JANDOLO, Augusto

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

JANDOLO, Augusto

Arnaldo Bocelli

Poeta romanesco, nato il 25 maggio 1873 a Roma, dove vive. Fu per un anno (1898) attore nella compagnia drammatica di Eleonora Duse; quindi si diede al commercio antiquario, che esercita tuttora.

Come poeta, esordì sul Rugantino nel 1895. Il suo primo libro di versi, Li busti ar Pincio, è del 1900. Ad esso seguì via via, in giornali e riviste (specie nel Messaggero e nella Nuova Antologia) una copiosa produzione poetica, raccolta poi nei volumi: Poesie romanesche (Milano 1929) e Misticanza (Roma 1933). Ha scritto inoltre un poema eroicomico in 4 atti, Meo Patacca (Roma 1921) e un poema in ottave, Er pastore innamorato (ivi 1932); e dato parecchie commedie al teatro italiano (Goethe a Roma, 1913; L'antiquario, 1917; Michelangelo, 1921; ecc.) e romanesco (Roma se sveja!, 1914; La commedia de Rugantino, 1916; Ghetanaccio, 1926; Gioacchino Belli, 1931, ecc.); alcune delle seconde anche in volume (Teatro romanesco, Roma 1928). In prosa italiana sono scritte le sue Memorie d'un antiquario (Milano 1935; 2ª ed., ivi 1938).

La poesia dello J., come in genere quella dei poeti romaneschi posteriori a Trilussa, distaccandosi dal grande esempio del Belli e da quella tradizione satirica e realistica di cui appunto Trilussa è l'ultimo cospicuo rappresentante, tende piuttosto, per influsso della contemporanea poesia in lingua, specie di quella intimista e crepuscolare, e anche per influsso del Di Giacomo, ai modi affettuosi, musicali, sensuali di un lirismo autobiografico; tende - almeno nei suoi momenti migliori - a una sorta di sfumata elegia del ricordo, dove la nostalgia della Roma "sparita" e il rimpianto della propria giovinezza si confondono in una medesima cantilena. Poesia che non ha ormai più, di popolaresco, che una certa elementarità di sentire, una certa episodicità di cultura, una vaga descrizione di ambienti; e nella quale pertanto il vernacolo, venuta a mancare ogni ragione di arcaismo o purismo, si riduce a una mera inflessione dialettale della lingua, a un espediente dell'ispirazione modesta, del tono basso, spesso prosastico, quando non addirittura a un vezzo musicale; e la metrica, più che al tradizionale sonetto e alle forme chiuse, inclina a varietà e libertà di ritmi, non esente peraltro dalla rima.

Bibl.: E. Veo, I poeti romaneschi, Roma 1927, p. 225 segg. (con la bibliografia precedente).

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