrared Satellite Observatory (ISO) dell'ESA, successore del pionieristico Infrared Astronomical Satellite (IRAS, della NASA e con partecipazione di Inghilterra e Olanda), che osservò quasi tutto il cielo in 4 bande tra 8 e 120 μm. In generale ogni telescopio spaziale per IR dev'essere raffreddato ben sotto 70 K per ridurre fortemente la propria emissività termica; a questo punto i fattori cosmici limitanti la sensibilità sono le emissioni dalle polveri, cioè da quella interplanetaria (che causa la ben nota luce zodiacale), da quella interstellare e da un'ancora poco conosciuta componente diffusa tra le galassie. L'ISO è pertanto racchiuso in un grande contenitore dewar riempito di 2300 litri di He superfluido che raffredda telescopio e strumentazione a circa 2 K. Si prevedeva che questa quantità di He durasse per 18 mesi dopo il lancio, avvenuto il 17 nov. 1996 da Kourou (Guiana Francese) con un razzo Ariane 4 (l'orbita è fortemente ellittica, con perigeo a 1000 km e apogeo a 70.600 km); tuttavia l'efficienza del sistema si è dimostrata così grande che la vita è stata di oltre 10 mesi superiore a tale previsione: la fine dell'ISO è avvenuta nell'aprile 1998. Il telescopio ha uno specchio di diametro 60 cm, limitato dalla diffrazione a λ≥6 μm, in configurazione Ritchey-Chrétien, e 4 strumenti di piano focale (una camera per immagini, un fotopolarimetro e due spettrografi), alla cui costruzione hanno contribuito vari istituti italiani. La necessità di raffreddare mediante evaporazione di elio è al momento un limite tecnico fortissimo, che si sta cercando di superare mediante dispositivi diversi che assicurino una più lunga vita al telescopio. Il 21° secolo vedrà un grande sviluppo in questo cruciale settore.

Anche da terra comunque si possono fare significative osservazioni IR; segnaliamo in particolare che il Consiglio nazionale delle ricerche utilizza, tramite l'Osservatorio di Arcetri, un telescopio di 1,5 m ottimizzato per tale banda e denominato TIRGO (Telescopio IR del Gornergrad). Situato vicino a Zermatt (Svizzera), a 3450 m di quota, il telescopio ha varie caratteristiche che lo hanno reso progetto pilota, tra le quali la possibilità di far oscillare ad alta frequenza lo specchio secondario per modulare ed eliminare il fondo termico.

Dai telescopi spaziali si sono estese a quelli terrestri nuove modalità operative, in particolare il controllo remoto, o controllo a distanza, e la formazione e gestione di archivi; si è già citata l'importanza dell'IUE a tale riguardo. Oggi e sempre più nel prossimo futuro gli astronomi avranno accesso al controllo remoto di telescopio e a osservazioni in tempo reale dal loro studio, potranno consultare quanto fatto in precedenza, condurre analisi statistiche su un'ingente mole di osservazioni ben calibrate. È dunque fondamentale lo sviluppo di veloci ed economiche reti informatiche che colleghino tutti i centri di ricerca.

Sistema solare

Molte scoperte sui corpi del Sistema solare sono state effettuate da sonde naviganti nei pressi di un particolare pianeta o di una data cometa (quali Mariner, Voyager, Giotto) o poste in particolari punti di osservazione, quale la SOHO per il Sole (v. spazio, esplorazione dello, App. V e in questa Appendice, in cui compare anche solare, sistema). Numerose novità sono venute anche da osservazioni fatte da terra o da satelliti in orbita circumterrestre. Tra questi è importantissimo il già citato HST, la cui eccellente qualità di immagine, accoppiata ai molti anni di funzionamento, consente una vera e propria 'meteorologia' dei pianeti. L'HST è stato fondamentale, per es., per vedere gli effetti dell'impatto della frammentata cometa di Schoemaker-Levy sull'atmosfera di Giove, nel 1994.

Si sono fatti grandi progressi nella comprensione della formazione del Sistema solare. Le presenti teorie ipotizzano che Sole e pianeti si siano formati assieme circa 4,5 miliardi di anni fa (una parte dell'evidenza di tale età deriva dalla datazione delle rocce lunari) dalla condensazione di una nebulosa protosolare di polveri e gas. La combinazione della forza gravitazionale, della rotazione intrinseca nel collasso, della dissipazione di energia per attrito interno alla nube, hanno determinato la geometria complessiva del Sistema. La gran parte della massa è rimasta nel Sole, mentre quasi tutto il momento angolare è distribuito nei pianeti. La differenziazione chimica e strutturale tra pianeti interni rocciosi e pianeti esterni gassosi suggerisce che il meccanismo di formazione sia l'accrescimento di particelle solide (planetesimi) in unità via via più grandi a spese dell'ambiente circostante. I pianeti interni si formarono per accrescimento diretto di particelle ricche di silicati e povere di ghiacci, mentre all'esterno si aveva una grande abbondanza di planetesimi ghiacciati. La grande massa di Giove e di Saturno contribuì velocemente a rimuovere gran parte delle particelle in tale zona del Sistema solare. Infatti tutti i corpi esaminati con sufficiente dettaglio (si pensi alla Luna o a Mercurio) mostrano tracce di craterizzazione per un iniziale bombardamento, da frammenti di dimensioni molto variabili, che praticamente si esaurì circa 1,3 miliardi dopo la formazione. Oltre al bombardamento, la storia dei pianeti è stata dominata dal raffreddamento interno, la cui scala di tempo è determinata anche dalla massa, in quanto i pianeti di massa minore si raffreddano prima di quelli di massa maggiore. Ancor oggi, Giove emette più radiazione di quanta ne riceva dal Sole, indice certo di una sorgente interna di calore, e lo stesso fanno gli altri pianeti gassosi. Presenza di vapor d'acqua è stata scoperta su Giove, e più recentemente - dall'ISO - nelle atmosfere di Saturno, Urano e Nettuno, ma pare difficile pensare che quest'acqua sia quella originariamente presente, che dovrebbe essere intrappolata a quote più basse. Una possibile spiegazione è che sia acqua portata da impatti cometari.

La distribuzione spaziale delle comete mantiene una traccia della struttura originale della nebulosa protostellare. Infatti le comete 'nuove', che si muovono su orbite di grandi dimensioni e grandi periodi, tendono a provenire da qualunque direzione e con verso sia concorde che discorde, come cioè se fossero distribuite su una sorta di guscio grosso modo sferico a grande distanza dal Sole (nube cometaria di Oort, la cui distanza media dev'essere attorno alle 70.000 unità astronomiche, UA, e con spessore di decine di migliaia), da cui cadono verso il Sole in virtù di qualche perturbazione orbitale. La famiglia di comete molto più vicine al Sole, su orbite di dimensioni di qualche UA e con periodi di pochi anni, evidentemente sono il risultato della 'cattura' gravitazionale da parte di Giove o Saturno. A distanze intermedie, appena dopo l'orbita di Nettuno, si è scoperta recentemente una forte concentrazione di asteroidi e comete, la cosiddetta fascia di Kuiper, di cui ogni anno si scoprono nuovi membri, grandi anche qualche centinaio di km. La massa di questa fascia eccede di molte volte quella della fascia di asteroidi tra Marte e Giove. Lo studio degli asteroidi ha avuto un rinnovato impeto da quando si è scoperta una popolazione di oggetti la cui orbita intercetta quella terrestre, con un non trascurabile rischio di impatto catastrofico anche all'epoca presente. Tra i nuovi dati più significativi, la misura dei diametri ottenuta dal satellite infrarosso IRAS e, in alcuni casi favorevoli, la risoluzione di dettagli superficiali anche da radar terrestri.

Negli anni Ottanta la problematica della formazione dei sistemi planetari attorno alle altre stelle ha avuto un importantissimo contributo da parte del già citato IRAS, che ha scoperto che circa la metà delle stelle di tipo solare esaminate sono accompagnate da dischi polverosi proto-planetari. Nel 1994 immagini della nebulosa di Orione ottenute con l'HST hanno dimostrato che un gran numero di stelle molto giovani (età stimata in meno di 10⁶ anni) è accompagnato da simili dischi di polvere. Per i pianeti di altre stelle, v. oltre.

Stelle e loro pianeti

Attorno al 1913 E. Hertzsprung e H.N. Russel associarono le luminosità delle stelle alla loro temperatura superficiale, evidenziando le zone occupate dalle stelle normali (dette anche nane; la zona occupata dalle nane si dice anche sequenza principale, o di classe di luminosità V), giganti (classe iii), supergiganti (classe i), nane bianche, e ponendo le basi osservative di tutte le teorie della struttura ed evoluzione stellare. Usando tale relazione, detta dalle iniziali dei due autori diagramma H-R, negli anni Cinquanta W. Baade riconobbe l'esistenza di due popolazioni stellari, una detta di Popolazione I, costituita da stelle con caratteristiche simili a quelle degli ammassi stellari aperti (Iadi, Pleiadi ecc.), con luminosissime stelle blu, composizione chimica solare, età generalmente non superiore a qualche centinaio di milioni di anni, e stelle di Popolazione II, con caratteristiche analoghe a quelle degli ammassi globulari (M3, 47 Tucanae ecc.), cioè stelle luminose rosse, di composizione chimica generalmente deficiente di elementi più pesanti di H ed He (elementi detti in gergo astrofisico 'metalli'), ed età che può arrivare a molti miliardi di anni. La Popolazione ii è in effetti più vecchia, mentre la Popolazione i deriva da generazioni stellari successive, più vicine alla nostra epoca. Le due popolazioni hanno poi anche una ben diversa distribuzione spaziale nella Via Lattea, la prima essendo tipica dei bracci di spirale, e anzi essendone il miglior tracciante in luce blu, la seconda distribuita più uniformemente nel disco e nell'alone fuori dal piano galattico. Il diagramma H-R può essere costruito all'atto pratico ponendo magnitudini assolute in ordinata e indici di colore o classe spettrale in ascissa; la trasformazione di queste quantità osservabili in quelle intrinseche alla stella (rispettivamente luminosità e temperatura superficiale) passa attraverso varie assunzioni teoriche non sempre ben conosciute. L'incertezza su tali trasformazioni è gradualmente diminuita.

Le osservazioni dallo spazio, per es., hanno consentito di misurare direttamente, e non solo di ipotizzare, l'ammontare di energia emessa nell'UV dalle stelle calde, e nell'IR dalle stelle fredde. Inoltre il satellite Hipparcos, che ha concluso la sua vita utile nel 1996, ha allargato l'orizzonte delle parallassi trigonometriche di oltre 3 volte (l'accuratezza di Hipparcos è di 2÷3 millesimi di secondo d'arco), più che decuplicando il volume della Via Lattea su cui ricercare stelle da usarsi come indicatori secondari di distanza tramite le parallassi fotometriche e spettroscopiche. Tra questi indicatori rivestono particolare importanza le variabili di tipo Cefeidi, per l'eccellente calibrazione in luminosità intrinseca grazie alla relazione tra luminosità stessa e periodo, e per la facile identificabilità anche su galassie distanti.

Possiamo affermare quindi che il quadro complessivo della struttura interna e dell'evoluzione nel tempo delle stelle di diversa massa (dalle più massicce, con massa di circa 30 M, alle più leggere, con massa intorno a 0,1 M) sia ormai sufficientemente ben delineato, almeno per le stelle che evolvano a massa pressoché costante nel tempo. Le teorie sono in grado di seguire le prime fasi di contrazione gravitazionale di una nebulosa protostellare, il lungo periodo di stabilità in sequenza principale assicurato dalle reazioni termonucleari, di calcolare la struttura interna, di valutare i progressivi mutamenti di composizione chimica dovuti alla produzione di elementi via via più pesanti, sino alle ultime fasi come nana bianca o stella di neutroni o buco nero. La teoria è guidata da un lato da dati e modelli teorici relativi alle reazioni termonucleari, alle equazioni di stato e all'opacità della materia nelle peculiari condizioni dell'interno stellare, dall'altro dalle caratteristiche dei diagrammi H-R dei vari tipi di ammassi stellari (aperti e globulari) e dalla posizione in essi delle molte classi di stelle variabili, che si pongono come insostituibili ausili diagnostici delle fasi di disequilibrio meccanico e termico della struttura stellare. Per es., le variabili di tipo T Tauri, caratterizzate da forte eccesso di radiazione IR ma emettenti anche raggi X, con massa pressoché solare, sono stelle in formazione che ancora devono raggiungere la sequenza principale. All'altro estremo, le variabili di tipo Mira, pure molto intense in IR, rappresentano stadi post-sequenza in cui la stella gigante perde una notevole quantità di massa che si dispone attorno all'astro in forma di 'gusci' (shell) gassosi. I vari luoghi occupati dalle stelle nel diagramma H-R visualizzano pertanto la 'traccia evolutiva' delle stelle di differente massa e composizione chimica.

Pur non potendo nemmeno accennare alle equazioni fondamentali, ricordiamo che la luminosità L di una stella si può esprimere in funzione della temperatura superficiale T e del raggio R (espressi in unità solari) mediante la relazione L=LR² T⁴, dove L è la luminosità del Sole. Il trasporto dell'energia dal centro verso la superficie è assicurato dalla radiazione, oppure dalla convezione o infine dalla conduzione; in ogni data zona stellare predomina uno di questi, per es. nel Sole quello radiativo per gran parte della struttura interna, la convezione nei 20.000 km prossimi alla superficie. Se il trasporto è principalmente radiativo si ha una rimarchevole relazione luminosità-massa, L=LMα, con α 3, cui obbediscono praticamente tutte le stelle di sequenza principale; la stella tende a mantenere costante nel tempo la luminosità L, aggiustando T in funzione di R. Se il trasporto è convettivo, come nella contrazione iniziale dalla nebula protostellare, la stella tende a mantenere costante T, e la luminosità segue le variazioni di R.

