Attenzione

Universo del Corpo (1999)

Attenzione

A. Charles Catania
Bruno Callieri

La parola attenzione, dal latino ad e tendere, "rivolgere l'animo a", indica l'atto di rivolgere e applicare la mente a uno stimolo, cioè il processo che consente di indirizzare e concentrare l'attività psichica su un determinato oggetto, di ordine sia sensoriale, sia rappresentativo. La selezione dello stimolo su cui si rivolge l'attenzione, tra i molti percepiti, dipende sia dalle sue caratteristiche, sia dalle motivazioni e dall'esperienza soggettive. Secondo il prevalere dell'uno o dell'altro di questi elementi e del loro combinarsi, ci sarà un maggiore o minore livello di attenzione nello stesso individuo e in individui diversi. Generalmente si suole distinguere l'attenzione dispersa, vaga, tipica, per es., del dormiveglia, l'attenzione aspettante, in cui la coscienza diventa attività, tensione o sforzo direzionati, e l'attenzione concentrata, puntata su un oggetto o un argomento determinati. Quest'ultima, che è la più importante per la psicologia medica, può essere distinta in spontanea (o riflessa) e conativa (o volontaria), ambedue largamente condizionate dalla 'legge dell'interesse'. L'approfondita analisi del fenomeno ha consentito di identificare nell'attenzione il 'sentimento' di rivolgere attivamente la propria attività mentale a un determinato oggetto, la 'vivacità' dei contenuti di coscienza, la 'facilitazione' delle azioni che ne conseguono. Questo aumento di efficienza nell'adattamento sensomotorio è quello che viene ampiamente studiato dal punto di vista sperimentale.

Attenzione, percezione e comportamento

I.

Attenzione spontanea, attenzione volontaria

Molti studi di psicologia sperimentale (Fraisse-Piaget 1963; Kinchla 1992) hanno identificato due tipi di attenzione: l'orientamento spontaneo o involontario provocato da una stimolazione (l'oggetto si impone per caratteristiche sue proprie) e l'orientamento volontario o controllato (concentrazione su un determinato oggetto e focalizzazione della coscienza secondo le direttive del soggetto). Sia nell'attenzione spontanea sia in quella volontaria, è il comportamento in risposta allo stimolo a definire l'attenzione: un individuo sta prestando attenzione a uno stimolo se fa qualcosa al variare di esso. La distinzione tra attenzione spontanea e attenzione volontaria è comunque ingannevole. Per es., un lampo può avere un effetto immediato, ma di solito è più probabile che orienti l'attenzione rispetto agli stimoli uditivi successivi, come l'incombente rumore del tuono, piuttosto che verso quelli visivi. È ciò che sappiamo della relazione tra fulmine e tuono che determina il modo in cui il lampo condiziona la nostra attenzione.

Tuttavia, poiché l'effetto del lampo è così forte, è probabile che l'attenzione che esso genera sia di tipo spontaneo piuttosto che volontario.Il fenomeno dell'attenzione è onnipresente - prestare attenzione agli stimoli è qualcosa che tutti gli organismi fanno - e forse per questo motivo esso viene identificato con nomi diversi, quali prontezza o inclinazione percettiva. Negli studi sull'apprendimento verbale, per es., gli elementi che fungono da stimoli durante una prova potrebbero essere parole intere, ma ciò che il soggetto impara può dipendere soltanto dalla prima lettera di ciascuna di esse. Gli elementi così come sono definiti dallo sperimentatore (in questo caso le parole) sono detti stimoli nominali, mentre le caratteristiche in base alle quali il soggetto apprende (in questo caso le lettere iniziali) costituiscono i cosiddetti stimoli funzionali. La distinzione tra stimoli nominali e stimoli funzionali non è strettamente correlata con il concetto di attenzione, ma è comunque collegata a esso perché si riferisce alle caratteristiche cui il soggetto presta attenzione. I problemi sorgono quando al termine attenzione viene attribuito un valore esplicativo anziché puramente descrittivo. Noi infatti decidiamo se un soggetto presta attenzione a uno stimolo sulla base del suo comportamento: quindi il termine attenzione, la cui definizione deriva dal comportamento, non dovrebbe essere utilizzato come spiegazione del comportamento stesso.