Non tutto è chiaro però, nemmeno su stelle normali e singole come il Sole; oltre al già citato deficit di neutrini, tra i punti tradizionalmente più difficili da descrivere per ogni teoria è lo studio del regime di convezione. Le recenti osservazioni della sonda SOHO provano infatti che il guscio solare esterno, di spessore intorno a 10.000 km, è sede di imprevisti movimenti su larga scala, vere e proprie correnti di materia. La SOHO, dalla sua posizione nel punto lagrangiano L1 tra Terra e Sole, fornisce dati ininterrotti sul campo di velocità della superficie visibile del Sole, contribuendo così in modo decisivo allo studio della struttura interna mediante l'analisi dello spettro di oscillazioni proprie (la meglio conosciuta avendo periodo di 5 minuti); questa moderna branca si dice eliosismologia, e viene gradualmente estesa ad altre stelle. Le prime prove sicure di oscillazioni simili a quelle solari furono ottenute nel 1994 sulla brillante stella η Bootis, misurando piccolissime variazioni di temperatura (pochi centesimi di grado) delle righe dell'H con periodi attorno a 20 min. La SOHO sta inoltre chiarendo uno dei maggiori interrogativi della fisica solare (che si applica anche ad altre stelle simili), cioè attraverso quali meccanismi la corona si scaldi a vari milioni di gradi mentre la fotosfera ha temperatura di appena 6000 K. Si è ottenuta evidenza infatti di una continua attività alla superficie sotto forma di piccoli anelli magnetici che emergono dagli strati sottostanti e interagiscono rapidamente producendo veri e propri 'cortocircuiti', con intense correnti elettriche che hanno energia sufficiente a giustificare il riscaldamento della corona sovrastante.

I satelliti come l'IUE hanno scoperto nuovi fenomeni, quali i caldi e densi venti gassosi emessi da vari tipi di stelle che hanno una profonda influenza non solo sull'evoluzione di quel dato astro (cade, per es., l'ipotesi di massa costante) ma anche sull'ambiente circostante, in particolare sull'eventuale stella compagna. In vari casi la materia trasferita dalla primaria sulla secondaria si dispone a forma di disco (disco di accrescimento), che è sede di fenomeni anche estremamente energetici manifestantesi in particolare nella banda dei raggi X (v. oltre) in funzione del potenziale gravitazionale.

La sequenza delle fasi finali della vita delle stelle di varia massa verrà discussa varie volte nel seguito, soprattutto per stelle più massicce del Sole, dato che vi sono associati fenomeni scoperti solo di recente e che verranno intensamente studiati nel prossimo futuro. Limitiamoci qui ad alcune considerazioni sul Sole. Alla superficie la sua composizione chimica è (in massa): 73% H, 25% He, 2% tutto il resto. Questa era anche probabilmente la composizione chimica alla fine della contrazione della protonebula, circa 4,5∙10⁹ anni orsono; la luminosità doveva essere il 70% dell'attuale, e il raggio il 90%, per cui il punto rappresentativo del Sole a questo 'tempo zero' nel diagramma H-R era lievemente diverso dall'attuale (i modelli teorici sono in grado di definire questa 'sequenza principale di età zero' per le stelle di differente massa). Quindi i pianeti erano riscaldati da un Sole un po' più piccolo di quello presente, ricevendo meno radiazione, ma essenzialmente di stessa temperatura. La contrazione della nebula avvenne dapprima in modo totalmente convettivo (T costante, L in rapida diminuzione con R, traccia pressoché verticale) con una costante di tempo di circa 10⁶ anni, e poi in modo radiativo a L costante e T crescente con costante di tempo di 2,5∙10⁷ anni (traccia pressoché orizzontale). Oggi, se le teorie sono corrette, l'abbondanza di H è calata al 38%; tra altri 5 miliardi di anni la temperatura al centro sarà salita a 2∙10⁷ K e l'H sceso al 2%. A questo punto la fusione di H in He sarà praticamente terminata, continuando soltanto in un sottile guscio alla periferia di un nucleo di He isotermo e inerte (servono temperature di almeno 10⁸ K per trasmutare He in C), e quindi la struttura subirà un brusco riaggiustamento, con contrazione rapida del nucleo (la costante di tempo è governata dalla gravità, costituendo il cosiddetto tempo di Kelvin-Helmholtz) ed espansione degli strati esterni: il Sole diverrà una gigante rossa. Da qui, attraverso una serie di stati non ben conosciuti (con una probabile fase di nebulosa planetaria), il Sole arriverà al suo stadio finale di nana bianca, con raggio circa l'80% di quello terrestre, stessa massa dell'attuale e composizione chimica dominata dall'He. Lo stadio di nana bianca può essere compreso solo ricorrendo all'equazione di stato della materia degenere (per la quale la statistica è quella di Fermi-Dirac, che deriva direttamente dal principio di esclusione di Pauli); a densità intorno a 10¹⁰ kg/m³ gli elettroni divengono degeneri nel gas totalmente ionizzato. Non potendo essere ulteriormente compressi, si muovono liberamente in un rigidissimo cristallo ionico trasportando il calore verso l'esterno per conduzione. Le nane bianche obbediscono pertanto a una relazione massa-raggio tale che maggiore è la massa, minore è il raggio: l'evoluzione nel tempo è pertanto un lento raffreddamento a raggio costante. Le nane bianche hanno un limite superiore di massa, cioè 1,4 M per una composizione chimica di tutto He, 1,25 M per tutto Fe, al disopra del quale la pressione interna non mantiene più stabile la struttura: ogni stella con massa maggiore di tale limite di Chandrasekhar deve diventare una stella di neutroni (v. oltre). Il quadro qui delineato dev'essere convenientemente modificato a seconda della massa stellare, come si accennerà in seguito. Mentre per stelle nettamente più leggere in pratica non succederà nulla (il tempo in sequenza principale eccede la decina di miliardi di anni), per quelle più pesanti si arriverà a fasi di stella di neutroni o di buco nero, cioè a fasi collassate in cui l'energia gravitazionale è dello stesso ordine di grandezza della massa a riposo dei nucleoni.

È nota l'importanza delle supernovae (SN), variabili violentemente esplosive, per conoscere le ultime fasi della vita stellare; se ne distinguono in effetti due tipi fondamentali: le SN i e quelle di tipo ii, con numerose varianti. Le SN ia, costituenti la variante principale, derivano da progenitrici vecchie di Popolazione ii, cioè da una binaria che inizialmente aveva entrambe le stelle di forse 5 M evolutasi poi attraverso forte perdita di massa in una coppia di nane bianche con massa più o meno pari a quella del Sole; le due orbitano a piccola distanza reciproca, perdendo momento angolare come onde gravitazionali e scambiandosi massa, sino a che l'interazione diviene di tipo esplosivo. Le SN ii si originano da stelle giovani, più massicce di 8 M e di Popolazione i (una piccola frazione delle SN i, denotate con SN ib, sembrano simili alle SN ii con progenitori verosimilmente massicci che hanno perso il loro involucro di idrogeno, tipo le stelle di Wolf-Rayet); ne descriveremo altre caratteristiche nella sezione sui raggi X. Le SN ia, nel cui spettro non si osserva idrogeno ma ioni Fe⁺ e Fe⁺⁺, hanno una curva di luce molto regolare, con un rapido aumento di splendore sino a M=−18,5 (circa 10⁴²J/s), seguito da un declino che lo dimezza ogni due mesi, caratteristiche che le rendono utilissimi indicatori di distanza per le galassie lontane. Le SN ii hanno invece forti righe di idrogeno, e due varianti principali di curve di luce, una con e una senza plateau dopo il massimo; anche se la luminosità ottica al massimo è inferiore di un fattore 5 a quella delle SN i, l'energia complessiva coinvolta nell'esplosione è molto simile, e anzi può essere superiore nel tipo ii; dopo alcuni mesi dall'esplosione le SN ii divengono forti radiosorgenti. Entrambi i tipi lasciano nello spazio circostante una nebulosa diffusa, o resto di supernova (SuperNova Remnant, SNR) che spesso è visibile sia nel radio che in X e talvolta anche nel visibile; i gas sono espulsi con velocità iniziali che possono arrivare a 20.000 km/s. Tuttavia le SN i non lasciano una stella compatta centrale mentre le SN ii sì.

Nel febbraio nel 1987 apparve una SN nella Grande Nube di Magellano, che costituì la più imponente esplosione stellare dopo la supernova galattica osservata da Keplero nel 1604. La SN, classificata di tipo ii pur se con varie anomalie, è stata quindi oggetto di intensissimi studi con tutti i telescopi disponibili. L'IUE, per es., permise di accertare senza ombra di dubbio che la stella progenitrice era una gigante blu di tipo spettrale B3 di forse 20 M iniziali, e non una supergigante rossa come ci si poteva aspettare (a conferma dell'osservazione che il passaggio da modelli teorici a dati di osservazione non è sempre facile, che già aveva espulso, circa 20.000 anni prima, un anello gassoso di massa forse 5 M. Proprio quest'espulsione può essere la causa della discrepanza tra fase predetta di gigante rossa e fase osservata di gigante blu della progenitrice e di altre anomalie. Vari rivelatori di neutrini, in particolare quello di Kamiokande in Giappone, mostrarono un notevole aumento di flusso neutrinico in coincidenza con l'esplosione (in effetti i neutrini arrivarono sulla Terra alcune ore prima della scoperta ottica), forse la prima prova diretta della sostanziale correttezza dei modelli della struttura interna delle stelle. La curva di luce nei primi 100 giorni (iniziale rapida diminuzione di splendore seguita da un lento aumento durato 78 giorni e poi da una seconda fase di discesa) è stata interpretata come la manifestazione del decadimento di 0,07 M di ⁵⁶Ni in ⁵⁶Co (processo che ha vita media di 6,1 giorni), che a sua volta decade in 78 giorni in ⁵⁶Fe; questo ⁵⁶Fe andrà ad arricchire il mezzo interstellare circostante. Una riga spettrale del ⁵⁶Co nella zona dei raggi gamma (v. oltre) fu effettivamente osservata nell'agosto 1987 dal satellite NASA Solar Maximum Mission (SMM). Nel 1997, dieci anni dopo l'esplosione, l'HST ha osservato che i gas più veloci hanno raggiunto la parte interna del primitivo anello, con cui collidono a velocità di circa 15.000 km/s dando origine a forti righe dell'idrogeno nell'UV; a partire dal 2005 questi gas veloci arriveranno nella parte più densa dell'anello originario e certamente si assisterà a qualche altro interessante fenomeno in tutto lo spettro elettromagnetico. Non v'è ancora evidenza invece dell'oggetto compatto centrale, ma anch'esso potrebbe manifestarsi nell'immediato futuro.

Si aspetta con ansia l'esplosione di una SN galattica, per così dire 'in ritardo' rispetto alle previsioni statistiche, in modo da poter utilizzare l'imponente parco strumentale a disposizione, tra cui anche i rivelatori di onde gravitazionali (quale Auriga dell'INFN a Legnaro), che dovrebbero essere emesse in un rapido collasso non radialmente simmetrico.

Un'altra classe importante di oggetti associati alle ultime fasi di vita stellare e talvolta associati con le SN ii sono le pulsar (pulsating radio sources), scoperte negli anni Sessanta a Cambridge appunto a frequenza radio. Il numero di radiopulsar conosciute eccede il migliaio, con frequenze di pulsazione dall'Hz sino al kHz; tra le più famose è quella all'interno della Nebulosa del Granchio (in ingl. Crab Nebula; è il resto di una SN ii esplosa nel 1054 e situata nella costellazione del Toro), nebulosa che a sua volta è un singolarissimo laboratorio di astrofisica, in cui avviene tutta una serie di fenomeni che hanno permesso di capire vari fenomeni su tutto lo spettro elettromagnetico dal radio ai gamma, e anche nel campo dei raggi cosmici. La pulsar nel Granchio ha periodo di circa 33 ms, e si trova a coincidere con una delle due stelle da tempo identificate nel centro della nebulosa. Tecniche particolari mostrano che anche nel dominio visibile la stella si 'accende' e si 'spegne' regolarmente, con lo stesso periodo osservato nel radio. Bastano considerazioni elementari per capire che una stella pulsante con periodi così corti deve avere densità altissima (v. anche oltre: Astronomia X e gamma); infatti il periodo di pulsazione è inversamente proporzionale alla radice quadrata della densità ϱ, da cui si può calcolare che le pulsar hanno massa pari a quella solare (o lievemente maggiore), densità pari a quella dei nuclei atomici, o meglio dei neutroni (circa 1000 volte la densità della nane bianche), e conseguentemente raggi di circa 10 km. Le pulsar sono pertanto la materializzazione di stelle di neutroni. Si è già rilevato che se la massa della stella supera il limite di Chandrasekhar di 1,4 M la struttura collassa sino a raggiungere densità che provocano la neutronizzazione della materia mediante decadimenti β inversi; per es., p+en+ν se l'energia supera circa 0,8 MeV, con il neutrone che rimane stabile a causa della degenerazione dell'equazione di stato della materia.

L'emissione di radiazione dalle pulsar avviene come luce di sincrotrone da elettroni relativistici strappati dalla superficie e accelerati da campi elettrici attraverso un meccanismo ancora non ben conosciuto, ma da cui si definiscono altre proprietà fondamentali delle pulsar, cioè un campo di induzione magnetica di altissima intensità (sino a 10⁸ T, circa 10¹² volte quello medio alla superficie del Sole) e la rotazione attorno al proprio asse con lo stesso periodo della pulsazione; tra asse magnetico e asse di rotazione vi deve essere un angolo piuttosto grande, tra 45° e 90°. La radiazione è emessa in uno stretto cono, per cui l'oggetto è visibile solo quando il cono è diretto nel verso giusto verso l'osservatore; si fa pertanto l'analogia con quanto si osserva in un faro. La continua perdita di energia fa sì che il periodo di rotazione gradualmente si allunghi (la pulsar rallenta), e in effetti si può calcolare che l'energia perduta per irraggiamento corrisponde alla perdita di momento angolare. Nel caso della pulsar nella Nebulosa del Granchio, il rallentamento è pari a 15 μs/anno. Le osservazioni hanno una precisione così alta che questi oggetti costituiscono un ideale orologio cosmico, utile magari in futuro per navigazione interstellare; tuttavia, proprio come negli orologi artificiali, talvolta si constatano improvvisi sbalzi di frequenza (in entrambi i sensi).

Le pulsar non si trovano solo isolate, talvolta si osservano in sistemi di due stelle (sistemi binari). Tra questi gioca un ruolo fondamentale la pulsar detta PSR 1913+16, con pulsazione di 59 ms, e in orbita attorno a un compagno invisibile (a sua volta stella di neutroni, ma non pulsar) con periodo di 0,32 giorni ed eccentricità, fortissima, di 0,62. La relatività generale prevede che un tale sistema binario emetta una gran quantità di energia sotto forma di onde gravitazionali; l'energia così perduta ha anche la conseguenza di una graduale diminuzione del periodo orbitale, circa 76 μs all'anno, nonché di un forte avanzamento del periastro (si misurano 4° all'anno; per confronto, l'avanzamento del perielio di Mercurio è di appena 43 secondi d'arco al secolo). Questa pulsar binaria costituisce pertanto finora la migliore prova osservativa dell'esistenza di tali onde.

La determinazione delle masse stellari, che è possibile effettuare in modo diretto applicando le leggi di Keplero a coppie di stelle legate gravitazionalmente, è da sempre un problema molto difficile, per la mancanza di un numero sufficiente di binarie ben risolte e con buona orbita. In effetti, stelle supposte in passato molto massicce si sono rivelate sistemi stellari multipli, ed è molto difficile trovare stelle con più di 50 M. Rimane ancora largamente inesplorato il dominio di masse tra quella delle stelle più leggere (0,1 M) e quella di Giove (0,001 M). Infatti la massa di un ipotetico corpo in queste due decadi non è sufficiente a innescare le reazioni nucleari, né si conoscono convincenti campioni di astri in grado di guidare la teoria di queste supposte nane brune. Il problema viene affrontato, con varie tecniche osservative, da entrambi i lati, cioè sia con la ricerca di stelle sempre più leggere (e di bassissimo splendore) che di pianeti massicci attorno a stelle primarie. La misurazione delle velocità radiali è arrivata a precisioni della decina di metri al secondo, e ha permesso nel 1995 la scoperta dei primi candidati alla definizione di pianeta extra-solare (per es., attorno alle stelle 51 Peg e 16 Cyg B, entrambe di tipo spettrale G2-V come il Sole). Un'altra tecnica che pare aver fornito candidati pianeti è quella delle periodiche variazioni di periodo delle pulsar, cioè di stelle a cui nessuno avrebbe pensato di associare un pianeta; si sta tentando anche di usare l'effetto lente gravitazionale della primaria che amplifichi lo splendore della secondaria. Tuttavia non tutti i dubbi sulla natura di questi 'pianeti' sono risolti; le soluzioni orbitali danno elementi e masse molto diverse da quelle del nostro Sistema solare, per es. pianeti massicci molto vicini alla stella. Manca la conferma decisiva che solo un'immagine vera e propria del pianeta potrà dare. Questo sarà un campo di grande sviluppo nel prossimo secolo, soprattutto usando i telescopi di 8÷10 m nel vicino IR.

Nebulose galattiche e mezzo interstellare

Negli anni Venti si riconobbe l'esistenza di un mezzo diffuso interstellare, composto di gas e polveri. L'effetto della polvere, la cui massa totale è modesta, appena lo 0,1% della massa della Via Lattea, è di oscurare la visione degli oggetti frammisti o posti al di là di essa; questo effetto di estinzione è selettivo, essendo maggiore nel blu che nel rosso. Pertanto l'assorbimento introduce anche un arrossamento del colore naturale degli astri. Assorbimento e arrossamento complicano notevolmente la discussione dei dati osservativi, in particolare nel visibile. Dato che le polveri sono concentrate soprattutto nei bracci di spirale della Via Lattea, l'effetto è maggiore a basse latitudini galattiche, e in particolare in direzione del centro (nella costellazione del Sagittario), dove esistono solo alcune 'finestre' di buona visibilità. Oltre a estinguere e arrossare la radiazione delle stelle, la polvere introduce una ben misurabile polarizzazione della loro luce, che permette lo studio su larga scala del debole campo magnetico della Via Lattea (di intensità generalmente non superiore a 10⁻¹⁰ T). Inoltre, la maggior densità di polvere sul piano galattico introduce forti e inevitabili effetti di selezione anche sullo studio delle galassie esterne.

Tra gli strumenti osservativi a disposizione per riconoscere e valutare l'arrossamento e l'estinzione giocano un ruolo fondamentali i diagrammi a due indici di colore di ammassi aperti e globulari. Tali diagrammi sono formati ponendo in ordinata un indice di colore (per es., magnitudine violetta meno magnitudine blu U−B) e in ascissa un secondo indice (per es., magnitudine blu meno magnitudine visuale B−V) e confrontando le osservazioni con una sequenza standard di stelle non arrossate. Per dare un'idea di massima, sul piano della Via Lattea a ogni kpc di distanza dal Sole corrisponde un'estinzione di circa 0,7 di magnitudine nel visuale, e un arrossamento di circa 0,2 di magnitudine nel B−V. Questi valori sono piuttosto uniformi, sicché le caratteristiche della polvere devono essere più o meno identiche in tutta la Via Lattea. Ma la natura della 'polvere' stessa (composizione chimica, struttura molecolare, dimensioni, temperatura ecc.) rimane scarsamente determinata dai dati ottici convenzionali, per le bassissime densità e temperatura del materiale. Si devono quindi usare le bande IR e millimetrica, in cui si sono scoperte ormai centinaia di molecole anche complesse, in grandi nubi interstellari sul piano galattico; la più recente molecola (1997) è il fluoruro di idrogeno osservato con il satellite ISO. La densità delle nubi molecolari è di circa 1000 volte quella del mezzo circostante, e la loro massa può superare 10⁶ M. Una galassia a spirale tipica può contenere qualche migliaio di tali nubi.

Un altro potente strumento di indagine del mezzo interstellare è la riga a 21 cm (1420 MHz) dell'H, emessa come transizione proibita in virtù dell'accoppiamento tra spin del protone e spin dell'elettrone al livello fondamentale. La riga, che non viene assorbita dal mezzo interstellare grazie alla sua grande lunghezza d'onda, ha permesso un'indagine nuova della Via Lattea, della sua curva di rotazione, della sua massa; lo studio è stato esteso anche a galassie esterne e alle nubi di H intergalattico. La riga può essere osservata in emissione, ma anche in assorbimento contro forti radiosorgenti di sfondo; è possibile perciò determinare al contempo la temperatura di spin e la densità dell'H interstellare; i valori osservati variano tra 10 e 100 K, e tra 0,01 e 100 atomi/cm³. Le osservazioni dimostrano che H e polvere sono ben mescolati sul piano galattico, sicché la determinazione di densità del gas permette anche quella della polvere e una migliore determinazione dell'assorbimento e arrossamento anche nel visibile. Si è ottenuta inoltre una revisione della distanza del Sole dal centro della Via Lattea, distanza che viene oggi stimata più vicino a 8 kpc che ai 10 kpc ipotizzati sino a due decenni orsono. Per studiare il mezzo interstellare, oltre alla riga atomica a 21 cm sono molto utilizzate le transizioni della molecola di idrogeno H₂ e del monossido di carbonio CO, e più recentemente, grazie soprattutto al satellite ISO, anche quelle del vapor acqueo. Le osservazioni dimostrano che l'O, prodotto nell'interno delle stelle, viene portato verso il mezzo interstellare da vari meccanismi di espulsione di massa, tipo i venti stellari, ove si combina facilmente con l'abbondante H ivi presente. Vi è dunque attorno a vari tipi di stelle e nelle grandi nubi molecolari una forte quantità di H₂O, la cui azione di raffreddamento a sua volta favorisce la formazione di nuove stelle.

Non tutte le nubi di gas sono fredde, e anzi sono cospicue per la loro luminosità le cosiddette regioni H ii attorno a stelle calde. Esse forniscono un ideale laboratorio spettroscopico per la fisica atomica e molecolare, con deviazioni anche estreme da condizioni di equilibrio termodinamico, che possono dare origine ai maser astrofisici.

Galassie

Nei primi anni Venti si riconobbe che molte cosiddette 'nebulose' già catalogate da Ch. Messier nel 18° sec. sono in realtà immensi insiemi di stelle, gas diffusi e nubi di polvere aventi forma, dimensioni e masse paragonabili a quelle della nostra Via Lattea, veri e propri 'universi isola' denominati ora più propriamente galassie. Le più vicine a noi sono le due Nubi di Magellano (la Grande è distante 55 kpc e la Piccola 63 kpc), visibili nell'emisfero australe, e la grande M31 in Andromeda (670 kpc). La catalogazione dell'enorme numero di galassie, e dei gruppi e ammassi e ammassi di ammassi in cui spesso si addensano, il riconoscimento delle loro forme (una classificazione morfologica che distingue forme spirali, ellittiche, irregolari e altre varietà), lo studio delle interazioni gravitazionali e mareali tra esse, la determinazione della loro composizione chimica iniziale ed evoluta, e così via, costituiscono branche importanti dell'odierna astrofisica. Per fissare alcuni valori di larga massima, la Via Lattea ha dimensione maggiore di circa 30 kpc e massa di circa 10¹¹ M; un ammasso contiene migliaia di tali galassie e ha dimensioni del Mpc. Le strutture gravitazionalmente legate più grandi che si conoscano hanno dimensioni della decina di Mpc.

I nuclei di alcune galassie forniscono l'evidenza osservativa più convincente dell'esistenza di buchi neri, con masse intorno alle 10⁹ M e raggi di alcuni parsec. Com'è noto, una sfera di materia di massa M diviene un buco nero se il suo raggio R è minore del raggio di Schwarzschild, che vale circa 2,9 (M/M) km. In queste circostanze, la radiazione emessa all'interno del raggio critico non può sfuggire all'attrazione gravitazionale, e il buco nero si manifesta indirettamente grazie a quanto avviene alla periferia. La materia circostante attratta verso il centro tende a formare un 'disco caldo' di materia in cui avvengono fenomeni assai energetici, visibili in tutte le bande. Esempi sono i nuclei di NGC 4161, di NGC 4261, di M87 e di M84. Massa e dimensione del buco nero possono essere derivate dai moti kepleriani della materia circostante, purché si disponga della necessaria risoluzione angolare, che in pratica solo l'HST riesce oggi a fornire, ma che nell'immediato futuro sarà appannaggio anche dei telescopi di 8÷10 m nell'IR.

Come le stelle, anche le galassie tendono a formare gruppi e ammassi legati dall'interazione gravitazionale; la Via Lattea, per es., si unisce alle Nubi di Magellano, a M31, a M33 e altre galassie ancora nel cosiddetto Gruppo locale, a sua volta appendice del vasto Ammasso della Vergine. Le galassie del Gruppo locale, e in particolare le vicinissime Nubi di Magellano, costituiscono un laboratorio ideale su cui verificare teorie e calibrare indicatori di distanze; esse hanno poi un insieme di moti relativi governati dal potenziale gravitazionale complessivo. Per es., M31 si sta avvicinando alla Via Lattea a velocità di circa 200 km/s lungo la direzione della visuale; la componente perpendicolare alla visuale non è ancora ben conosciuta, ma potrebbe essere misurata direttamente con le attuali misurazioni astrometriche. Le due galassie potrebbero avvicinarsi, in un futuro distante 5 miliardi di anni, al punto da fondersi in un unico sistema. Un altro ammasso di grande importanza è quello molto ricco nella costellazione della Chioma di Berenice, che costituisce uno dei punti di riferimento per la determinazione della scala dell'Universo; nel 1997 il satellite ISO ha scoperto proprio nella costellazione della Chioma di Berenice l'evidenza di polvere intergalattica, molto fredda e concentrata verso il centro dell'ammasso.

Si è già accennato al fatto che coppie di galassie o di ammassi di galassie possano interagire al punto di collidere e fondersi (con termine ingl. si parla di merging), con conseguenze non solo sulla morfologia di questi corpi (in cui si manifestano maree spesso spettacolari) ma anche sulla loro evoluzione chimica e di popolazioni stellari. Secondo teorie correnti, dopo la collisione due galassie a spirale generano una galassia ellittica povera di gas e ricca di ammassi globulari giovani (e non vecchi come quelli della nostra Via Lattea). Le scale dei tempi sono naturalmente molto grandi, ma pur tuttavia piccole in confronto alla vita dell'Universo; questo intrinseco dinamismo delle galassie e ammassi è tra i risultati più importanti dell'ultimo decennio. Il merging in effetti fornisce il meccanismo capace di comprimere le grandi nubi molecolari fredde a densità sufficiente a innescare la frammentazione (un meccanismo già proposto quasi un secolo fa da J.H. Jeans); le unità più piccole a loro volta origineranno ammassi di stelle molto giovani, luminose e blu. L'HST fornisce varie evidenze del fenomeno, per es. nel caso delle due galassie NGC 4038/4039, chiamate anche familiarmente 'le antenne', in virtù delle lunghe scie di materia incanalate dagli effetti mareali. Il comportamento dinamico delle stelle e nebulose che compongono le galassie durante questi incontri ravvicinati può essere simulato con super-calcolatori che riescono a seguire il comportamento di N corpi interagenti per via gravitazionale, con N ormai dell'ordine delle decine di migliaia.