L'attenzione è selettiva per definizione, in quanto riguarda alcune caratteristiche dello stimolo più che lo stimolo in sé. Una volta che un organismo in una data situazione ha prestato attenzione a certe proprietà dello stimolo, è probabile che anche in situazioni nuove la sua attenzione si concentri su quelle stesse proprietà. D'altra parte dopo che si è prestata a lungo attenzione a uno stimolo, si manifesta la tendenza a spostare l'attenzione verso uno stimolo nuovo (deterioramento della vigilanza), oppure, mantenendosi costante la selezione cosciente dello stimolo, esso può subire un cambiamento di elaborazione, per cui viene 'letto' in modo nuovo. È possibile inoltre che l'attenzione prestata a certe caratteristiche dello stimolo vari a seconda delle circostanze: per es., un soggetto può essere attento al colore del semaforo se è lui che sta guidando, ma non se è il passeggero. L'attenzione selettiva ha avuto un ruolo importante in numerosi problemi classici di psicologia. Per quanto riguarda l'apprendimento ci si domandava, per es., se i ratti nei labirinti imparassero le locazioni (movimenti verso un particolare luogo indipendentemente dalla direzione dell'approccio) o se imparassero le sequenze di risposte (svolte a destra e a sinistra). Il problema perse interesse quando fu chiaro che il risultato poteva essere l'uno o l'altro, a seconda che il ratto potesse o meno prestare attenzione a stimoli esterni al labirinto (per es. la posizione del traguardo relativamente alla finestra del laboratorio).

2.

La misurazione dell'attenzione

L'attenzione è una forma di comportamento molto difficile da misurare. Di fronte a un dato evento individui diversi, o anche lo stesso individuo in momenti diversi, possono riportare i fatti in modo differente. Un'ulteriore difficoltà è rappresentata dal fatto che il prestare attenzione non implica necessariamente la presenza di movimento. Nel caso di stimoli visivi, a un'analisi superficiale potrebbe sembrare che vi sia attenzione quando si stia fissando o guardando verso qualcosa. A volte, però, accade di guardare senza effettivamente vedere, come quando sogniamo a occhi aperti o siamo persi nei nostri pensieri (e in tal caso diciamo che eravamo distratti).

Considerando l'attenzione alla stessa stregua dei movimenti oculari, commettiamo l'errore di non distinguere tra il guardare senza vedere e il guardare vedendo. L'attenzione ha a che fare con ciò che si fa quando diciamo di stare cercando o guardando attentamente qualcosa. La stessa cosa può essere guardata in momenti diversi con risultati diversi, perché ogni volta si cerca qualcosa di diverso. Anche se ciò che facciamo non comporta nessun movimento, sono sempre e comunque registrabili la durata o il tempo di latenza. Questo fondamento logico è stato esteso al concetto di attenzione da G. Sperling e A. Reeves (1980).

Durante un esperimento, venne chiesto ad alcuni soggetti di fissare lo sguardo su un certo punto, alla cui sinistra venivano proiettate, una alla volta, ma in rapida successione, delle lettere e alla cui destra venivano invece presentati con le stesse modalità dei numeri. Poiché lettere e numeri erano molto vicini tra loro (come due caratteri adiacenti in un parola stampata), i soggetti potevano vedere contemporaneamente le lettere e i numeri senza dover spostare lo sguardo. I soggetti dovevano fissare l'attenzione sulle lettere finché non ne compariva una in particolare (per es. la B); a questo punto dovevano spostare la propria attenzione sui numeri e riferire il primo numero che avevano visto. Questo esercizio poteva essere eseguito senza effettuare nessun movimento oculare e con una frequenza di proiezione degli stimoli (lettere e numeri) maggiore di 20 al secondo. Il tempo che intercorreva tra la lettera critica e ciascun numero era noto, così che il tempo impiegato per spostare l'attenzione dalle lettere ai numeri poteva essere calcolato in base al numero che veniva riportato. I soggetti non erano in grado di riferire il numero che appariva simultaneamente alla lettera critica e ne riportavano invece uno che appariva qualche frazione di secondo più tardi. Questo lasso di tempo rappresenta appunto il tempo di reazione necessario per lo spostamento dell'attenzione e, così come i tempi di reazione per risposte più ovvie, quali la pressione di un pulsante, esso dipende dalla complessità del compito assegnato durante il test e da altre variabili. Variazioni della procedura descritta sono state utilizzate per investigare diverse proprietà della ripartizione dell'attenzione.

Si sono esplorati, per es., gli effetti che i diversi elementi di informazione producono sull'attenzione spontanea e su quella controllata, studiando fino a che punto i soggetti riescono a ignorare gli elementi presentati in precedenza o contemporaneamente a quello che è stato fissato come l'obiettivo dell'attenzione (Kinchla 1992).Un modo per far sì che che il soggetto espliciti la sua attenzione consiste nel chiedergli di eseguire una certa azione per poter vedere una certa cosa, come negli esperimenti di vigilanza, in cui uno schermo radar si illumina soltanto in risposta alla pressione di un tasto. La pressione del tasto è la cosiddetta risposta di osservazione e la sua frequenza, che misura l'attenzione del soggetto, varia con i segnali emessi, per cui più rari sono i segnali meno frequentemente il soggetto spinge il bottone che illumina lo schermo consentendogli di guardare ciò che viene proiettato. È stato spesso supposto che l'attenzione prestata a uno stimolo dipenda dal suo valore informativo, ma le indagini sulle risposte di osservazione (Dinsmoor 1983) suggeriscono che sono le informazioni positive (rinforzo) a essere ricercate piuttosto che quelle negative (avversive).