Cosmologia

Lo studio delle velocità radiali delle galassie, che sistematicamente aumentano con la distanza (al di là di una certa soglia, che possiamo porre intorno a 1000 km/s), portò E.P. Hubble, verso la fine degli anni Venti, alla scoperta dell'espansione dell'Universo. Dato che una velocità radiale in allontanamento dall'osservatore sposta le righe spettrali verso il rosso, l'espansione viene anche chiamata, con termine inglese, redshift (simbolo: z) delle galassie lontane. La possibilità di disequilibrio statico dell'Universo era in effetti già contenuta nelle equazioni della relatività generale di Einstein; la conferma osservativa dell'espansione portò in breve tempo allo sviluppo di modelli matematici eleganti sul piano formale e avvincenti su quello filosofico, per descrivere la metrica dell'Universo usando 4 dimensioni (tre spaziali e una temporale), per legare correttamente le misurazioni (magnitudine e diametro apparenti, brillanza superficiale, redshift ecc.) alle proprietà intrinseche delle galassie assunte come 'candele standard' (luminosità, diametro lineare, distanza ecc.), per prevederne l'evoluzione temporale. Sul piano geometrico ebbero grande sviluppo le geometrie non euclidee, con spazi a varia curvatura e metrica, e su quello più fisico lo studio delle equazioni di campo, leganti la metrica al contenuto di materia e radiazione. In breve tempo fu chiara l'enorme estensione spaziale e temporale dell'Universo, e la sua grande massa totale.

Dalla costante che lega, in modo pressoché proporzionale, velocità di espansione a distanza, e che viene detta costante di Hubble Ho, si può ricavare pertanto anche l'età E dell'Universo (essendo Ho ed E inversamente proporzionali tra loro), cioè il tempo trascorso da una remota epoca iniziale, in cui la massa era praticamente tutta concentrata in un punto, sino all'epoca presente. Genericamente, si parla di teorie della grande esplosione iniziale (in ingl. Big Bang) che ha portato l'Universo da tale stato iniziale di fortissima densità e temperatura allo stato presente. In base al principio di indeterminazione di Heisenberg, nulla si può dire su quanto avvenne prima di circa 10⁻⁴³ s (tempo di Planck). Recenti teorie inflattive, o inflazionarie, postulano un'istantanea dilatazione non adiabatica delle dimensioni a tempi anteriori a 10⁻³⁰ s, probabilmente associata alla rottura dell'unificazione delle 4 forze fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica, debole, forte). Tra 1 s e 100 s si ebbe la scomparsa di quasi tutta l'antimateria e la sintesi di deuterio, trizio e buona parte dell'He (circa 1/3 dell'He osservato oggi deriva dalla fusione di H all'interno delle stelle).

Il valore 'vero' di Ho fu oggetto di successive rideterminazioni, dagli originali 500 km/s∙Mpc di Hubble, sino ad arrivare ai recenti lavori di A. Sandage e G.A. Tamman, che lo fissano intorno a 50 km/s∙Mpc, valore cui corrisponde un'età dell'Universo attorno a 20 miliardi di anni. Non tutti gli astronomi sono però d'accordo con un valore di Ho così basso, per cui l'attuale intervallo di incertezza si può situare tra 50 e 90; all'estremo superiore corrisponde un'età dell'Universo, 11 miliardi di anni, molto vicina a quella delle stelle più vecchie.

Dalle equazioni di campo discendono varie geometrie possibili a seconda della densità di materia; i modelli di Universo prevedono a partire dall'istante iniziale un'espansione continuamente decelerata ma che può tuttavia continuare all'infinito (Universi aperti, o iperbolici) oppure ritornare all'iniziale stato puntiforme (Universi chiusi, o ellittici), o infine una situazione limite al confine dei due (Universo euclideo, o parabolico). La densità di materia, o meglio il rapporto Ω tra quella osservata e quella necessaria per passare da un universo chiuso a uno aperto (detta densità critica), è dunque un secondo parametro osservativo fondamentale. Varie stime portano a valori di Ω attorno a 0,1. Recentemente (1997), dallo studio di una supernova (SN 1997ap) esplosa 8 miliardi di anni fa, si è potuta fare una stima del rallentamento dell'espansione dell'Universo a partire da quell'epoca, per effetto dell'attrazione gravitazionale della materia in esso contenuta. Esso appare consistente, con un valore di Ω attorno a 0,2. Nonostante ciò, la determinazione di Ω rimane un secondo punto di acceso dibattito contemporaneo; varie evidenze dimostrano infatti che la materia osservabile con i metodi tradizionali è una piccola frazione della materia totale nell'Universo, la parte maggioritaria rimanendo invisibile. Riprenderemo tra breve il problema della materia oscura, citando in questo contesto che alcune teorie inflazionarie richiedono che sia esattamente Ω=1.

Un forte impulso agli studi cosmologici è venuto dalla radioastronomia, il cui sviluppo iniziò negli anni Cinquanta. È ben noto che le radiosorgenti più forti non sono stelle, ma galassie lontane, adatte quindi a sondare l'Universo su grandissime scale. Lo studio delle radiosorgenti alle varie frequenze tra 100 MHz e 10 GHz mostra uno spettro in cui l'intensità I diminuisce con la frequenza ν secondo la legge di potenza I = I να (con α variabile tra 0 e -1), tipica di una sorgente energetica che emetta radiazione di sincrotrone da elettroni relativistici spiraleggianti in un debole campo magnetico. Nei primi anni Sessanta si riconobbe che oltre alle galassie ci sono altri oggetti extragalattici ancor più peculiari, detti quasar (da quasi stellar radio sources, e spesso indicati come QSO, Quasi Stellar Objects). Il prototipo è la sorgente detta 3C 273, cui corrisponde un astro di tredicesima magnitudine e z=0,158 (distanza di circa 480 Mpc), cioè una luminosità ottica circa 100 volte superiore a quella di una galassia normale. Fortissima luminosità intrinseca, talvolta variabile anche di un fattore 100 in pochi giorni, intense righe di emissione, spettro continuo non termico e colore blu, aspetto quasi stellare, redshift molto maggiore di quello delle galassie di pari magnitudine, sono le caratteristiche distintive dei QSO. Varie proprietà dei QSO si riscontrano anche nei nuclei galattici attivi (AGN), i cui prototipi si devono ai pioneristici studi di C.K. Seyfert e di B.E. Markarian che risalgono ormai a 50 anni fa, e negli oggetti tipo BL Lacertae (in cui tuttavia le righe di emissione sono deboli). La scoperta e catalogazione di AGN, BL Lac e QSO è proceduta in modo impetuoso; se ne conoscono oggi varie migliaia (non tutti forti radiosorgenti, la maggioranza anzi non radioemette in modo apprezzabile) con z sino a circa 5. Ciò significa, per es., che la riga Ly-α, la cui lunghezza d'onda a riposo è nel vicino UV a 121,6 nm, si osserva a 720 nm, nel rosso. Nello spettro dei QSO di z maggiore si trovano spesso sistemi di righe di assorbimento non collegati con l'oggetto stesso, ma dovuti a grandi nubi di idrogeno intergalattico (è la cosiddetta foresta di Lyman) o ad aloni ionizzati di galassie (in particolare la riga del C⁺⁺⁺), frapposti nel cammino tra il QSO e l'osservatore; lo studio di questi assorbimenti, assai difficile e che richiede telescopi di grandi dimensioni (come i Keck) causa la scarsità di fotoni, è fondamentale per studiare il mezzo diffuso sino alle grandi distanze cosmologiche. Si è anche accertato che i QSO sono forti emettitori di raggi X, e presumibilmente anche di raggi gamma (v. oltre). I QSO forniscono inoltre vari esempi di lente gravitazionale: se lungo il percorso dall'oggetto all'osservatore si ha interposta una forte concentrazione di massa (per es., il nucleo di una galassia; la probabilità di questo allineamento non è trascurabile, la si stima a circa lo 0,1%), la luce del QSO viene gravitazionalmente deflessa dalla concentrazione, sicché all'osservatore arriva radiazione del QSO da varie direzioni. Ciò provoca vari fenomeni, per es. si possono vedere più immagini dello stesso oggetto, oppure l'oggetto si vede intensificato, o si formano archi di luce, una serie di fenomeni cioè che danno informazioni sia sull'oggetto di cui si forma l'immagine sia sulla massa interposta che funge da lente. Naturalmente lo stesso effetto può verificarsi per una galassia normale lontana; per es., grazie alla lente gravitazionale fornita dal distante ammasso di galassie CL 1358+52 si è scoperta una galassia a z=4,9, il cui redshift rivaleggia cioè con quello dei QSO più distanti. A questi z si è a meno del 10% del tempo di vita dell'Universo, cioè a nemmeno 1 miliardo di anni dalla sua origine; le osservazioni danno dunque oggi informazioni dirette sulle strutture su larga scala, sulla struttura interna, composizione chimica e ritmo di formazione stellare delle galassie presenti già a quell'epoca così iniziale. Particolare importanza al riguardo ha assunto la cosiddetta Hubble deep field survey, ottenuta con l'HST nel dicembre 1995 con quasi 10 giorni di posa ininterrotta di una regione intorno al polo celeste Nord. È al momento l'immagine più profonda mai ottenuta dell'Universo, rivelando una moltitudine di oggetti (quasi tutte galassie) fino alla 28a magnitudine. Lo studio è in corso, e naturalmente è auspicabile che si possa ottenere un'immagine altrettanto profonda di un campo in una direzione diversa. Se, come pare dai primi risultati, il ritmo della formazione stellare ha avuto un picco a circa z=2, ci si dovrà spingere a z〈20 per vedere il picco della formazione delle galassie. Lo studio di AGN, QSO, galassie lontane e loro ammassi costituirà pertanto un altro tema di estremo interesse nel 21° sec., e una delle motivazioni più profonde per la costruzione di telescopi terrestri e spaziali sempre più potenti.

Gli anni Sessanta hanno assistito a un'altra scoperta cosmologica fondamentale, quella della radiazione di fondo di corpo nero a 2,7 K. Tale radiazione viene studiata sia da terra che dallo spazio, ove sono state importantissime le osservazioni del satellite COBE della NASA nei primi anni Novanta, che ha scoperto fluttuazioni nella temperatura di circa una parte su 10⁵ su scale angolari superiori a 10° (il limite intrinseco alle sue capacità strumentali). Queste fluttuazioni di temperatura sono interpretate come fluttuazioni di densità dell'Universo primigenio, e una delle prove più convincenti del classico modello di Big Bang con inflazione.

Riprendiamo il problema della materia oscura, che ha dato luogo a numerose ricerche e che sarà uno degli argomenti principali anche in futuro. Una gran parte della massa dell'Universo non è visibile otticamente, e il rapporto tra massa oscura e massa visibile aumenta fortemente con l'aumentare delle dimensioni della regione indagata. Nei pressi del Sole la massa oscura non è più del 25%, ma la proporzione si inverte negli aloni delle galassie, e l'apparente mancanza di materia diventa drammatica negli ammassi e superammassi di galassie, dove talvolta è visibile appena il 5% della massa necessaria per legare gravitazionalmente la struttura (v. oltre a proposito dei raggi X provenienti dagli ammassi di galassie). Sulla natura e distribuzione spaziale di tale materia oscura sono state fatte molte ipotesi; si tratta di materia ordinaria (cioè composta di barioni) oppure di particelle esotiche, quali neutrini con massa diversa da zero o altre sconosciute particelle massicce e debolmente interagenti? Si tratta di materia calda o di materia fredda? È tale materia distribuita uniformemente oppure ha fluttuazioni di densità su scale della dimensione degli ammassi di galassie? A tali domande si può rispondere con diversi metodi, quali ricerca di nane brune vicine al Sole, curve di rotazione di galassie a spirale, conteggi di galassie, misure delle deviazioni del campo di velocità rispetto al flusso di Hubble, determinazione delle fluttuazioni angolari del fondo di microonde, scoperta delle 'particelle strane' con i grandi acceleratori e così via. Un campo quindi di enorme interesse e alla frontiera delle odierne capacità tecnologiche. L'Europa ha piani ambiziosi, per es. con il futuro satellite Planck per il fondo di microonde o con il sistema di satelliti LISA per la ricerca di un fondo cosmologico di onde gravitazionali, da lanciarsi entro il secondo decennio del 21° secolo.

Astronomia X e gamma

L'a. in raggi X e gamma (γ) studia il cielo nelle bande di più alta frequenza dello spettro elettromagnetico, a partire da 2,4∙10¹⁶ Hz (λ≤124 nm); in termini di energia si tratta di fotoni con energia E≥0,1 keV (raggi X molli). La demarcazione tra X e γ non è ben netta; in genere si parla di a. γ per E≥200÷300 keV (raggi γ molli). L'a. X considera a sua volta tre bande: raggi X molli (0,1÷2 keV), raggi X classici (2÷10 keV), e raggi X duri (10÷300 keV).

Le radiazioni X e γ vengono generate in processi fisici altamente energetici. Sostanze riscaldate a temperature T di decine o centinaia di milioni di gradi emettono quasi tutta la loro energia E sotto forma di raggi γ e X (E kBT, in cui la costante di Boltzmann kB=8,6176∙10⁻⁸ keV/K) e soltanto una frazione trascurabile alle lunghezze d'onda visibili. Tale meccanismo di emissione di radiazione è noto come meccanismo termico, e lo spettro di emissione può essere di corpo nero oppure di Bremsstrahlung termica a seconda dello stato di equilibrio termodinamico e di densità della materia (plasma) che emette la radiazione. I raggi X e γ possono essere generati anche in meccanismi non termici. Per es., elettroni energetici in moto all'interno di una regione in cui esiste un campo magnetico perdono energia emettendo raggi X (radiazione di ciclotrone se gli elettroni hanno velocità piccole rispetto a quella della luce e radiazione di sincrotrone nel caso contrario). Una seconda modalità si ha quando elettroni di alta energia interagiscono con onde elettromagnetiche di minor frequenza (per es., onde radio, luce visibile o UV). In tal caso parte dell'energia degli elettroni viene ceduta a queste onde, le quali acquistano energia (effetto Compton inverso). I raggi X possono essere anche emessi da atomi neutri o ionizzati per effetto di interazioni con particelle cariche (per es., elettroni) o raggi X di più alta energia (radiazione di fluorescenza). I raggi γ possono anche essere prodotti per eccitazione dei nuclei degli atomi a causa di interazioni con altre particelle cariche altamente energetiche o per decadimento di particelle neutre (per es., pioni π⁰). Anche le interazioni ad alta energia elettrone-positrone possono dar luogo a raggi γ.

I raggi X e γ sono molto penetranti e il potere di penetrazione aumenta con l'energia. Ciò rende i raggi X duri e i raggi γ una sonda potente in grado di fornire informazioni sulle condizioni ambientali delle regioni più vicine a un oggetto compatto come una stella di neutroni o un buco nero. Tuttavia sono assorbiti dall'atmosfera terrestre: la profondità fino a cui la radiazione può penetrare in atmosfera dipende dalla loro lunghezza d'onda. In particolare, i raggi X molli e classici sono totalmente assorbiti al di sotto di un centinaio di km. Per rivelare questi fotoni occorre impiegare strumentazione posta a bordo di razzi (che raggiungono quote di circa 200 km) o di satelliti, che sono di norma posti a quote superiori a 400 km. Per l'osservazione dei raggi X duri e γ sono impiegati proficuamente anche palloni stratosferici a quote di circa 40 km (l'Italia ha un'importante base di lancio di palloni scientifici a Trapani-Milo, in Sicilia). I satelliti possono restare in orbita vari anni, mentre la durata di osservazione di un razzo è appena di una decina di minuti, e quella di un pallone va da poche ore fino a una settimana per voli transoceanici.

Origini e sviluppo dell'astronomia X e gamma. - Fino al 1962 pochi astronomi ritenevano che l'Universo potesse contenere oggetti celesti in grado di emettere in modo cospicuo radiazione elettromagnetica di così alta energia. Le osservazioni fatte negli anni Cinquanta mediante razzi avevano mostrato sì emissione di raggi X dal Sole ma il flusso era tale che, con gli strumenti dell'epoca, era impossibile pensare di poter rivelare emissione X dalle stelle, anche dalle più vicine. Infatti, se la luminosità X di tali sorgenti fosse simile a quella del Sole, il flusso ricevuto sulla Terra sarebbe almeno 10⁹ volte più basso, il che renderebbe irrealizzabile la rivelazione. Destò perciò grande stupore il risultato pubblicato nel 1962 da un gruppo di ricercatori dell'American Science and Engineering (AS&E) guidato da R. Giacconi e ispirato da B. Rossi, che riportava la scoperta di una forte emissione di raggi X con un flusso osservato di 100 fotoni/(cm²∙s), da una sorgente in direzione della costellazione dello Scorpione, chiamata poi Sco X-1 e che vedremo far parte di un sistema binario di piccola massa. La scoperta avvenne per caso; l'esperimento, eseguito con un razzo lanciato dalla base di White Sands, nel New Mexico, si proponeva la ricerca di emissione di raggi X dalla Luna. Tali raggi X erano attesi come conseguenza dell'interazione con la superficie lunare sia dei raggi cosmici sia dei raggi X solari. L'esperimento non rivelò apprezzabile emissione di raggi X dalla Luna, ma in compenso inaugurò la nascita della nuova a. X.

Dopo tale scoperta, i gruppi di ricerca e gli esperimenti a bordo di razzi e di palloni si moltiplicarono in un'atmosfera di euforia scientifica. Alla fine degli anni Sessanta il numero di sorgenti era salito a circa 50. Gli anni Settanta videro la realizzazione di molte missioni americane da satellite, a partire da Uhuru (lanciato dalla base italiana San Marco in Kenya), che ampliarono grandemente il numero di oggetti X; per es., il catalogo ottenuto con l'HEAO-1 (High Energy Astronomical Observatory) alla fine degli anni Settanta conteneva 842 sorgenti più intense della sensibilità limite di 3∙10⁻³ fotoni/(cm²∙s), corrispondente a circa un millesimo del flusso emesso in 2÷10 keV dalla Nebulosa del Granchio (tale flusso limite si indica anche come milliCrab, simbolo mCrab), che è la sorgente celeste più stabile e tra le più intense dopo Sco X-1. L'Europa e il Giappone entrarono nella ricerca X da satellite negli anni Ottanta. Un ruolo importante fu svolto dal satellite europeo EXOSAT operante in modo egregio nella banda 0,1÷20 keV, che, grazie alla sua orbita molto eccentrica e alta, aveva la possibilità di osservare le sorgenti celesti per lunghi periodi di tempo senza interruzione. La maggior parte dei satelliti di tale epoca portavano a bordo strumenti senza capacità di ottenere vere 'immagini X' del cielo. La prima missione ad avere queste prestazioni fu il satellite americano HEAO-2, ribattezzato Einstein, che portava a bordo ottiche per raggi X da 0,1 a circa 2 keV con sensibilità limite di 3∙10⁻⁵ fotoni/(cm²∙s). Gli anni Novanta hanno visto la realizzazione di missioni di a. X di maggiore sofisticazione. Merita particolare menzione il satellite tedesco, con partecipazione americana, ROSAT (ROengten SATellite), che nella banda 0,1÷2 keV ha sensibilità limite di circa 1∙10⁻⁵ fotoni/(cm²∙s): 10⁻⁷ volte il flusso di Sco X-1. Nei primi sei mesi di operazioni, il ROSAT ha esplorato tutto il cielo, rivelando e localizzando circa 50.000 sorgenti. Nell'aprile 1996 è stato lanciato il primo satellite italiano, con partecipazione olandese, dedicato all'a. X (SAX, Satellite Astronomia X), ribattezzato subito dopo il lancio col nome BeppoSAX, a ricordo del fisico Giuseppe (detto Beppo) Occhialini. È il primo satellite che copre tutta la banda dei raggi X, da 0,1 a 300 keV, con alta sensibilità fino alle più alte energie. Porta a bordo sia ottiche per raggi X (fino a 10 keV) sia rivelatori a vista diretta (fino a 300 keV). Il satellite include anche un rivelatore di lampi di raggi γ di origine celeste (Gamma-Ray Burst Monitor, GRBM), operante nella banda 40÷700 keV e un telescopio per raggi X tra 2 e 30 keV a largo campo (WFC, campo 40×40 gradi quadrati) che copre parte del campo del GRBM (che è quasi la metà del cielo). Grazie a questi due strumenti è stato possibile scoprire l'origine dei lampi γ (v. oltre).

Pur essendo iniziata prima dell'a. X, l'a. γ si è sviluppata in seguito ai risultati inattesi dell'a. X. I flussi di raggi γ dalle sorgenti celesti sono in effetti molto più bassi di quelli X, dato che il numero di fotoni in funzione dell'energia (spettro di energia) in generale diminuisce drasticamente ad alta energia; in compenso, il mezzo interstellare è del tutto trasparente a questa radiazione. Il primo satellite che portava a bordo un rivelatore per raggi γ (50÷1000 MeV) fu l'OSO-3, grazie al quale si scoprì una forte emissione diffusa dal piano della Via Lattea. Il primo satellite completamente dedicato all'astronomia γ fu l'americano SAS-2, che aveva la capacità di ricostruire la direzione di arrivo dei fotoni con un'accuratezza di 1,5°. Si scoprì così che due sorgenti di raggi X, cioè la Nebulosa del Granchio e il resto di supernova nella costellazione della Vela, erano anche intense sorgenti di radiazioni γ. Al SAS-2 seguì il satellite europeo COS-B (da 50 MeV a 5 GeV), in cui la comunità astrofisica italiana ha avuto un ruolo di grande rilievo. In aggiunta alle sorgenti note precedentemente, il COS-B ha fornito una mappa dettagliata dell'emissione continua dal piano della Via Lattea, ha rivelato una nuova sorgente galattica (GEMINGA), anch'essa una pulsar, e ha fornito la prima rivelazione di una sorgente extragalattica, la quasar 3C 273. Una grande missione degli anni Novanta dedicata all'astronomia γ su larga banda è il satellite americano Gamma-Ray Observatory (GRO), ribattezzato dopo il lancio Compton GRO (CGRO). Il CGRO ha scoperto molte nuove sorgenti, sia galattiche sia extragalattiche e altre non ancora identificate; in aggiunta ha evidenziato una distribuzione isotropa (cioè senza apparenti concentrazioni in direzioni particolari) sulla volta celeste dei lampi di raggi γ scoperti alla fine degli anni Sessanta dalla rete di satelliti spia americani VELA.

tab. 1

La tab. 1 fornisce una lista pressoché completa delle missioni X da satellite lanciate a partire da Uhuru, mentre la tab. 2 dà una lista delle principali missioni γ.

Strumentazione per astronomia X e gamma. - Anche nella banda dei raggi X e γ si parla di telescopi, come nell'ottico, per indicare dispositivi in grado di determinare non solo il flusso di fotoni incidenti sul rivelatore in funzione della loro energia, ma anche la loro direzione di arrivo. Tali telescopi per raggi X e γ hanno subito notevoli cambiamenti nel corso degli anni, nel perdurante sforzo di migliorarne la sensibilità (flusso minimo rivelabile), la risoluzione angolare (capacità di separare più sorgenti nel campo di vista), la risoluzione energetica (capacità di distinguere radiazioni di energia diversa) e la risoluzione temporale (capacità di distinguere tra fotoni in arrivo in istanti diversi). Nella banda dei raggi X molli e classici, si è passati da telescopi a vista diretta del cielo a strumenti che osservano il cielo attraverso un sistema di specchi (ottiche per raggi X) che focalizzano i raggi X, come vedremo più avanti.

I telescopi a vista diretta, che continuano a essere il cavallo di battaglia nei raggi X duri e nei γ (ma anche in questi intervalli di energia ci si aspetta di poter impiegare in un prossimo futuro vere e proprie ottiche), hanno avuto un ruolo di primaria importanza. Essi si basano sull'impiego di un rivelatore ben schermato su tutte le facce esclusa quella di ingresso dei raggi X celesti. Al di sopra di tale faccia viene posto un collimatore, che nella forma più semplice è un tubo (o meglio, nella pratica, una serie di tubi - celle - a sezione quadrata o esagonale), la cui parete è fatta di materiale opaco ai fotoni che si vogliono rivelare. In tal modo si ricevono fotoni solo da un insieme di direzioni attorno a quella dell'asse del collimatore, cioè da un campo di vista di semi-larghezza angolare pari a 2ϑ=arctang (w/h), in cui w è la larghezza della cella e h la sua altezza. Con questi collimatori di campo sono stati ottenuti campi di vista stretti fino a circa 1°×1°, ancora troppo grandi purtroppo per fornire la posizione delle sorgenti con la precisione richiesta per una sicura identificazione ottica. Inoltre, se ci sono più sorgenti nel campo di vista non è semplice, o è addirittura impossibile, separare il contributo di ciascuna al flusso complessivamente misurato. Un metodo per migliorare sia la risoluzione angolare sia la precisione della posizione è l'impiego di un collimatore a modulazione, messo a punto già negli anni Sessanta dal giapponese Minoru Oda. Si tratta di un insieme di due griglie di fili di materiale opaco ai raggi X (spesso molibdeno) a una certa distanza tra loro. Ruotando il collimatore puntato in una data direzione del cielo, il flusso trasmesso risulta modulato in funzione dell'angolo tra la direzione dell'asse del collimatore e la direzione della sorgente. Con tale tipo di collimatore è possibile anche separare più sorgenti nel campo di vista del telescopio; sono state localizzate così centinaia di sorgenti X con precisioni del primo d'arco. Vi sono anche versioni più sofisticate (collimatori a modulazione multi-passo) che consentono di migliorare ancora la risoluzione angolare e di ottenere anche immagini di sorgenti estese. Negli anni Ottanta è stata introdotta un'altra tecnica per ottenere vere e proprie immagini X, quella della maschera codificata. A una certa distanza dal rivelatore viene posta una lastra opaca ai raggi X in cui sono praticati dei fori con una distribuzione spaziale pseudo-casuale. Il rivelatore in tal caso deve essere sensibile alla posizione di arrivo dei fotoni. La radiazione dalle sorgenti celesti incidente sul telescopio viene bloccata dalla maschera eccetto dove sono i fori. Pertanto ogni sorgente puntiforme proietta un'ombra della maschera sul rivelatore la cui posizione dipende dalla direzione di arrivo dei fotoni. Attraverso una tecnica di analisi appropriata, a partire dalla sovrapposizione di più ombre, si ricostruisce la direzione e il flusso di ciascuna sorgente presente nel campo di vista. La tecnica è stata applicata con successo nella banda tra 2 e 100 keV.

Come si è già detto, nella banda da 0,1 a 10 keV da tempo è stato possibile costruire sistemi ottici in grado di focalizzare i raggi X preservandone la distribuzione angolare, in altri termini telescopi per raggi X con cui è possibile fare una vera immagine del campo di vista. Il vantaggio del telescopio rispetto al dispositivo a vista diretta non è solo di ottenere immagini, ma anche di avere una sensibilità molto maggiore grazie alla focalizzazione dei fotoni. I sistemi di focalizzazione si basano sul principio della riflessione totale della luce incidente a piccoli angoli rispetto alla superficie riflettente (angoli di radenza).