Neuropsicologia e psicopatologia dell'attenzione

Dal punto di vista neuropsicologico, le strutture nervose che sono alla base dell'attenzione vanno indicate nella formazione reticolare, nel talamo e nel sistema limbico. Oltre a un'azione di veglia, il sistema reticolare esercita una fine regolazione dell'attenzione attraverso un'azione inibente esercitata sui sistemi sensoriali eccitati, così da consentire la selezione di stimoli particolari. In condizioni di attenzione l'attivazione della corteccia cerebrale è caratterizzata da un tracciato elettroencefalografico desincronizzato e dall'assenza di ritmi alfa, presenti invece nella veglia rilassata.La facilità o meno di uno stimolo sensoriale a superare il meccanismo inibente e a destare attenzione è connessa con l'età: man mano che l'età avanza il soggetto impara spontaneamente a usare l'attenzione in modo più discriminato e meno dispersivo, servendosi meglio del meccanismo dell'attenzione selezionata (Benedetti 1969). I disturbi dell'attenzione sono assai diffusi e sono altresì presenti in molte sindromi psichiatriche e neuropsichiatriche. Essi possono riguardare sia l'entità del processo attentivo (eccesso, diminuzione, incapacità di mantenere l'attenzione), sia la sua continuità (disturbi temporanei o permanenti). Si può avere una diminuzione temporanea di attenzione (disattenzione) in condizioni di stress fisico, mentale o di conflittualità psicologica (Supino 1997). In quest'ultimo caso essa può sottendere fenomeni di inibizione difensiva (Fenichel 1932).

Bambini incapaci di concentrarsi o con attenzione di breve durata (distraibili) presentano, secondo A. Freud (1965) una disarmonia tra le linee evolutive. Scarsa attenzione si riscontra anche nei bambini iperattivi, la cui instabilità comportamentale, quando non deriva da cause organiche, è da attribuirsi a disturbi dell'affettività. Evidente è la labilità di attenzione che si riscontra nei fanciulli con 'danno cerebrale minimo' e in quelli con deficit intellettivo.Per quanto riguarda i disturbi di origine organica, si ha diminuzione dell'attenzione con incremento delle sue fluttuazioni spontanee (ipoprosessia, fino ad aprosessia), con obnubilamento, stato confusionale e torpore, in caso di tumori prefrontali e di atrofie cerebrali iniziali (demenze presenili e senili, per lo più di tipo Alzheimer), e in seguito a intossicazioni esogene (ossido di carbonio, manganese, alcol ecc.) ed endogene (iperazotemia, diabete scompensato, iperammoniemia). Nei casi di schizofrenia la diminuzione dell'attenzione può coesistere con paraprosessia, cioè, con attenzione indirizzata a oggetti più o meno inadeguati.Un eccesso di attenzione spontanea (iperprosessia) si ha, invece, negli stati maniacali, in alcune diffidenze paranoidi e nelle esperienze con acido lisergico (LSD-25). L'aumento dell'attenzione volontaria si riscontra soprattutto nei rupofobici (affetti da fobia per lo sporco), negli ossessivi (nei cerimoniali di controllo) e, più in generale, negli psicastenici.

Bibliografia

g. benedetti, Neuropsicologia, Milano, Feltrinelli, 1969.

d.j. chalmers, The conscious mind. In search of a fundamental theory, New York, Oxford University Press, 1996.

j.a. dinsmoor, Observing and conditioned reinforcement, "Behavioral and Brain Sciences", 1983, 6, pp. 693-728.

o. fenichel, Spezielle Psychoanalytische Neurosenlehre, Wien, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, 1932 (trad. it. Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Roma, Astrolabio, 1951).

p. fraisse, j. piaget, Traité de psychologie expérimentale, Paris, PUF, 1963 (trad. it. Torino, Einaudi, 1973).

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k. jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Berlin, Springer, 1913-19485 (trad. it. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1964).

r.a. kinchla, Attention, "Annual Review of Psychology", 1992, 43, pp. 711-42.

g. sperling, a. reeves, Measuring the reaction time of a shift of visual attention, in Attention and performance VIII, ed. R.S. Nickerson, Hillsdale (NJ), Erlbaum, 1980, pp. 347-60.

m.t. supino, Stress emozionale, attenzione, prestazione. Aspetti psicobiologici, Siena, Tesi, 1997.

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