Ciò è possibile grazie al fatto che i materiali possiedono un indice di rifrazione relativo al vuoto leggermente minore di 1. In tal caso, è noto che esiste un angolo limite θc, o angolo critico, tale che se l'angolo di radenza è minore di θc la luce è riflessa, altrimenti è trasmessa. Nella banda dei raggi X, l'angolo critico è in generale piccolo e dipende dal materiale riflettente usato e dall'energia dei fotoni. Maggiore è il numero atomico Z e la densità ϱ del materiale, maggiore è θc. Per es., per un materiale con alto Z e alta densità come l'oro (Z=79, ϱ=19,92 g/cm³), a 3 keV è θc=3°. Gli specchi per raggi X possono avere diverse forme geometriche. Quella che offre le migliori prestazioni è la configurazione elaborata dal fisico tedesco H. Wolter, nota come Wolter tipo 1, che è la combinazione di un paraboloide con un iperboloide. I fotoni incidono prima sulla superficie parabolica, che li riflette inviandoli sulla superficie iperbolica che finalmente li focalizza sul rivelatore. Il vantaggio di tale configurazione è di ridurre la distanza tra il fuoco dov'è posizionato il rivelatore e gli specchi (distanza focale) e di ridurre le aberrazioni dell'immagine (in particolare il coma) quando la sorgente celeste si trova fuori dall'asse del telescopio. Un requisito assai importante delle superfici delle ottiche per raggi X è di essere estremamente 'lisce', molto di più di quanto richiesto in ottica. Inoltre, per aumentare l'area efficace di raccolta, che è ovviamente molto piccola in un'ottica radente, si devono inserire varie ottiche una dentro l'altra, con estrema precisione di allineamento. La tecnica odierna sta arrivando a qualità di immagini confrontabili con quelle dei telescopi ottici, su campi di vista di vari primi d'arco.

Per quanto riguarda i rivelatori per a. X, che hanno avuto un ruolo di primo piano nelle scoperte di nuove sorgenti celesti, si usano i contatori proporzionali, principalmente nella banda X〈20 keV, e i contatori a scintillazione, usati per la banda dei raggi X duri e γ molli, quali si sono evoluti nell'ambito della fisica delle particelle e delle radiazioni. Negli ultimi anni sono stati sviluppati e impiegati anche per l'a. X i rivelatori a stato solido, come i CCD, cioè gli stessi dispositivi già menzionati per l'UV e il visibile, che consentono un'ottima efficienza di rivelazione e risoluzione spaziale ed energetica, e i contatori a gas scintillante, che consentono una migliore risoluzione energetica rispetto ai rivelatori sopra menzionati. I rivelatori a stato solido, con risoluzioni energetiche di un centinaio di eV e risoluzioni spaziali delle decine di μm, attualmente in stato di sviluppo, saranno il cavallo di battaglia delle future missioni di a. in raggi X duri. Sono in corso di sviluppo anche tecniche efficaci per la misura della polarizzazione, che è prevista su base teorica da vari meccanismi di produzione di raggi X, ma di cui in pratica vi sono solo pochissime misure.

Il cielo in raggi X e gamma

Grazie all'impiego di telescopi a incidenza radente, come Einstein e ROSAT, le osservazioni forniscono una visione abbastanza definita di come appare il cielo nella banda di energie da 0,1 a 2 keV, anche se servono ulteriori informazioni per lo studio dettagliato degli spettri delle sorgenti già note, e per studi di evoluzione di classi di sorgenti (per es., gli ammassi di galassie).

La banda da 2 a 10 keV è stata ben studiata fino al livello di flusso pari a circa 0,1 mCrab, e recentemente con BeppoSAX fino a livelli di flusso minori di un fattore 50 circa. Manca ancora in questa banda una mappa completa del cielo a tali bassi livelli di flusso. Tale esigenza verrà sperabilmente soddisfatta dalla prossima missione di a. X tedesca ABRIXAS. Manca ancora uno studio delle sorgenti note da 0,1 a 10 keV ad alta risoluzione spettrale, anche se un contributo in tal senso si è già avuto col satellite giapponese ASCA ancora in orbita (1998). Un passo rilevante in questa direzione è atteso dal lancio della missione americana AXAF e di quella europea XMM. Molto lavoro rimane ancora da fare per la spettroscopia ad altissima risoluzione (pochi eV) nella banda fino a 10 keV e per l'esplorazione del cielo nella banda dei raggi X duri e dei raggi γ. Nella banda dei raggi X duri una mappa completa del cielo fu fatta dal satellite HEAO-1 a un livello di sensibilità di circa 20 mCrab, rivelando circa 70 sorgenti, un numero esiguo rispetto alle 50.000 sorgenti rivelate dal ROSAT nella banda da 0,1 a 2,4 keV. Un grande contributo alla conoscenza del cielo in raggi X duri lo sta fornendo l'esperimento di alta energia PDS (Phoswich Detection System) a bordo del BeppoSAX, che ha una sensibilità migliore di quella di HEAO-1 per un fattore 20-30 e migliori capacità spettroscopiche. Nella banda dei raggi γ un contributo significativo è venuto dal satellite CGRO (in particolare l'esperimento EGRET, tab. 2), e ci si aspetta che la futura missione europea INTEGRAL fornisca risultati di primaria importanza.

Sulla base delle attuali osservazioni, è possibile fornire un panorama, per molti versi peculiare e inaspettato, dei fenomeni celesti ad alta energia. Il 'cielo X' è costituito sia da sorgenti discrete che da un'emissione diffusa (fondo X primario). Non è ancora chiaro se tale fondo sia solo il risultato della sovrapposizione di flusso da sorgenti discrete (per es., galassie) non risolte, o se vi sia almeno una componente intrinsecamente diffusa che permea tutto l'Universo, analoga cioè al fondo a microonde. Tra le sorgenti discrete di raggi X e γ ve ne sono sia appartenenti alla nostra Via Lattea (galattiche) sia esterne (extragalattiche).

Emissione di raggi X (indotti dal vento solare) è stata misurata anche dai pianeti, dalla Luna e dalla cometa Hale-Bopp. Una caratteristica che accomuna la quasi totalità delle sorgenti X è la loro variabilità. Il cielo in raggi X appare diverso in tempi diversi. Poche sono le sorgenti stabili nel tempo (tra queste la più volte citata sorgente nel Granchio); la gran parte mostra flussi che variano sulle più disparate scale di tempo, dalle frazioni di secondo agli anni. Fenomeni esplosivi interessano molte classi di sorgenti; tra i più violenti finora osservati sono i lampi di raggi γ, la cui origine è stata recentemente trovata grazie al BeppoSAX, come descritto oltre. La luminosità intrinseca delle sorgenti X cambia da classe a classe, variando di circa 36 ordini di grandezza, dalla luminosità della Luna (pari a 7∙10² J/s) alla luminosità della quasar più brillante, PKS2126-158 (pari a circa 5∙10⁴⁰ J/s). Vediamo ora le proprietà delle classi più importanti di sorgenti discrete, galattiche ed extragalattiche.

Comete, Luna e pianeti. - La prima rivelazione di raggi X molli (〈 2 keV) da una cometa si è avuta nel 1995 con l'osservazione della cometa Hyakutake da parte del satellite ROSAT. La luminosità X era di circa 1∙10⁹ J/s. L'immagine X mostra che l'emissione era diffusa, e appariva provenire dalla chioma della cometa. Emissione X è stata successivamente osservata da altre comete, inclusa la famosa cometa Hale-Bopp, che ha brillato in cielo e ci ha affascinato per tutta la primavera del 1997. Hale-Bopp è stata osservata con il satellite italiano BeppoSAX nel settembre 1996, quando era ancora a una distanza di 2,9 UA. La luminosità misurata era 6 volte maggiore della cometa Hyakutake e anche in questo caso l'immagine X mostrava che la radiazione X aveva origine nella chioma della cometa. Lo spettro di energia appariva di tipo termico, con temperature di circa 3 milioni di gradi.

L'interpretazione di questi risultati non è immediata. Il modello più semplice assume che l'emissione sia dovuta a fluorescenza X dei materiali delle comete eccitati dai raggi X solari. Da tale modello però ci si aspetta una luminosità X minore di quella osservata. Data questa difficoltà, sono stati elaborati altri modelli, in cui i raggi X sono generati o per effetto dell'interazione delle particelle del vento solare con la chioma o per collisioni della polvere rilasciata dalle comete con particelle di nubi di polvere interplanetaria. Ma anche questi modelli richiedono ulteriori osservazioni per essere verificati.

La ricerca di emissione di raggi X dalla Luna era di interesse astrofisico sin dagli anni Sessanta e, come esposto prima, portò casualmente (1962) alla scoperta della prima sorgente celeste di raggi X (Sco X-1) e all'inizio dell'a. X. La prima rivelazione di raggi X dalla Luna è avvenuta circa 30 anni più tardi (29 giugno 1990) grazie al satellite ROSAT, che ha fornito una bellissima immagine in raggi X del satellite naturale della Terra. La luminosità X è pari a 7∙10² J/s ed è la più bassa mai osservata da un corpo celeste.

La ricerca di raggi X da tutti i pianeti più vicini alla Terra, da Mercurio a Saturno, e dai loro satelliti naturali, ha condotto alla rivelazione di raggi X molli dal solo Giove, dovuta al satellite Einstein. Dall'immagine X appare che l'emissione proviene dalle regioni polari, il che fa pensare che sia dovuta a fenomeni simili a quelli che danno origine sulla Terra alle aurore polari (elettroni di alta energia che, guidati dal campo magnetico, precipitano nell'atmosfera fino a latitudini di 60÷70° e, per interazione con le particelle atmosferiche, producono luce visibile e raggi X). La luminosità X è pari a 4∙10⁹ J/s, che è la luminosità più bassa dopo quella della Luna.

Stelle e corone stellari. - Emissione di raggi X molli è stata osservata da stelle di quasi tutti i tipi spettrali e da tutte le classi di luminosità. Per es., il Sole emette radiazione X quiescente con una luminosità di circa 10²⁰ J/s. L'emissione è in generale di tipo termico e proviene dalla tenue e caldissima regione (corona stellare) che si trova al di sopra della fotosfera. Di tanto in tanto si verificano nella corona brillamenti di raggi X (flare X) simili a quelli nel visibile. Tra le stelle da cui sono stati osservati flare X vi è la ben nota Algol (stella del diavolo) nella costellazione di Perseo, variabile a eclisse scoperta già nel 17° secolo. Uno di questi flare X, osservato dal satellite BeppoSAX, ha avuto durata di circa un giorno; la luminosità X è aumentata di più di un fattore 20, mentre lo spettro dell'emissione è rimasto termico con temperatura fino a 130 milioni di gradi. Si è già detto che l'interrogativo primario posto dalle emissioni coronali è il meccanismo che mantiene la corona a una temperatura tanto più alta della fotosfera. Ci sono molte indicazioni che ciò sia dovuto a dissipazione di energia magnetica, pilotata dalla rotazione della stella. Infatti si è trovata una forte correlazione tra luminosità X e velocità di rotazione delle stelle di tipo solare.

Le stelle molto calde (tipi spettrali O, B) e massicce (20 M), note come supergiganti, con temperature fotosferiche dell'ordine di 40.000 K, emettono la maggior parte della radiazione nell'UV, ma sono risultate anch'esse emettere raggi X molli, con luminosità dell'ordine di 10²⁶ J/s. Anche in tali stelle l'emissione è di origine coronale, ma questa volta la corona viene scaldata da forti venti stellari (con tassi di perdita di 10⁻⁶ M/anno contro le 10⁻¹⁴ M/anno nel caso del Sole) che raggiungono velocità di circa 3000 km/s. L'energia cinetica delle particelle del vento per urto col materiale più freddo viene termalizzata: il gas viene riscaldato a milioni di gradi emettendo raggi X.

Supernovae e loro resti. - Le massicce e luminosissime stelle O, B consumano il loro combustibile nucleare a un tasso altissimo, e hanno di conseguenza vita relativamente breve (≤10⁷ anni) sulla sequenza principale. Esse terminano tale fase di stabilità con un collasso gravitazionale, quando terminano tutte le reazioni termonucleari che forniscono l'energia radiante e sostengono il peso proprio della struttura gassosa. Ciò avviene quando nel nocciolo della stella, cessata l'iniziale fusione di H e anche le fusioni successive in C e O e in altri elementi più pesanti, non venga sintetizzato il Fe. A questo punto cessano le reazioni spontanee esogene, e la struttura assorbe energia: la massa stellare piomba sul suo nucleo e, per contraccolpo, la maggior parte di essa viene espulsa violentemente nello spazio interstellare. Si ha dunque l'esplosione di una SN di tipo ii. Ciò che rimane della stella originaria può essere una stella molto compatta di neutroni o addirittura un buco nero. In tale processo esplosivo viene sprigionata un'energia complessiva di 10⁴⁶ J, in maggior parte sotto forma di neutrini (più precisamente, dei neutrini dell'elettrone, prodotti nel processo di neutronizzazione del nocciolo), mentre 10⁴⁴ J vanno in energia cinetica del materiale espulso (resto di SN). Solo una piccola frazione (1%) di quest'energia va in luce visibile, e un'analoga frazione in energia rotazionale della stella di neutroni formatasi. A mano a mano che il resto di SN si espande, quest'energia scalda sia il materiale espulso (per attrito) che il materiale interstellare che incontra sul suo percorso. Si raggiungono così temperature del materiale di vari milioni di gradi con produzione di raggi X. Emissione termica di raggi X è stata effettivamente osservata da molti resti di SN ii, tra cui quelli il cui evento iniziale è datato con precisione, come la SN 1987A nella Grande Nube di Magellano e la SN in Cassiopea avvenuta attorno al 1670, ma che non fu osservata otticamente. Cas A è anche la più brillante radiosorgente celeste; la sua emissione X ha proprietà morfologiche (distribuzione spaziale della radiazione) e spettrali (intensità e larghezza delle righe dovute al silicio e zolfo) che sono consistenti con quelle di supernovae di tipo i, mentre la stima della massa del materiale che emette raggi X (10÷15 M) è molto maggiore di quella stimata per le SN di tipo i e consistente con una SN di tipo ii. Rimane in ogni caso il problema che non è stata finora scoperta alcuna stella di neutroni lasciata dall'esplosione. Anche la presenza di un buco nero appare al momento inverosimile. Dalla supernova di tipo ii SN 1987A la prima emissione di raggi X si è avuta 130 giorni dopo il collasso. L'emissione X è verosimilmente dovuta alla degradazione dell'energia dei raggi gamma derivanti dal decadimento di ⁵⁶Ni e ⁵⁶Co formatosi nel collasso per interazione col materiale espulso dall'esplosione. I raggi γ di decadimento del ⁵⁶Co (righe di emissione a 847 keV e a 1238 keV) sono stati anch'essi rivelati in coincidenza con le prime emissioni di raggi X. Tale rivelazione costituisce la prima conferma diretta che nel collasso vengono effettivamente sintetizzati elementi pesanti.

Anche le SN di tipo i lasciano resti che emettono raggi X, come le SN di Tycho Brahe del 1572 sempre in Cassiopea, e di Keplero del 1604 nella Costellazione di Ofiuco, la SN del 1006 in quella del Lupo. L'emissione è tipicamente termica con l'aggiunta di righe di emissione dovute al materiale formatosi nel collasso.

La massima parte della radiazione X dai resti di Supernovae viene emessa nella banda sotto i 10 keV (con una luminosità X che tipicamente si aggira sui 10²⁸÷10²⁹ J/s), mentre l'emissione dalla stella di neutroni al suo interno si può estendere anche a energie superiori (per esempio, nel caso delle pulsar nella Nebulosa del Granchio e nel resto di supernova della Vela fino ai raggi γ). La luminosità complessiva dell'oggetto compatto può essere straordinaria, fino a 10²⁹ J/s, 10⁵ volte maggiore di quella emessa dal Sole in tutto lo spettro elettromagnetico.

Binarie X. - Mentre l'emissione di raggi X dai resti di SN poteva essere prevista già sulla base di calcoli teorici, non era attesa invece emissione X di forte intensità da altre classi di oggetti celesti. La scoperta di Sco X-1 e poi di altri forti emettitori con luminosità X tipiche di 10³⁰ J/s, costituì la vera sorpresa dell'a. X e la spiegazione di tale emissività rappresentò uno dei più eccitanti problemi astrofisici. La prima risposta venne dal satellite Uhuru, che esplorò tutto il cielo con rivelatori di raggi X sensibili alla banda di energia da 2 a 10 keV (da ciò viene la denominazione di 'classici' ai raggi X in tale banda). L'Uhuru rivelò circa 339 sorgenti; la più intensa rimase Sco X-1, e, grazie alle capacità di localizzare la posizione, fu possibile identificare la controparte ottica e/o radio di molte di esse. Si scoprì così che la maggior parte delle sorgenti galattiche faceva parte di sistemi binari di stelle, di cui un membro era visibile in ottico.

a) Pulsar X. Tra le sorgenti X scoperte dall'Uhuru, alcune presentavano una peculiarità che si mostrò di importanza chiave per capire la natura dell'oggetto responsabile dell'emissione X: il flusso di raggi X era modulato con periodi da centinaia di secondi a frazioni di secondo. La prima sorgente di questa classe fu scoperta nella costellazione del Centauro, ed è nota come Cen X-3. La sorgente mostra una modulazione del flusso con un periodo P di 4,84 s, regolarità che potrebbe essere dovuta alla rotazione dell'oggetto attorno a un asse, oppure alla pulsazione o vibrazione della stella, oppure ancora al moto orbitale attorno a un altro corpo. Indipendentemente dal tipo di moto, perché l'oggetto o il sistema non subisca una rottura deve essere soddisfatta la relazione: P≥1/(G ϱ/², in cui G è la costante di gravitazione universale (=6,67∙10⁻¹¹∙N∙m²/kg²) e ϱ è la densità della materia dell'oggetto celeste. Dal valore di P si dedusse subito che la densità di Cen X-3 deve essere estremamente elevata, compatibile solo con un oggetto molto compatto (nana bianca o stella di neutroni). Dato anche che la temperatura dell'oggetto deve essere estremamente elevata per emettere raggi X in un processo termico, l'ipotesi della stella di neutroni apparve la più plausibile. Si constatò anche che il periodo P subisce piccoli cambiamenti, interpretati come effetto Doppler a causa del moto dell'oggetto compatto attorno a un compagno visibile, che fu successivamente individuato (stella di Krzeminski). Si poté determinare il periodo binario del sistema (2,09 giorni) e si scoprì anche che per circa 11 ore la sorgente X scompare dall'osservazione. Ciò indica che durante tale tempo la stella compatta si trova occultata dalla compagna visibile, che risulta essere una stella supergigante molto calda (tipo spettrale B0Ib). L'interpretazione più verosimile della modulazione regolare del flusso è quindi la rotazione di una stella di neutroni attorno a un asse, ovvero una pulsar, a sua volta orbitante attorno alla supergigante. All'epoca della scoperta di Cen X-3, le pulsar erano già note in campo radio, e anche in raggi X era già stata osservata da diversi gruppi l'emissione modulata della pulsar localizzata nella Nebulosa del Granchio. L'ipotesi di una stella di neutroni fortemente magnetizzata (con induzione magnetica di circa 10⁸ T) sembrava dunque una spiegazione plausibile, anche se nel caso delle pulsar X il meccanismo di emissione doveva essere diverso da quello delle pulsar radio discusse in precedenza. Il meccanismo fu individuato nell'accrescimento di massa da parte dell'oggetto compatto a spese della stella compagna, che è ancora nella fase di vita termonucleare. Calcoli semplici mostrano la ragionevolezza del meccanismo; si consideri infatti un accrescimento di massa pari a dM/dt (espresso, per es., in M/anno). La luminosità L derivante da quest'accrescimento proviene dalla conversione di energia gravitazionale in energia elettromagnetica, e si può esprimere con la relazione: L=G (M/R) dM/dt, in cui M è la massa dell'oggetto compatto e R è il suo raggio. Assumendo una stella di neutroni di una massa solare del tutto plausibile e raggio di 10 km, basta un accrescimento di 10⁻⁸ M/anno per ottenere una luminosità di 10³¹ J/s, valore vicino alla luminosità massima osservata. L'accrescimento di massa è uno dei processi più efficienti di produzione di energia elettromagnetica; ovviamente richiede la presenza di forti campi gravitazionali, come quelli presenti in caso di stelle di neutroni e buchi neri. Il meccanismo suddetto ha avuto una conferma da un'altra caratteristica osservata nelle binarie X, che cioè la luminosità in media oscilla attorno a 10³¹ J/s e mai supera questo valore in modo rilevante. Ciò è consistente col fatto che la pressione della radiazione X contro il materiale che precipita sulla stella impedisce accrescimenti di massa superiori a un valore critico. La luminosità corrispondente, chiamata luminosità di Eddington, vale LEdd=1,3∙10³¹ Mx J/s, in cui Mx è la massa dell'oggetto compatto in masse solari. Il modello di accrescimento ha avuto molte conferme, e oggi costituisce il modello standard per molte sorgenti di raggi X. Nel 1996 si è scoperta con il satellite ROSAT una pulsar X singola, in cui l'accrescimento di materia avviene non da una stella compagna, ma da una vicina nebulosa diffusa.

Si è accennato alla peculiarità che distingue le pulsar X da quelle radio, che, come discusso in precedenza, sono generalmente stelle di neutroni singole e rotanti e il cui periodo va continuamente aumentando col tempo per conversione di energia cinetica rotazionale in energia elettromagnetica. Nel caso delle pulsar X, invece, il periodo va diminuendo, o mostra in epoche diverse comportamenti diversi (a diminuzioni seguono aumenti). La ragione sta nell'accrescimento di massa che, a seconda della direzione di arrivo, in determinate epoche provoca un aumento della velocità angolare della stella, mentre in altre una diminuzione. Osservazioni in raggi X duri hanno consentito di ottenere una misura dell'intensità del campo magnetico dalla scoperta di righe di assorbimento nello spettro di energia di alcune pulsar X. Recentemente una di tali righe dalla pulsar X (X1626-67) è stata osservata con lo strumento di alta energia PDS a bordo del satellite BeppoSAX.

b) Binarie X di piccola massa (Low Mass X-Ray Binaries, LMXRB). L'accrescimento di materia non è in generale radiale: la materia orbita attorno all'oggetto compatto prima di cadere sulla sua superficie o essere risucchiata dal buco nero. Spesso, perciò, si formano dei dischi di materia che possono giungere, quando il campo magnetico è debole, vicino alla superficie dell'oggetto compatto. Intensa emissione di raggi X è stata scoperta sia da stelle di neutroni con intensi campi magnetici in sistemi binari (le pulsar X appena descritte) sia da stelle di neutroni in sistemi binari con campi relativamente deboli (10⁴÷10⁵ T), che non sono rigorosamente pulsanti. Mentre nel caso delle pulsar X la stella compagna è spesso di grande massa, nel caso degli altri oggetti la compagna è una stella di piccola massa (≤1 M) e i periodi di rivoluzione sono brevi (fino a 11 minuti per X1820-303). Questi ultimi oggetti sono noti come binarie X di piccola massa .

Si conoscono attualmente circa 70 pulsar X e circa 120 LMXRB non pulsanti. Fa parte di quest'ultima classe Sco X-1. Di tale classe sono interessanti quegli oggetti (tra cui la stessa Sco X-1) che emettono di tanto in tanto lampi di radiazione X (ingl. X-Ray Bursters, XRB). Si tratta di emissioni di breve durata (tipicamente 10 s), durante i quali può essere emessa un'energia di 10³² J (per confronto, la corona solare emette tale energia in 3000 anni). I lampi sono stati interpretati come dovuti a flash termonucleari che avvengono sulla superficie della stella di neutroni. Infatti su tale superficie va accrescendosi l'idrogeno, che forma uno strato spesso circa 1 m e che si trasmuta in elio per fusione: si forma perciò uno strato interno di elio di analogo spessore. Di tanto in tanto si creano delle condizioni per cui questo strato improvvisamente brucia per fusione, producendo un flash di radiazione (il lampo di raggi X). Da alcune LMXRB l'emissione X varia in modo quasi periodico, con periodi fino a 1 ms. Tali quasi-periodicità sono legate al periodo di rotazione della materia calda (milioni di gradi) nel disco attorno alla stella di neutroni. Ciò implica raggi della stella di neutroni di circa 10 km e rotazioni della stella di periodo fino a 1 ms. Tali fenomeni non sono mai stati visti in altre bande dello spettro elettromagnetico e hanno consentito di ottenere una stima diretta del raggio di una stella di neutroni.

c) Buchi neri. Emissione di raggi X è stata osservata anche da oggetti così compatti da essere verosimilmente buchi neri, dato che la stima della loro massa risulta superare il valore massimo ammissibile per una stella di neutroni. Tale limite, classicamente pari a circa 1,8 M (limite di Oppenheimer-Volkoff), potrebbe raggiungere valori di 3÷4 M se si tiene conto delle incertezze sull'equazione di stato e di effetti di relatività generale. La stima più accurata della massa di una stella di neutroni è stata ottenuta per la pulsar radio PSR 1913+16 facente parte di un sistema binario di oggetti compatti (pulsar binaria di Hulse e Taylor) e risulta essere 1,41±0,06 M, mentre per le pulsar X la stima oscilla tra 1,4 e 1,8 M. Comunque sia, se la massa dell'oggetto compatto supera il limite di stabilità, non si conoscono meccanismi tali da impedire l'ulteriore collasso gravitazionale, e si ha un buco nero. Situazioni del genere sono state osservate in alcune binarie X, la più famosa delle quali è nella costellazione del Cigno (Cyg X-1), la cui massa viene stimata maggiore di 7 M. Tale sorgente è una delle più intense del cielo, con una luminosità X di 2∙10³⁰ J/s, a una distanza da noi di 2,5 kpc. La stella compagna è una supergigante calda (M 30 M, T 20.000 K), da cui il buco nero si rifornisce di materia. La massa prima di cadere nel buco nero orbita attorno a esso, formando un disco di accrescimento. Per attrito tra strati diversi del disco, la materia si scalda a temperature di milioni di gradi ed emette raggi X molli. In realtà la situazione è più complessa: nei dintorni del buco nero si forma anche una corona di gas ionizzato i cui elettroni a energia molto alta interagiscono coi raggi X emessi dal disco e, per effetto Compton inverso, producono fotoni di raggi X duri. Una caratteristica della radiazione X è la sua variabilità su tutte le scale di tempo, fino ai millesimi di secondo.

I raggi X costituiscono pertanto una sonda potente per studiare le proprietà dei dischi di accrescimento attorno ai buchi neri. Si conoscono oggi 6 sorgenti X della nostra Galassia e della Grande Nube di Magellano che sono con buona probabilità buchi neri sulla base della stima della massa, mentre un'altra dozzina di sorgenti è candidata a tale ruolo sulla base delle caratteristiche dell'emissione X, simili a quelle di Cyg X-1.

d) Binarie X con getti relativistici di materia. Già da nuclei galattici attivi (v. oltre) erano state osservate velocità apparenti di componenti emittenti onde radio che erano maggiori di quella della luce (moto superluminale). Nel 1994 si è scoperto che anche una sorgente X galattica (GRS 1915+105) è una sorgente radio che mostra moti superluminali. In particolare sono stati osservati moti di materia in direzione opposta (getti) probabilmente correlati con l'emissione X, la quale ha caratteristiche veramente peculiari: passa da stati di alta intensità a stati di bassa intensità e viceversa in tempi brevissimi (secondi). La durata di ciascuno stato è del centinaio di secondi e nello stato alto l'emissione mostra eventi impulsivi e oscillazioni di flusso quasi periodiche. Anche un'altra sorgente (GRO1655-40) mostra nella banda radio la presenza di moti superluminali e, dato che per quest'ultima la stima della massa è compatibile con quella di un buco nero in un sistema binario, si presume che anche GRS 1915+105 sia un buco nero. Gli stati di flusso X sono probabilmente legati a riempimento/svuotamento della parte più interna di un disco di materia creatosi attorno al buco nero per accrescimento di massa dalla stella compagna. Con un meccanismo ancora sconosciuto, la materia che alimenta il disco viene anche di tanto in tanto espulsa in direzioni opposte allontanandosi dal buco nero centrale. Un altro sistema binario affascinante è SS433, fatto di una stella massiccia di circa 15 M e un buco nero con un disco di accrescimento in cui la materia si muove a velocità relativistiche, come indicato dalle fortissime escursioni in λ delle righe spettrali. Anche SS433 mostra nelle immagini in raggi X la presenza di getti di materia che si estendono per oltre 1 pc. Per le loro proprietà, tali sorgenti vengono anche chiamate microquasar.

e) Sorgenti X transienti. Si tratta di sorgenti X, l'emissione delle quali sale al disopra della soglia di sensibilità dei telescopi per brevi periodi di tempo (alcuni mesi); da alcune di queste l'emissione è stata osservata più volte (sorgenti transienti ricorrenti). Alla classe delle sorgenti transienti appartengono anche le due sorgenti superluminali precedentemente menzionate. Il carattere transiente dell'emissione X riguarda non solo molti candidati buchi neri, ma anche altre classi di sorgenti, come le LMXRB e le pulsar X. Tale caratteristica, il cui meccanismo non è completamente noto, è senz'altro legata alla quantità di massa che, per accrescimento, va ad aumentare la massa dell'oggetto compatto. In alcune sorgenti, come le pulsar X transienti, si è potuto stabilire un legame tra la perdita di massa della stella compagna (stelle calde in rapida rotazione) e l'accensione della pulsar X.

f) Variabili cataclismiche. Il meccanismo di accrescimento di massa è efficace per la produzione di energia non solo nel caso delle stelle di neutroni e buchi neri, ma anche nel caso in cui l'oggetto compatto sia una nana bianca. A differenza delle stelle di neutroni, il cui equilibrio è assicurato dalla pressione esercitata dai neutroni, nel caso delle nane bianche è sufficiente l'energia cinetica degli elettroni per impedire il collasso gravitazionale della stella, una volta terminata la sua vita termonucleare (il destino del Sole è quello di diventare una nana bianca). Ebbene le nane bianche in molti sistemi binari, note come variabili cataclismiche (VC), sono anch'esse sorgenti di raggi X. L'origine dell'emissione anche in questo caso è la conversione di energia cinetica della massa che accresce, attraverso un disco di materia, in energia elettromagnetica. La luminosità X (10²³÷10²⁵ J/s) è inferiore a quella delle LMXRB, anche se di tanto in tanto essa aumenta in modo rilevante (Novae). Si conoscono circa 200 VC, tra cui, ben nota per la sua alta luminosità anche in raggi X duri, AM Herculis.

Sorgenti extragalattiche

Descriviamo due classi importanti di intense sorgenti X extragalattiche, cioè i nuclei galattici attivi e gli ammassi di galassie.

Nuclei galattici attivi (Active Galactic Nuclei, AGN). - Vi sono galassie normali, come per es. la Via Lattea e M31 in Andromeda, che appaiono poco cospicue in raggi X, dato che la loro emissione è dovuta al contributo complessivo delle stelle che le compongono e, principalmente, alle binarie X che sono tra le più luminose. Vi sono invece galassie nel cui nucleo si verificano fenomeni estremamente energetici e che appaiono nel visibile (come la galassia di Seyfert NGC 4151) o nella banda radio (come la galassia ellittica M87) estremamente brillanti. Per questa ragione queste galassie sono chiamate nuclei galattici attivi. Anche i quasar discussi in precedenza, la cui luminosità è ancora maggiore, sono considerati parte degli AGN, dato che le osservazioni mostrano che quelli più vicini sono immersi in galassie a spirale apparentemente normali e quindi potrebbero essere galassie di Seyfert estremamente distanti. Degli AGN fanno parte anche oggetti noti come BL Lac (dal nome del suo prototipo, osservato nella costellazione della Lucertola), che sono risultati essere nuclei di galassie ellittiche estremamente variabili nello spettro ottico su tempi anche molto brevi (dell'ordine dei giorni), senza righe di emissione e con luce polarizzata.

Tutti gli AGN sono risultati essere intense sorgenti di raggi X, fino alle più alte energie. La loro luminosità X è altissima: mentre le galassie normali hanno luminosità X di 10³⁰÷10³² J/s, gli AGN raggiungono valori di 10³⁸÷10⁴⁰ J/s. Gli spettri X sono molto meno ripidi di quelli di molte sorgenti galattiche. Tra queste ultime, quelle che hanno spettri vicini a quelli degli AGN sono binarie X con un buco nero (per es., Cyg X-1). L'emissione X è in generale variabile nel tempo su scale che vanno dalle ore agli anni. L'interpretazione più plausibile per spiegare le enormi energie in gioco e le dimensioni estremamente piccole della regione da cui proviene l'emissione (a volte con espulsione di getti di materia, per es. M87), è che in tali nuclei esistano buchi neri giganti (centinaia di milioni di M) che accrescono la loro massa inghiottendo stelle nelle loro vicinanze. La radiazione elettromagnetica è il risultato della conversione dell'energia gravitazionale in energia elettromagnetica.

Ammassi di galassie. - Si è precedentemente rilevato che le galassie tendono a formare, sotto la mutua attrazione gravitazionale, gruppi e ammassi (ben noti quelli nelle costellazioni della Vergine, della Chioma di Berenice e di Perseo). La forza che lega le galassie dell'ammasso agisce anche sul gas che riempie lo spazio tra le galassie. La presenza di tale gas è stata evidenziata dalle osservazioni X di alcune centinaia di ammassi. Lo spettro di tale emissione X è di tipo termico, prodotto cioè da un gas ionizzato a temperature di decine di milioni di gradi. La massa di gas desunta dalle osservazioni X è almeno pari alla massa derivata dalla luminosità delle galassie nel visibile. Per cui i dati X hanno almeno raddoppiato la massa osservabile negli ammassi di galassie. Ma tale risultato ha creato un altro problema: per poter spiegare il fatto che tutta questa massa è legata gravitazionalmente, occorre invocare la presenza di una grande quantità di materia nascosta, la già nominata materia oscura; in alcuni casi viene richiesta una quantità di materia oscura pari a 100÷300 volte quella visibile, che appare quindi una frazione trascurabile. Si è già affermato in precedenza che la natura della materia oscura è un problema ancora irrisolto; osservazioni in raggi X con buona risoluzione angolare possono pertanto contribuire a determinare la distribuzione spaziale della materia oscura negli ammassi di galassie. Vi è una seconda ragione di interesse cosmologico per la determinazione dell'emissione X diffusa originata dal caldissimo mezzo intergalattico, cioè la possibilità che essa offre di misurare la costante di Hubble direttamente, senza l'intermediario di indicatori di distanza secondari. Ciò è possibile grazie all'interazione dei fotoni del corpo nero a 3 K con il gas del mezzo emettente raggi X, che risente direttamente della dimensione della zona gassosa (effetto Sunyaev-Zel´dovič).

Sorgenti gamma non identificate

Il catalogo delle sorgenti di raggi gamma di alta energia (>100 MeV), ottenuto con l'esperimento EGRET a bordo del satellite CGRO, contiene, al 1997, 156 oggetti. Di questi, circa il 60% restano non identificati (40 vicino al piano della nostra Galassia e 56 lontano da questa). La natura di queste sorgenti resta un mistero: non sono associate con nessuna sorgente già nota ad altre lunghezze d'onda. Vi sono varie speculazioni al riguardo; alcuni sostengono che siano associate alla formazione di nuove stelle, altri che siano associate a pulsar giovani, e così via. La soluzione di tale enigma è tra le sfide più affascinanti del prossimo millennio.

Lampi di raggi gamma (Gamma-Ray Bursts, GRB)

Si tratta di un fenomeno scoperto alla fine degli anni Sessanta dalla rete di satelliti spia americani VELA, che avevano lo scopo di sorvegliare il territorio dell'Unione Sovietica per scoprire eventuali esperimenti nucleari nell'atmosfera. Utilizzando il ritardo relativo nella rivelazione dei raggi γ dovuti a tali supposte esplosioni si sarebbero potute ricavare le coordinate della regione terrestre da cui provenivano, una volta nota la posizione dei satelliti in orbita. Ebbene, i satelliti osservarono lampi di raggi γ la cui direzione di provenienza non era il suolo ma il cielo. I lampi, noti come Gamma-Ray Bursts, hanno durate che vanno da frazioni di secondo fino a varie centinaia di secondi, in massima parte dell'ordine delle decine di secondi. Il flusso di energia misurato può essere enorme, fino a 1000 volte quello dalla Nebulosa del Granchio. Grazie alle osservazioni ottenute con diversi satelliti negli anni successivi, e in particolare all'esperimento BATSE a bordo del CGRO, si è potuto stabilire la frequenza dei lampi e la loro distribuzione. Il risultato è che i GRB sono distribuiti isotropicamente sulla volta celeste, ma probabilmente non in modo omogeneo in profondità (c'è infatti un deficit di GRB di bassa intensità, che si suppone siano i più distanti). Sulla base di tale loro distribuzione isotropa, si può affermare solo che i GRB non provengono dal piano della Via Lattea, ma potrebbero essere prodotti da oggetti molto vicini, oppure far parte dell'alone galattico, oppure ancora provenire dalle galassie più lontane dell'Universo. La risposta a tale enigma è giunta il 28 febbraio 1997 dal satellite BeppoSAX. Grazie alla presenza di due strumenti, il GRBM per rivelare l'evento e le WFC per rivelare e localizzare la coda dell'evento in raggi X, è stato possibile localizzare un GRB con buona accuratezza (pochi primi d'arco) e subito dopo scoprire, con i telescopi a campo stretto, che il lampo aveva lasciato dietro di sé una sorgente di raggi X che andava spegnendosi lentamente. Sono stati osservati in pochi mesi tre eventi di questo tipo. Una ricerca rapida fatta con i telescopi ottici ha mostrato che, in due di questi tre casi, il lampo aveva lasciato dietro di sé anche un oggetto (resto di GRB) visibile in ottico. Nel caso del GRB dell'8 maggio 1997, il più grande telescopio terrestre (Keck 11, nelle Hawaii) ha rivelato dal resto del GRB righe di assorbimento di elementi metallici, con lunghezza d'onda spostata verso il rosso come succede per la luce assorbita da galassie estremamente distanti. Si è potuto stabilire pertanto che i GRB sono cosmologici, e che l'energia associata a ciascun evento è altissima (più di quanto il Sole produce in tutta la sua vita di 10 miliardi di anni). L'interpretazione del fenomeno non è ancora chiara, anche se la probabile origine sta nella fusione di stelle di neutroni o di buchi neri, che produce materia che sfugge a velocità ultra-relativistiche. La conversione dell'energia cinetica in energia termica attraverso la produzione di onde d'urto col mezzo interstellare è un meccanismo ritenuto molto verosimile. La comprensione del meccanismo di produzione dei lampi di raggi γ richiederà la rivelazione di altri lampi, che è attesa da parte del BeppoSAX.

Spettroscopia X e gamma

Vari meccanismi fisici, termici e non, danno luogo a righe spettrali anche nella zona dei raggi X. Dalla corona solare si osservano righe X di elementi fortemente ionizzati a causa dell'alta temperatura, quali il Ca xv, il Fe xiv, il Si x. Si è visto che anche dai resti di SN si hanno righe di emissione in raggi X; per es., da quella di Tycho si vedono il Si xii, lo S xv, l'Ar xviii. Righe di fluorescenza del Fe sono osservate attorno a 6,4 keV da binarie X e da AGN. Righe dovute alla presenza di forti campi magnetici (righe di ciclotrone) sono osservate, come si è detto, da pulsar X.

Nella zona ancor più energetica dei raggi γ, le righe possono dare indicazioni su processi fisici veramente fondamentali. Citiamo tra questi il processo di annichilamento dell'elettrone con il positrone, cioè la più semplice reazione tra materia e antimateria, con la produzione di due fotoni di energia 0,51 MeV ciascuno, che sono osservati con intensità forte e variabile dal centro della Via Lattea. Vi è poi il decadimento di nuclei instabili prodotti, per es., nelle ultime fasi dell'evoluzione stellare: ⁵⁶Ni⁵⁶Co⁵⁶Fe, con vita media complessiva di 0,33 anni, che produce 2 righe a 0,847 MeV e 1,238 MeV; ²⁶Al²⁶Mg che dà una riga a 1,809 MeV e potrebbe essere associata a stelle di tipo Wolf-Rayet; ²²Na²²Ne, con vita media di 3,8 anni e producente una riga a 1,275 MeV, che potrebbe essere associata a stelle novae. Citiamo anche le righe emesse nell'interazione di gas e polveri interstellari con i raggi cosmici, per es. quelle del ¹²C a 4,44 MeV e del ¹⁶O a 6,13 MeV. Righe γ vengono emesse anche dai flare solari.

Bibl.: The Cambridge atlas of astronomy, ed. J. Audonze, G. Israel, Cambridge 1994; Exploring the X-ray universe, ed. P.A. Charles, F.D. Seward, Cambridge-New York 1995; I. Robson, Active galactic nuclei, Whiley-Chichester 1996; X-ray binaries, ed. W.H.G. Lewin, J. van Paradijs, E.P.J. van den Heuvel, Cambridge-New York 1997.

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